LA RIMOZIONE (2008

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LA RIMOZIONE (2008
LA RIMOZIONE
(2008-2011)
La ragione è scritta sui rovi...
Syd Barrett
La muta
I. La muta
Qui dove sola e quasi sconosciuta
fu l’eco del sentiero felce ignota
la muta della serpe secca i rovi,
il nome esattamente di mio padre.
Non molti hanno dei nomi più quei luoghi.
L’odore dei ricordi è una parola.
S’aggruma nella selva ambigua cosa
di muschio e terra madre, neve e cenere.
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II.
L’oggetto rimosso che vivo non vede.
Protegge la neve dall’arido segno
l’invero del sogno. Deserto il sentiero,
il bisogno del ramo coperto. Ma dove
la neve è sepolto un germoglio che non
conosceremo.
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III.
Foresta erba selvosa,
l’infanzia silenziosa.
Nel rogo piattaforma,
l’effigie della norma.
C’era una volta un padre,
l’icona che non s’apre.
Serenità seriale,
la strage funzionale.
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IV. Lo chalet
Mi ricordai del mare
ove la sabbia non era lunare
ma pinta di un blu viola artificiale
che i sogni sbronzi vomitava interi.
E mi rividi ieri
quel limine a pregare.
C’era e non c’era nello svago cerulo
la terra al piede e nella sera calda
pietre muschiate e viscide ma salda
la mano antica nel delirio credulo.
Nel querulo pantano
s’aggrumava l’improbo
biologico allo strobo
di uno chalet lontano.
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V. Le rose
Così compresi estetica che in cuore
mi giaceva.
Una bambina elvetica
che in braccio sorrideva.
Fuggiva lei nel corso condotta
delle cose.
Ci trovammo in un sorso
di fontana. Le rose
non scevre erano più se mi girai
nel mondo che trasporta sua sembianza
come una danza d’ombre minacciose.
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VI. L’arcano
Nel cuore il sole immette un sortilegio
come un fantasma buono d’ambo i sessi
ed è una voce che traluce il nome
dentro la stanza che traduce oggetti.
Tu sei con loro nella storia vaga,
nel tentativo assurdo e il privilegio
di esistere per dote o per difetto
come un transex arcano per la strada
di chi non fa rinuncia e tutto perde,
di chi la morte preferisce a iosa
piuttosto che la corte vomitosa
dei lividi sorrisi e delle merde.
Tu sei nel rosso dove adesso appena il verde
lucore delle foglie sfiora il dosso,
ti chiese l’antenato di descrivere
la neve sopra il corpo e le radici.
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Il fiore del fascismo universale
I.
Mi aggiro tra i banditi democratici,
gli abolitori dello stato di diritto.
Se spezzo la catena è solo un sogno
ridicolo, che lascia posto all’ombra.
La storia nostra morta è ancora questa
del grumo di catarro, terra e sangue
rappreso dove vomita la bestia
balcanica o dove il volto esangue
del ragazzino morto sotto al treno
sorride sventolando un lembo pesto
di carne.
Come somiglia questa vita a quella
già morta da decenni per violata
sovranità del nostro bene in guerra,
o al cranio tumefatto del fanciullo
che la consunta morsa della madre
nutrire può solo di mosche e terra.
Così il mercato dell’impero nero
tra i profughi, i suicidi e gli ammazzati
battezza con il sangue dei soldati
l’avvento del fascismo universale.
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II.
Io sono un continente.
Chiudessi gli occhi riuscirei a intendere
persino gli argini, il bordo, gli orli.
E mi accompagno a questo limine
di roccia e sale, a questa
successione di frane.
Adesso dormo nell’insonne lava
di questa valle oscura
di vagine e calanchi.
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III.
Le grandi imprese le lasciò ai cadaveri
e cadavere si fece liberando
la grande della sua esistenza impresa.
Dicono che il corpo rotolando
si ruppe in tanti piccoli massacri
fin quando il macchinista non intese.
Restò qualche brandello da scostare
in mezzo al prato giallo, sui binari.
Scendevano di fila gli scolari
nella campagna aperta, ad occhi chiusi.
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IV. Aprile
Se ne vanno la notte silenziosi
in lenta carovana, gli occhi al suolo,
i morti che di noi ancora sono
morti e se ne vanno silenziosi.
