Untitled - Barz and Hippo

Transcript

Untitled - Barz and Hippo
Con una pillola di leggerezza mescolata alla consueta ironia, Woody Allen sbarca finalmente con la sua
troupe anche in Italia. Dopo Londra, Barcellona e Parigi il 'tour' europeo approda a Roma,
coinvolgendo un cast italiano d’eccezione in un vivace e frivolo gioco di novelle intrecciate che,
ispirandosi al Decamerone di Boccaccio, castigat ridendo mores. Versione doppiata non esemplare.
scheda tecnica
durata:
111 MINUTI
nazionalità:
USA, ITALIA, SPAGNA
anno:
2012
regia:
WOODY ALLEN
soggetto:
WOODY ALLEN
sceneggiatura:
WOODY ALLEN
fotografia:
DARIUS KHONDJI
montaggio:
ALISA LEPSELTER
scenografia:
ANNE SEIBEL ADC
costumi:
SONIA GRANDE
distribuzione:
MEDUSA
interpreti:
WOODY ALLEN (Jerry), ALEC BALDWIN (John), ROBERTO BENIGNI
(Leopoldo Pisanello), PENÉLOPE CRUZ (Anna), JUDY DAVIS (Phyllis), JESSE EISENBERG (Jack),
GRETA GERWIG (Sally), ELLEN PAGE (Monica), ANTONIO ALBANESE (Luca Salta), FABIO
ARMILIATO (Giancarlo), ALESSANDRA MASTRONARDI (Milly), ORNELLA MUTI (Pia Fusari), FLAVIO
PARENTI (Michelangelo), ALISON PILL (Hayley), RICCARDO SCAMARCIO (Ladro d’albergo),
ALESSANDRO TIBERI (Antonio), CAROL ALT (Carol), GIULIANO GEMMA (direttore albergo),
PIERLUIGI MARCHIONNE (vigile), LINA SASTRI, SERGIO RUBINI, ISABELLA FERRARI.
Woody Allen
Considerato il più europeo dei registi americani, anche per via del successo da sempre incontrato nel
vecchio continente, Allan Stewart Konigsberg nasce il 1° dicembre 1935 a New York ed è uno dei più
noti e prolifici registi americani. I suoi genitori erano ebrei americani originari dell'Europa dell'est.
Una tranquilla adolescenza è accompagnata dai rapporti piuttosto litigiosi tra i genitori e da una carriera
scolastica non proprio esemplare: odia la scuola, mentre si distingue in vari sport e si fa notare tra gli
studenti per il suo straordinario talento nei giochi di carte e nei trucchi di magia, A quindici anni
comincia a scrivere gag per rubriche di alcuni quotidiani. Nel 1952 assume lo pseudonimo di Woody
Allen, in onore del celebre clarinettista jazz Woody Herman. Nel 1954, viene assunto dalla rete
televisiva nazionale ABC, della quale diventa l'autore di punta, scrivendo per noti programmi. Nel 1955
inizia a frequentare Harlene Rosen, studentessa di filosofia; i due si incontrano casualmente per
formare un trio jazz insieme all'amico di Allen Elliot Mills. Nel 1955 passa alla rete televisiva NBC e si
trasferisce a Hollywood. Nel 1956 Woody sposa Harlene, allora diciassettenne, e insieme tornano a
New York per andare a vivere a Manhattan. Dopo una breve parentesi di studi universitari, inizia a
lavorare anche per il teatro, come autore e regista, quindi prende la decisione di iniziare una propria
carriera come cabarettista e comico nei night club, dove riscuote grande successo.
Nel 1959, afflitto da attacchi di malinconia, decide di consultare uno psicoanalista. Da allora, e per più
di trent'anni, la terapia diventa un appuntamento fisso e la psicanalisi comincia a entrare nei suoi film.
Woody e Harlene divorziano bellicosamente nel 1962. Inizia a scrivere storie brevi per alcune riviste ed
opere teatrali e a lavorare per il cinema come sceneggiatore e attore di commedie (Ciao Pussycat,
1965). Nel 1966 si risposa con l'attrice e comica Louise Lasser. Louise presta la voce per il primo film di
cui Woody dirige alcune scene, Che fai, rubi? (1966), e interpreta un ruolo minore nel suo vero esordio
alla regia, Prendi i soldi e scappa (1969); è poi co-protagonista in Il dittatore dello stato libero di
Bananas (1971) e Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso (ma non avete mai osato chiedere)
(1972), ma già nel 1969 i due divorziano.
Nel 1975 dirige Amore e guerra, mentre nel 1977 abbandona temporaneamente il registro della
comicità scatenante per un film più pensoso e disincantato, Io e Annie, che riceve quattro Oscar: miglior
film, regia, sceneggiatura e miglior attrice protagonista a Diane Keaton, la sua compagna nel film e
nella vita (ma ancora per poco).
