scatti nel tempo 1 Associazione Castello Immagini

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scatti nel tempo 1 Associazione Castello Immagini
Associazione Castello Immagini - pubblicazione della trentaduesima edizione di PHOTO ‘90 Val Tidone - aprile 2006
SCATTI nel
TEMPO
ph. Gianni Ansaldi
scatti nel tempo ___________________________________________________________
1
Pubblicazione della Ventinovesima Mostra Mercato
di apparecchi fotografici usati e da collezione - aprile 2006
Organizzazione:
Castello Immagini
Via Don Conti 6/10
Castel San Giovanni (PC)
Tel. 335 33.05.08
Fax. 0523 84.09.27
Presidente:
Ernestina Rigamondi
Direttore:
Dante Tassi
Segreteria:
Anna Dallanoce
Patrocinio :
Comune di Castel San Giovanni
Stampa:
Grafiche Lama s.r.l. - Piacenza
www.scattineltempo.it - Mail: [email protected]
www.photo90.it
- Mail: [email protected]
distribuzione gratuita
COPERTINA:
Gianni Ansaldi fotografa “Baccini”
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scatti nel tempo
FUORI BANDA:
gli obiettivi UV per la fotografia multispettrale.
di Marco Cavina©
G
li obiettivi fotografici
sono concepiti – come
logico - per fotografie
comprese nell’ambito dello spettro luminoso visibile
dall’occhio umano, approssimativamente per lunghezze d’onda
comprese fra 430nm e 700 nm; naturalmente esigenze specifiche di
natura tecnica, scientifica o creativa
possono richiedere l’utilizzo come
fonte primaria di sorgenti luminose caratterizzate da emissione che
esulano da questa ristretta sezione
dell’ampissima banda delle onde
elettromagnetiche, spingendosi oltre la soglia del visibile e da ambo
i lati, vuoi verso lunghezze d’onda
più corte (ultravioletto) vuoi verso
le più lunghe (infrarosso).
Naturalmente le ottiche convenzionali, per quanto di ottima qualità,
assecondano fino ad un certo punto
questo utilizzo ribaldo e disinvolto,
al di fuori dei parametri di progetto;
nel campo dell’infrarosso - fortunatamente- gli obiettivi richiedono
semplici precauzioni che si limitano ad una correzione di fuoco alla
coniugata anteriore (l’infrarosso va
a fuoco su una giacitura più remota
ed occorre impostare una messa a
fuoco leggermente più ravvicinata)
e l’impiego di un apposito filtro rosso scuro; naturalmente tutto questo
restando nell’ambito dell’infrarosso
prossimo, senza spingersi oltre gli
800-850nm, dato che già a 1.000nm
lo spostamento di fuoco è tale da
consigliare l’utilizzo di speciali
obiettivi superacromatici, mentre
andando verso i 2.000nm il vetro
non è più in grado di trasmettere
questa frequenza ed occorre utilizzare obiettivi con lenti realizzate in
Germanio, costosi oltre l’immaginazione e sconcertanti a prima vista, dato che le lenti appaiono come
realizzate in metallo cromato e del
tutto opache.
Incidentalmente, ho parlato di
frequenza e non di lunghezza d’on-
da; infatti è la frequenza di
oscillazione che connota il
colore percepito, dato che la
luce, se attraversa il vuoto o
solidi trasparenti come appunto il vetro, presenta nel
secondo caso una velocita
inferiore ed una lunghezza d’onda più compressa,
ma il colore percepito resta
identico perché non varia
la frequenza di vibrazione;
fra l’altro queste escursioni
Il datato Steinheil Quarz 776mm da banco
fuori spettro nel campo IR o
ottico, già dotato di lenti in Quarzo molato e
UV che ci paiono così rile- previsto per la ripresa UV fino a 200nm
vanti sono ben poca cosa nel
mare magnum dello spettro
che il Quarzo (Biossido di Silicio,
elettromagnetico terrestre
globale, con lunghezze d’onda che cristallino e trasparente) era in gravariano dai 10-11 cm dei raggi Gam- do di trasmettere la banda UV fino
ma (un miliardesimo di millimetro!) a lunghezze d’onda ben più corte di
ai 10+6 cm di certe onde hertziane quanto consentisse il vetro, permet(dieci chilometri di lunghezza d’on- tendo l’utilizzo fotografico di queste
frequenze; nonostante le difficoltà
da)…
Passando invece all’ultravioletto per reperire cristalli purissimi di
la situazione si complica un poco: dimensioni adeguate (gli immensi
infatti la banda dell’ultravioletto giacimenti del Brasile o dell’Arkanin senso lato parte da circa 430nm sas erano ancora da sfruttare) e per
(soglia del violetto visibile) e scen- la successiva lavorazione (il Quarde fino a lunghezze d’onda di po- zo è concoide, con sfaldatura cachi angstroms, arrivando ai limiti suale e molto duro, 7 Mohs contro
dell’area di copertura dei raggi X, 5,5 Mohs del vetro e 6,5 Mohs del
mentre il vetro ottico convenzionale migliore acciaio temperato), furono
non lascia passare nulla al di sotto realizzati obiettivi con lenti in Quardei 330nm, situazione peggiorata zo già nell’epoca adolescenziale
sovente dai trattamenti antiriflesso dell’ottica, come testimonia questo
o da speciali collanti per i gruppi di pregevole obiettivo della Steinheil
lenti (il famoso Absorban Leica, ad di Monaco di Baviera con focale
esempio) che tagliano praticamente di 776mm, denominato appunto
“Quarz” e la cui obsoleta dataziotutta la banda UV.
Fin dai primi decenni del seco- ne è tradita dalla classica montatura
lo passato si era presa coscienza retrò in ottone laccato dotata di fidi questa problematica (era noto lettatura da 88mm per l’impiego su
che l’UV annerisce l’emulsione al banco ottico; questo speciale obietCloruro d’Argento, ed era possibi- tivo era previsto dal costruttore per
le stabilire quali mezzi lasciassero l’utilizzo fino a 200nm di lunghezza
passare queste lunghezze d’onda e d’onda.
Effettuando una rapida carrellata
quali no) e si tentarono vie alternative prendendo in considerazione sulla banda UV, abbiamo visto che
altri materiali trasparenti con ade- da 430 a 350nm si riesce a sfruttare
guate caratteristiche ottiche e mec- il comune vetro ottico (in particolacaniche; ben presto ci si rese conto re, certi obiettivi da ingrandimento
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FUORI BANDA:
garantiscono ottima trasparenza fino
a 350nm perché le carte da stampa
BN sono molto sensibili agli ultravioletti); fra i 350nm ed i 230nm il
Quarzo prende il posto del vetro,
sovente affiancato dalla Fluorite
(Fluoruro di Calcio, cristallino) per
esigenze di correzione cromatica
date le particolari caratteristiche di
rifrazione/dispersione del Quarzo;
attorno a 200nm - 180nm il Quarzo
riesce ancora a trasmettere gli UV
ma l’aria assorbe queste frequenze
e si rende necessario agire nel vuoto; al di sotto di questi valori anche
il Quarzo assorbe massicciamente
le frequenze ed occorre utilizzare
la sola Fluorite oppure reticoli di
diffrazione; al di sotto dei 120nm
anche la Fluorite diviene opaca agli
UV ed è giocoforza continuare con
i soli reticoli di diffrazione (resi noti
di recente al grande pubblico dalla
nuova serie Canon EF DO, come il
70-300 IS DO USM) e sempre sotto vuoto; in questa configurazione
è teoricamente possibile continuare
fino a valori inferiori ad 1 (!) nm,
alla soglia dei raggi X.
