novita` sensazionali e spasmodici attaccamenti

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novita` sensazionali e spasmodici attaccamenti
Novità sensazionali e spasmodici attaccamenti
PAOLO ROSSI
1. Distruggere il passato
Tutti gli scienziati delle cosiddette scienze dure tendono a collocare la loro attività sotto il segno
di una concezione lineare del progresso. Riscrivono continuamente i loro manuali, ma riscrivono
continuamente «una storia all’indietro». Perché mai dare valore a ciò che attraverso la costanza e
l’intelligenza di generazioni di ricercatori è stato possibile abbandonare? Perché collocare fra le cose
degne di essere ricordate gli innumerevoli errori di cui è piena la storia umana? Nell’ideologia della
professione scientifica – come Thomas Kuhn mise chiaramente in luce – è profondamente radicata una
svalutazione della storia (1969, 168-169). Le nuove scoperte provocano la rimozione dei libri e delle
riviste «superate» dalla loro posizione attiva in una biblioteca scientifica e il loro spostamento in un
magazzino. Una volta trovata la soluzione di un problema i precedenti tentativi rivolti a trovarla
perdono attinenza con la ricerca, diventano «un bagaglio eccedente, un peso inutile» che è da
accantonare nell’interesse stesso della crescita della disciplina.
Rispetto al loro proprio passato artisti e scienziati hanno reazioni nettamente divergenti: «Il
successo di Picasso non ha relegato i dipinti di Rembrandt nelle cantine dei musei d’arte. I capolavori
del passato prossimo e di quello più lontano giocano ancora un ruolo vitale nella formazione del gusto
del pubblico e nell’iniziazione di molti artisti al loro mestiere. Si vedono pochi scienziati nei musei
della scienza, la cui sola funzione è, in ogni caso, o di commemorazione o di reclutamento, non di
produrre padronanza della professione. A differenza dell’arte, la scienza distrugge il suo passato»
(Kuhn, 1985, 381, 383).
Possiamo anche chiederci: per chi la scienza ha un passato? Ha un passato anche per gli
scienziati? Ma è indubbiamente vero che si può arrivare ad un Nobel per la fisica o la biologia senza
aver mai letto saggi o libri di fisica o biologia pubblicati più di dieci anni fa. Tutti gli scienziati
ovviamente sanno che la loro scienza ha un passato e nutrono una spiccata venerazione per i loro padri
fondatori. Alcuni anche li leggono, ma la diretta lettura di pagine di Newton o di Darwin non è loro
richiesta per essere qualificati o stimati in quanto scienziati. Chi legge quelle pagine è più colto. Ma
leggere o non leggere direttamente Newton è un po’ come ascoltare o non ascoltare musica.
Fino a poco più di mezzo secolo fa la maggioranza dei libri di storia della scienza avevano di
storico soltanto il titolo. In quei libri, lo stesso, identico contenuto di un manuale di astronomia o di
fisica o di chimica veniva esposto, anziché secondo l’ordine sistematico che normalmente caratterizza i
manuali, secondo l’ordine cronologico delle «scoperte» effettuate. Principalmente per questa ragione,
persone che non avrebbero mai dato la parola in un loro congresso a dei dilettanti in una qualche
materia scientifica, ritenevano invece del tutto ovvio e naturale che un professore di astronomia o fisica
o chimica o medicina, felicemente giunto all’età della pensione, si improvvisasse storico dalla mattina
alla sera e – assolutamente digiuno di ogni esperienza di studi storici e privo di ogni precedente
contatto con il mondo degli storici di professione – si mettesse di buona lena a scrivere un massiccio
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libro di storia. Ho detto che la grande maggioranza di quei vecchi libri di storico ha solo il nome storia
scritto sulla copertina. Per esporre la fisica di Galileo o quella di Newton c’è davvero bisogno di andare
in biblioteca e aprire uno dei massicci volumi delle loro opere? Non si fa prima a richiamarsi a ciò che
è davvero rilevante, ovvero alle loro scoperte (così come contenute in un buon manuale di fisica e di
astronomia), a cercare una qualche notizia sulla loro biografia? Ad aggiungere, se possibile, un qualche
gustoso aneddoto? A completare poi il tutto con un pubblico ed entusiastico elogio ad un grandissimo o
grande o quasi grande o anche solo rispettabile eroe del pensiero?