Il vento tra le foglie del castagno,
il passo tra le felci, il legno franto,
il canto delle rane nello stagno,
il pianto scivoloso del canale…
Scompaiono, di notte. Torneranno
come le pietre che la terra inuma?
Sapere i loro segni che consuma
la pioggia non ci basta a ricordare
che vivi ci sognarono e son morti.
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V.
Se c’era nel bosco una croce,
tra i rami una specie di cavo,
sopra le braci spente camminavo
sciogliendo quella plastica dai piedi.
Qui lavorava il nonno e non sapevo
neppure un volto dare, o quale voce.
Fanciullo ritornavo nei sentieri
in cui come fantasmi senza nome
restavano antenati nei misteri
del legno secolare, nell’afrore
di carne cruda al rogo, dell’alloro
bruciato nell’estate sconosciuta.
Se vidi l’assassinio non sapevo
neppure piangere, mangiai
quel grumo sanguinante come bacca
donatami da mano familiare.
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Viola
I. Gli orfani
Occorre ritrovarsi. Su questo bagnasciuga
reticolato. Dentro queste macchie
di acquerelli e pixel. Nel cielo
sfibrato. Occorre comunque ritrovarsi.
L’immagine è sfocata. Un’ombra
accartocciata ai piedi del mare.
(Non lo so neanch’io, no: non lo so...)
Sulla battigia desolata
gli uomini in fuga cercano un rifugio
e i deboli un lungo sonno.
Così come orfani del mondo
incatenati nella febbre a vita
del giorno: è così, sì, va bene...
Ma sebbene le tubature siano molte
e la sorgente unica
l’origine, Giulia, è dentro l’assedio.
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II. San Lorenzo
Versate il piombo della sera
nella sera di piombo, alzate
questa tumefatta scena.
Montate le strade, i palazzi di cartone
nella sera di piombo sparate
i vostri cannoni a salve.
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III. Visione
Così c’è qualche cosa che tradisce.
Se tornano è nell’ombra, destinati al silenzio.
Un oltretomba di saluti e sputi
dove le crepe nere spaccano le mura.
Se scappa non ritorna eppure muta
lo stesso, come un lago di cenere
in cui sprofonda le mani
con sete di rugiada.
Porterai con te queste giornate di novembre?
Non c’è nessuna strada.
*
(Dentro il paesaggio antico quale squarcio,
quale verde-viola scomposizione?
Sfibra scucito il telo.
Decomponi il cielo.
Nel velo digitale
individua l’errore.
Afferra il lembo opaco.
Scorteccia la visione.)
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IV. Preghiera
Scorteccio il cielo alla
ricerca di un’origine.
La stella è bianca. Blu
cobalto rovinato.
Sia lode al padre e al figlio
che tornano al cantiere.
Notte di tram e nebbia.
Pietà di me signore.
Di fronte a questa storia
anche il sole si incrina.
Gli avanzi della luce.
Madonna di lamiera.
Le stelle della sera.
Nebbia di punti viola.
Foresta bianca e nera.
Batteri di memoria.
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V. Rappresentazione
Partiamo,
come un livello di separazione
da infrangere.
*
In ogni cavo la sostanza mancante
in forma di lacrima chiamare.
Questo sembiante accarezzare.
“Chiedo asilo? Decoro?”.
Poeta, cosa voglio ignoro.
Il quadro degli orizzonti è pieno.
L’ambiente ridicolo. Il possibile designato
vuoto. Ho sognato
una casa che non c’era e una sorella
nell’origine. Ma pure tu baciare
vuoi nel modo in cui morire
non sia più l’arido male. Ma l’altro
non esiste.
E per sognare servono i soldi.
*
Ho imparato l’allegria dei sampietrini bagnati,
la via di casa quando piove e tardi
la ragazza pallida che ti offre la mano.
“Spariranno?”. Non so, tutto è svanito,
e assieme al tutto anch’io che cerco
ristoro in una canzonetta sbandata.
Vorrei in fiamme vedere
le vetrine dei call center,
le agenzie interinali,
e con pietà francescana aggiungere
al fuoco nuovo fuoco.
Ma tutto quanto ricadrà su noi
che sete avremmo avuto
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di sole e di fontana.
*
E San Lorenzo appare
nella sua scomposizione
di sabbia bagnata.
