LA RIMOZIONE (2008
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LA RIMOZIONE (2008
LA RIMOZIONE (2008-2011) La ragione è scritta sui rovi... Syd Barrett La muta I. La muta Qui dove sola e quasi sconosciuta fu l’eco del sentiero felce ignota la muta della serpe secca i rovi, il nome esattamente di mio padre. Non molti hanno dei nomi più quei luoghi. L’odore dei ricordi è una parola. S’aggruma nella selva ambigua cosa di muschio e terra madre, neve e cenere. 4 II. L’oggetto rimosso che vivo non vede. Protegge la neve dall’arido segno l’invero del sogno. Deserto il sentiero, il bisogno del ramo coperto. Ma dove la neve è sepolto un germoglio che non conosceremo. 5 III. Foresta erba selvosa, l’infanzia silenziosa. Nel rogo piattaforma, l’effigie della norma. C’era una volta un padre, l’icona che non s’apre. Serenità seriale, la strage funzionale. 6 IV. Lo chalet Mi ricordai del mare ove la sabbia non era lunare ma pinta di un blu viola artificiale che i sogni sbronzi vomitava interi. E mi rividi ieri quel limine a pregare. C’era e non c’era nello svago cerulo la terra al piede e nella sera calda pietre muschiate e viscide ma salda la mano antica nel delirio credulo. Nel querulo pantano s’aggrumava l’improbo biologico allo strobo di uno chalet lontano. 7 V. Le rose Così compresi estetica che in cuore mi giaceva. Una bambina elvetica che in braccio sorrideva. Fuggiva lei nel corso condotta delle cose. Ci trovammo in un sorso di fontana. Le rose non scevre erano più se mi girai nel mondo che trasporta sua sembianza come una danza d’ombre minacciose. 8 VI. L’arcano Nel cuore il sole immette un sortilegio come un fantasma buono d’ambo i sessi ed è una voce che traluce il nome dentro la stanza che traduce oggetti. Tu sei con loro nella storia vaga, nel tentativo assurdo e il privilegio di esistere per dote o per difetto come un transex arcano per la strada di chi non fa rinuncia e tutto perde, di chi la morte preferisce a iosa piuttosto che la corte vomitosa dei lividi sorrisi e delle merde. Tu sei nel rosso dove adesso appena il verde lucore delle foglie sfiora il dosso, ti chiese l’antenato di descrivere la neve sopra il corpo e le radici. 9 Il fiore del fascismo universale I. Mi aggiro tra i banditi democratici, gli abolitori dello stato di diritto. Se spezzo la catena è solo un sogno ridicolo, che lascia posto all’ombra. La storia nostra morta è ancora questa del grumo di catarro, terra e sangue rappreso dove vomita la bestia balcanica o dove il volto esangue del ragazzino morto sotto al treno sorride sventolando un lembo pesto di carne. Come somiglia questa vita a quella già morta da decenni per violata sovranità del nostro bene in guerra, o al cranio tumefatto del fanciullo che la consunta morsa della madre nutrire può solo di mosche e terra. Così il mercato dell’impero nero tra i profughi, i suicidi e gli ammazzati battezza con il sangue dei soldati l’avvento del fascismo universale. 11 II. Io sono un continente. Chiudessi gli occhi riuscirei a intendere persino gli argini, il bordo, gli orli. E mi accompagno a questo limine di roccia e sale, a questa successione di frane. Adesso dormo nell’insonne lava di questa valle oscura di vagine e calanchi. 12 III. Le grandi imprese le lasciò ai cadaveri e cadavere si fece liberando la grande della sua esistenza impresa. Dicono che il corpo rotolando si ruppe in tanti piccoli massacri fin quando il macchinista non intese. Restò qualche brandello da scostare in mezzo al prato giallo, sui binari. Scendevano di fila gli scolari nella campagna aperta, ad occhi chiusi. 