FPit 2012-12 Elogio della Fragilità

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FPit 2012-12 Elogio della Fragilità
FP.it 12/2012
Elogio della fragilità
Michel Quesnel
Fu nel 1990 che Gabriel Ringlet, allora vice rettore dell’università cattolica di Lovanio in
Belgio, pubblicò una raccolta di omelie con questo titolo: Éloge de la fragilité (Elogio della
fragilità). Composta essenzialmente da commentari evangelici, l’opera esprime un aspetto
essenziale dei testi commentati: la fragilità ha qualcosa a che vedere con il Vangelo. Anche gli
osservatori esterni lo percepiscono, istintivamente. Tutti sanno che cristianesimo ed ebraismo sono
stati vivamente criticati da Nietzsche per questo motivo: l’autore de La gaia scienza non sopportava
nei fedeli delle due confessioni il loro tener conto della fragilità umana. Pensava che quest’ultima
favorisse l’introduzione di una pericolosa valorizzazione del subumano. Utile avvertimento, senza
dubbio... Ma sappiamo bene, invece, a che cosa ha portato, qualche decennio più tardi, l’esaltazione
del superuomo. Il rischio di prendere il subumano come modello è assai minore!
La teologia cattolica latina ha stabilito un elenco di quattro virtù cardinali: la forza, la
giustizia, la prudenza e la temperanza. Fragilità e debolezza pare non ne traggano vantaggio. Non
sono forse proprio il contrario della forza? Senza “per forza” mettere in dubbio che si riferisca,
indirettamente, alla virtù cardinale, l’educazione impartita in Francia negli istituti di insegnamento
superiore - ma questo è altrettanto vero anche altrove - cerca di favorire negli studenti disposizioni
più vicine alla forza che alla fragilità, utili a futuri dirigenti e capi d’impresa: autorità, comando,
padronanza di sé, organizzazione, competenza, competizione... Qualcosa viene concesso anche
all’esigenza etica, alle qualità relazionali ed al rispetto degli altri, valori indispensabili alla salute
delle imprese nella prospettiva di una buona conduzione; ma per le élites queste necessità sono
secondarie. Un padrone è innanzitutto qualcuno che si sa imporre, un vincente. E se ciò non avviene
grazie ai suoi titoli di studio, che avvenga almeno grazie alla sua solidità personale che è una forma
implicita di titolo di studio. Non spetta a un capo lasciar intravedere le proprie debolezze.
Questi discorsi, presenti tanto fra i maestri di scuola che tra i genitori, tengono poco conto
della fragilità umana. Al contrario, pretendono che la fragilità debba essere vinta: “Non lasciarti
mettere sotto i piedi”. E, se non si è capaci di vincerla, bisogna almeno nasconderla. Mostrare le
proprie debolezze, significa mostrarsi vulnerabile; e chi è vulnerabile non è lontano dall’essere un
perdente.
Certo, esaltando in questo modo valori che sembrano necessari al successo, si viene spinti da
una corrente alla quale è difficile resistere... Il rischio di essere calpestati dai più forti non è
illusorio. Ma abbiamo riflettuto sul tipo di società al quale conducono simili modelli educativi? A
un mondo implacabile ed anche inumano. Perché, anche se nascosta, la fragilità non smette di
esistere. E, poiché non esistono capi più inflessibili dei deboli che nascondono i propri limiti per
sembrare forti, gli Stati e le società si ritrovano in poco tempo governate da bruti!
Sì, la fragilità fa parte della condizione umana, bisogna essere ciechi per non accorgersene.
Dobbiamo dunque tenerne conto. Lattanti, andiamo in fretta incontro alla morte se nessuno si
prende cura di noi. Adulti, conosciamo le malattie, i momenti di scoraggiamento, le paure. Ad ogni
età, ci confrontiamo con la morte; lenta o improvvisa, essa c’è. Inutile, dunque, fare gli smargiassi.
“Come l’erba sono i giorni dell’uomo, come il fiore del campo così egli fiorisce. Lo investe il vento
e più non esiste” riconosce il salmi sta (Sal 103,15-16).