Walter Pagel, che è stato il maggior studioso di storia della medicina del secolo scorso si rese
conto con chiarezza di questa situazione e pubblicò nel 1945 nel Middlesex Hospital Journal un celebre
articolo che aveva uno strano titolo «The vindication of rubbish» che si può appropriatamente tradurre
in italiano come Una difesa della spazzatura. Quel titolo voleva dire una cosa molto semplice che è
stata troppo spesso dimenticata: se vogliamo fare storia dobbiamo occuparci non di come pensiamo
noi, ma soprattutto di come pensavano loro. Spesso, loro, consideravano evidenti cose che per noi non
lo sono affatto. Per capirli, dobbiamo anche rovistare entro discorsi che apparirebbero oggi superati o
addirittura insensati. Dobbiamo interessarci a cose che sono state dimenticate e che i nostri antenati e
predecessori hanno tentato di far scomparire dal mondo. Non dovremmo dimenticare mai che le
distinzioni fra le discipline costituite non sono sempre passate nei luoghi stessi in cui passano oggi; che
le verità che troviamo presentate come delle ovvietà nei manuali delle varie scienze sono sempre dei
risultati; che quei risultati hanno alle spalle processi lunghi e complicati e che dietro ciascuno di quei
risultati sono presenti lotte, contrasti, difficoltà, tentativi di individuare situazioni di crisi e di uscire da
esse.
In molti libri di filosofia e di storia della scienza ricorrono due citazioni (l’una di un grande
filosofo, l’altra di un grande scienziato del Novecento). Riguardano entrambe, in modi diversi, il
carattere centrale di questa dimensione della dimenticanza e la sua necessità nella e per la scienza.
Alfred North Whitehead affermò che «una scienza che non esita a dimenticare i suoi fondatori è
perduta». Max Planck, dopo una vita intessuta di polemiche sulla fisica quantistica, scrisse nella sua
autobiografia che le teorie mutano quando muoiono i suoi sostenitori.
La prima di queste due citazioni esprime in modo lapidario la necessità di un andare oltre, che è
anche un allontanarsi, una riformulazione di problemi, una continua e radicale reinterpretazione dei
risultati raggiunti. La seconda citazione esprime invece sfiducia verso un progresso concepito (sulla
base del modello delle «piccole aggiunte») come una continuità lineare. Le rivoluzioni, anche nella
scienza, possono essere molto traumatiche e implicare modi di pensare non familiari che appaiono del
tutto «inaccettabili» a coloro che hanno avuto una formazione condotta sui manuali che non avevano
ancora inglobato la svolta o la rivoluzione. Solo una formazione nuova, condotta sui manuali che hanno
«inglobato» la rivoluzione, può vincere l’attaccamento a ciò che è familiare, le resistenze al nuovo.
Proprio l’assenza di memoria, che è tipica della giovinezza, rende più facile, quando si congiunge con
gli aspetti «dogmatici» dell’insegnamento, un’accettazione non traumatica dei risultati delle
rivoluzioni.
Al fisico italiano Bruno Rossi è stata posta, nel 1990, una domanda che faceva riferimento alla
meccanica quantistica negli anni Trenta, quando egli, poco più che ventenne, studiava a Firenze: «Se ne
parlava, naturalmente. Non se ne discuteva però dal punto di vista filosofico: al contrario dei fisici più
anziani non avevamo infatti nessuna difficoltà ad accettare le nuove teorie, esse ci sembravano molto
naturali» (Rossi, 1990, 37).
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2. Oggetti che scompaiono
A differenza dei suoi contemporanei (ivi compreso Galilei), Tycho Brahe pensava che le comete
non fossero identificabili con «vapori», che fossero invece corpi solidi e pertanto (giacché quei corpi
attraversano le sfere) le sfere non avessero esistenza reale. In questo senso si può dire che Tycho ha
scoperto l’inesistenza delle sfere celesti, anche se impieghiamo la parola scoprire (con minori
problemi) in relazione ad oggetti nuovi, come per esempio i satelliti di Giove scoperti da Galilei e il
Nuovo Mondo scoperto da Cristoforo Colombo. Quasi sempre le «scoperte» ci appaiono creative
perché ci mostrano che il mondo è diverso da come si riteneva prima: affermano e,
contemporaneamente, negano. Quando Galilei scopre la natura della Via Lattea ci dice
contemporaneamente che essa è fatta di una moltitudine di piccole stelle e che pertanto non è una
specie di vapore fumoso. Quando guarda la superficie della Luna ci dice contemporaneamente che è
simile a quella della Terra e che pertanto la Luna non é una perfetta sfera lucida. Quando Champollion
decifra la scrittura geroglifica ci dice a quali immagini e a quali suoni quei simboli corrispondono e ci
dice anche che i geroglifici non sono tutti ideogrammi e non sono una forma di scrittura segreta
inventata da antichissimi sacerdoti per nascondere al volgo divine verità.