Avremmo detto: certo, avanziamo,
così come per fare un movimento qualsiasi.
La rappresentazione è salvaguardata.
Io voglio il meglio.
Se fuoco non arde. E fontana
ricorda. Verde. Blu.
Volevo il meglio
da questa generazione sballata
di pasticche e psicofarmaci.
Così certo, potremmo facilmente bruciare
il vecchio mondo rappresentato,
ma un enorme deserto illuminato a nuovo
non era certo il fine di questa guerriglia!
(La schermata del cielo
gelidamente oggettivo)
*
E quella notte apparvero infuocate croci.
Un cimitero di bottiglie incomprensibile ai più.
Paesaggio verde e nero
di infrarossi e fanale.
In fila pisciavamo contro il mare.
“Starò con i miei amici
fino alla fine del mondo.”.
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La gravità
I.
La noce è un uovo verde che d’estate tonfa.
Con una pietra si spolpa sino al guscio del seme.
Come due barche rovesciate assieme
dunque s’apre, o si fracassa.
La buona noce è eburnea
sotto una fresca membrana.
La marcia è una castana invece
peluria di vermi.
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II.
I poeti di sinistra ridono dei poveri
che ignorano la Storia. Ed io non so fidarmi di chi ride.
Il mio corpo è impastato di grano e dell’acqua
assolata; e della lattuga.
Tiene l’odore della ricotta salata
che si mette sulla pasta col sugo.
Chi non sa nulla della storia d’Italia
è mio fratello o sono io persino
quando percorro a ritroso la strada
che mi ha portato qua, dove non ci sta nessuno.
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III. Il cardo
I fiori dei giardini pubblici
proprietà degli assessori comunali
riproducono confini funzionali
alla conservazione di padroni e schiavi.
Ma la poesia è gramigna,
selvatico fiore incolore o dal pessimo
gusto, si manifesta
al passaggio del matto (due o tre l’anno
su queste contrade lo vedranno).
E non serve al decoro né all’animo
schiavizzato è sollievo. Come il cardo
montano non colto e alla vista
mistero del pianoro deserto, al pensiero
fratello e il pastore di un tempo
ci faceva il risotto.
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IV.
Roma implode;
come il giardino crollato
di mia nonna, per sempre vittima
della mia incuranza nazionale.
Era un terreno di violacciocche e quadrifogli.
Ora ci gettano gli stracci e certi fogli
smarriti e privi di candore.
Una notte qualcuno ci lasciò persino il tubo
dell’acqua aperto ed il rifugio
di mia nonna diventò un pantano
abbandonato da tutti e per l’essere italiano
rifiuto di una generazione che ignora
la grazia silenziosa della storia.
Anch’io sono colpevole del male
che regna vomitevole e banale.
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V. Leggendo Eschilo
La mia giornata è senza senso e non sarà
possibile costruire una fortezza necessaria
per dire è questo, è quello.
Io sfoglio libri alla rinfusa
come le pagine di Topolino e Focus. Non leggo Bataille,
inizio Proust ma mi distraggo. E presto è l’ora
di farmi un giro su Youporn.
E quando arrivo a sera sono stanco.
A volte penso che si perda crescendo
la facoltà di intendere le cose,
io per esempio non comprendo più cosa significhi
avere un mondo interiore.
Escluso dai candidi pepli e dai banchetti
esecrabili, non il canto delle Erinni
mi spezzerà la vita.
E nessun coro che scavi
in questo bulbo corroso.
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VI. Canzone del poeta rifiutato
Adesso voglio dirvi cose solide
e dal colore opaco delle pere,
ponendo giusta fine alle chimere
del mio cervello in panne come un bolide.
Se a voi non piace la parola vera
e in quanto franca in ruvida maniera,
tornate pure adesso nell’ovile
di chi falsa il proclama notarile
senza la gravità del mongoloide
che sfonda il fegato e nel verso anche la bile.
Ma sono stupidi i lettori del duemila
e i critici altrettanto stanno in fila
a non capire un cazzo di poesia
spurgando stronzi nell’editoria.
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VII. Ballata del poeta ridicolo
Non essendo nato per essere schiavo di nessuno
se non dello sgomento e dello stupore
scriverò il mio libro senza senso alcuno
che non sia quello del mio livido amore
per la gravità delle parole che cadono
dal ramo dell’albero del gusto cattivo
giù fino alla terra del vero soggettivo
che vivo sincero e più sicuro canto.