Non si tratta qui di spronare ad un esibizionismo del dolore. Ci sono persone nevrotiche che si
compiacciono in pubblico dei loro molteplici mali e malesseri; il risultato più manifesto è che si
rendono insopportabili a chi sta loro vicino. Questa è una patologia da compiangere, non un ideale a
cui tendere. Simili eccessi tuttavia non tolgono nulla al giusto fondamento di una convinzione che
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risulta dall’intera Bibbia: la persona umana è nobile per la sua stessa fragilità, angoscia esistenziale
compresa. Un celebre adagio della Sagesse lyonnaise (Justin Godard) recita: “Tra gli animali e gli
uomini, spesso c’è solo il battesimo a far la differenza”. Con un po’ meno di umorismo, possiamo
trovare almeno un’altra differenza tra le due specie, e cioè l’interrogativo metafisico che, salvo
errori, non preoccupa affatto gli animali. Ne sono origine il senso d’incompletezza, la coscienza dei
limiti, la sensazione di essere segnati da una precari età strutturale.
Il tener conto della fragilità umana regola anche la pratica etica. Il modello di comportamento
proposto dai vangeli è nutrito di Beatitudini: “Beati i poveri di spirito, beati i miti...”. In esse sono
scritte a lettere d’oro le chiavi della morale cristiana. Che non hanno nulla a che vedere con
l’atletismo della virtù. Riconoscere e confessare i propri limiti significa disporsi ad accettare quelli
degli altri, ed essere in tal modo più umani. Riconoscere i propri errori - chi non ne fa? - è il
principio dell’ onestà e della relazione autentica. E questo vale per tutti: per il dirigente come per
l’impiegato, per i genitori come per i figli.
Di qui discende anche un atteggiamento spirituale. Riconoscersi fragile ed incompleto
significa lasciare a Dio uno spazio nella propria vita. Certo, considerarlo come un tappabuchi
significherebbe sfruttarlo indegnamente. Ma Dio è sempre pronto ad occupare lo spazio che gli
lascio ed a riempirmi con la sua forza, se mi offro a lui a mani aperte per riceverla.
Paradossalmente, è accettando la nostra fragilità che possiamo procedere nella vita con una certa
sicurezza, mentre pretendere di essere forti da soli ci conduce a molti inconvenienti; perché presto o
tardi ci scontriamo con i nostri limiti e possiamo allora precipitare da molto in alto.
Il focoso san Paolo aveva capito bene questo paradosso: “Lo Spirito viene in aiuto alla nostra
debolezza”, scriveva ai Romani (Rm 8,26). E quando unisce questo tema a quello dei privilegi dei
quali Dio lo ha gratificato, diviene lirico.
“Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una
spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in
superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed
egli mi ha detto: - Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella
debolezza -. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di
Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni,
nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,7-10).
Elogio dell’amicizia
I Greci, che avevano spinto la riflessione sui sentimenti umani molto oltre gli altri popoli dell’
antichità, usavano tre sostantivi corrispondenti al nostro “amore”: eros, l’amore dotato della
dimensione carnale e sessuale; agape, l’amore elevato ad alte motivazioni, con il quale la Chiesa ha
costituito la virtù teologale della carità; e filìa, termine che corrisponde a quella che noi chiamiamo
amicizia. I due primi, eros e agape, vengono spesso opposti l’uno all’altro. La filìa, l’amicizia, gode
di uno status a parte; è poco presente nei catechismi e nei libri di teologia. E tuttavia occupa un
grande spazio nelle esistenze umane più ricche.
“Se mi si costringe a dire perché l’amavo - scriveva Montaigne a proposito del suo amico La
Boétie - sento di poterlo esprimere soltanto rispondendo: perché era lui; perché ero io” (Saggi I, 28).
“Perché era lui, perché ero io” ha ripreso in musica il cantante Michel Sardou. Nel XXI secolo
come nel XVI, la relazione di amicizia viene percepita allo stesso modo. Non si spiega. È
nell’ordine dell’irrazionale. Si può analizzarla, cercarle delle motivazioni, nessuna sarà sufficiente.
È un’eguaglianza fatta di armonia, dicevano i pitagorici. Nemmeno l’armonia si può spiegare.