La storia della scienza è piena di asserzioni che riguardano oggetti che sono scomparsi dai
manuali e che sono di conseguenza scomparsi anche da ciò che consideriamo «mondo reale». Se invece
di praticare una scienza, ci interessiamo alla sua storia, incontriamo spesso teorie che hanno avuto
successo e che avevano al loro centro «oggetti» designati da termini che consideriamo oggi privi di un
referente. Nomi che furono intesi come designatori rigidi perdono (in qualche caso abbastanza
all’improvviso) la loro capacità referenziale. La storia della scienza non è soltanto piena di teorie che
sono state abbandonate. È anche piena di entità che furono ritenute reali e si sono poi rivelate
inesistenti. Le potenze angeliche che muovono le sfere, le anime motrici dei pianeti o del Sole (a
quest’ultima crede anche Keplero), la sfera delle stelle fisse (che è, come afferma Keplero, la «pelle» o
la «camicia» dell’universo); il flogisto e il calorico (di quest’ultimo parla ancora Sadi Carnot nel 1824);
il «seme femminile» dell’embriologia del Settecento; l’etere luminifero (che per Thomas Young, nel
1804, passa attraverso tutti i corpi materiali con resistenza minima o nulla, «così come il vento
attraverso una foresta»), sono soltanto alcuni di questi oggetti.
Se dagli oggetti si passa alle teorie (per esempio: ogni corpo ha bisogno di una forza per
rimanere in moto; la Luna non ha nulla a che fare con le maree; i fossili sono una duplicazione di forme
già esistenti in natura; la stabilità dei continenti e degli Oceani; l’esistenza di una correlazione fra la
forma del cranio e le capacità mentali di una persona; la fissità delle specie; la teoria dell’atomo vortice
o vortice molecolare di Lord Kelvin; la teoria della presenza-assenza nella genetica classica; la tesi –
accettata fino agli anni Cinquanta del Novecento – che spetti un’assoluta dominanza all’emisfero
sinistro del cervello; l’identificazione dei raggi cosmici con i raggi gamma; l’assunzione della
«simmetria di parità» (considerata valida fino al 1956), le eliminazioni appaiono altrettanto frequenti e
significative.
Nel caso dei nomi di oggetti, come una volta disse con esattezza Enrico Bellone, il referente
scompare dal mondo fisico e il nome, cessando di essere un designatore, conserva un significato solo
nelle biblioteche. Per quanto riguarda le teorie «abbandonate» le cose sono certo più complicate, ma,
anche in quest’ultimo caso, il riferimento alle biblioteche è importante. Perché una cosa sembra
indubitabile: salvo eccezioni rarissime, quelle teorie, un tempo ritenute vere, considerate confermate
dall’esperienza, spesso accanitamente difese contro coloro che intendevano negarle o metterle in
discussione, non interessano più gli scienziati. Conservano un qualche interesse solo per gli storici.
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3. Perdite di identità
Attorno alla Terra (prima di Copernico) ruotano la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte,
Giove, Saturno. Per poco meno di duemila anni la Luna è stata un pianeta. Nella seconda metà del
Cinquecento la Luna perse la sua identità di pianeta e divenne un satellite. Alla metà del Cinquecento
era un satellite della Terra per alcuni pochi astronomi e filosofi naturali. Nelle Università di tutta
Europa, per una larga parte del Seicento, si continuò a definirla un pianeta. Sono sicuro di aver letto
(anche se non ricordo dove) che esiste o esisteva un gruppo di umani dove si pensava (al livello
elementare delle esperienze sensibili) che non ci fosse una luna, ma una luna che, ogni sera, è un
oggetto singolo, un individuo, sempre diverso dalle precedenti e dalle future lune. Oggi, per tutti quelli
che hanno frequentato una scuola, in una qualunque parte del mondo, la Luna è un satellite della Terra.
Quando Galileo guarda la superficie della Luna vede che essa è simile a quella della Terra e che
la Luna non è (come invece si credeva) una perfetta sfera lucida, fatta di una materia diversa da quella
che è presente nel mondo sublunare (vale a dire collocato entro la sfera della Luna). Quando il Sole
sorge sulla Luna, illumina solo la cima dei monti più alti e quelle cime appaiono come dei puntini
luminosi su una superficie oscura, poi le pianure si illuminano e si allungano le ombre dei monti. La
Luna è un’altra Terra.