Sull’altro versante - analogamente - anche le emulsioni presentano svariati inconvenienti al ridursi
gli obiettivi UV per la fotografia multispettrale.
della lunghezza d’onda: attorno a
230nm la gelatina inizia ad assorbire massicciamente le radiazioni e
si ricorreva ad emulsioni particolari
(le “celebri” Schumann e “Q”, star
del settore) specificamente formulate e caratterizzate da uno strato di
gelatina superficiale estremamente
sottile o dalla presenza dello strato
sensibile di sali d’Argento direttamente in superficie; era anche possibile spalmare di vaselina od olio
minerale fluorescente l’emulsione
convenzionale (naturalmente, per
ovvi motivi logistici, si parla di lastre piane) sfruttando per impressionarla la fluorescenza superficiale
indotta dagli UV.
Tristemente, scrivo coniugando al passato perché con l’avvento
massiccio del digitale questi scenari
sono quantomeno stravolti…
Appare dunque evidente che la
fotografia multispettrale nel campo
UV estremo è un cimento da autentici specialisti, tuttavia lo sfruttamento della banda più prossima
al visibile, nel campo da 220nm a
350nm, è di grande utilità in svariate applicazioni pratiche, dall’indagine poliziesca alla perizia su opere
d’arte svelando assegni contraffatti,
Una rara immagine del Quartz-Takumar 85mm f/3,5 con la dotazione di
filtri specifici per l’UV
affreschi raffazzonati e così via, rappresentando una nicchia di utenza
certamente ridotta ma da prendere
in considerazione per quelle grandi
Case che fanno dell’universalità del
loro sistema il veicolo promozionale principale.
Curiosamente, in tempi recenti, solo tre nomi eccellenti si sono
cimentati in realizzazioni di questo
tipo, ed il primo in ordine di tempo fu l’Asahi Optical Co., l’azienda
madre del celeberrimo brand Pentax , accreditata di un know-how di
prim’ordine nell’ottica e parimenti
affermata nel settore delle realizzazioni specifiche in campo medicale
e quindi attenta anche alle esigenze
tecniche “speciali”.
La Asahi Optical - ed il dato è
ignoto ai più - in realtà realizzò in
successione due obiettivi specifici
per la ripresa UV, di caratteristiche geometriche quasi omologhe
e che possono senz’altro considerarsi l’uno come logica evoluzione
dell’altro alla luce delle esperienze
acquisite; il primo modello venne
presentato nel 1963 (senza troppi clamori come è nello stile della
casa, portabandiera di un elegante
understatement, dal minimalismo
della comunicazione al formato lillipuziano di certi suoi peraltro ottimi
prodotti); stiamo parlando del Quartz-Takumar 85mm f/3,5, un obiettivo dotato di innesto a vite 42x1mm
e realizzato - come intuibile - con
l’apporto di lenti in Quarzo e previsto per un impiego estremamente
specializzato dato che era ottimizzato unicamente per l’impiego nel
campo UV, da 400nm fino a 200mm
con l’esclusione categorica del normale impiego in luce visibile.
L’obiettivo, prodotto dal 1963 al
1967 in ridottissima serie è caratterizzato da un semplice schema a
4 lenti tutte spaziate ad aria e presenta una montatura molto semplice, priva di ghiera per la messa a
fuoco che invece aveva luogo tra-
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scatti nel tempo
FUORI BANDA:
gli obiettivi UV per la fotografia multispettrale.
mite un soffietto di prolunga speci- cativa evoluzione del progetto, con l’attacco filtri da 49x0,75mm, l’inficamente approntato; la montatura evidenti migliorie concettuali e fun- nesto per il corpo macchina 42x1
anteriore dispone di un filetto filtri zionali: l’Ultra-Achromatic-Taku- e le quote esterne, nell’uso pratico
da 49x0,75mm mentre le quote ca- mar 85mm f/4,5, semplicemente possiamo avvalerci di un diaframma
ratteristiche prevedono diametro e UA-Takumar per gli amici.
completamente automatico su valolunghezza di 60mm ed un peso di
A fronte di una leggera riduzio- ri compresi fra f/4,5 ed f/22 nonappena 126g; il diaframma a prese- ne dell’apertura massima, irrilevan- ché di una ghiera indipendente per
lezione presenta aperture da f/3,5 ad te nello specifico utilizzo pratico, la messa a fuoco graduata da 0,6m
f/22; pare che due (!) soli esemplari l’obiettivo garantiva una correzione ad infinito che rendono l’utilizzo a
siano regolarmente censiti al giorno superacromatica non soltanto nello mano libera quantomeno praticabid’oggi.
specifico campo dell’ultravioletto le; il massimo ingrandimento possiCaratteristica qualificante di ma anche per tutta la gamma del vi- bile era di circa 0,21x.
quest’ottica è la presenza a corredo sibile e financo per buona quota delL’angolo di campo, come nel
di quattro speciali filtri, contenuti l’infrarosso, garantendo immagini precedente modello è di circa 28°
in un astuccio in vinilpelle rivesti- nitide e senza alcuna correzione di mentre il peso è leggermente suto in velluto verde coordinato con fuoco fra le operazioni di inquadra- periore ma comunque sempre molbarilotto porta-obiettivo;
to contenuto, ovvero 248
tali filtri non si applicagrammi; questo nuovo mono alla montatura filettata
dello, identificato dal codice
anteriore ma si montano
di produzione 43851, non
a pressione bloccandoli
prevede la ghiera di correin posizione avvitando un
zione fine della messa a fuonottolino godronato lateco propria del primo modelrale, esattamente come nel
lo, in quanto il suo schema
caso dei paraluce Nikon
ottico a 5 lenti in 5 gruppi in
serie HK.
Quarzo e Fluorite consente
Questi speciali accessola virtuale acromatizzazione
ri altro non sono che filtri
da UV ad IR, una caratteripassa banda che tagliano
stica unica nel panorama del
le frequenze indesidera1968 e certamente un vante, consentendo l’utilizzo
to per il Dr. Takahachi che
in luce UV a partire da
firmò il brevetto del gruppo
365nm oppure da appena
ottico (GB1128080).
253,7nm; siccome la mesUn elemento di contisa a fuoco sarebbe visivanuità col modello precemente impossibile con il
dente è rappresentato dalla
Il primo della classe: da 220nm a 1000nm senza un
filtro da ripresa applicato,
omologa
dotazione di filtri
cedimento, l’atout dell’UA Takumar 85mm f/4,5
ad ognuno di essi è abbispeciali, in questo caso contenato in tandem una vernuti in un bauletto corredo in
sione analoga che permette la sola tura e scatto nell’enorme interval- vinilpelle rivestito di velluto rosso
messa a fuoco e la visualizzazione; lo compreso fra 220nm e 1000nm, porpora che prevedeva anche l’alal momento dello scatto il filtro da trasformandolo in uno strumento loggiamento per l’obiettivo stesso;
visione va sostituito con l’omologo duttile ed efficacissimo che riuniva in questo caso la dotazione funzioin se le virtù di un nitido mediatele nale prevedeva cinque filtri in luogo
specifico per la ripresa.