13 IV. Aprile Se ne vanno la notte silenziosi in lenta carovana, gli occhi al suolo, i morti che di noi ancora sono morti e se ne vanno silenziosi. Il vento tra le foglie del castagno, il passo tra le felci, il legno franto, il canto delle rane nello stagno, il pianto scivoloso del canale… Scompaiono, di notte. Torneranno come le pietre che la terra inuma? Sapere i loro segni che consuma la pioggia non ci basta a ricordare che vivi ci sognarono e son morti. 14 V. Se c’era nel bosco una croce, tra i rami una specie di cavo, sopra le braci spente camminavo sciogliendo quella plastica dai piedi. Qui lavorava il nonno e non sapevo neppure un volto dare, o quale voce. Fanciullo ritornavo nei sentieri in cui come fantasmi senza nome restavano antenati nei misteri del legno secolare, nell’afrore di carne cruda al rogo, dell’alloro bruciato nell’estate sconosciuta. Se vidi l’assassinio non sapevo neppure piangere, mangiai quel grumo sanguinante come bacca donatami da mano familiare. 15 Viola I. Gli orfani Occorre ritrovarsi. Su questo bagnasciuga reticolato. Dentro queste macchie di acquerelli e pixel. Nel cielo sfibrato. Occorre comunque ritrovarsi. L’immagine è sfocata. Un’ombra accartocciata ai piedi del mare. (Non lo so neanch’io, no: non lo so...) Sulla battigia desolata gli uomini in fuga cercano un rifugio e i deboli un lungo sonno. Così come orfani del mondo incatenati nella febbre a vita del giorno: è così, sì, va bene... Ma sebbene le tubature siano molte e la sorgente unica l’origine, Giulia, è dentro l’assedio. 17 II. San Lorenzo Versate il piombo della sera nella sera di piombo, alzate questa tumefatta scena. Montate le strade, i palazzi di cartone nella sera di piombo sparate i vostri cannoni a salve. 18 III. Visione Così c’è qualche cosa che tradisce. Se tornano è nell’ombra, destinati al silenzio. Un oltretomba di saluti e sputi dove le crepe nere spaccano le mura. Se scappa non ritorna eppure muta lo stesso, come un lago di cenere in cui sprofonda le mani con sete di rugiada. Porterai con te queste giornate di novembre? Non c’è nessuna strada. * (Dentro il paesaggio antico quale squarcio, quale verde-viola scomposizione? Sfibra scucito il telo. Decomponi il cielo. Nel velo digitale individua l’errore. Afferra il lembo opaco. Scorteccia la visione.) 19 IV. Preghiera Scorteccio il cielo alla ricerca di un’origine. La stella è bianca. Blu cobalto rovinato. Sia lode al padre e al figlio che tornano al cantiere. Notte di tram e nebbia. Pietà di me signore. Di fronte a questa storia anche il sole si incrina. Gli avanzi della luce. Madonna di lamiera. Le stelle della sera. Nebbia di punti viola. Foresta bianca e nera. Batteri di memoria. 20 V. Rappresentazione Partiamo, come un livello di separazione da infrangere. * In ogni cavo la sostanza mancante in forma di lacrima chiamare. Questo sembiante accarezzare. “Chiedo asilo? Decoro?”. Poeta, cosa voglio ignoro. Il quadro degli orizzonti è pieno. L’ambiente ridicolo. Il possibile designato vuoto. Ho sognato una casa che non c’era e una sorella nell’origine. Ma pure tu baciare vuoi nel modo in cui morire non sia più l’arido male. Ma l’altro non esiste. E per sognare servono i soldi. * Ho imparato l’allegria dei sampietrini bagnati, la via di casa quando piove e tardi la ragazza pallida che ti offre la mano. “Spariranno?”. Non so, tutto è svanito, e assieme al tutto anch’io che cerco ristoro in una canzonetta sbandata. Vorrei in fiamme vedere le vetrine dei call center, le agenzie interinali, e con pietà francescana aggiungere al fuoco nuovo fuoco. Ma tutto quanto ricadrà su noi che sete avremmo avuto 21 di sole e di fontana. * E San Lorenzo appare nella sua scomposizione di sabbia bagnata. Avremmo detto: certo, avanziamo, così come per fare un movimento qualsiasi. La rappresentazione è salvaguardata. Io voglio il meglio. Se fuoco non arde. E fontana ricorda. Verde. Blu. Volevo il meglio da questa generazione sballata di pasticche e psicofarmaci. Così certo, potremmo facilmente bruciare il vecchio mondo rappresentato, ma un enorme deserto illuminato a nuovo non era certo il fine di questa guerriglia! (La schermata del cielo gelidamente oggettivo) * E quella notte apparvero infuocate croci. Un cimitero di bottiglie incomprensibile ai più. Paesaggio verde e nero di infrarossi e fanale. In fila pisciavamo contro il mare. “Starò con i miei amici fino alla fine del mondo.”