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Nel cristianesimo la fratellanza è la relazione più fondamentale tra le persone. Nel vangelo
secondo Matteo, Gesù avverte le folle ed i discepoli: “Ma voi non fatevi chiamare ‘rabbì’, perché
uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno ‘padre’ sulla terra,
perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo” (Mt 23,8-9). La fratellanza, che è una gran cosa,
implica dei doveri. In essa si colloca la dimensione etica dell’ amore, la carità teologale. Se
l’amicizia si fonda su di una pari eguaglianza, essa è, invece, totalmente libera e disinteressata,
esente dalla volontà di compiere un dovere e dal desiderio di piacere. Nasce dalla pura gratuità. Se
un dovere c’è, esso non è all’ origine dell’ amicizia, ne è una conseguenza. L’amicizia articola
fratellanza e libertà, i due principali valori della fede cristiana.
L’amicizia è talmente bella, quando è pura, talmente incomprensibile nella sua irrazionalità e
nel suo disinteresse, da essere quasi sospetta. Molte amicizie bibliche sono state infangate dalle
considerazioni tendenziose che ne sono state fatte. Davide e Giònata, due uomini la cui amicizia era
tanto più sorprendente per il fatto che il secondo era il figlio del re Saul, nemico giurato del primo,
sono stati trasformati in figure emblematiche dell’omosessualità maschile. Tale interpretazione dei
testi, poco onesta, è decisamente brutta: ci si può aprire alla realtà omosessuale senza cadere nella
ricerca di giustificazioni prive di qualsiasi fondamento. La stessa cosa si è verificata, anche se in
modo più tenue, per Gesù e Giovanni, il discepolo prediletto; ma bisogna leggere in modo ben
superficiale il quarto vangelo per ridurre a tal punto l’immagine altamente simbolica dell’anonimo
discepolo, che rappresenta il credente posseduto dalla fede in Gesù, suo fratello e suo maestro.
In modo ancor più sospetto vengono giudicate le amicizie tra un uomo e una donna. Non si
finirebbe mai a voler ricordare tutte le fantasie romanzesche sulle avventure sentimentali - cioè piccanti
- di Gesù e Maria Maddalena, il rapporto delle quali con la realtà storica è più che incerto, ma la cui resa
economica è garantita, sempre che i loro autori posseggano qualche dote narrativa. Tutto ciò perché
l’amicizia tra un uomo e una donna sembra impossibile a spiriti meschini: bisogna per forza che ci siano
di mezzo sesso o soldi! Che pena! La storia della Chiesa abbonda tuttavia di amicizie spirituali non
equivoche tra un uomo e una donna casti: Francesco di Sales e Giovanna di Chantal, Teresa d’Avila e
Giovanni della Croce, per non citare che i più conosciuti. E non è necessario essere santi perché ciò sia
possibile. Indubbiamente la Chiesa ha avuto il torto di scegliere la maggior parte dei suoi santi fra
persone ritenute sessualmente continenti, cosa che giustamente dispiace alle coppie sposate e trasforma
la santità in qualcosa di molto etereo. Questo fatto dà l’impressione che l’amore carnale sia impuro,
mentre è anch’esso, nella buona teologia morale, fonte di santità. Però i tropismi asessuati di una
gerarchia formata da celibi non giustificano la tendenza inversa a sporcare ciò che è puro. Chi non ha
cuore non può conoscere vere amicizie. E si priva così di una vera felicità.
Se l’amicizia non è dell’ordine etico e non nasce dal dovere, comporta, in compenso, per
durare, esigenze etiche. Tutti conoscono i “piccoli doni che mantengono l’amicizia”. E tuttavia i
regalini non bastano. Avere degli amici implica saperci comportare noi stessi da amici. La
traduzione concreta di ciò consiste nella presenza offerta anche nel momento in cui si è meno
disponibili, nell’ascolto quando si è molto occupati, nell’aiuto immediato, anche se ci si trova in una
situazione finanziaria ristretta. A un amico si osa chiedere, anche se all’inizio questo non era
previsto. Egli vi sostiene senza che l’abbiate scelto per questo. Su di un giornale parrocchiale belga
pubblicato nel 2001 si poteva leggere: “Gli amici sono come angeli che ci rimettono in pista quando
le nostre ali non sanno più volare”. L’immagine è bella; però parla soltanto a chi crede negli angeli,
negli angeli terrestri, quanto meno.
Alcuni autori spirituali si sono posti la domanda se si possa parlare di amicizia con Dio.