L’Italia è la patria dei bravi poeti
che ridono in coro di quello ridicolo
che senza decoro s’incolla alle reti
del porno amateur e si tocca un testicolo.
Poi dopo che spinge l’orgasmo alienato
muggendo e sognandosi morto sul prato
del Grande Fratello ritorna al graticolo
dell’arido osceno pensiero politico.
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VIII. La rivolta
Il mio sogno è una rivolta demenziale
della realtà reale alla finzione
di tutte le filosofe menate
che manco per il cazzo praticate.
Mi sembrate un fottuto corpo insegnante
a cui sparare un peto devastante
che per millenni puzzi di diarrea.
Oh letterati, antica merda: bleah!
Ai dotti preferisco i transessuali
che almeno quando bruciano è davvero
piuttosto a chi s’appiccia manco un pelo
del culo se si brucia una scoreggia.
Io scrivo quel che so e che tutti fingono
di non sapere quando parla o pingono
di una realtà falsata dal terrore
di esistere nel vero o nell’errore
della materia spoglia, in mezzo al sole.
Io sento quel che dico e provo amore
per chi contro il buon gusto della scuola
di destra o di sinistra a cazzo scola
la mistica allegria degli alienati.
Menzogne oscure e limpide cazzate
non mi riguardano, a me piace le parole
che cascano nel sogno dell’estate
e un succo vivo bagna, in mezzo al sole.
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IX. Memoria
La notte che M. mi fece un bocchino
non ci potevo credere
tante seghe mi ero già sparato
pensandola a pecorino.
Che quando ci si mise per davvero
venni talmente presto che le feci un ditalino.
Oh tamponare il suo franco culetto
per la menata come un pugno stretto
non è qualcosa che potrò dimenticar.
Avea le labbra gonfie
come le pornostar.
Nell’altro letto dormiva Simone.
A non proporle una scopata a tre
sono stato proprio un coglione.
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X. Nirvana (Club privé)
Le vacche di quarant’anni in compagnia dei mariti
spompinano travesti
e pompati ragazzini.
Per i glutei li afferrano o sedute sui divani
divorano le travi
dei figli dei vicini.
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XI.
Qui dove lo sbirro annusa il cazzo
del ragazzo drogato
e l’insegnante si fa sbattere
dal pazzo del palazzo
più vera è la sera
costiera, oltre lo zip della cerniera.
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XII.
Qui finalmente il pazzo
e l’assessore sono
lo stesso cazzo e pompa
il transessuale il giovane
borsista e due romeni
si sfondano la moglie
del farmacista buono.
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XIII. Talamone
Lo scintillante brulichio del mare
turchese su fondo smeraldo.
La livida foschia delle distese
silvestri, il castello saldo.
E carni discese su ossario marino,
sudario di pietra e conchiglia franta.
Oh l’infinito naufragio cortese
di muschio salino e fruscio di pianta...
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XIV.
Ma non sarà l’urlio del chiurlo tra gli olivi
dell’Argentario a esigere
il suo quesito impossibile.
Chi vivo, tornerà? Chi senza un sasso in mano
potrà dirsene certo? E come il grido si
sgretolò del gabbiano?
Oh tutti gli occhi che
potrebbero allearsi
sopra queste precipitate rocce
che vi accingete a rimuovere.
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XV.
Dove il ninfetto senza senso si scaglia
in verde nuvolaglia del silvestre blu
risale contro il cielo quando il mare s’incaglia
la ruvida ferraglia di un peschereccio straniero.
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XVI.
Sarà la voce a calcare il pensiero
come una costola di tufo nero
il mare; è la patria
toscana che frana
nella placenta della matria argenta.
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Prima chiusura
I. Lettera dal letto
Ogni dorso che osservo dal letto, nello stato febbrile coperto, tiene l’odore del giorno
in cui si incontrarono i miei stupori e l’angelo. Ogni incontro una fuga d’amore, che
non potrà ripetersi.
La vita di Esenin, donata dall’amico infiammato. Abitavamo a San Pietroburgo, era
il 1905 quando ci ammazzarono. Un secolo dopo la neve copriva le scale slavate di
Perugia e un’ebbrezza gelata trascinava le parole di Pasolini, Guy Debord...