Negli anni Ottanta, dopo il successo di Manhattan (1979), considerato da molti il suo capolavoro, il
flusso di coscienza autobiografico di Stardust memories (1980), ispirato al cinema europeo ed in
particolare a Fellini e Bergman, e il mockumentary Zelig (1983) inizia ad affidare il ruolo di protagonista
a diversi alter ego che spalleggiano Mia Farrow, con la quale ora ha una relazione. Dopo Broadway
Danny Rose (1984) e La rosa purpurea del Cairo (1985) riceve il secondo Oscar per il campione
d'incassi Hannah e le sue sorelle (1986), una commedia seria, che mostra l'influenza di Bergman
nell'attenzione per i temi della morte e della religione, che tornano in vari film, benché con il filtro
dell'ironia. Nel 1987 dirige Radio Days, un omaggio autobiografico al jazz.
Si volge quindi a rinnovare la sua vena con alcuni film che escono dall'autobiografia, o la riecheggiano
più liberamente, come Crimini e misfatti (1989), riflessione divertente ma non banale sulle colpe che
non vengono punite. Nel 1992 interrompe la relazione con Mia Farrow, dopo che quest'ultima scopre in
casa di Woody alcune foto della propria figlia Soon-Yi, adottata con il precedente marito André Previn (i
due si sposeranno a Venezia nel 1997). Dopo l'espressionistico Ombre e nebbia (1992) Woody torna
ad atmosfere più serene con Mariti e mogli (1992), Misterioso omicidio a Manhattan (1993), per il quale
richiama Diane Keaton, e l'esilarante Pallottole su Broadway (1994), sulla perdita dell'ispirazione
poetica. Dopo La dea dell'amore (1995, per il quale Mira Sorvino vince l'Oscar), omaggio al teatro
greco, il musical Tutti dicono I love you (1996), Harry a pezzi (1997) e qualche altro film, Woody torna a
buoni incassi con Criminali da strapazzo (2000), che prende spunto da I soliti ignoti di Monicelli. Dopo
La maledizione dello scorpione di Giada (2001) che omaggia il cinema degli anni '40 e Hollywood
Ending (2002), chiama Jason Biggs e Christina Ricci per Anything Else, storia d'amore impossibile tra
un aspirante scrittore e una giovane dallo spirito libertino e indecisa su tutto. Con Melinda e Melinda
(2004) ritorna ad affiancare tragedia e commedia. Una tragedia ispirata a Delitto e castigo è Match
Point, il film del quale va più orgoglioso, dove si confronta con la casualità della vita in una visione
amara dei rapporti sentimentali. Nel film recita Scarlett Johansson, richiamata per Scoop (2006),
commedia leggera e tinta di giallo, come il precedente girata a Londr ae interpretata anche dallo stesso
Allen nei panni di un mago-prestigiatore. Sempre in cerca di nuovi set interessanti e più economici di
New York, sbarca in Spagna con Vicky Cristina Barcelona (2008), con la Johansson al fianco di
Penelope Cruz e Javier Bardem, in un gioco di gelosie. Nel 2007 torna al dramma con Sogni e delitti,
thriller con Ewan McGregor e Colin Farrell, mentre si rivolge nuovamente a un umorismo leggero ma
colmo di ironia con il newyorkese Basta che funzioni (2009), interpretato da Larry David ed Evan
Rachel Wood. Di nuovo in Gran Bretagna, gira Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni (2010), un'altra
commedia sull'illusione d'amore. Nel 2011 gira Midnight in Paris a Parigi, che riscuote il massimo
incasso mai raggiunto da un suo film e vince l’Oscar per la miglior sceneggiatura. Dopo To Rome with
love Allen si appresta a tornare a lavorare negli Stati Uniti: il suo prossimo film sarà probabilmente una
commedia dalle tinte drammatiche che racconterà una storia corale, all’interno della quale s’indaga il
rapporto tra due donne, una nevrotica, divertente e rozza (Sally Hawkins) e una sofisticata (Cate
Blanchett). Le riprese inizieranno tra pochi mesi a New York e San Francisco.
Curiosità: un film e tre titoli
Il film ha cambiato nome tre volte. Inizialmente doveva infatti intitolarsi Bop Decameron, con un
riferimento al ritmo frizzante del Be bop e alla famosa raccolta di novelle di Boccaccio.