Quest’ultima frase apparve assurda e inaccettabile a molti. Da sempre l’universo era stato
pensato come duplice. Dietro la complicata macchina costruita da Aristotele e da Tolomeo stava
qualcosa che gli uomini sanno da sempre, da quando per la prima volta hanno alzato gli occhi verso il
cielo stellato. Il cosiddetto mondo a due sfere è duplice. C’è il mondo terreno compreso entro la sfera
della Luna che è il mondo del consumarsi e del finire delle cose, della varietà imprevedibile, della
malattia e della morte, del non sapere del futuro. Ma sopra la sfera della Luna c’è il mondo celeste dove
non ci sono variazioni ma solo regolarità dei moti, dove nulla nasce e nulla si corrompe, ma tutto è
immutabile ed eterno. Le stelle, i pianeti (uno di essi è il Sole) che si muovono attorno alla Terra non
sono formati dagli stessi elementi che compongono i corpi del mondo sublunare, ma da un quinto
elemento divino: l’etere o quinta essentia, che è solido, cristallino, imponderabile, trasparente, non
soggetto ad alterazioni. Della stessa materia sono fatte le sfere celesti. Sull’equatore di queste sfere
ruotanti (come «nodi in una tavola di legno») sono fissati il Sole, la Luna, gli altri pianeti.
Relativamente al mondo di lassù si possono fare quelle previsioni che, sulla Terra, quasi sempre
falliscono. Quel mondo è eterno e immortale, a differenza del nostro disordinato, caotico,
imprevedibile e insanguinato mondo. Ciò che si muove in quel mondo segue leggi inviolabili. Quando
lassù, in rari casi, appaiono moti imprevisti e imprevedibili (come quando appare nel cielo una
Cometa), allora è giusto avere paura e attendersi dolore e malattie, guerre e sventure.
Tra gli occhi di un astronomo del nostro tempo che fa uso del telescopio di Hubble e una di
quelle lontane galassie che appassionano gli astrofisici e accendono la fantasia di tutti gli esseri umani,
in qualche modo costringendoli a pensare l’infinito, sono interposti oltre una dozzina di apparati
mediatori del tipo: un satellite, un sistema di specchi, una lente telescopica, un sistema fotografico, un
apparecchio a scansione che digitalizza le immagini, vari computer che governano riprese fotografiche
e processi di scansione e memorizzazione delle immagini digitalizzate, un apparecchio che trasmette a
terra queste immagini in forma di impulsi radio, un apparecchio a terra che ritrasforma gli impulsi radio
in linguaggio per un computer, il software che ricostruisce l’immagine e le conferisce i necessari colori,
il video, una stampante a colori e così via.
Quando Galilei puntò verso il cielo il suo cannocchiale, le cose erano un po’ meno complicate
di oggi. Ma alle origini di ciò che oggi vediamo nei cieli c’è il suo iniziale, solitario gesto di coraggio
intellettuale. Per prestare fede a ciò che si vede con il cannocchiale, bisogna credere che quello
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strumento serva non a deformare, ma a potenziare la vista. Bisogna considerare gli strumenti come una
fonte di conoscenza, abbandonare l’antico, radicato punto di vista antropocentrico che considera il
guardare naturale degli occhi umani come un criterio assoluto di conoscenza. Cosa importa, scrive
Galilei, se il lume dei Pianeti Medicei non arriva a terra? Il fatto che ci siano oggetti non luminosi per
noi implica forse che quegli oggetti non esistano? E invece può darsi «che tali stelle veggon le aquile o
i lupi cervieri, che alla debil vista nostra rimangono occulte» .
4. Il mondo sbriciolato
Già nel 1539 Lutero, in uno dei Discorsi a tavola fa riferimento a «un astronomo da quattro
soldi» che sostiene che la Terra si muove, intende sovvertire tutta l'astronomia, si pone in contrasto con
il testo della Scrittura ove si dice che Giosuè ordinò al Sole, e non alla Terra, di fermarsi. Sei anni dopo
la pubblicazione del capolavoro di Copernico, Filippo Melantone, negli Initia doctrinae physicae,
ribadisce che coloro i quali credono che l'ottava sfera e il Sole non ruotino attorno alla Terra
sostengono argomenti empi e pericolosi contrari all'onestà e alla decenza. Calvino, senza mai citare
Copernico, riaffermava energicamente il valore letterale delle Scritture.