In Corso Garibaldi, lungo la via che conduce al Tempio, tiravamo un cordoncino
usurato dal tempo per aprire il portone. Nell’antro era un cancello, oltre la zona
oscura che proseguiva la volta delle scale a destra. Prometteva alla vista un giardino
orientale, ovunque protetto dalle mura d’Etruria. Dietro i mattoni che alla sera si
tingevano di sangue come alla carne di chi ci beve forte si illuminava una torretta
templare dalle fatture arabesche, che ricordava il sogno.
D’estate, quando l’ascensione lunare riflette il desiderio di viaggio, nel cielo incantato
dal primo blu oltremare scintillavano le stelle come uno sconfinato esercito di occhi,
e il campanile della Chiesa di San Benedetto Vecchio ti sembra un giocattolo.
La fame di Rimbaud, l’inverno marchigiano. La sorella che nella lana guidava
fino alla costa adriatica. Poi fu il disprezzo per la vita che ti fece tutto perdere.
Da questo letto succhiavi le parole come lumache dal guscio impregnate d’olio e
prezzemolo. Sognavi la vita come una promessa di naufragio, in cui si massacrarono
tre cadaveri. Per nessuno di essi riuscisti a piangere e sulla fronte di uno volevi
scriverci “COGLIONE”, con l’Uniposca nero, mentre il silenzio si faceva creta e una
membrana di pietra rivestiva il tuo cervello annodato.
Oh caro Andrea che mi facesti amare l’opera, quanto mi sei mancato. Io non t’avevo
mai abbandonato.
Sono tornato, dopo due settimane di lezioni e gelo. Ho studiato, fatto il bravo, alzato
quasi sempre presto. Certo, risponderò a tutte le tue domande. No, non mi sono
innamorato. Non mi innamoro più.
Questo lembo di quaderno fu composto in condizioni diseguali, negli anni in cui
l’autore simulò il suicidio e la continua perdita lo scaraventò dentro alla storia cinico
come un ente provinciale. Ma c’era ancora l’antico ragazzo in lui che gli permise di
cadere, finalmente diseredato dai proconsoli cittadini a cui doveva apparire ormai
come il fantasma di un potenziale demenzialmente sciupato.
Lui che l’indomani sarebbe stato infibulato come una promessa politica, ora ubriaco
e sulla soglia dei trent’anni si masturbava con una foga insensata nel pieno centro
della Piazza del Popolo, alle sette della sera.
Oh tutto questo è follia, si disse, ma lui credette veramente di far ridere un amico
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che passeggiava al suo fianco, quanto bastava per tornarsene a casa spensierato. Ma se
la punizione cadde su di lui come una condanna inesorabile, fu per la crudeltà delle
organizzazioni pubbliche. L’azione non si svolse entro gli spazi adibiti alla sborra.
Una tipologia di errore che si sconta con l’esilio. Ora il mio amico percorre i sentieri
delle pecore sulle montagne spelate dove camminano tossici e preti, e un giorno verrà
ucciso e si farà cardo.
Io ho speso tredici anni in tragiche fantasie d’amore e ora l’incanto è finito. Ci
ameremo masturbandoci, sognando astratte fisionomie siderali. Ci sbirceremo il
timbro della pelle tra le maglie scortecciate dei pixel, forse talvolta ci parrà che un
fiato caldo ci accarezzi il collo. Se vuoi parlarmi, se vuoi rispondere a questa mail, ti
aspetto. Tuo.
Una specie di febbre mi aveva avvolto per tant’anni di selvagge metamorfosi, che
solamente ora ci inizio a pensare veramente. Il cardo fu colto e se ne fece un segnalibro
per le pagine secche di un diario.
Era il 4 novembre del 1986, io me ne stavo disteso su un lettino apribile, cigolante.
La rete sfondata, la stanza disadorna. Fuori della finestra il buio di Cassina de’ Pecchi
disegnava attorno ai lampioni delle macchie inzuppate di luce. Oggi sono venute
delle persone a casa ma io non ho sentito niente. C’è questa muffa sopra all’angolo
della cucina che è venuta su dalla condensa e ogni giorno pare che si allarghi. Dovrai
imparare ad aprire le ante, o le persiane dopo la doccia e la pasta. Ma fa freddo, fuori
si muore. La muffa è turchina come un affresco del Trecento. Il vetro s’è velato del
vapore della pentola in ebollizione, ci tracci con il dito il segno di una svastica; per
riderne con gli altri, quando lo vedranno apparire. Erano venuti tutti qui a studiare,
negli anni passati. Ma tutto questo buio e solitudine, il ronzio del lampadario, il cavo
annodato e incrostato di calce; non poteva andare diversamente.