Informato dalla distribuzione del fatto che pochi – soprattutto oltreoceano, ma anche da noi, secondo
Medusa, forse per quel “bop” – sarebbero in grado di comprendere il titolo, Allen decise un nuovo titolo:
Nero fiddled, che significa “Nerone suonava [il violino, anche se in effetti si trattava della lira]”. Il detto
inglese corrisponde al nostro “mentre Roma bruciava”, seconda metà della stessa nota sentenza riferita
all’imperatore romano. Il riferimento è evidentemente diretto alla leggerezza emblematica con cui i
personaggi del film si divertono, mentre la loro e altrui vita brucia, anche a causa delle loro stesse
azioni. Di nuovo, questo secondo titolo, in un primo tempo accettato, è sembrato inappropriato perché
poco comprensibile, questa volta soprattutto al di fuori dei paesi anglofoni. E’ stato così richiesto, infine,
un titolo più “user-friendly” che però non riesce a suggerire, come facevano con coerenza i primi due,
alcunché sulla natura della pellicola, location a parte. Nominare la città in cui le vicende si svolgono
dev’essere parso un modo per propiziare un successo analogo a quello di Midnight in Paris, primo film
per incassi nella carriera di Allen. Un titolo-pendant, insomma, più che un riferimento calzante al film.
To Rome with love, ha commentato qualcuno, suggerisce invece che vedremo Penelope Cruz
rinfrescarsi nella Fontana di Trevi, in omaggio alla Dolce vita di Fellini. Il che non guasterebbe, vista la
quantità di riferimenti (come del resto nella Parigi di Midnight in Paris) ai massimi luoghi comuni
dell’Italia, dai brani scelti per la colonna sonora fino alle svariate figure femminili in grembiule domestico
o vestititino a fiori. Ma questo giocare con gli stereotipi è ormai una scelta consolidata nel cinema di
Woody Allen. Lo stereotipo s’adatta bene a una cinematografia che, perfino nei film più drammatici,
mira proprio a dimostrare che, qualunque sia il livello culturale e sociale dei personaggi, tutti finiscono
per commettere gli stessi prevedibili errori, condividono analoghe debolezze e difficilmente soprendono
l’occhio del cinico. Woody Allen compensa puntualmente il suo pessimismo cosmico con lo sguardo
divertito e fresco con cui sorvola leggero sulle cattive abitudini delle persone, incluse quelle dei registi,
che come lui si affidano di preferenza a visioni turisticamente leccate degli ambienti, e le proprie, negli
immancabili riferimenti autobiografici: qui poi, Woody Allen è di nuovo presente, dopo sei anni (non
compariva più nei suoi film da Scoop), nelle vesti del regista teatrale, e con le sue tipiche idiosincrasie,
menzogne e snobismi da intellettuale in cerca di eterno riconoscimento.
Forse la volatilità dei titoli di questo lavoro ha promosso ulteriori fantasie: come nel caso di Roberto
Benigni, che ha voluto dire la sua. E fosse stato per lui, avrebbe intitolato il film Only in Italy, da un
commento esclamato da Allen sul set (spiega Benigni: “alla Garbatella è passata un'ambulanza con la
sirena accesa, mi ha visto, ha frenato, ha fatto marcia indietro, gli infermieri hanno fatto due foto con
me e poi mi hanno detto 'Ciao, mortacci tua. Annamo a piglià un malato'”). Non stupisce che il suo
suggerimento, motivato dalla convinzione che il film rifletta l’Italia delle escort e dei festini, ma opposto
alla visione globalizzante della morale di Allen, che afferma di non aver preso in considerazione la
situazione politica e sociale del nostro Paese, non sia stato accolto.
La parola ai protagonisti
Intervista a Woody Allen
Come le è venuto in mente Scamarcio per un piccolo ruolo? Non sapeva che da noi è un divo?
Davvero? Interessante… Io l’ho preso solo perché recita molto bene e sembrava giusto per la parte,
ma non avevo idea che fosse famoso. Dopodiché tutti quelli che hanno visto il film mi hanno detto: ma
quell’attore nella scena d’albergo è meraviglioso… È veramente interessante, perché ha davvero
carisma. Io non avevo mai sentito il suo nome, né quelli che hanno lavorato al film da New York, eppure
tutti alla fine ne parlavano.
Nel film, Scamarcio parla con l’accento pugliese. Gli ha anche permesso di improvvisare?
Sì. Alcune battute che pronuncia in scena sono proprio sue. Le ha aggiunte al momento, sul set.
Ricevere suggerimenti dagli attori è una cosa che a me piace sempre molto.
E Roberto Benigni?
Ha inventato molte cose anche lui. Gliel’ho detto fin dall’inizio: tutto quello che ti piace fallo, rimani
fedele al personaggio ma per il resto improvvisa come vuoi. Lui lo ha fatto, ed è stato molto sottile, non
troppo pazzo, proprio giusto.
Il più sorprendente è un non-attore, il cantante Fabio Armiliato.
Oh quello è stato difficile, perché volevo un tenore, non un baritono, e un tenore che sapesse recitare e
parlare un pochino d’inglese. Ho visto tanti tanti cantanti d’opera… Uno aveva una bellissima voce ma
non recitava, un altro non sapeva l’inglese, finché ho trovato lui: Armiliato ha vissuto a New York, parla
inglese, ha una bella voce, e non è affatto un cattivo attore…
Quando ha immaginato le storie?