. 22 La gravità I. La noce è un uovo verde che d’estate tonfa. Con una pietra si spolpa sino al guscio del seme. Come due barche rovesciate assieme dunque s’apre, o si fracassa. La buona noce è eburnea sotto una fresca membrana. La marcia è una castana invece peluria di vermi. 24 II. I poeti di sinistra ridono dei poveri che ignorano la Storia. Ed io non so fidarmi di chi ride. Il mio corpo è impastato di grano e dell’acqua assolata; e della lattuga. Tiene l’odore della ricotta salata che si mette sulla pasta col sugo. Chi non sa nulla della storia d’Italia è mio fratello o sono io persino quando percorro a ritroso la strada che mi ha portato qua, dove non ci sta nessuno. 25 III. Il cardo I fiori dei giardini pubblici proprietà degli assessori comunali riproducono confini funzionali alla conservazione di padroni e schiavi. Ma la poesia è gramigna, selvatico fiore incolore o dal pessimo gusto, si manifesta al passaggio del matto (due o tre l’anno su queste contrade lo vedranno). E non serve al decoro né all’animo schiavizzato è sollievo. Come il cardo montano non colto e alla vista mistero del pianoro deserto, al pensiero fratello e il pastore di un tempo ci faceva il risotto. 26 IV. Roma implode; come il giardino crollato di mia nonna, per sempre vittima della mia incuranza nazionale. Era un terreno di violacciocche e quadrifogli. Ora ci gettano gli stracci e certi fogli smarriti e privi di candore. Una notte qualcuno ci lasciò persino il tubo dell’acqua aperto ed il rifugio di mia nonna diventò un pantano abbandonato da tutti e per l’essere italiano rifiuto di una generazione che ignora la grazia silenziosa della storia. Anch’io sono colpevole del male che regna vomitevole e banale. 27 V. Leggendo Eschilo La mia giornata è senza senso e non sarà possibile costruire una fortezza necessaria per dire è questo, è quello. Io sfoglio libri alla rinfusa come le pagine di Topolino e Focus. Non leggo Bataille, inizio Proust ma mi distraggo. E presto è l’ora di farmi un giro su Youporn. E quando arrivo a sera sono stanco. A volte penso che si perda crescendo la facoltà di intendere le cose, io per esempio non comprendo più cosa significhi avere un mondo interiore. Escluso dai candidi pepli e dai banchetti esecrabili, non il canto delle Erinni mi spezzerà la vita. E nessun coro che scavi in questo bulbo corroso. 28 VI. Canzone del poeta rifiutato Adesso voglio dirvi cose solide e dal colore opaco delle pere, ponendo giusta fine alle chimere del mio cervello in panne come un bolide. Se a voi non piace la parola vera e in quanto franca in ruvida maniera, tornate pure adesso nell’ovile di chi falsa il proclama notarile senza la gravità del mongoloide che sfonda il fegato e nel verso anche la bile. Ma sono stupidi i lettori del duemila e i critici altrettanto stanno in fila a non capire un cazzo di poesia spurgando stronzi nell’editoria. 29 VII. Ballata del poeta ridicolo Non essendo nato per essere schiavo di nessuno se non dello sgomento e dello stupore scriverò il mio libro senza senso alcuno che non sia quello del mio livido amore per la gravità delle parole che cadono dal ramo dell’albero del gusto cattivo giù fino alla terra del vero soggettivo che vivo sincero e più sicuro canto. L’Italia è la patria dei bravi poeti che ridono in coro di quello ridicolo che senza decoro s’incolla alle reti del porno amateur e si tocca un testicolo. Poi dopo che spinge l’orgasmo alienato muggendo e sognandosi morto sul prato del Grande Fratello ritorna al graticolo dell’arido osceno pensiero politico. 