Sull’obiettivo era anche presente convenzionale, di un superacroma- di quattro, e tutti adibiti a specifici
una scala micrometrica di correzio- tico corretto per l’infrarosso e di un tagli di frequenza in fase di ripresa
ne della messa a fuoco in riferimen- obiettivo speciale per l’ultraviolet- dato che la già citata correzione gloto alla specifica lunghezza d’onda to!
bale rendeva superflui i filtri per la
Anche
le
caratteristiche
mecutilizzata come sorgente luminosa.
messa a fuoco precedentemente forNel 1968, l’anno successivo al- caniche e funzionali presentarono niti; specificamente, due filtri erano
l’uscita di produzione di questo ar- migliorie di rilievo; se il barilotto dedicati alla ripresa nel campo UV e
chetipo, entrò in scena una signifi- condivide col precedente modello ben tre destinati a riprese all’IR con
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FUORI BANDA:
lunghezze d’onda progressivamente
maggiori: nel dettaglio, per l’ultravioletto si riproponevano filtri simili
ai precedenti, calibrati su 253,7nm
e 365nm mentre per l’infrarosso erano fornite le versioni R62B,
R68B ed un filtro “nero” 862nm;
contrariamente alla versione Quartz-Takumar 85mm f/3,5 questi filtri
sono dotati di normale attacco filettato 49x0,75mm e mentre i modelli
speciali “dedicati” 253,7nm, 365nm
e 862nm sono specificamente marcati e personalizzati “Ultra-Achromatic Takumar” sulla corona frontale, i due modelli rosso scuro R62B
ed R68B hanno una montatura più
convenzionale e sottile con la semplice dicitura Asahi Pentax Japan
nello spessore, suggerendo forse
un utilizzo in comune con Takumar
più convenzionali dal momento che
questi due filtri presentano un taglio di banda che permette riprese
IR anche con obiettivi non specialistici, con la semplice correzione di
fuoco.
gli obiettivi UV per la fotografia multispettrale.
Questo piccolo gioiello che garantiva prestazioni operative ben
oltre l’apparenza dimessa restò in
produzione fino al 1975, dividendo la gloria del blasone con un altro Takumar speciale, l’UA 300mm
f/5,6 apocromatico, ma anche in
questo caso l’eccezionalità del progetto fu più un acuto nelle intenzioni
ed una bella vetrina per il marketing
che un successo commerciale, dato
che al momento attuale non sono
censiti più di 20 esemplari in buone
condizioni e con la dotazione più o
meno completa; come nel caso del
predecessore, dunque, si tratta di un
obiettivo estremamente raro e certamente un istant-classic per il collezionista raffinato e competente che
ama mettere a manetta la sua attrezzatura e non soltanto spolverarla!
Assieme a questi sparuti reduci,
rari Nantes di una comunque non
folta schiera, sono arrivati a noi anche due prototipi, in tutto e per tutto simili al modello definitivo fatto
salvo per le engravings anteriori,
prive del riferimento al costruttore.
Risalendo alle specifiche depositate al brevetto è possibile analizzare lo schema, le caratteristiche
ottiche, di rendimento e le aberrazioni correlate all’UA-Takumar,
che peraltro non presenta il fianco a
critiche: scegliendo una focale “facile” ed una luminosità ridotta si è
garantita una qualità adeguata.
Nel frattempo la concorrenza
aveva preso atto di queste realizzazioni esclusive, senza però dare a
ciò un seguito operativo se non in
due casi rimasti isolati e rappresentati dallo Zeiss UV-Sonnar 105mm
f/4,3 (realizzato nel 1968 per Hasselblad) e dal Nikon UV-micro-Nikkor
105mm f/4,5 presentato molto più
tardi, nel 1984, in configurazione
AiS; stupisce il fatto che il brand
Canon non si sia mai cimentato in
questo settore sebbene all’epoca
fosse decisamente all’avanguardia
nello studio dei materiali cristallini
alternativi e stesse già progettando i
celebri FLF 300m e 500mm apocro-
Il percorso ottico della luce attraverso l’UA-Takumar
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scatti nel tempo
FUORI BANDA:
matici con due lenti in Fluorite ricristallizzata artificialmente; probabilmente è stata una scelta a priori
legata alla ridotta nicchia di utenza
potenziale e non certo a limitazioni
tecniche.
Tornando a noi, in quel 1968 che
stava arrembando come un frangente e dove tutto pareva in accelerazione la Zeiss presentò tre ottiche
in montatura Hasselblad destinate
ad un utilizzo specialistico e nate
per completare il già corposo sistema, fornendo validi strumenti per
impieghi altamente professionali e
specializzati, indirizzati al campo
scientifico e fotogrammetrico strizzando anche l’occhio al partner per
eccellenza, la NASA.
I tre pregevoli campioni erano
rappresentati dall’S-Planar 135mm
f/5,6 “bellows”, uno speciale obiettivo macro in montatura corta previsto per riprese da infinito ad 1:1
su soffietto, dal Planar 100mm f/3,5
- ottica praticamente priva di distorsione e dotata di elevatissima ed
uniforme risoluzione ai diaframmi
aperti per utilizzo fotogrammetrico
in coppia col Biogon 60mm f/5,6
“lunare” - ed infine dall’ancora più
esclusivo UV-Sonnar 105mm f/4,3,
ottica realizzata con lenti in Quarzo
e Fluorite e destinata, analogamente
all’UA-Takumar - alla ripresa nella banda ultravioletta così come in
luce visibile, anche se il primato
dell’acromatizzazione completa da
UV ad IR restava al campione Asahi
dato che lo Zeiss si accontentava di
una correzione limitata fra i 215nm
ed i 700nm, ovvero fino alla soglia
del visibile senza accedere all’IR,
probabilmente una scelta conservativa di Zeiss legata alla proverbiale ricerca della perfezione; del
resto quattro anni dopo la stessa
Zeiss avrebbe presentato il Sonnar
250mm f/5,6 Superachromat, tuttora insuperato per la correzione cromatica fino a 1000nm.
L’obiettivo e basato su uno sche-
gli obiettivi UV per la fotografia multispettrale.
ma a 7 elementi leggermente più
complesso rispetto al Takumar e fu
inizialmente prodotto in montatura
C, tuttavia essendo un obiettivo specialistico fornito solo su ordinazione
non condivideva con gli altri la livrea argento satinato ma - al pari del
Planar 100mm f/3,5 fotogrammetri-
Lo schema ottico dell’UV-Sonnar
105mm f/4,3 caratterizzato
dall’utilizzo di lenti in Quarzo e
Fluorite
co e dell’S-Planar 135mm f/5,6 macro - era fin dall’inizio anodizzato
in nero fatta eccezione per la baionetta B50 anteriore che era rifinita
in argento; la focale effettiva era di
107,2mm corrispondenti ad un angolo di campo di 41° sulla diagonale e di 30° sul lato, il diaframma
operava nell’intervallo f/4,3-f/32, la
messa a fuoco minima scendeva ad
1,8m (valore non eccezionale) ed il
barilotto prevedeva una lunghezza
di 87mm, un diametro di 78mm ed
un peso complessivo di 670g; naturalmente era servito dal classico
otturatore centrale Syncro-Compur
#0 comune agli altri obiettivi della
serie C; sul catalogo dell’importatore italiano Pecchioli - anno 1969
- questo obiettivo (fornito su richie-
sta speciale) era identificato dal codice n° 20133.