Si è molto discusso sull'atteggiamento di protestanti e cattolici di fronte al copernicanesimo. Una
delle leggende storiografiche più diffuse è quella che afferma la sostanziale indifferenza al problema
della Curia Romana e dei teologi scolastici. Solo tre anni dopo la morte di Copernico, nel 1546, il
domenicano Giovanni Maria Tolosani, legato a Bartolomeo Spina, maestro del Sacro Palazzo e per
l'occasione portavoce quasi ufficiale delle reazioni della Curia, prendeva energicamente posizione
contro il nuovo sistema nel De veritate Sacrae Scripturae (che è rimasto inedito fino al 1975). Il
copernicanesimo, agli occhi di Tolosani, ha un difetto costitutivo ed essenziale: viola il fondamentale e
irrinunciabile principio della subalternatio scientiarum in base al quale «una scienza inferiore ha
bisogno della scienza superiore». Non si tratta di una questione di poco conto. La prima delle scienze,
la teologia, offre al cosmologo una descrizione della struttura fisica dell'universo e nessuna scienza può
essere in contrasto con la teologia: «Copernico, abile nella scienza matematica e astronomica, è
difettoso nelle scienze fisiche e dialettiche, ed è imperito nelle Scritture». Il testo del Tolosani verrà
letto con cura da un altro domenicano, Tommaso Caccini, la cui violenta presa di posizione, espressa
nella predica del 20 dicembre 1614 in Santa Maria Novella, è alle radici della condanna del 1616 che
dichiarava «stolta ed assurda in filosofia e formalmente eretica» la teoria di Copernico. Nella Dedica a
Paolo III, Copernico ne aveva invocato l'autorità e il giudizio perché «impedisse il morso dei
calunniatori, nonostante sia proverbiale che non c'è rimedio alcuno contro il morso dei sicofanti» (cfr.,
Camporeale, 1977-78; Garin, 1975, 283-295).
I morsi si faranno, col tempo, molto numerosi, ma, come sempre di fronte al nuovo, non
mancarono caute adesioni di specialisti, entusiasmi assai forti anche se tecnicamente poco fondati,
sdegnati rifiuti e, soprattutto, manifestazioni di smarrimenti e di incertezze. Il De revolutionibus fu
ripubblicato a Basilea nel 1556 (tredici anni dopo la prima edizione) con in appendice la Narratio
prima di Rheticus che era il testo che meglio serviva ai lettori non specialisti per intendere il significato
del nuovo sistema del mondo. Le Tavole pruteniche di Reinhold (1551) furono riviste e ampliate nel
1557. L'anno precedente era stato pubblicato a Londra The castle of knowledge del medico e
matematico Robert Recorde (1510 ca. - 1558). Nel dialogo tra un Maestro e uno Scolaro, il primo
afferma che è prematuro discutere del moto della Terra, dato che l'idea della sua immobilità è così
fortemente penetrata nelle menti da far apparire folle la tesi opposta; il secondo nega che siano sempre
vere le opinioni accolte da molti.
Gli astronomi furono in genere molto cauti. Respinsero (con le due grandi eccezioni di Keplero
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e di Galilei) l'idea stessa di una dichiarazione di superamento del sistema tolemaico. Dopo il successo
delle nuove tavole, predominava fra di essi l'atteggiamento di Thomas Blundeville il quale affermava
(nel 1594) che con l’aiuto di una falsa ipotesi Copernico era riuscito a dare dimostrazioni più esatte di
quanto non fosse mai stato fatto prima. Può far dispiacere agli astronomi, ma le linee di demarcazione
fra chi rifiuta o accetta il copernicanesimo, o esprime incertezze di fronte al nuovo, non coincidono
affatto con quelle che separano gli astronomi professionali dai filosofi o dai letterati. I primi sostenitori
della verità copernicana, in Inghilterra, non sono certo facilmente inseribili fra i «moderni» o gli
assertori di un nuovo metodo scientifico. Robert Recorde, che già abbiamo ricordato, concepisce
l'astronomia come un’ancella dell’astrologia; il matematico copernicano John Dee è autore, oltre che di
una celebre prefazione a Euclide, della Monas hieroglyphica (1564) che intende svelare i segreti delle
virtù sovracelesti attraverso i misteri della Cabala, le composizioni numeriche dei Pitagorici e il Sigillo
di Ermete; a Ermete Trismegisto, e al poema Zodiacus vitae (1534) del ferrarese Palingenio Stellato si
richiama Thomas Digges che nella Perfit description of caelestiall orbes, aggiunta nel 1576 al
Prognostication everlasting del padre Leonhard, parla di una immobile orbita delle stelle fisse che si
estende infinitamente verso l'alto e che egli concepisce come «il palazzo della felicità e la vera corte
degli angeli celesti privi di affanni, che riempiono la dimora degli eletti». Intorno al 1585, Giordano
Bruno si era fatto difensore, in Inghilterra, della visione copernicana del mondo. Nella Cena delle ceneri, nel De l'infinito, universo e mondi (1584) aveva presentato la teoria di Copernico sullo sfondo
della magia astrale e dei culti solari, aveva associato il copernicanesimo con la tematica presente nel De
vita coelitus comparanda di Marsilio Ficino, aveva visto nel «diagramma» copernicano il «geroglifico»
della divinità: la Terra si muove perché vive attorno al Sole; i pianeti, come stelle viventi, compiono
con essa il loro cammino; altri innumerevoli mondi, che si muovono e vivono come grandi animali,
popolano l'infinito universo. Nei testi di William Gilbert, anch’egli in qualche modo «copernicano” non
mancavano temi vitalistici né richiami a Ermete, Zoroastro, Orfeo.