30 VIII. La rivolta Il mio sogno è una rivolta demenziale della realtà reale alla finzione di tutte le filosofe menate che manco per il cazzo praticate. Mi sembrate un fottuto corpo insegnante a cui sparare un peto devastante che per millenni puzzi di diarrea. Oh letterati, antica merda: bleah! Ai dotti preferisco i transessuali che almeno quando bruciano è davvero piuttosto a chi s’appiccia manco un pelo del culo se si brucia una scoreggia. Io scrivo quel che so e che tutti fingono di non sapere quando parla o pingono di una realtà falsata dal terrore di esistere nel vero o nell’errore della materia spoglia, in mezzo al sole. Io sento quel che dico e provo amore per chi contro il buon gusto della scuola di destra o di sinistra a cazzo scola la mistica allegria degli alienati. Menzogne oscure e limpide cazzate non mi riguardano, a me piace le parole che cascano nel sogno dell’estate e un succo vivo bagna, in mezzo al sole. 31 IX. Memoria La notte che M. mi fece un bocchino non ci potevo credere tante seghe mi ero già sparato pensandola a pecorino. Che quando ci si mise per davvero venni talmente presto che le feci un ditalino. Oh tamponare il suo franco culetto per la menata come un pugno stretto non è qualcosa che potrò dimenticar. Avea le labbra gonfie come le pornostar. Nell’altro letto dormiva Simone. A non proporle una scopata a tre sono stato proprio un coglione. 32 X. Nirvana (Club privé) Le vacche di quarant’anni in compagnia dei mariti spompinano travesti e pompati ragazzini. Per i glutei li afferrano o sedute sui divani divorano le travi dei figli dei vicini. 33 XI. Qui dove lo sbirro annusa il cazzo del ragazzo drogato e l’insegnante si fa sbattere dal pazzo del palazzo più vera è la sera costiera, oltre lo zip della cerniera. 34 XII. Qui finalmente il pazzo e l’assessore sono lo stesso cazzo e pompa il transessuale il giovane borsista e due romeni si sfondano la moglie del farmacista buono. 35 XIII. Talamone Lo scintillante brulichio del mare turchese su fondo smeraldo. La livida foschia delle distese silvestri, il castello saldo. E carni discese su ossario marino, sudario di pietra e conchiglia franta. Oh l’infinito naufragio cortese di muschio salino e fruscio di pianta... 36 XIV. Ma non sarà l’urlio del chiurlo tra gli olivi dell’Argentario a esigere il suo quesito impossibile. Chi vivo, tornerà? Chi senza un sasso in mano potrà dirsene certo? E come il grido si sgretolò del gabbiano? Oh tutti gli occhi che potrebbero allearsi sopra queste precipitate rocce che vi accingete a rimuovere. 37 XV. Dove il ninfetto senza senso si scaglia in verde nuvolaglia del silvestre blu risale contro il cielo quando il mare s’incaglia la ruvida ferraglia di un peschereccio straniero. 38 XVI. Sarà la voce a calcare il pensiero come una costola di tufo nero il mare; è la patria toscana che frana nella placenta della matria argenta. 39 Prima chiusura I. Lettera dal letto Ogni dorso che osservo dal letto, nello stato febbrile coperto, tiene l’odore del giorno in cui si incontrarono i miei stupori e l’angelo. Ogni incontro una fuga d’amore, che non potrà ripetersi. La vita di Esenin, donata dall’amico infiammato. Abitavamo a San Pietroburgo, era il 1905 quando ci ammazzarono. Un secolo dopo la neve copriva le scale slavate di Perugia e un’ebbrezza gelata trascinava le parole di Pasolini, Guy Debord... In Corso Garibaldi, lungo la via che conduce al Tempio, tiravamo un cordoncino usurato dal tempo per aprire il