Coloro che rispondono positivamente includono in questo tipo di relazione un capitale di vicinanza
e di confidenza che fa parte effettivamente della relazione che un credente può avere con Dio. Ed è
vero che in Gesù Cristo Dio è nostro fratello. L’opera dell’evangelista Luca è indirizzata a un certo
Teofilo, il cui nome significa “amico di Dio”; e la lettera a Tito evidenzia la filantropia divina,
l’amicizia che Dio prova verso l’umanità (Tit 3,4). Non è sicuro che il termine “amicizia” così come
lo intendiamo noi sia adatto in questo caso, nella misura in cui implica, come pensavano i
pitagorici, un’uguaglianza che non può esistere nella nostra relazione con Dio.
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È meglio lasciare all’amicizia la sua dimensione totalmente umana, fatta di cuore, di carne,
d’ossa, di regali materiali o immateriali. Questo può riandare fino all’antico guerriero che offre le
armi all’amico, lasciando dunque nelle sue mani tutto ciò che contraddistingue la sua forza e la sua
nobiltà.
“Quando Davide tornò dall’uccisione del Filisteo, Abner lo prese e lo condusse davanti a
Saul mentre aveva ancora in mano la testa del Filisteo. Saul gli chiese: - Di chi sei figlio, giovane?
-. Rispose Davide: - Di lesse il Betlemita, tuo servo -. Quando Davide ebbe finito di parlare con
Saul, l’anima di Giònata si era già talmente legata all’anima di Davide, che Giònata l’amò come
se stesso. Saul in quel giorno lo prese con sé e non lo lasciò tornare a casa di suo padre. Giònata
strinse con Davide un patto, perché lo amava come se stesso. Giònata si tolse il mantello che
indossava e lo diede a Davide e vi aggiunse i suoi abiti, la sua spada, il suo arco e la cintura”
(1Sam 17,57-18,4).
Elogio della compassione
Le lingue evolvono, le etimologie sono ingannevoli. Etimologicamente parlando, la
“compassione”, parola nata a partire dal latino, dovrebbe significare la stessa cosa di “simpatia”,
parola nata dalla lingua greca. In entrambi casi, si tratta del “soffrire con”. Ma la simpatia ha spesso
perso il suo significato originario. Una simpatica cenetta tra amici non viene associata principalmente
all’idea di sofferenza! La compassione, al contrario, è un sentimento nobile e forte dal principio alla
fine. Oggi il termine viene molto usato a significare la vicinanza che una persona può provare per un’
altra toccata dalla sventura. In una società nella quale l’indifferenza per quanto accade al vicino è la
legge generale, la compassione si rivela prossima a un ideale etico difficile da raggiungere.
La preferenza dei nostri contemporanei per un’organizzazione sociale che classifica le persone
ha come conseguenza che molti tra coloro che soffrono vengono parcheggiati: negli ospedali, nei
centri di rieducazione, nei centri per malati terminali, negli ospizi, nelle prigioni. Passiamo accanto a
questi grandi edifici, circondati da mura, senza vederli, e con ancor minore attenzione per quanto
avviene alloro interno. A parte il caso delle sofferenze che si impongono per vicinanza amicale o
familiare, il mondo dei sofferenti e quello delle persone in piena salute, così come quello dei poveri
agli occhi dei ricchi, non si compenetrano. Per incontrare davvero una persona che soffre, chi sta bene
deve uscire dai propri sentieri abituali: fermarsi lungo la strada dove tutti corrono, spingere la porta di
un’ istituzione specializzata, interessarsi ai malati di aids o di altri flagelli che, per pudore, non
vengono esibiti. Nello stesso tempo, egli si mette ai margini rispetto ai comportamenti di massa. In un
certo senso, si esclude. In parallelo, entra in un universo al quale non appartiene, quello dei sofferenti,
universo in cui non è tanto facile che possa trovare il suo posto.
A noi tutti vengono in mente le parole insopportabili delle anime sedicenti caritatevoli, che
vanno a visitare poveri ed ammalati dall’ alto della loro superiorità, quando poi non si basano, bel
bello, su di una teologia indegna dei suoi obiettivi: “È necessario che Dio vi ami molto per mettervi
alla prova come fa!”. Consolazione a basso prezzo che puzza di giansenismo e che non vien più
tanto sbandierata. Fortunatamente! Anche se...
