Sugo di coniglio di Imelde Mosca
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Sugo di coniglio di Imelde Mosca
Sugo di coniglio di Imelde Mosca “Tutti una volta avevano conigli perché si allevavano con poco. Un pugno di erba medica, qualche barbabietola, una pannocchia da rosicchiare… Si mangiavano di solito nelle domeniche d’autunno quando cominciava a scarseggiare il pollame. Il coniglio, io l’ho sempre visto fare in umido, alla cacciatora, in salmì, con una salsa molto gustosa di fegato del coniglio stesso, di pancetta di maiale con numerose erbe aromatiche… Così si accontentavano più persone perché si poteva intingere la polenta… Se slungava el cao, come si diceva allora. Se in quella domenica c’era la gallina, con quella si faceva il brodo in cui cuocere le tagliatelle, oppure si preparava il riso coi fegatini che erano un signor mangiare; se invece c’era il coniglio, allora si potevano fare le lasagne da condire con il sugo della sua carne… Sì, perché il ragù di carne…, quella non la si vedeva mai! Chi poteva permettersi di andare in becaria?! Per il sugo, era carne d’anatra, raramente di lepre, più spesso di coniglio, oppure sughi interamente di verdure”. 1 Nella testimonianza orale della signora Pasqua di Panarella, sono sostanzialmente condensati il ruolo del coniglio nell’economia domestica ed il suo largo uso nella cucina contadina pur nell’avarizia, molto spesso nel totale silenzio, delle fonti documentarie scritte. Ma non c’era bisogno di parlarne, così come non si citano i fagioli e la polenta che condivano la fame quotidiana. Soltanto nella seconda metà dell’Ottocento cominciano a fare la propria comparsa libelli divulgativi per vantare la bontà della carne di coniglio al fine di incentivarne il consumo presso il proletariato urbano, nel periodo in cui le fonti alimentari andavano riducendosi per la scomparsa degli spazi pubblici, da secoli a disposizione delle comunità cittadine e rurali, nei quali era liberamente consentito pescare, cacciare, raccogliere erbe e radici e far canna. Fu gioco forza allora accoglierlo con tutti gli onori sulle tavole, anche borghesi, superando la difficoltà di “far accettare sul mercato un nuovo genere di carni giudicate a priori poco salubri” 2 . Da allora iniziarono anni di gloria per il timido roditore, eletto a proprio simbolo dalla politica autarchica che lo proponeva in ogni sorta di recuperi, testa ed avanzi di coniglio ad esempio, per ristorare la cara “famigliola”, stremata dai digiuni imposti dell’economia di guerra. 3 1 SCUOLA MEDIA DI PAPOZZE, Piatti di cucina papozzana e dintorni, Ricerca storico didattica, 1996, p. 45. Atti della Giunta per l’Inchiesta Agraria, Vol IV, Fasc. IV, Forzani & C. Tipografi del Senato, Roma, 1882, p. 791. 3 Cfr. P. CAMPORESI, Alimentazione, folklore, società, Pratiche Editrice, Parma, 1980, p. 221 -222. 2 E’ una storia sommersa quella del coniglio che si confonde con quella della più ambita lepre. Varrone, nel De re rustica, ne consiglia l’allevamento nei “leporaria” e riferisce di un tipo di lepre, originaria della Spagna, simile a quella italica, ma più bassa, che si chiama “cuniculus”, da “cuniculum, cioè galleria, da quello ch’essi fanno sotterra per rimpiattarsi ne’ campi” 4 ; Apicio, da parte sua, nel De re coquinaria, riporta tredici modalità per cuocere o farcire lepri. 5 Ma la notizia curiosa ci viene da Plinio, per il quale era una ghiottoneria mangiare i coniglietti appena nati e addirittura i piccoli feti, strappati direttamente dal ventre della madre, senza purgarli delle interiora. 6 Bisogna giungere al VI secolo d. C, per ulteriore nuove. Gregorio di Tours depreca il costume dei monaci di cibarsi dei coniglietti, usanza tollerata e permessa, invece, da papa Gregorio I che ne autorizza il consumo classificandoli come generi appartenenti alla natura dei pesci, per ovviare ai numerosi periodi di astinenza che i monaci dovevano rispettare. E proprio per tale motivo sembra che nei monasteri se ne sia iniziato l’allevamento domestico 7 , da allora diffusosi ovunque nelle campagne. Capillarmente e silenziosamente come ottimo integratore dietetico: “Ognuno aveva la sua gabbia di conigli”, conferma Imelde Mosca, anch’essa nativa di Panarella, “la nuora perché poteva comprare qualche vestitino o le scarpine ai bambini senza battere cassa dalla suocera, il ragazzo che si faceva la mancia vendendo un coniglio o i colombini alla maestra, al dottore…, e anche gli uomini sposati della famiglia che avevano la propria musina… Chi li allevava, quindi, li usava come merce di scambio oppure in alternativa al pollame o al maiale. L’unico problema era rappresentato dai topi. Molte volte i piccoli di coniglio venivano “sgozzati” dalle pantegane per succhiare il latte che ancora avevano in bocca. Non li mangiavano; solo erano attirate dall’odore del latte materno. Poi, d’estate, c’erano le zanzare che colpivano e la malattia cominciava dagli occhi . E allora passava la voglia di allevarli… Anch’io ne ho allevati molti... Spesso lo facevo alla cacciatora da cui ricavavo un sugo che mio nipote Davide giudica favoloso. Io mi sono trasferita a Novara, ma ancora adesso quando torno nel Polesine a trovare i parenti, mi chiedono il coniglio ed il sugo perché, come li faccio io, sono una bontà. Per fare il coniglio alla cacciatora di circa un 1,5 kg. procedo in questo modo. Prendo 3 cipolle bianche, 1 carota, 2 gambe di sedano bianco, 1 spicchio d’aglio intero, passata di pomodoro, 4 foglie di basilico, 2 o 3 foglie di alloro, vino rosso, sale – pepe, 1 dado a piacere. Pulisco e metto a bagno il coniglio con tutte le sue frattaglie nel vino la 4 VARRONE, De re rustica, III, a cura di A. Bartoli, Roma, Notari, 1930, p. 301. APICIO, De re coquinaria, Newton Compton, Milano, 1990, pp. 95 – 96. 6 “Fetus ventris exectos vel uberibus ablatos non repurgatis interaneis, gratisssimo in cibatu habent; laurices vocant”, PLINIO, Naturalis Historia, LXXXI 217. 7 Cfr. R. TANNAHILL, Storia del cibo, Rizzoli, Milano, 1987, p. 114. 5 sera prima. Prima di cuocerlo, lo faccio asciugare nel forno per 10 – 15 minuti, poi prendo una cipolla, la carota, il sedano e trito grossolanamente perché più sminuzzi, più togli sapore. Faccio soffriggere per alcuni minuti ed aggiungo lo spicchio intero d’aglio, il basilico, l’alloro e la passata di pomodoro. Dopo che l’intingolo s’è ristretto un po’, aggiusto il coniglio a pezzi, con tutte le sue parti compresa la testa, e bagno con vino rosso, quasi a coprirlo. Sale e pepe e lascio che cuocia per circa un’ora o più, spruzzando di tanto in tanto con il vino rosso. Una volta cotto, prendo alcuni bei pezzi, li sminuzzo e condisco abbondantemente lasagne o gnocchi. E’ un piatto veramente speciale.” 8 Imelde Mosca con le sue lasagne al sugo di coniglio Paolo Rigoni (Grafica Giorgia Stocco) 8 Fonte: MOSCA IMELDE, Sologno (Novara)