Nell’Università di Salamanca, gli statuti del 1561 stabilivano che il corso di matematica doveva
comprendere Euclide, e Tolomeo o Copernico, a scelta degli studenti. Sembra che Copernico non
venisse scelto quasi mai. E il caso di Salamanca è davvero eccezionale. Nelle università, anche dei
paesi protestanti, i due (o tre) sistemi del mondo vengono insegnati, l'uno accanto all'altro, fino alle
ultime decadi del Seicento. Va anche ricordato che i negatori della realtà delle sfere celesti (fra il 1600
e il 1610) non appartengono (come è il caso di Gilbert, Brahe, Rothmann) al mondo accademico. Nei
manuali di astronomia il numero dei negatori delle sfere aumenta in modo vistoso solo nel corso degli
anni Venti del Seicento e quella dottrina viene definitivamente abbandonata solo nel corso degli anni
Trenta.
Quando Giordano Bruno, nel 1583, tenne una lezione all’Università di Oxford, Gorge Abbot
scrisse quanto segue: «Quell’omiciattolo italiano intraprese il tentativo, fra le moltissime altre cose, di
far stare in piedi l'opinione di Copernico, per cui la terra gira, e i cieli stanno fermi; mentre in verità,
era piuttosto la sua testa che girava, e il suo cervello che non stava fermo». L'accettazione, da parte
della cultura, del nuovo sistema del mondo comportava la risposta a difficili domande. Che non erano
soltanto di carattere astronomico. Fa parte della grandezza di Galilei e di Keplero la loro decisa scelta
copernicana. Entrambi riconobbero Copernico come il loro maestro. Entrambi dettero contributi
decisivi a confermare la rivoluzione astronomica alla quale egli aveva dato inizio. Ma anche i loro
contributi faticarono non poco ad aprirsi una strada. I versi della Anatomy of the world (1611) di John
Donne, tante volte citati, danno alta espressione allo smarrimento, che molti condivisero, di fronte alle
novità che interpretarono come un crollo e come una tragica fine:
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La nuova filosofia richiama tutto in dubbio
l'elemento Fuoco è per intero spento,
il Sole è perduto e la Terra; e in nessun uomo
la mente gli insegna più dove cercarla.
Spontaneamente gli uomini confessano
che è consumato questo mondo,
quando nei pianeti e nel firmamento
cercano in tanti il nuovo. E vedono che il mondo
è ancora sbriciolato nei suoi atomi.
Tutto va in pezzi, ogni coerenza è scomparsa,
ogni giusta provvidenza, ogni relazione:
principe, suddito, padre, figlio sono cose dimenticate,
perché ogni uomo pensa d'esser riuscito, da solo,
a essere una Fenice ... (J. Donne, 1933, 202)
5. Oggetti della scienza e oggetti della storia della scienza
Come fu già affermato da Ludwik Fleck, nel lontano 1935, quanto più un determinato campo
del sapere si presenta come fortemente strutturato, tanto più i concetti che in esso sono presenti
diventano coerenti con l’insieme e suscettibili di definizioni reciproche che rinviano di continuo l’una
all’altra. Questa rete di concetti dà luogo, nelle cosiddette scienze «mature», ad una sorta di intreccio
inestricabile, a qualcosa che assomiglia non ad una raccolta di frasi, ma alla «struttura di un
organismo». In quella struttura tutte le singole parti adempiono ad una specifica funzione e nessuna
parte può essere tolta senza danno per l’insieme. Le parti sono in continua reciproca interazione e
l’organismo deriva da uno sviluppo comune. Ad una certa distanza dalla sua nascita e al termine di un
ciclo di sviluppo, quando una scienza si è assestata nella sua specificità e come tale viene riconosciuta,
le fasi iniziali dello sviluppo non appaiono più facilmente comprensibili: l’inizio viene compreso ed
espresso in modi assai diversi da come era stato compreso ed espresso agli esordi del processo.
Vale la pena di fermarsi su questo punto che ha un’importanza decisiva. Anche quando si usa
una stessa parola e il referente sembra lo stesso, l’oggetto di una scienza non coincide affatto con
l’oggetto di cui parla la storia della scienza. Un’opera storica come The meaning of fossils di M.J.S.
Rudwick (1976) non parla dei fossili nello stesso modo in cui ne parla un trattato di paleontologia del
ventesimo secolo. Quel libro prende in considerazione discorsi sulla natura dei fossili che non
coincidono affatto con quelli nei cui termini i fossili sono divenuti oggetti della paleontologia una volta
che essa si è costituita come scienza ed ha costruito, sulla base di una specifica definizione-teoria, il
suo specifico. Lo stesso vale, ovviamente, per la caduta dei gravi o l’evoluzione delle specie viventi,
per gli elementi della chimica o la nozione di cristallo.