portone. Nell’antro era un cancello, oltre la zona oscura che proseguiva la volta delle scale a destra. Prometteva alla vista un giardino orientale, ovunque protetto dalle mura d’Etruria. Dietro i mattoni che alla sera si tingevano di sangue come alla carne di chi ci beve forte si illuminava una torretta templare dalle fatture arabesche, che ricordava il sogno. D’estate, quando l’ascensione lunare riflette il desiderio di viaggio, nel cielo incantato dal primo blu oltremare scintillavano le stelle come uno sconfinato esercito di occhi, e il campanile della Chiesa di San Benedetto Vecchio ti sembra un giocattolo. La fame di Rimbaud, l’inverno marchigiano. La sorella che nella lana guidava fino alla costa adriatica. Poi fu il disprezzo per la vita che ti fece tutto perdere. Da questo letto succhiavi le parole come lumache dal guscio impregnate d’olio e prezzemolo. Sognavi la vita come una promessa di naufragio, in cui si massacrarono tre cadaveri. Per nessuno di essi riuscisti a piangere e sulla fronte di uno volevi scriverci “COGLIONE”, con l’Uniposca nero, mentre il silenzio si faceva creta e una membrana di pietra rivestiva il tuo cervello annodato. Oh caro Andrea che mi facesti amare l’opera, quanto mi sei mancato. Io non t’avevo mai abbandonato. Sono tornato, dopo due settimane di lezioni e gelo. Ho studiato, fatto il bravo, alzato quasi sempre presto. Certo, risponderò a tutte le tue domande. No, non mi sono innamorato. Non mi innamoro più. Questo lembo di quaderno fu composto in condizioni diseguali, negli anni in cui l’autore simulò il suicidio e la continua perdita lo scaraventò dentro alla storia cinico come un ente provinciale. Ma c’era ancora l’antico ragazzo in lui che gli permise di cadere, finalmente diseredato dai proconsoli cittadini a cui doveva apparire ormai come il fantasma di un potenziale demenzialmente sciupato. Lui che l’indomani sarebbe stato infibulato come una promessa politica, ora ubriaco e sulla soglia dei trent’anni si masturbava con una foga insensata nel pieno centro della Piazza del Popolo, alle sette della sera. Oh tutto questo è follia, si disse, ma lui credette veramente di far ridere un amico 41 che passeggiava al suo fianco, quanto bastava per tornarsene a casa spensierato. Ma se la punizione cadde su di lui come una condanna inesorabile, fu per la crudeltà delle organizzazioni pubbliche. L’azione non si svolse entro gli spazi adibiti alla sborra. Una tipologia di errore che si sconta con l’esilio. Ora il mio amico percorre i sentieri delle pecore sulle montagne spelate dove camminano tossici e preti, e un giorno verrà ucciso e si farà cardo. Io ho speso tredici anni in tragiche fantasie d’amore e ora l’incanto è finito. Ci ameremo masturbandoci, sognando astratte fisionomie siderali. Ci sbirceremo il timbro della pelle tra le maglie scortecciate dei pixel, forse talvolta ci parrà che un fiato caldo ci accarezzi il collo. Se vuoi parlarmi, se vuoi rispondere a questa mail, ti aspetto. Tuo. Una specie di febbre mi aveva avvolto per tant’anni di selvagge metamorfosi, che solamente ora ci inizio a pensare veramente. Il cardo fu colto e se ne fece un segnalibro per le pagine secche di un diario. Era il 4 novembre del 1986, io me ne stavo disteso su un lettino apribile, cigolante. La rete sfondata, la stanza disadorna. Fuori della finestra il buio di Cassina de’ Pecchi disegnava attorno ai lampioni delle macchie inzuppate di luce. Oggi sono venute delle persone a casa ma io non ho sentito niente. C’è questa muffa sopra all’angolo della cucina che è venuta su dalla condensa e ogni giorno pare che si allarghi. Dovrai imparare ad aprire le ante, o le persiane dopo la doccia e la pasta. Ma fa freddo, fuori si muore. La muffa è turchina come un affresco