Nel 1982 la Zeiss presentò la nuova montatura CF dotata di otturatore
Prontor della Gauthier di Calmbach
ed anche l’UV-Sonnar fu ristilizzato
secondo i nuovi standard; incidentalmente quest’obiettivo speciale
- al pari del Sonnar 250mm f/5,6
SA - non ricevette mai l’antiriflessi
T* perché avrebbe proditoriamente tagliato la gamma UV; anche in
questo caso i numeri di produzione
sono estremamente ridotti, dato anche il costo assolutamente proibitivo (34.000.000 di lire il prezzo indicativo ad inizio anni ’90…): Rick
Nordin, guru canadese del sistema
Hassy, mi raccontava che nella sua
vita non ha incontrato più di cinque
esemplari e tutti in montatura C;
personalmente nel 2000 trovai ad
una mostra mercato un rarissimo
esemplare CF come nuovo a prezzo di saldo, 2.800.000 lire, affare
eccezionale sfumato a cagione della
consorte al seguito che mi osservava da dietro le spalle, calata in un
mutismo denso di significati…
La resa ottica è di tutto rispetto anche se, come accennato, una
messa a fuoco minima di 1,8m in
un ottica che equivale grosso modo
ad un 60mm nel 24x36 non consente di evidenziare dettagli minuti
come invece è prassi comune nella
ripresa UV dove i soggetti sono sovente particolari di opere d’arte o di
documenti e referti dermatologici
ravvicinati; probabilmente la scelta
è da ricondursi alla standardizzazione delle lavorazioni meccaniche:
infatti è facile notare come negli
obiettivi Zeiss C la parte basilare
della montatura con gli elicoidi e
le ghiere - nella maggioranza degli esemplari - sia riconducibile a
quella del classico Planar 80mm
f/2,8 con eventuali e spesso ridicole
aggiunte di cannotti anteriori di varia foggia (vedi, ad esempio, il Distagon 40mm f/4); evidentemente
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FUORI BANDA:
l’escursione dell’elicoide di messa
a fuoco propria del Planar 80mm se applicata ad una focale maggiore
- determina l’inconveniente a causa
della modesta variazione di tiraggio
disponibile.
Curiosamente, gli obiettivi C nel
1968 (anno della sua introduzione)
erano come detto “bianchi” mentre
l’UV Sonnar nacque già anodizzato nero; intorno al 1972-73 e fino al
1982 (anno del passaggio alla serie
CF) anche il resto del parco ottiche
fu anodizzato completamente in
nero mentre l’UV-Sonnar mantenne l’originale baionetta B50 cromata come segno di distinzione e
di appartenenza alla categoria degli
“speciali”.
Il terzo marchio che, buon ultimo, si cimentò in questa prova ardimentosa fu la Nippon Kogaku, forte
della sua filosofia volta a professionalizzare al massimo il sistema anche con l’ausilio di una sterminata
schiera di obiettivi, molti dei quali
per uso estremamente specialistico;
nel 1984 il celebre brand nipponico presento l’UV-micro-Nikkor
105mm f/4,5, obiettivo specialistico
che - alla stregua dell’UA-Takumar -
gli obiettivi UV per la fotografia multispettrale.
permetteva riprese senza correzione
di fuoco nel campo UV a partire da
220nm, in tutto lo spettro visibile ed
anche nell’infrarosso fino a 900nm,
cioè la banda formalmente sfruttabile con le convenzionali emulsioni
IR in commercio, rinunciando ad
andare oltre (mentre il Takumar era
dichiarato corretto fino a 1000nm
ed in questo resta imbattuto).
L’obiettivo, ovviamente in configurazione AiS, nasceva in pratica sul
barilotto del micro-Nikkor 105mm
f/4 AiS (più snello del precedente
Ai) sia pure focheggiando tramite un unico e lunghissimo elicoide
anziché due, copriva un angolo di
campo sulla diagonale di 23°20’,
presentava un diaframma che lavorava fra f/4,5 ed f/32 e pesava 525g;
la messa a fuoco minima (da cui il
mitico suffisso micro) scendeva ad
appena 48cm che consentivano di
passare direttamente dall’infinito ad
un rapporto di riproduzione di 1:2,
davvero utile sul campo; lo schema
ottico a 6 lenti in 6 gruppi prevede
lenti esclusivamente in Quarzo e
Fluorite anche se qualche fonte sostiene che in realtà la Nippon Kogaku non abbia utilizzato Fluorite
Nella foto di Jens Karlsson (storico fotografo Hasselblad)
parte del sistema Zeiss Hasselblad C del 1977, dove
spicca l’UV-Sonnar 105mm f/4,3 grazie alla sua baionetta
B50 cromata
ma vetro al Fosfato di Fluoro (simile ai celebri vetri Leica 554666
e 598671 responsabili della correzione apocromatica nel 180mm
f/3,4 apo-Telyt e nel 100mm f/2,8
apo-macro-Elmarit), vetri che grazie all’elevatissimo numero di Abbe
(bassissima dispersione) - garantito dall’additivazione con Fluoro
- possono eventualmente sostituire
la Fluorite cristallina, ma non mi
sento di perorare al 100% questa
ipotesi anche se Nikon ha sempre
disdegnato la Fluorite tacciandola
di eccessiva igroscopicità, fragilità
e dilatazione termica: infatti l’impiego della Fluorite in questi obiettivi UV serve solo marginalmente
per accordarsi (grazie al suo spettro secondario ridotto ed anomalo)
con le caratteristiche di rifrazione e
dispersione proprie del Quarzo ma
la funzione principale è legata alla
sua ottima trasparenza agli UV, anche ad onda corta, mentre il vetro al
Fosfato di Fluoro ha sì uno spettro
secondario molto ridotto e simile
alla Fluorite (i vetri sopra citati hanno un numero di Abbe pari a 66,6
e 67,1, davvero molto elevato) ma
non garantiscono il passaggio degli
UV fino alle frequenze corte coperte dall’obiettivo.
Sono note due versioni di quest’obiettivo: la prima è caratterizzata dal paraluce applicabile separato e dalla semplice indicazione
UV-Nikkor 105mm 1:4,5, senza il
suffisso micro; la seconda prevede
il paraluce telescopico integrato e la
denominazione completa UV-Micro-Nikkor 105mm 1:4,5.
In entrambe le versioni l’obiettivo era fornito con un dotazione
specifica rappresentata da una montatura per portafiltri basculante AF1, un portafiltri per gelatine vero e
proprio UR-2 e un filtro opaco per
UV che lascia passare solamente le
frequenze fra 220nm e 420nm con
un picco di trasmissione a 330nm,
da inserire nell’UR-2; quest’ultimo
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scatti nel tempo
FUORI BANDA:
gruppo si agganciava in cascata davanti all’AF-1 e si avvitava il tutto
all’obiettivo; sfruttando la doppia
montatura basculante dell’AF-1 si
toglieva dal percorso ottico il filtro
UV per la messa a fuoco, ruotandolo poi in posizione per lo scatto, con
gesti analoghi a quelli richiesti dal
polarizzatore per Leica-M.