Nel corso degli anni, venendo a Roma da turista, o per promuovere i miei film o suonare jazz. Scrivevo
un’idea e la mettevo da parte. Quando ho deciso di fare questo film me le sono riguardate: questa è
buona, questa terribile, finché ne ho trovate quattro. Avevo sempre voluto fare un film di storie
incrociate, non tanti episodi uno dietro l’altro ma mescolati fra loro.
Ha tagliato molte scene?
Un bel po’, circa mezz’ora. Quella in cui Penelope Cruz visita il Vaticano durava molto di più, come
quella in cui è a cena. Ho tagliato pure il mio episodio; durante le prove con il cantante d’opera il mio
personaggio apre il rubinetto di una doccia che non funziona, poi finalmente si apre ma la doccia si
riempie d’acqua, l’acqua sale, sale, mi arriva alla gola, affogo. Ci abbiamo messo una giornata a farla
ma alla fine non mi è piaciuta. Prese da sole erano scene divertenti ma rendevano il film troppo lento.
Dal film esce una Roma, e un Paese, con la tv e le escort in primo piano: ha avuto qualche
suggerimento esterno?
Solo per l’aspetto visivo. Ho usato la stessa art director di “Midnight in Paris”, che è venuta a
documentarsi prima che io venissi a Roma, mi ha detto tutto quello che c’era da sapere, e prima di
girare mi ha fatto vedere le possibili location. Nessuno mi ha detto nulla sulla politica e la cultura
italiane. Volevamo mostrare Roma nel modo in cui la vede un turista americano, solo un’impressione,
che può essere accurata o meno, ma che rimane un’impressione americana.
Tutti gli americani provano un sentimento di profondo affetto per l'Italia. Ritengono l'Italia un paese
molto ricco di calore, e un paese che ha dato un grandissimo contributo alla cultura mondiale nel corso
della storia. Un luogo molto alla mano dove si vive bene e dove la gente si gode la vita. Un paese che
rappresenta tutto ciò che è positivo. Gli americani hanno imparato a conoscere l'Italia attraverso il
cinema, i film, ma anche attraverso gli italoamericani che nel nostro paese rappresentano personaggi
abbastanza coloriti: persone calorose che hanno a cuore la famiglia. Personaggi in un certo senso
positivi e anche un po' enfatizzati.
Qual è stata la cosa migliore e la peggiore di questa esperienza?
La migliore lavorare con tutti questi attori, che sono stati anche migliori di quanto pensassi. La
peggiore… la luce del sole: troppo forte. Girando sempre in esterni abbiamo dovuto filtrarla
continuamente. La luce perfetta è quella che c’è in questo momento, mentre piove: se girassi adesso
avrei una fotografia soffice, leggera, bellissima.
Medusa, la coproduzione italiana, le aveva chiesto o raccomandato qualcosa prima di fare il film?
No, nulla, quando ho finito il film lo hanno visto e gli è piaciuto. Sono stati solo amichevoli, comprensivi,
mi procuravano qualsiasi cosa mi servisse. L’unica cosa che mi hanno detto è che il titolo annunciato,
“Bop Decameron”, non sarebbe stato capito.
In fondo nessuno dei quattro episodi del film ha un vero happy ending.
È vero. Succede a quello di Alec Baldwin, in quello mio alla fine la gente pensa che io sia un imbecille,
non sappiamo come andrà la vita dei due sposini italiani, e la storia di Benigni è molto triste, quando
capisce il piacere di essere famoso gliel’hanno tolto. In effetti nella quarantina di film che ho fatto quasi
nessuno ha un lieto fine.
Anche Roma, al di là dei paesaggi meravigliosi, conserva qualcosa di tragico che mette paura.
Sì, e penso sia una cosa comune a tutte le grandi città. Anche a Parigi, Barcellona, Londra, New York,
c’è qualcosa di grande, di eccitante, un senso di opportunità, di avventure, la sensazione che potresti
cambiare la tua vita, innamorarti, diventare ricco e famoso… Ma dietro ogni angolo c’è in agguato la
tragedia.
È a questo che fa riferimento la battuta sulla “malinconia di Melpomene”, la stessa che citava in
«Stardust Memories»? Veramente “malinconia di Melpomene” è un’invenzione del doppiatore, in
originale è «Ozymandias melancholia».
Oh sì, è un’espressione che ho inventato io. Viene dal poema “Ozymandias”, di Shelley, dove si parla
della statua colossale di Ozymandias che si sbriciola lungo i millenni. Insomma non c’è nulla che
significhi qualcosa, la vita non ha senso e la tristezza che ti viene quando cominci a pensarci è quella
che io ho chiamato “Ozymandias Melancholia”». Il senso che nulla dura per sempre, che non importa
quanto grande qualcosa sembri, quanto maestosa possa essere, alla fine il tempo distrugge tutto.