Ieri dubitavi persino del sesso. La mano sotto il maglione infeltrito di Nadia ad
afferrarne le mammelle lunghe e larghe. È la ricerca dell’adiacenza completa pensavi;
il palmo della mano e quel gonfiore di ghiandole. Il ruvido fruscio dei peli al
movimento ciclico dei polpastrelli, sotto l’elastico degli slip, ad aprire gradualmente
un varco, una voragine d’argilla sotto il cavallo dei jeans. Pensare ad altro poi, fissare
le tubature del termosifone o mordersi una mano.
Ora ti tocchi mentre pensi ad altri che la possiedano, con le mani impastate di bava e
di lava; come un’alcova racchiusa a nocciolo, in preda alle penetrazioni. Ti sei pulito
con un fazzoletto che hai trovato sopra al tavolo della cucina, imbevuto di sugo. L’hai
buttato dentro alla busta della spazzatura appesa alla maniglia. Una spina nel fianco,
dentro alle buste dell’immondizia; a soffriggere l’aglio in padelle annerite dall’uso.
Guardi il disegno appeso al muro e che fu il dono di una ragazza che si chiamava
Nenena tanti anni fa, quando il mondo era ancora intatto. Un ragazzino a torso
nudo, sul davanzale interno di una finestra, a guardare le galassie lontane.
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Io ti sentivo vicina, come un’amica vera ai tempi delle medie, una sorella dei sogni
sinceri e delle prime scoperte: Mellon collie degli Smashing Pumpkins, Edward mani
di forbice…
Oh così fragile è l’arrivo della gioia ed impossibile da trattenere. Ci sfiora come un
alito improvviso, un odore imprevisto che non riesci a definire e perdi.
Anch’io a sette anni feci la valigia, ero convinto di venire dallo spazio. Dovevo andare
a ritrovare l’UFO con il quale ero venuto sulla Terra e mi sforzai di ricordare il luogo
dove era stato sepolto. Era il giardino di mia nonna Maria, che ora è crollato e fatto
a pezzi. Era un giardino dolce, pieno di violacciocche e quadrifogli.
Tu certo non puoi esserne colpevole perché hai raccolto la saggezza dell’obbedienza,
la natura dei fiori che altro dovere non hanno se non quello di esistere e sbocciare.
Io invece mi risveglio da una guerra civile, la casa è divelta e chi conoscevo non si
ritrova. E solo adesso mi ricordo di questa patria, dell’albero di nespole che mi alzava
come un trofeo esibito al cielo.
Se quei fumetti li hai veramente disegnati a tredici anni, sono bellissimi ed è un vero
peccato che tu non riesca a trovare il tempo per continuare. Devi trovarlo il tempo
ad ogni costo, scavare più rifugi possibile. Altrimenti poi ci si perde, ci si dimentica.
E gli abitanti di questo luogo non cercheranno certo di aiutarti.
Ogni libro è un incontro e un paese che amo, che volevo abitare e non ho ritrovato.
E quando il Nazzareno mi ha chiamato, io l’ho preferito crocefisso.
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II. Il gancio
Il mio corpo ricusato dalla storia satura
su una sedia che aspetta la secca sera,
ricusato trascina una lettiera
ad un angolo oscurato della cucina infetta.
L’informe speranza di servire un giorno
alle carezze sotto il mento di una,
ma ricusato è il ritorno nella natura satura
di monossido di carbonio e parole.
Avevo imparato dagli scoiattoli del bosco
a brucare il cranio del nemico sconfitto
dove pure i passerotti succhiano la polpa
delle carcasse in disfacimento.
Per questo ho fatto del mio gancio vanga
scavandole una giusta sepoltura.
*
Se ora gli eventi crollano come una valanga
sulla cultura del nostro essere al mondo
negatemi pure se una reazione dura
della comunità feriale contro l’usura
del tempo soddisfa come una falsa redenzione
l’oblio del vento che disfa l’altura.