Anche quest’obiettivo è stato prodotto in serie molto limitata
certamente a cagione del costo non
indifferente (circa 7.000.000 di lire
quando veniva prodotto a regime) e
tolto di produzione senza clamori a
fine anni ’90 in una fase di logica
potatura dei rami secchi che ha visto
altre illustri vittime come ad esempio il noct-Nikkor 58mm f/1,2 o il
fisheye-Nikkor 6mm f/2,8 da 220°;
del resto il brand Nikon Corporation
gode di rinomanza planetaria e non è
più necessario mantenere a catalogo
specchietti per le allodole venduti in
pochi esemplari all’anno per mera
esigenza di immagine; fra l’altro la
lavorazione del Quarzo e della Fluorite sono molto complesse e causano una elevata percentuale di scarti
di lavorazione, anche se il Quarzo
utilizzato oggi non proviene più da
cristalli naturali ma viene realizzato in apposite autoclavi a pressioni
inaudite con specifiche di sicurezza
molto severe (occorre che la distanza fra due autoclavi sia molto ampia, per evitare in caso di esplosione
un effetto domino a catena); anni fa
un collega mi mostrò un campione
di questo Quarzo artificiale, proveniente dalla Bulgaria ed in effetti
- osservandolo in sezione - palesava purezza ed omogeneità inaudite,
difficilmente riscontrabili in natura dove faglie, ricristallizzazioni,
ghiacciature od inclusioni sono all’ordine del giorno; sorridendo (ma
non troppo) mi raccontò che in quel
paese dell’allora blocco sovietico
in realtà le autoclavi per realizzare
in Quarzo erano stipate in un ca-
gli obiettivi UV per la fotografia multispettrale.
l’UV-micro-Nikkor 105mm f/4,5 assieme al suo gruppo ottico realizzato con
elementi in Quarzo e Fluorite
pannone a centinaia, e fitte come
mosche, con tanti saluti per la sicurezza…mi suggerì che nel caso di
cedimento di una singola unità probabilmente avremmo visto il fungo
atomico o qualcosa del genere data
la violenza dell’effetto a catena!
E’ noto che l’UV-micro-Nikkor
105mm f/4,5 non fu in realtà l’unico obiettivo UV realizzato in tempi recenti dalla Nikon; a metà degli anni ’60 andò in produzione
un obiettivo definito UV-Nikkor
55mm f/4 (il primo prototipo pare
sia stato rivelato a fine ’64 - inizio
’65), basato sul barilotto del coevo
micro-Nikkor-P Auto 55mm f/3,5 e
realizzato - analogamente al Quartz-Takumar 85mm f/3,5 di due anni
antecedente - per l’utilizzo esclusivo
in banda UV, anche se relativamente
al 55mm UV-Nikkor si dichiarava
un’acromatizzazione limitata al ristretto range compreso fra 300nm e
400nm; a tale proposito non veniva
fornito alcun filtro taglia-banda in
dotazione e si suggeriva di utilizzare
come sorgente luminosa la classica
“luce nera” di Wood oppure lampade ai vapori di mercurio schermate
con un filtro nero tipo UV-P25.
L’obiettivo si basa su un semplicissimo schema a 3 lenti in 3 gruppi (il classico tripletto di Cooke) e
pare non utilizzasse materiali cristallini ma solamente speciali tipi
di vetro, forse in virtù della ridotta
escursione disponibile nel campo
UV; si realizzava la messa a fuoco
in luce bianca e successivamente si
effettuava la correzione di fuoco per
la ripresa in banda UV spostando il
valore riscontrato al punto di fede
convenzionale e posizionandolo davanti ad uno speciale marker di colore blu che rappresentava la declinazione di fuoco richiesta per l’UV,
esattamente come si agisce anche
fotografando con pellicola infrarossa sfruttando il relativo riferimento
di correzione.
L’obiettivo presentava una focale effettiva di 54mm, pesava 230g
e disponeva di attacco filtri da
52x0,75mm; col micro-Nikkor-P
Auto 55mm f/3,5 non condivideva
scatti nel tempo ___________________________________________________________
9
FUORI BANDA:
solo il barilotto ma anche il sistema automatico di compensazione
del diaframma (graduato fra f/4 ed
f/32) che provvedeva ad aumentare l’apertura a distanze ravvicinate
per compensare su corpi non-TTL
l’assorbimento luminoso legato all’aumento di tiraggio, che nel caso
dell’UV-Nikkor 55mm non era trascurabile in quanto consentiva di
passare dall’infinito al rapporto di
riproduzione di 1:2, anche se non è
possibile riferire con esattezza a che
distanza di ripresa ciò corrispondesse in quanto la scala di messa
a fuoco dell’obiettivo non riportava misure metriche ma rapporti di
riproduzione finemente graduati;
qualche fonte riferisce una distanza minima equivalente a 0,36m ma
non è possibile confermare il dato.
Passato alla storia in sordina
questo primo, rudimentale modello, pare che la Nikon si sia cimentata almeno altre due volte sulla
focale 55mm con specifiche UV,
quantomeno allo stadio di prototipo: il primo caso si riferisce alla
versione UV-Nikkor 55mm f/4 AiS
del Settembre 1988, basato su uno
schema a 6 lenti in 6 gruppi analogo
all’UV-Nikkor 105mm f/4,5 e parimenti corretto nel campo da 220nm
a 900nm; altra analogia col modello
di focale maggiore è rappresentata
dalla messa a fuoco minima (24cm
in questo caso) tale da consentire un
rapporto di riproduzione di 1:2.
Una ulteriore versione di obiettivo
UV con focale normale sarebbe stata
realizzata per la NASA per impieghi
aerospaziali e non si hanno altri dati
se non quelli di targa: UV-Nikkor
55mm f/2; pare che fra la versione del
1965 e quella del 1988 sia stata calcolato un modello, poi abbandonato,
da 50mm ma al momento attuale non
trovo conferme attendibili.
Chiuso finalmente il cerchio sulla
ridottissima produzione di obiettivi
UV vorrei mettere a confronto gli
schemi ottici dei tre campioni Asahi,
gli obiettivi UV per la fotografia multispettrale.
Zeiss e Nippon Kogaku; dalla correlazione diretta si evidenzia come le prime tre lenti abbiano una foggia molto
simile: probabilmente i particolarissimi indici di rifrazione/dispersione del
Quarzo e della Fluorite utilizzati in
tutti i modelli impongono delle scelte
quasi obbligate come confermerebbero queste evidenti analogie.
Tanto rumore per nulla, dunque ?