C'è nel film una citazione de Lo sceicco bianco di Fellini?
Non che io sappia, o che ne sia consapevole. Devo dire che io sono cresciuto con il cinema italiano. Me
ne sono nutrito, sono stato e sono un grandissimo ammiratore del cinema italiano. E in realtà tutto
quello che può sembrare si riferisca a film italiani è un qualcosa che sicuramente viene fuori perché io
l'ho assorbito nel corso degli anni, ma non si tratta di qualcosa di consapevole. D'altra parte è
impossibile per chi è cresciuto in quegli anni, come me, non essere stato influenzato dai film italiani che
venivano proiettati a New York. Film che io e i miei amici abbiamo visto e che hanno lasciato il segno.
Ed è naturale che nella realizzazione di un film si tenda ad essere influenzati da quello che si è
assorbito e recepito nel corso degli anni e del proprio sviluppo, ma questo suscita un'influenza
determinante di cui però non si è necessariamente coscienti o consapevoli.
Allen, che rapporto ha con il doppiaggio? Come si sente rispetto al fatto che altre persone diano la
voce ai suoi personaggi?
I miei sentimenti nei confronti del doppiaggio sono misti. C'è da dire che l'idea del doppiaggio di per sé
non mi piace affatto, anche perché in America non siamo per niente abituati a questo tipo di
procedimento. Sostanzialmente trovo abbastanza strano il fatto che qualcuno prenda la tua voce e la
rimpiazzi con un'altra. E infatti ogni volta che io mando i miei film in Europa cerco sempre di ottenere
delle copie sottotitolate, anche se poi spesso mi devo scontrare con una certa resistenza perché alcuni
paesi europei non sono abituati a leggere con i sottotitoli e lo spettatore preferisce il film doppiato.
Ovviamente dal punto di vista americano questo è un qualcosa di estremamente strano, quasi
sgradevole. D'altro canto però devo anche dire che il doppiatore che purtroppo oggi non è più con noi
[Oreste Lionello. In To Rome with Love è stato sostituito da Leo Gullotta] che ha dato la voce i miei film
in Italia mi ha reso un eroe. Lui mi ha dato la voce ma quello che è diventato famoso sono io. La gente
ha amato me grazie a quello che lui mi ha dato e grazie al lavoro che lui ha fatto. In effetti non so se gli
italiani mi avrebbero amato altrettanto se avessero visto i miei film in originale.
Recensioni
Tiziana Morganti. Movieplayer
Il rapporto d'amore tra la città eterna e il cinema americano ha origini lontane. Da quando William Wyler
ha avuto la geniale illuminazione d'immortalare Gregory Peck e Audrey Hepburn in sella ad una Vespa
durante le loro Vacanze Romane, la città ha acquistato agli occhi dei registi d'oltreoceano un fascino
romantico capace di trasformarla in un vero e proprio set a cielo aperto. Un'attività che ha dato la luce a
commedie rosa come Tre soldi nella fontana di Jean Negulesco (Come sposare un milionario, Papà
Gambalunga), ma che ha anche condannato Roma e i suoi abitanti a una serie di luoghi comuni ormai
non più rintracciabili nella realtà quotidiana. Così, tra stornelli e conquistatori dal fascino latino, si è
arrivati con fatica e un pizzico di timore fino all'esperimento di Woody Allen che, pur non rinunciando
completamente alle forme tradizionali del passato, con To Rome with Love riesce a consegnare una
visione personale non tanto del luogo, quanto dell'incanto esercitato su chi gli si avvicina. Un risultato
ottenuto grazie a una sovrapposizione di stili e atmosfere diverse, che hanno fuso la tradizione del
grande cinema italiano con l'ironia sempre acuta e irriverente di Allen. In questo modo il regista
newyorkese affida l'anima locale a un vigile d'ispirazione "sordiana" e a un attore un po' "vitellone",
mentre dall'altra parte dell'oceano rintraccia simbolicamente lo storico personaggio di Isaac Davis per
portarlo lontano da Manhattan e metterlo a confronto con la placida indifferenza di una città estranea.
All'età di settantasette anni, però, Woody non è più Harry a pezzi e, nonostante rimanga intatta la forza
travolgente della sua comicità, sembra aver raggiunto un compromesso con la propria natura ansiosa e
l'attrazione per la psicoanalisi. Così, attraverso l'interpretazione di Jerry, arrivato a Roma per "benedire"
il legame della figlia con un italiano, mette fine ai lunghi anni di amicizia con Freud tanto da volergli
chiedere il risarcimento per l'inutile terapia, ma non rinuncia al piacere di rappresentare l'elemento
disturbante, lo straniero che per paura di cedere all'invecchiamento e alla morte, tutto smitizza e
ridimensiona fino a mettere in scena un'improbabile versione de I Pagliacci nella sacralità de La Scala.