del Trecento. Il vetro s’è velato del vapore della pentola in ebollizione, ci tracci con il dito il segno di una svastica; per riderne con gli altri, quando lo vedranno apparire. Erano venuti tutti qui a studiare, negli anni passati. Ma tutto questo buio e solitudine, il ronzio del lampadario, il cavo annodato e incrostato di calce; non poteva andare diversamente. Ieri dubitavi persino del sesso. La mano sotto il maglione infeltrito di Nadia ad afferrarne le mammelle lunghe e larghe. È la ricerca dell’adiacenza completa pensavi; il palmo della mano e quel gonfiore di ghiandole. Il ruvido fruscio dei peli al movimento ciclico dei polpastrelli, sotto l’elastico degli slip, ad aprire gradualmente un varco, una voragine d’argilla sotto il cavallo dei jeans. Pensare ad altro poi, fissare le tubature del termosifone o mordersi una mano. Ora ti tocchi mentre pensi ad altri che la possiedano, con le mani impastate di bava e di lava; come un’alcova racchiusa a nocciolo, in preda alle penetrazioni. Ti sei pulito con un fazzoletto che hai trovato sopra al tavolo della cucina, imbevuto di sugo. L’hai buttato dentro alla busta della spazzatura appesa alla maniglia. Una spina nel fianco, dentro alle buste dell’immondizia; a soffriggere l’aglio in padelle annerite dall’uso. Guardi il disegno appeso al muro e che fu il dono di una ragazza che si chiamava Nenena tanti anni fa, quando il mondo era ancora intatto. Un ragazzino a torso nudo, sul davanzale interno di una finestra, a guardare le galassie lontane. 42 Io ti sentivo vicina, come un’amica vera ai tempi delle medie, una sorella dei sogni sinceri e delle prime scoperte: Mellon collie degli Smashing Pumpkins, Edward mani di forbice… Oh così fragile è l’arrivo della gioia ed impossibile da trattenere. Ci sfiora come un alito improvviso, un odore imprevisto che non riesci a definire e perdi. Anch’io a sette anni feci la valigia, ero convinto di venire dallo spazio. Dovevo andare a ritrovare l’UFO con il quale ero venuto sulla Terra e mi sforzai di ricordare il luogo dove era stato sepolto. Era il giardino di mia nonna Maria, che ora è crollato e fatto a pezzi. Era un giardino dolce, pieno di violacciocche e quadrifogli. Tu certo non puoi esserne colpevole perché hai raccolto la saggezza dell’obbedienza, la natura dei fiori che altro dovere non hanno se non quello di esistere e sbocciare. Io invece mi risveglio da una guerra civile, la casa è divelta e chi conoscevo non si ritrova. E solo adesso mi ricordo di questa patria, dell’albero di nespole che mi alzava come un trofeo esibito al cielo. Se quei fumetti li hai veramente disegnati a tredici anni, sono bellissimi ed è un vero peccato che tu non riesca a trovare il tempo per continuare. Devi trovarlo il tempo ad ogni costo, scavare più rifugi possibile. Altrimenti poi ci si perde, ci si dimentica. E gli abitanti di questo luogo non cercheranno certo di aiutarti. Ogni libro è un incontro e un paese che amo, che volevo abitare e non ho ritrovato. E quando il Nazzareno mi ha chiamato, io l’ho preferito crocefisso. 43 II. Il gancio Il mio corpo ricusato dalla storia satura su una sedia che aspetta la secca sera, ricusato trascina una lettiera ad un angolo oscurato della cucina infetta. L’informe speranza di servire un giorno alle carezze sotto il mento di una, ma ricusato è il ritorno nella natura satura di monossido di carbonio e parole. Avevo imparato dagli scoiattoli del bosco a brucare il cranio del nemico sconfitto dove pure i passerotti succhiano la polpa delle carcasse in disfacimento. Per questo ho fatto del mio gancio vanga scavandole una giusta sepoltura. * Se ora gli eventi crollano come una valanga sulla cultura del nostro essere al mondo negatemi pure se una reazione dura della comunità feriale contro l’usura del tempo soddisfa come una falsa redenzione l’oblio del vento che disfa l’altura. L’ho uccisa perché un ordine tirava contro una crepa che doveva aprirsi. 