In così poco si può riassumere l’epopea degli obiettivi senza vetro che
vedono nella luce nera ed evidenziano per magia l’invisibile ? Se la produzione, è vero, quantitativamente si
può definire trascurabile, dal punto di
vista concettuale è stata dirompente,
spalancando finestre di luce abbagliante nel buio delle onde corte e
possibilità professionali concrete per
molti tecnici specializzati, additando
vie inesplorate ed innovative nell’ap-
proccio a molte problematiche moderne; gli obiettivi UV non si sono
fermati a questo, hanno aperto anche
il terzo occhio a grandi fotografi come
Biorn Rorslett che ha trovato in questi
strani occhi di Quarzo uno strumento
creativo per immagini di grande suggestione e poesia, scoprendo nei moderni sensori CCD Nikon un valido
alleato grazie alla loro estesa sensibilità spettrale che rende l’utilizzo di
questi strumenti agevole ed inespensivo; in definitiva, gli obiettivi UV hanno strappato alla notte una porzione di
cielo permettendoci di documentare
un mondo inesplorato ed affascinante
altrimenti precluso, ed è questo uno
dei casi dove si può realmente parlare
di limpido progresso per l’umanità.
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scatti nel tempo
FUORI BANDA:
gli obiettivi UV per la fotografia multispettrale.
Le due splendide immagini di
questo articolo sono state realizzate
con l’UV-micro-Nikkor in digitale
con Nikon D2H sfruttando l’estesa
copertura spettrale del suo sensore;
occhi di Quarzo al servizio della
scienza ma anche della creatività.
scatti nel tempo ___________________________________________________________
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Pionieri della fotografia d’azione:
di Sergio Cappiello
la Goerz Anschutz
sportabili, adatte per ogni situazione di ripresa e che
utilizzavano la pellicola in rullo ormai ampiamente
diffusa. Ciò non toglie che i cataloghi di quasi tutti
i maggiori produttori dell’epoca continuavano a presentare fotocamere a lastre ( le cosiddette folding plate
cameras, secondo la medesima classificazione di tipo
anglosassone per cui abbiamo definito le prime roll-folding) dalle dimensioni e dal peso più ragguardevole
destinate, in un certo senso, ad un uso
più professionale. Quest’ultimo tipo di
apparecchi fotografici se continuava a
rappresentare l’ideale per la fotografia di ritratto o paesaggistica denotava
qualche limite per quel che riguardava
la fotografia d’azione o sportiva. Infatti gli utilizzatori lamentavano una
certa inadeguatezza relativamente a
quello che in Italia veniva definito lo
spiegamento della fotocamera e cioè
l’apertura della stessa in modo da renderla operativa. Un altro limite era poi
rappresentato dalla limitata gamma dei
tempi di otturazione. Fu così che l’industria dell’epoca dimostrò attenzione
alle esigenze dei fotografi sportivi e dei
fotogiornalisti progettando apparecchi
che potessero soddisfare le loro aspettative. Una delle prime in tal senso fu
sicuramente la ditta Goerz di Berlino.
Questo marchio, fondato nel 1886
da Carl Paul Goerz, aveva lanciato nel
1896 un particolare tipo di fotocamera
classificata come “strut-type camera”
cioè del tipo a struttura rigida (in cui la
e fotocamere più popolari e maggiormente
parte frontale ed il soffietto erano assicuutilizzate agli inizi del secolo scorso erano rati al dorso da quattro tiranti metallici richiudibili su
sicuramente quelle di tipo roll-folding; mac- sé stessi). Questa macchina era nota con il nome di
chine fotografiche leggere, facilmente tra-
L
12 _______________________________________
scatti nel tempo
Pionieri della fotografia d’azione:
Goerz Anschutz.
Essa nasce con delle caratteristiche peculiari: ha
una struttura compatta che le garantisce una estrema
maneggevolezza, una notevole rapidità nello spiegamento, una compattezza dell’insieme e, soprattutto,
un otturatore decisamente all’avanguardia. Fondamentale nella realizzazione di questa fotocamera fu
l’opera di Ottomar Anschutz, fotografo naturalista
nato a Lissa (odierna Leszo) città polacca a circa 40
miglia da Poznan. Anschutz si dedicava alla ripresa
di immagini di animali in movimento e competizioni
sportive. In collaborazione con i progettisti Goerz realizzò l’otturatore sul piano focale destinato ad equipaggiare la fotocamera che da lui stesso prese il nome
e che vantava la caratteristica di raggiungere il tempo
di otturazione di 1/1000”. Il successo fu immediato e
la sua popolarità presso i fotografi d’azione rimase in
auge fin tutta la prima parte del secolo scorso, tanto
che stimolò l’attenzione in tal senso di altri grandi
produttori dell’epoca che progettarono apparecchi altrettanto funzionali e dalle caratteristiche simili così
da entrare in diretta concorrenza con la fotocamera di
Berlino. Fu infatti attorno al 1909 che la ditta Ica di
Dresda commercializzò l’antagonista per eccellenza,
il modello Minimum Palmos, e fu solo nel 1919 che
la ditta Contessa Nettel di Stoccarda realizzò la sua
Deckrullo-Nettel.
Ma torniamo ad occuparci della nostra Anschutz e
osserviamola da vicino.
La macchina, chiusa, ha classica forma di un parallelepipedo sulla cui parte anteriore spicca l’obiettivo.
Nel mio caso si tratta di un Dogmar 1:4,5 f=13,5 cm
fissato sulla piastra portaottiche che ha lo spostamento verticale ed orizzontale e la scala delle distanze è
espressa in yards.
Sul lato sinistro trova posto la maniglia di trasporto, sotto la quale è posizionato un foro filettato per il
treppiede.
Sul lato destro una serie di comandi, apparentemente strani, regola il corretto funzionamento della
fotocamera. Innanzitutto la combinazione dei valori
espressi dal primo disco in lato con quelli indicati dal
disco in basso regola i tempi di otturazione (sistema
diffuso su numerosi apparecchi dello stesso tipo).
Immediatamente sotto il primo disco è posizionato il
sistema di armamento dell’otturatore, sotto il quale
si trova la leva di selezione del tipo di tempi impostato (T,B,I: la prima lascia la tendina aperta finchè
non viene premuto nuovamente lo scatto, la seconda
consente la posa fino al rilascio del pulsante, la terza
permette l’utilizzo dei vari tempi). Sotto ancora troviamo il pulsante di scatto e in fondo l’indicatore dei
la Goerz Anschutz
fotogrammi con il relativo azzeratore.
Sul lato superiore è indicata la scala delle combinazioni possibili per ottenere i vari tempi di otturazione
e vi è uno spazio vuoto destinato probabilmente ad
ospitare un mirino richiudibile su sé stesso consistente in due lentini separati destinati alla messa a fuoco di precisione (indicato generalmente con “newton
pattern”), così come nella maggior parte delle raffigurazioni della fotocamera in questione. Dico questo
perché nel modello di cui dispongo è presente solo
un tipo di mirino a traguardo consistente in una parte “a spiraglio” del tipo peep-hole situata nella parte
posteriore della fotocamera e in un riquadro metalico
ribaltabile nella parte anteriore della stessa. Ciò mi
permette di desumere che si tratta di uno dei primi
modelli della Anschutz, ma di ciò non ho trovato conferma in alcun libro né tantomeno su internet.
Nella parte inferiore è presente la presa filettata
per il cavalletto.
Nella parte posteriore, infine, trova posto il dorso
contenente il vetro smerigliato di messa a fuoco.
Per aprire la fotocamera si agisce sulle parti laterali
tirando in avanti con facilità la parte frontale. I quattro tiranti metallici si aprono consentendo l’apertura
del soffietto e la nostra Anschutz è pronta per l’uso.