Ed è sempre con il punto di vista dell'estraneo che continua il suo percorso grazie alla presenza di altri
personaggi. Che sia uno studente americano d'architettura sedotto e abbandonato o una coppia di
sposi arrivati direttamente dalla provincia con troppe speranze, Allen non cambia prospettiva ma lascia
che il destino di ognuno venga sconvolto dalla natura incomprensibile e caotica di un luogo che
accomuna, senza alcun problema, bellezza e miseria umana. Perché oltre le panoramiche su Piazza
del Popolo e Trinità dei Monti, che sembrano cedere forse un po' troppo alla "propaganda" turistica, il
regista posa uno sguardo totalmente privo di giudizio sulle nuove ossessioni della nostra società,
mettendo in evidenza il desiderio di fama a tutti i costi, il fenomeno delle escort e un giornalismo
superficiale. Ed è in questa prospettiva che Roberto Benigni e Penelope Cruz hanno il compito di
rappresentare la spaesata tenerezza dell'uomo qualunque travolto dall'attenzione del mondo e la
sgargiante spontaneità del peccato. Due figure fuori da qualsiasi tranello retorico che la città accoglie,
punisce e protegge perché Roma, culla della civiltà e delle sue rovine, è un luogo che illude ma, allo
stesso tempo, tutti consola per i sogni infranti.
Paola Casella. Europa
Temevamo che la visione da cartolina e la sovrabbondanza di stereotipi italici potessero soffocare il film
di Allen nella banalità e invece ci ha piacevolmente sorpreso. I cliché fanno parte di un affresco che è lo
specchio fedele, ancorché affettuoso, della poetica tragicomica del regista e dell’Italia contemporanea,
che il regista ha osservato attentamente, senza falsi moralismi, ma con sguardo etico. Il film è
strutturato ad episodi, cosa che ha spinto una certa critica a definirlo «vanzinata» senza accorgersi
della profonda differenza che c’è fra una commedia compiacente e una profondamente satirica,
nonostante l’apparente levità.
C’è voluta una bella chiarezza di intenti per raccontare queste storielle minime in era Berlusconi
(quando Woody girava, «lui» era ancora in sella) e in una produzione Medusa. Il tema è la celebrità e la
corsa a vendere la propria dignità pur di avere su di sé la luce dei riflettori. Allen fotografa l’Italia dei
bassi istinti, delle gratificazioni immediate e del vil denaro. E dice: «La vita non dà soddisfazione
morale». Ma qualcuno non si svende, e per questo si salva.
Cristina Piccino. Il Manifesto
Se sei in contatto con Freud fatti ridare i soldi. Lui è sempre lui, Woody, nevrotico sotto ogni cielo, e
ancora di più se dotato di moglie psicanalista (la meravigliosa Judy Dench), e di una figlia giovane che
ha incontrato il principe azzurro a piazza di Spagna nelle sue vacanze romane... Un avvocato ma di
poveri e di indignados: «Un comunista» chiosa Allen in preda al panico sull'aereo che sta per atterrare
nella città eterna. (...) Che Roma è la Roma di Allen? Non ha la patina vintage da mercatino delle pulci
della Parigi di 'Midnight', ma con 'Volare' e 'Arrivederci Roma' è comunque fuori dal tempo. Ripercorsa
tra i miti del cinema, Fellini, 'Lo sceicco bianco', poco importa se poi oggi si inciampa sui set delle fiction
tv Roma diviene l'Italia, tutto ciò che da oltreoceano fa molto made in Italy, l'opera, le famiglione
esportate dagli italoamericani di cibo e eccessi passionali. (...) L'impressione è che Allen, in questi suoi
carnet di viaggio europei, prenda amabilmente in giro un po' tutti, mitologie da esportazione e
immaginari incrociati, in cui si è dissolta ogni possibile fantasia pop. Solo che sul sanpietrino si fa fatica
a rimanere in equilibrio, e la superficie romana è ineffabilmente più complessa di ciò che sembra. Il
barocco non è lì per caso.
Valerio Caprara. Il Mattino
Ci sono due modi, due sistemi, due atteggiamenti per avvicinarsi all’ultimo titolo firmato Woody Allen.