Quando una scienza si è saldamente costituita, gli specialisti di quella scienza dimenticano il
passato del loro proprio sapere, soggiacciono tutti ad una stessa illusione: pensano che la loro specialità
sia esistita da sempre. Questa è un’illusione tipica alla quale si potrebbe agevolmente applicare la
definizione vichiana della «boria dei dotti [...] i quali, ciò ch’essi sanno, vogliono che sia antico quanto
il mondo». La storia delle origini è infatti una storia difficile, dato che «è proprietà della mente umana
ch’ove gli uomini delle cose lontane e non conosciute non possono fare niuna idea, le stimano dalle
cose lor conosciute e presenti» (G.B. Vico, Scienza Nuova Terza, paragrafi 127, 122).
I cultori di una specifica scienza recuperano alcuni oggetti ed alcuni temi da una varietà di testi
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che appartengono ad epoche molto diverse e a terreni oltremodo eterogenei. Non tengono in alcun
conto il fatto che il loro specialismo non esisteva ancora o si stava faticosamente formando. Il caso che
conosco meglio, che è quello della geologia, appare davvero esemplare. Nelle parti introduttive dei
manuali e nei due o tre libri ormai classici di storia della geologia vengono, su queste basi, tracciate le
linee di sviluppo di oggetti immaginari. Nella storia (o pseudostoria) di quell’oggetto immaginario tutto
diventa facile, lineare, progressivo. La realtà non pone ostacoli all’onnipotenza dell’epistemologia:
dopo aver osservato le cose si elaborano teorie e le teorie nuove abbracciano fatti nuovi. Le ipotesi
troppo audaci, le «superstizioni», i «romanzi di fisica», le discussioni su ciò che è o non è scienza e su
ciò che è o non è «fatto» per la scienza non trovano mai, in queste storie di comodo, diritto di
cittadinanza.
Non voglio infliggere ai lettori considerazioni attinte al mio proprio specialismo. Chiuderò
subito l’argomento con una citazione tratta da una recensione al mio libro The dark abyss of time (cfr.
Secord, 1985, 685) «Chiunque ha familiarità con lo sviluppo della scienza negli ultimi decenni, sa che i
confini tra le discipline non sono statici. Le scienze si avvicinano e si allontanano l’una dall’altra. Si
frammentano, scompaiono e si raggruppano in nuovi oggetti e specialità. Basta retrocedere di trecento
anni e i mutamenti non concernono solo le scienze, ma l’intero mondo della conoscenza umana. Cosa
c’è per esempio di comune fra gli ammoniti fossili, la scrittura cinese e le piramidi egiziane? Questa
domanda suona assurda ad orecchi moderni perché questi argomenti appartengono ora a specialità
scientifiche fortemente distinte fra le quali ogni rapporto sembra frutto del caso. Ma nel secolo XVII
l’affinità fra quegli argomenti non era un enigma, ma un modo della vita intellettuale dato per
acquisito. I fossili, le lingue antiche e i relitti delle civiltà perdute trovavano tutti posto in uno studio
unificato del passato: erano i segni del tempo». Facendo riferimento a questo stesso libro S.J. Gould ha
scritto che esso «mostra in modo convincente che la scoperta del tempo profondo combinò le
percezioni di quelli che noi oggi chiamiamo geologi con quelle di archeologi, storici, e linguisti, oltre
che teologi» (Gould, 1989, 16).
6. Attaccamento al magico
Una nuova verità scientifica non trionfa perché convince i suoi oppositori e li porta a vedere la
luce, ma perché capita che i suoi oppositori muoiano e si faccia avanti una generazione nuova alla
quale quella verità è diventata familiare» (Planck, 1949, 33-34). I nostri attaccamenti non riguardano
solo teorie in crisi o teorie invecchiate. Non hanno solo a che fare con la difficoltà di cambiare il nostro
sguardo sul mondo, di abbandonare ciò che per secoli o per decenni abbiamo considerato solido e
indiscutibile. Siamo ancora, in forme varie, ancora attaccati al lontano mondo che sta prima della
nascita di ciò che chiamiamo scienza. Hegel lo aveva visto con chiarezza: «i momenti che lo Spirito
sembra avere dietro di sé, Esso li ha anche nella sua profondità presente» (Hegel, 1836, 190).
Nell’Uganda del Nord, non lontano dal Nilo, Sebuya ha un incidente di macchina e muore.