Il formato delle lastre è della fotocamera in mio
possesso è di 8x10,5 cm, ma erano disponibili altri
formati: 6x9 cm, 10x12 cm, 13x18cm. Anche gli
obiettivi in dotazione erano diversi: oltre il già citato
Dogmar 1:4,5 f=13,5cm erano disponibili un Dogmar
1:6,3 e un Dagor 1:6,8 della stessa lunghezza focale.
Nel corso degli anni il nome Anschutz venne sostituito da Ango che sembra derivare da esigenze di
semplificazione del nome stesso della fotocamera =
ANschutz Goerz.
La strada intrapresa dalla Anschutz venne dapprima percorsa sulla stessa scia sia dalla Deckrullo che
dalla Minimum Palmos, come già abbiamo accennato
precedentemente. Ma, nel corso degli anni, vennero
elaborati due progetti che migliorarono le caratteristiche della macchina di Berlino: mi riferisco alla Ernemann Ermanox e alla Contessa Nettel Miroflex e
anche alla Ihagee Patent Klapp Reflex, modelli a cui
potremo dedicare forse spazio in futuro. A tal proposito è interessante notare come, a partire dal 1926
(anno di fondazione della società Zeisss Ikon) tutti i
modelli a cui abbiamo fatto riferimento tranne quello
della Ihagee siano stati prodotti tali e quali ma marcati Zeiss anche dopo l’assorbimento dei singoli marchi
originariamente produttori.
Le fonti da cui attingere su macchine di questo
tipo non sono numerosissime e spesso si stenta a met-
scatti nel tempo ___________________________________________________________
13
Pionieri della fotografia d’azione:
terle insieme ma tutto sembra concordare sul fatto che la fotocamera
di cui ci siamo occupati oggi resti
una delle prime, se non la prima
nella sua categoria.
Eppure, tempo fa, mi sono
imbattuto in una macchina del
tutto simile alla Anschutz sia
nella struttura che nella disposizione dei comandi che nello
schema costruttivo. A prima
vista sembra di concezione ancora più vecchia, se non altro
per il sistema di apertura che
si regge su tiranti di tipo meno
raffinato. Per quanto abbia cercato non sono riuscito a trovare
alcun nome impresso sul corpo
la Goerz Anschutz
macchina che mi consentisse di
risalire al modello o alla ditta
costruttrice. L’unico riferimento è una sigla: DRGM 105993.
Sappiamo che questa sigla corrisponde alle iniziali di Deutsche Reichsgebrauchmuster,
acronimo che si poteva incontrare su articoli di produzione
tedesca. Accanto ad un nome
aveva il significato di “Marchio registrato”, seguito da un
numero invece poteva indicare un brevetto. E allora, se
così fosse, questa fotocamera
che ho comperato e che assomiglia così tanto alla Anschutz
poteva essere a lei precedente?
Come ripeto, la struttura generale tenderebbe a confermare
questo sospetto. Per quello che
sono riuscito a sapere dovrebbe trattarsi di un modello della
ditta Wunsche fondata nel 1887
a Dresda e assorbita nel 1909
dalla Ica e nel 1926 riunita nella
Zeiss Ikon, ma non ne ho la certezza assoluta.
Il bello della ricerca in questo
campo è anche questo, non vi
pare?
www.fotografianegliannitrenta.
com
Anschutz e Wunsche1
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scatti nel tempo
1935 nasce la CONTAFLEX BIOTTICA
N
di Max Bertacchi
el 1935 la società
Zeiss Ikon progettò e costruì
una delle più
avanzate (e pesante, 1,5 kg, il
doppio di una Contax II) fotocamere di quei giorni, la biottica Contaflex (860/24), che
usava il formato 24x36 nel caricatore Leica che tanto stava
prendendo piede. Fu prodotta
solo fino al 1943. La fotocamera ha parecchi record al suo
attivo: fu la prima fotocamera
35mm dotata di esposimetro al
selenio incorporato, la prima
ad essere “cromata”, la prima
ad avere ottiche intercambiabili su una biottica, ed una delle
fotocamere più costose della
storia! La Contaflex era dotata
di 8 obbiettivi intercambiabili
(con un range compreso tra
il Biogon 35 e il Sonnar 135) ,
di otturatore sul piano focale
a tendina (a serrandina) come
quella della Contax o della Teanax, oltre al mirino reflex la
macchina era dotata anche di
un mirino galileiano con cornicette Albada per l’85 e il 135,
mentre il 50 mm corrispondeva alla larghezza del vetrino di
messa a fuoco stesso. Curiosa
la scelta di dotare la fotocamera di un’ottica da visione della
focale di 80mm (come qualla
delle Rollei, più o meno) tuttavia si otteneva lo stesso angolo
di campo di un 50mm dato che
lo schermo di messa a fuoco
era sovradimendionato (2x),
cioè ampio più del doppio
del 24x36 della pellicola, ma
rapportato ad essa come angolo di visuale inquadrata con
l’ottica standard inserita. Ovviamente questo escamotage
era pensato per rendere più
agevole e meno microscopica
l’immagine dello schemo e di
migliorare la capacità di mettere a fuoco.
Le ottiche erano le stesse
di quelle progettate e utilizzate sulla Contax II coeva,
ma con un diverso e più indaginoso innesto ed un peso
e una dimensione maggiore.
Nel mirino, oltre alle cornicette per le focali più lunghe,
era possibile disporre un in-
granditore Loupe simile ad
un piccolo cannochiale telescopico per le messe a fuoco
più critiche. Le due ottiche
grandangolari, il Biogon 35 e
l’Orthometar 35, necessitavano di un mirino aggiuntivo per
l’effettivo campo inquadrato.
Ovviamente la visione reflex
senza pentaprisma è dritta rispetto all’immagine verticale,
ma invertita orrizzontalmente
(come nelle biottica di formato maggiore del resto). L’unico
modo concreto per fotografare
oggetti uin movimento era
scatti nel tempo ___________________________________________________________
15
1935 nasce la CONTAFLEX BIOTTICA
pertanto utilizzare il mirino
Albada, che tuttavia soffriva di
un difetto di parallasse notevole considerando la distanza
ancora maggiore dall’ottica
di ripresa di quanto non fosse
per le fotocamere non reflex.
Come al solito Zeiss dotò la
fotocamera di un parco accessori per i più svariati impieghi,
oggi molto rari da trovare. tra
le ottiche spiccano per rarità
i grandangolari, davvero mai
visti dal sottoscritto, e tra i tele
il più raro è senz’altro il costoso sonnar 85, prodotto per
un sol anno, il 1935, e quindi
scomparso dal listino già nel
1936.
Contaflex TLR Lenses
35/4.5 Orthometar
35/2.8 Biogon
50/2.8 Tessar
50/2 Sonnar
50/1.5 Sonnar
85/4 Triotar
85/2 Sonnar - disponibile nel 1935
ma non più prodotto ne 1936
135/4 Sonnar
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scatti nel tempo
EL ALAMEIN: 23 ottobre 1942, una Leica in guerra
L
Un racconto di Pierpaolo Ghisetti
e ore che precedono l’alba nel deserto sono sempre le più fredde e comunque quel deserto non
era poi così ‘deserto’.