Quello che anela soprattutto a valutare il risultato dell’attesissimo match con la città eterna e quello che
s’appresta solo a calcolarne il peso specifico rispetto a una filmografia ricca e famosa. E’ impossibile
nascondere, però, che è già impressionante l’accumulo di correzioni, decifrazioni, divagazioni
stratificatosi sui media, quasi sempre schiacciando il primo pulsante: è vera o tarocca, fascinosa o
volgare, simbolica o scimmiottata, amerikana o universale la Roma che il regista ha catturato con la
cinepresa in sette settimane della scorsa estate? Nel titolo “To Rome with love” peraltro c’è, secondo
noi, la più banale quanto inattaccabile delle risposte: a settantasei anni suonati il genio di Brooklyn si
ritiene libero di guardare il mondo in relax, senza curarsi minimamente di trincerarsi dietro criteri poetici
sotto controllo. La Roma che questo sgangherato, scollato, imperfetto, accattivante, grottesco,
superficiale, reattivo e (auto)consolatorio girotondo restituisce in bella fotografia copyright Darius
Khondji non va e non potrebbe in ogni caso andare al di là del “visibile”: nel corso della proiezione
succede, in pratica, che tutti gli aggettivi di cui sopra rispondano presente all’appello dello spettatore,
che può decidere in seguito se essere più o meno indulgente.
Tornando a un metro di giudizio oggettivo, però, no, non si può certo dire che “To Rome with love” sia
un bel film o quantomeno degno della vetrina d’onore woodysta: i quattro episodi sembrano insieme
troppo lunghi o troppo brevi, si spartiscono in parti diseguali gli omaggi e le citazioni (a Fellini in primis),
cercano l’acquerello e trovano il musicarello (o viceversa) e la miriade di attori che vi sono sparsi
espongono rendimenti del tutto schizofrenici. Va bene che anche in questo caso Allen ha occhieggiato
uno scorcio storico del cinema, l’Hollywood sul Tevere e lo scambio di piroette fra i Sordi finto-cowboy e
gli Steve Reeves finto-centurioni; ma tra il mummificato Alec Baldwin, Penelope Cruz in versione Sofia
Loren, lo stesso Allen va da sé titolare del migliore rimpallo di battute con la moglie Judy Davis, il
replicante “cetto-qualunquista” Albanese, l’arguta auto-macchietta del bel Scamarcio e la spaesatissima
performance di Benigni quale “signor coglione qualsiasi” non è che si percepisca bene –anche a causa
di un doppiaggio poco felice- la cadenza a singhiozzo che rende malinconica e dubitativa la sua cifra.
Sembra esserci pane per i denti, retrospettivamente, per i pochi ma agguerriti detrattori di “Midnight in
Paris”, ma è bene ricordare come il regista sia sempre portato a riadattarsi e non sia un caso che laggiù
abbia percepito la polvere della mitologia e quaggiù gli spifferi e gli olezzi del melodramma lirico e della
sceneggiata. Come dimostra indirettamente il fatto che quando l’Allen cine-turista decide di sfoderare le
unghie dalla custodia cartolinesca il graffio fa male, eccome se lo fa. I giornalisti che nel film si
uniformano al trend demenziale ponendo domande futili e inessenziali, non assomigliano magari a certi
confratelli che nell’incontro romano con la stampa cercavano a tutti costi di fargli esporre solenni
disamine sul tramonto del berlusconismo?
Roberto Nepoti. La Repubblica
Non si può credere che Woody Allen, il genio della leggerezza intrisa di umori sferzanti, abbia fatto una
cosa tanto banale, una Vacanza Romana così farcita di luoghi comuni, tutta scandita a Volare e
Arrivederci Roma, che neanche ai tempi di Gregory Peck e Audrey Hepburn, senza esserne
consapevole. Senza averlo voluto proprio così, e senza aver previsto un senso preciso per questa
cartolina che se non venisse dall'altezza di Woody Allen sarebbe ridicola e offensiva. Quattro storie
corrono parallele tra le bellezze più folcloristiche della Città Eterna sotto una splendida luce arancio che
idealizza e rende perfetto tutto, lusso e stracci parimenti presi di peso dall'idea che un americano
poteva avere di Roma molti decenni fa. Un architetto americano (Alec Baldwin) diventato ricco e
famoso lasciandosi alle spalle ambizioni e velleità idealistiche e progettando centri commerciali, è
tornato in vacanza qui dove (a Trastevere naturalmente) da giovane per un po' visse, studiò, amò e
soffrì. Come l'apparizione di Bogart in Provaci ancora Sam si affianca a un giovanotto connazionale e
aspirante architetto (Jesse Eisenberg) assistendolo nel suo fallace invaghimento per una seducente e
volubile attricetta (Ellen Page) che fa presto a ritornare dal passeggero amour fou che dimentica tutto al
suo egocentrico carrierismo. Un ex regista operistico che non si arrende al pensionamento (Allen) viene
a Roma con la moglie (Judy Davis) per conoscere il fidanzato italiano della figlia e i suoi familiari.