Conosciamo anche quell’atteggiamento di velata superiorità che si ammanta del bel nome di
pietà. In Germania, qualche anno fa, veniva affisso negli spazi pubblicitari un manifesto che reagiva
vigorosamente contro questo sentimento paternalista. Esso mostrava un uomo in età matura
poggiato su di uno sgabello, ed evidentemente amputato delle gambe, che diceva ai passanti: “Non
reclamiamo pietà, ma rispetto”. Il termine rispetto sembra talvolta avere connotazioni un po’ rigide,
ma è una dimensione della compassione. Rispettando l’altro, lo considero per quello che è, nello
stato in cui si trova, senza apriorismi di superiorità o di inferiorità nei suoi confronti.
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Al contrario degli atteggiamenti che consciamente o inconsciamente piovono dall’ alto, la
compassione è fatta di uguaglianza: tu sei quello che sei, io sono quello che sono, ti vengo a visitare.
Tu sei malato, tu sei in fin di vita, non pretendo di offrirti altro che la mia presenza, ed anche il mio
silenzio. Non ho la pretesa di mettermi al tuo posto: è impossibile. Forse ti rifiuterai di vedermi qui,
splendente di salute, mentre tu soffri. Forse mi apostroferai come fece un giovane pellegrino di
Lourdes con il barelliere, poco più anziano di lui, che spingeva la sua sedia a rotelle: “Tu te ne freghi!
Tu cammini sulle tue gambe!”. Posso solo ascoltare la tua ribellione rispettandola. Ma, se tu non sei
troppo ingiusto, puoi aprirti a quello che sto facendo. Sono a Lourdes con te. Spingo la tua sedia a
rotelle, mentre potrei starmene altrove, con amici in buona salute, in un locale o su di una spiaggia. Tu
sei debole perché infermo; io sono debole perché sono venuto ad incontrarti e questo incontro mi
immerge in un universo che mi destabilizza. Ti offro la mia povertà, accanto alla tua.
Un’immagine di compassione che s’impone è quella delle donne dei paesi del Sud, giunte per
trascorrere qualche settimana all’ospedale, al capezzale del loro padre, figlio o marito, fedeli e
silenziose. Le si vede vivere per settimane su giaci gli di fortuna, piluccano più di quanto non
mangino, non hanno altro scopo che stare accanto ad un familiare che soffre. Vestali dei tempi
moderni, stanno lì, nient’altro, ed è già molto.
“Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro”, esorta Gesù nel vangelo di Luca
(Lc 6,36). Nelle lingue-semitiche, la misericordia è un sentimento che evoca le viscere, la parte del
corpo femminile che forma il bambino e fa nascere la vita. La misericordia, altro nome della
compassione, è un comandamento divino importante della tradizione ebraica e musulmana. È il
contrario dell’ira e dell’indifferenza. Le prime parole del Corano, parole che il fedele musulmano
ripete ogni volta che comincia la lettura di un nuovo capitolo, sono queste: “In nome di Dio, colui
che ha misericordia, il Misericordioso”. Nei vangeli, quello di Luca è quello in cui si trovano le
parabole che maggiormente esprimono questo atteggiamento divino, atteggiamento che ogni
discepolo è chiamato ad imitare: il buon Samaritano, il padre del figliol prodigo, sono modelli di
compassione. Gesù stesso fu il primo a dame l’esempio: vicino ai sofferenti del suo tempo che
ebbero il privilegio di avvicinarlo, ne guarì molti e li amò fino alla morte.
Certo, si potrebbe ribattere, ma esistono milioni di malati che egli non ha guarito, del suo
tempo e di altri tempi. Tuttavia le guarigioni che gli operò hanno un valore simbolico che oltrepassa
di gran lunga quella che fu la loro immediata ripercussione. Esse esprimono la convinzione cristiana
che nessuna persona umana è stata creata da Dio per vivere a lungo nella sofferenza e nell’infelicità.
Un avvenire luminoso ci attende tutti. Il comportamento umano più nobile consiste nell’anticipare,
mediante la nostra compassione, la dignità alla quale sono chiamati i nostri fratelli umani più
provati.
“Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi
dobbiamo dare la vita per i fratelli. Ma se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo
fratello in necessità gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio? Figlioli, non
amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1Gv 3,16-18).
Michel Quesnel
Dal libro “LA SAGGEZZA CRISTIANA ARTE DEL VIVERE”
EDIZIONI SAN PAOLO 2008