Perché quella sera è morto proprio lui fra i milioni di macchine guidate da persone che in tutto il mondo
sono arrivate tranquillamente a casa? Dicono che i freni della sua macchina si sono rotti. Ma perché si
sono rotti proprio a lui? Certo non si può, come fanno i bianchi, chiudere l'argomento con la stesura di
un verbale. Non c’è il minimo dubbio sul fatto che Sebuya è morto perché qualcuno lo ha voluto morto
e gli ha fatto un incantesimo. L’unico e vero problema è sapere chi è questo qualcuno. In genere, e
anche di questo è davvero difficile dubitare, si tratta di uno stregone. Ne esistono due specie. Il primo
tipo è anche il più pericoloso e viene designato in inglese col termine witch. È il diavolo in sembianze
umane: è un personaggio molto minaccioso. Né l'aspetto né il comportamento tradiscono la sua natura
satanica. Non indossa abiti particolari e non ha strumenti magici. Non confeziona pozioni, non prepara
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veleni, non cade in trance e non compie incantesimi. Questo tipo di mago agisce per mezzo della forza
psichica che possiede fin dalla nascita. È una caratteristica della sua personalità. È un fatto che operi il
male e porti disgrazia, ciò non è frutto di una sua scelta, non gli causa piacere: lui è così e basta. Se gli
stiamo vicini, gli basta guardarci. La distanza non gli crea alcun impedimento. Può mandare incantesimi
da molto lontano, fino all’altro capo dell’Africa o ancora più in là.
Il sorcerer è invece uno stregone professionista per il quale fare incantesimi è una pratica o un
mestiere. Non ha in sé le forze distruttrici delle quali dispone il witch. Il problema principale, per la
famiglia di Sebuya, non è stabilire se i freni fossero buoni, ma se gli incantesimi che hanno provocato
la sua morte siano stati gettati da uno stregone-diavolo o da un mago o stregone di mestiere. Se Sebuya
è morto per colpa di uno stregone-diavolo, si tratta di una tragedia per la sua intera famiglia e per il suo
clan. La maledizione è caduta su un’intera collettività e la morte di Sebuya è solo il primo atto di una
tragedia che è appena iniziata. Se invece Sebuya è morto per volere di uno stregone mestierante, che
può colpire e distruggere solo una persona singola, famiglia e clan possono dormire sonni tranquilli
(Kapuscinski, 2000, 161-163).
Siamo sulla Terra (poco mutati al momento della nascita) da almeno diecimila anni. Ma la nostra
scienza ha poco più di trecento anni. Per più di novemila anni ci siamo affidati alla magia. Non
dobbiamo dimenticarlo perché solo questo vale a darci il senso che la scienza non è una forma eterna
dello spirito, ma solo qualcosa che abbiamo creato e che possiamo distruggere o perdere
inconsapevolmente. Il magico non sta soltanto dietro di noi. Sta anche dentro di noi. Ci sta in modo
inaspettato e profondo. E cercherò di renderlo evidente nelle seguenti quattro righe. Quando ci coglie
un’inattesa sventura o una grave malattia, la prima cosa che pensiamo, la prima domanda che ci
facciamo, che tutti si fanno, ha molto poco a che fare con le domande della scienza. È ancora quella di
diecimila anni fa, è quella degli odierni familiari e amici di Sebuya: Perché proprio a me?
SINTESI
Una volta trovata la soluzione di un problema scientifico, i precedenti tentativi volti a trovarla diventano
un peso inutile. Ma se vogliamo fare storia di una scienza dobbiamo occuparci non di come pensiamo noi, ma
soprattutto di come pensavano loro. Per capirli, dobbiamo rovistare entro discorsi che apparirebbero oggi
superati o insensati. La storia della scienza è piena di asserzioni che riguardano oggetti che sono scomparsi dai
manuali e che sono di conseguenza scomparsi anche da ciò che consideriamo mondo reale. Ad una certa distanza
dalla sua nascita e al termine di un ciclo di sviluppo, quando una scienza si è assestata nella sua specificità e
come tale viene riconosciuta, le fasi iniziali dello sviluppo non appaiono più facilmente comprensibili. Restiamo
tenacemente attaccati alle vecchie teorie. Max Planck, dopo una vita intessuta di polemiche sulla fisica
quantistica, scrisse nella sua autobiografia che le nuove teorie si affermano solo quando muoiono i sostenitori
delle teorie precedenti. In realtà, in forme varie, siamo ancora addirittura attaccati al lontano mondo che sta
prima della nascita di ciò che chiamiamo scienza. Come Hegel aveva visto con chiarezza: «i momenti che lo
Spirito sembra avere dietro di sé, esso li ha anche nella sua profondità presente».
PAROLE CHIAVE: Epistemologia, dogmatismo, storia della scienza.
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