Fissandosi nel voler lanciare il talento canoro del futuro consuocero, tranquillo gestore di un'impresa di
pompe funebri (e qui, come fosse Totò, Woody ci regala qualcuna delle non tante occasioni di ridere)
che solo sotto la doccia spiega tutte le sue innate e dilettantesche virtù di melomane. Un incolore
impiegato romano (Roberto Benigni) diventa inspiegabilmente da un giorno all' altro - dopodiché,
consumato in fretta, torna altrettanto repentinamente all'anonimato ma ormai irreparabilmente corrotto una persona famosissima, inseguita da paparazzi e microfoni, nonché da meravigliose femmine pazze
di lui, in ogni attimo del giorno e della notte. Infine, presa di peso da Lo sceicco bianco felliniano, ecco
una coppietta provinciale che arriva nella capitale con il miraggio di un'altra e più brillante vita. Lui
(Alessandro Tiberi di Boris) finisce per equivoco tra le braccia di una simpatica escort (Penelope Cruz)
e lei abbindolata da un pallone gonfiato del cinema (Albanese). Qualcosa Allen deve averci voluto dire.
Tra le pieghe di un teatrino così falso, di una sequela di stereotipi così consunti e grossolani. Già non si
può vedere quel "pizzardone" che apre le danze in mezzo a piazza Venezia moraleggiando su questa
città che assiste sorniona all'intrecciarsi di tante storie. Ma che dire di quel popolano in canottiera, che
dal pizzardone raccoglie il testimone nell'epilogo, il quale si affaccia da una finestra all'angolo tra via
Condotti e piazza di Spagna? Cioè uno che di un posto così non potrebbe pagarsi neanche un
centimetro quadrato. Che le insidie del futile, della civiltà dell'apparenza, dell'arrivare in vetta (in vetta di
che?) senza merito e senza fatica serpeggiano ovunque e sfiorano tutti. E va bene. Ma anche dell'altro.
Il personaggio di Woody, per quanto di estrazione artistica, non dice forse al cassamortaro canterino e
ai suoi familiari comunisti (lui ha deciso che sono comunisti) che in fondo è un piacere della vita anche
quello di contare i soldi meglio se tanti? E il saggio osservatore dei su e giù della vita (variazione sul
papà-autista di Sabrina) che durante la breve fama dell'impiegato gli ha fatto da autista, non dice forse
a Leopoldo-Benigni ormai tornato uno dei tanti che è sempre meglio essere ricchi e famosi che poveri e
anonimi? Infine l'architetto cui il giovane amico, nel quale rivede gli stessi grilli per la testa e gli stessi
errori di se stesso giovane, rimprovera di essersi venduto, non risponde con un laconico e
confortevolmente rassegnato «le cose succedono»? È la voce di Woody?
Alberto Crespi. L’Unità
È in corso un fraintendimento, almeno così ci pare, su To Rome with Love. È stato definito, addirittura,
«offensivo». Noi stessi facciamo mea culpa abbiamo sottolineato, il giorno della presentazione, quanto
l'immagine di Roma nel film sia fantascientifica (città pulita, niente traffico, parcheggio facile ). Lo
confermiamo ma proviamo a porci la domanda in modo diverso: crediamo forse che la New York dei
capolavori di Woody Allen sia «realistica»? Ma non scherziamo! Da Manhattan in giù la New York di
Woody è una città da fiaba, una quinta immaginaria nella quale ambientare storie fantastiche. Altra
cosa è verificare la congruenza di queste storie con il contesto in cui vengono calate: restiamo convinti
che Match Point sia ad esempio un film molto «londinese» e che Midnight in Paris potesse ovviamente
svolgersi solo a Parigi, mentre le quattro storielle di To Rome with Love potrebbero accadere dovunque.
Ma non è questo il problema e pensare che il film sarebbe migliorato se Woody l'avesse inzeppato di
smog e ambientato al Laurentino 38 è una follia. Allen non è un cineasta neorealista e non lo è mai
stato. Il problema, come suol dirsi, è un altro e si racchiude nella parolaccia che ci è appena sfuggita:
«storielle». Sì, purtroppo To Rome with Love è un centone di storielle deboli e copiate, se è vero che un
episodio è sostanzialmente un remake dello Sceicco bianco di Fellini e un altro è un goffo riciclaggio
dell'idea alla base di Provaci ancora Sam. Certo, anche in un Woody Allen minore si trovano idee
intelligenti e battute divertenti. Sono quasi tutte nella storia in cui Woody compare come attore: fa la
parte di un discografico in pensione che viene a Roma, con la moglie Judy Davis, per conoscere i futuri
consuoceri (la figlia si è fidanzata con un italiano). La trovata del consuocero cassamortaro che sotto la
doccia canta come Caruso è veramente geniale e vale tutto il film (un bravo al tenore Fabio Armiliato,
anche recitante). Anche l'episodio di Benigni strappa qualche risata, ed è brava e bella Penelope Cruz
nel ruolo di una escort con clienti super-importanti. Troppo poco, però, per salvare un film che
dimenticheremo presto, in attesa di un Woody più ispirato.