44 Seconda chiusura I. La rete, questo ghiaccio che s’apre scardinando il tarassaco del tempo. Ci fu uno sguardo e fu l’amore forse, dei lineamenti riprodotti a pena. Ma nulla da ricordare, come dopo un incidente d’auto. Ma nulla da ricordare, come dopo un danno cerebrale. Camminare come pioppi verso le città distanti, questo bisognava fare: risplendere di una volontà assente. E non dirci più niente, perché vuol dire illudersi. Se torni adesso è una serranda chiusa, rotta la serratura, occorre entrarci dal retro. Ma sotto certe croste che si cascano in avanti, segnali murali a questo cuore ancora uguali. 46 II. Nessuno capirà la gravità che il fato immerse in un paesaggio alienato. Resterà qualche sterpaglia a rovinare il silenzio, ma nessuno ne capirà mai niente. Una fame di Galway, zuppa di funghi e scogliere di Moher, una domenica di settembre, quando il cielo imbiancato ti invita al viaggio. Io qui non ho più niente da scrivere. La vita non la comprendo. Adeguarmi è impossibile. Amo il silenzio e un mondo di parole chiede migliori giustificazioni. Ma non si può fuggire per rinascere dalla carcassa putrefatta di ieri. Ho sempre fatto quello che mi andava. E ancora voglio credere all’amore. Sogno una zuppa calda che mi risvegli il cuore. 47 III. Quando usciremo dalle gabbie elettriche, se troveremo pure noi un lavoro, la forma sarà il frutto che riposa di una gemma gloriosa. 48 IV. C’è forse un che destino nel riemergere; come arenato il fiume si fa fonte, così fonte coperta fu il battesimo del neofita non certo e peregrino. Avere non timore della musica; del pianoforte teso alla finestra, dove l’arancio del sole profonda tra i tetti delle case e gli aghiformi saluti dell’abete verde e i pini più cupi nella sete del tramonto. Qui vidi Orfeo emergere nell’ombra come memoria liquida che affiora da una ferita nel selciato vivo. Così lo sposalizio fu sorgivo nel bacio della storia col creato, nel rudere di pietra attraversato dal ruscelletto giovane e cattivo. 49 V. L’annunciazione Colui che era scomparso ora ritorna. Non ho bisogno della vostra opinione. La vita si apre come un bianco fiore. Il vento dell’annunciazione chiude le persiane, getta lacrime negli occhi. Così feci ritorno all’adorazione delle mie simili, al patto sacrale della fratellanza. Rinnego tutto e credo nei miracoli. Non ho bisogno di una vita normale. La luna nel corso fluviale anticamente si contempla e tace. (ad Alice) 50 VI. Autoritratto Siccome non c’ho niente da nascondere ti guardo in faccia ad occhi spalancati, lo sguardo opaco e bruno, il cupo timbro, la bruma scintillante dei malati. I capelli sono neri e trasandati come il vello randagio dei migranti, la barba incolta e gretta dei briganti che dentro al noce fecero la guerra. O uomo vegetale o noce e cardo, saremmo stati visti per miracolo, tornando via per sempre, un ricettacolo di rovi e di radici, il nudo tavolo. 51 VII. Ballata su un videotape rovinato La santa apre le braccia, braccia enormi di luce. La vecchia con le vertebre spaccate è nella luce. Volti che non resistete, volti di luce. È logico pensare che ne siamo usciti sconvolti. Per sempre rovinato il tuo saluto resta come inchiodato a questa percezione magnetica. * L’acqua del pozzo è ghiaccio, si riempie di foglie. Lo schermo c’ha la polvere come brina lunare. La terra succhia gli angoli di rami secchi e foglie. La sabbia delle pietre è sopra i trucioli dell’albero. Persino la mia testa se forzo l’unghia al cranio perde una pelle morbida, una polvere bagnata che è carne morta, una membrana da cambiare. 52