L’ho uccisa perché un ordine tirava
contro una crepa che doveva aprirsi.
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Seconda chiusura
I.
La rete, questo ghiaccio che s’apre
scardinando
il tarassaco del tempo.
Ci fu uno sguardo e fu l’amore forse,
dei lineamenti riprodotti a pena.
Ma nulla da ricordare, come dopo un incidente d’auto.
Ma nulla da ricordare, come dopo un danno cerebrale.
Camminare come pioppi verso le città distanti,
questo bisognava fare: risplendere
di una volontà assente.
E non dirci più niente,
perché vuol dire illudersi.
Se torni adesso è una serranda chiusa,
rotta la serratura, occorre entrarci dal retro.
Ma sotto certe croste che si cascano
in avanti, segnali
murali
a questo cuore ancora uguali.
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II.
Nessuno capirà
la gravità che il fato immerse
in un paesaggio alienato. Resterà
qualche sterpaglia a rovinare il silenzio,
ma nessuno ne capirà mai niente.
Una fame di Galway, zuppa di funghi e scogliere
di Moher, una domenica di settembre,
quando il cielo imbiancato ti invita al viaggio.
Io qui non ho più niente da scrivere.
La vita non la comprendo. Adeguarmi è impossibile.
Amo il silenzio e un mondo di parole
chiede migliori giustificazioni.
Ma non si può fuggire per rinascere
dalla carcassa putrefatta di ieri.
Ho sempre fatto quello che mi andava.
E ancora voglio credere all’amore.
Sogno una zuppa calda
che mi risvegli il cuore.
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III.
Quando usciremo dalle gabbie elettriche,
se troveremo pure noi un lavoro,
la forma sarà il frutto che riposa
di una gemma gloriosa.
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IV.
C’è forse un che destino nel riemergere;
come arenato il fiume si fa fonte,
così fonte coperta fu il battesimo
del neofita non certo e peregrino.
Avere non timore della musica;
del pianoforte teso alla finestra,
dove l’arancio del sole profonda
tra i tetti delle case e gli aghiformi
saluti dell’abete verde e i pini
più cupi nella sete del tramonto.
Qui vidi Orfeo emergere nell’ombra
come memoria liquida che affiora
da una ferita nel selciato vivo.
Così lo sposalizio fu sorgivo
nel bacio della storia col creato,
nel rudere di pietra attraversato
dal ruscelletto giovane e cattivo.
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V. L’annunciazione
Colui che era scomparso ora ritorna.
Non ho bisogno della vostra opinione.
La vita si apre come un bianco fiore.
Il vento dell’annunciazione chiude
le persiane, getta lacrime negli occhi.
Così feci ritorno all’adorazione
delle mie simili, al patto sacrale
della fratellanza.
Rinnego tutto e credo nei miracoli.
Non ho bisogno di una vita normale.
La luna nel corso fluviale
anticamente si contempla e tace.
(ad Alice)
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VI. Autoritratto
Siccome non c’ho niente da nascondere
ti guardo in faccia ad occhi spalancati,
lo sguardo opaco e bruno, il cupo timbro,
la bruma scintillante dei malati.
I capelli sono neri e trasandati
come il vello randagio dei migranti,
la barba incolta e gretta dei briganti
che dentro al noce fecero la guerra.
O uomo vegetale o noce e cardo,
saremmo stati visti per miracolo,
tornando via per sempre, un ricettacolo
di rovi e di radici, il nudo tavolo.
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VII. Ballata su un videotape rovinato
La santa apre le braccia, braccia enormi di luce.
La vecchia con le vertebre
spaccate è nella luce.
Volti che non resistete, volti di luce.
È logico pensare che ne siamo usciti sconvolti.
Per sempre rovinato il tuo saluto resta
come inchiodato a questa
percezione magnetica.
*
L’acqua del pozzo è ghiaccio,
si riempie di foglie.
Lo schermo c’ha la polvere
come brina lunare.
La terra succhia gli angoli
di rami secchi e foglie.
La sabbia delle pietre è sopra
i trucioli dell’albero.
Persino la mia testa
se forzo l’unghia al cranio
perde una pelle morbida,
una polvere bagnata
che è carne morta, una
membrana da cambiare.
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