Migliaia di uomini con centinaia
di carri armati, cannoni, autoblindo e camion aspettavano solo l’alba per ammazzarsi a vicenda: quel
mattino, nell’immensa e desolata
piana di El Alamein, molti sarebbero morti senza neanche sapere bene
dove si trovavano.
Il capitano Giuseppe Sala, del
Regio Esercito Italiano, infagottato
in un vecchio cappotto, era rintanato in una buca insieme ai pochi soldati del suo battaglione che ancora
erano in grado di combattere. Si
nascondevano dietro un mucchio di
sacchetti di sabbia, con la mitragliatrice Breda e tre mortai da 81mm
come uniche armi pesanti rimaste
in dotazione al battaglione. Tutti gli
uomini sapevano che dall’altra parte
gli inglesi guidavano i potenti carri
Grant di fabbricazione americana,
e che dagli alleati tedeschi c’era da
aspettarsi poca collaborazione.
I panzer III e IV, che costituivano il nerbo delle truppe corazzate
dell’AfrikaKorps, erano stati impegnati per giorni nel tentativo di
sfondamento delle linee alleate, ma
ormai ne rimanevano ben pochi e
quei pochi con scarsissime riserve
di carburante.
Ormai albeggiava. Sala estrasse
dall’astuccio il binocolo e vide che
in lontananza qualcosa cominciava
a muoversi: dopo l’intenso bombardamento notturno, che aveva illuminato a giorno il deserto, era venuto
il momento dell’attacco frontale.
‘Pronti’ mormorò sottovoce al
mitragliere, mentre questi, per tutta risposta, caricava l’arma con un
colpo secco. Camminando a testa
bassa nella trincea, il capitano dava
dei leggeri buffetti ai soldati ancora
addormentati, ma la maggior parte
di questi era già sveglia e all’erta.
Sala non era certo un tipo emotivo
: era stato volontario negli Arditi
nella Prima Guerra Mondiale e ferito ad un ginocchio sul Piave, nella
battaglia decisiva che aveva causato il crollo definitivo dell’Impero
Asburgico; poi aveva partecipato
alla guerra in Etiopia, agli ordini
del Maresciallo Graziani nel 1935.
Quelli come lui, ai tempi della battaglia del Piave, erano chiamati ‘fegatacci’, gente che non aveva paura di nulla, tantomeno delle truppe
d’assalto tedesche. Ora però tedeschi ed italiani erano alleati, e que-
sta situazione provocava a Sala un
certo disagio.
Era stato rispedito in Africa nel
1941, e da allora era tornato a casa
solo una volta, per una licenza di
due settimane. L’Esercito era la sua
casa e il combattimento faceva parte della sua vita.
Mentre controllava la trincea con
uno sguardo circolare, dalla tasca
estrasse una macchina fotografica. Era una Leica IIIcK grigia con
obiettivo Carl Zeiss Jena Sonnar da
5cm f/1,5 che aveva comprato da un
soldato tedesco, nei vittoriosi giorni
della presa di Tobruk. I tedeschi, ebbri di gioia per la grande vittoria, si
erano impadroniti di enormi quantità di materiale inglese lasciato nella
piazzaforte. Evidentemente il Feldwebel tedesco era ansioso di realizzare del denaro in contanti con la
sua macchina fotografica, probabilmente per comprare altra merce da
rivendere al mercato nero. Il Feldwebel era molto contento di essere stato trasferito dal freddo fronte
russo al caldo dell’Africa, proprio
nei giorni della vittoria: aveva mostrato con orgoglio la Leica grigia
con incisa la prestigiosa K e l’ancor
più incredibile Sonnar con passo a
vite. La trattativa era stata facilitata
dal fatto che il tedesco era in real-
scatti nel tempo ___________________________________________________________
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EL ALAMEIN: 23 ottobre 1942, una Leica in guerra
tà un austriaco
di Innsbruck
di nome Amadori, di chiara
origine italiana, anche se
il suo italiano
era piuttosto
stentato. Aveva spiegato al
‘camerata’ Sala
che la K incisa
sul corpo macchina e stampigliata sulla tendina significava
‘Kalterfest’ o
anche ‘Kugellager’, ovvero
che l’otturatore della macchina era
stato montato su cuscinetti a sfera,
per funzionare meglio nelle gelide steppe russe, ma poteva andare
benissimo anche nel clima della
Tripolitania. Ciò che aveva definitivamente convinto Sala era l’obiettivo , non solo per la sua incredibile
luminosità, ma soprattutto per la
caratteristica “T” rossa che indicava
uno speciale trattamento antiriflesso
garanzia di una nitidezza eccezionale nelle immagini, caratteristica
unica degli obiettivi Zeiss. Il prezzo
richiesto parve a Sala molto ragionevole, considerando anche il fatto
che probabilmente Amadori non era
il proprietario’ufficiale’ della macchina, ma quasi certamente ne era
venuto in possesso per vie traverse.
Così Sala aveva acquistato la
preziosa Leica, che l’aveva sempre
fedelmente seguito, senza mai incepparsi, nonostante la polvere onnipresente e le inesorabili tempeste
di sabbia, nella travolgente avanzata
che aveva portato le truppe dell’Asse ai confini dell’Egitto, a soli cento
chilometri da Alessandria.
L’ultima volta che l’aveva usata era stato appena due giorni prima, per fotografare la tomba di due
soldati australiani che gli italiani
avevano seppellito proprio dietro
le loro linee. Sala aveva ripreso le
due croci, sormontate dai cappelli a
larghe falde tipici degli australiani,
con dietro le dune del deserto. Aveva scelto il diaframma f/4, mentre le
lunghe ombre delle croci svanivano
velocemente col sorgere del sole.
La jeep australiana, con le insegne del Long Range Desert Group,
si era spinta imprudentemente, nell’incerta luce che precede l’alba nel
deserto, proprio sotto le linee italiane: senza farsi notare Sala, con due
uomini, era scivolato fuori dalla
trincea e, spostandosi diagonalmente, aveva aspettato che il mezzo nemico fosse a tiro. Una lunga raffica
di mitragliatrice aveva posto fine
all’avventura dei due australiani,
ma Sala sapeva bene perché i due
uomini si erano sacrificati in quella
rischiosa missione. Il loro compito
era di individuare le linee italiane
con esattezza e poi riferire per dirigere il cannoneggiamento: avevano rischiato consapevolmente la
vita per un motivo preciso. Mentre i
suoi uomini seppellivano i due, Sala
non provava nessun odio verso i nemici: quel giorno era andata bene
agli italiani. La terribile realtà della
guerra rendeva tutti, amici e nemici,
consapevoli
che la propria vita era
affidata ogni
giorno al caso
e che nulla era
scontato. Per
questa azione
Sala era stato
proposto per
la medaglia
d’argento al
valor militare
dal proprio comandante, ma
tutti sapevano
che prima di
una battaglia
le decorazioni
erano concesse per motivare i soldati.
Ormai i giorni della speranza erano tramontati per sempre: il capitano Sala era troppo esperto per farsi
illusioni. Aveva visto sfilare qualche giorno prima i carri armati M13
della Divisione Corazzata Ariete: in
confronto ai Matilda britannici e ai
Grant americani, erano delle semplici ‘scatole di sardine’, per non
parlare poi della superiorità dell’artiglieria e dell’aviazione alleate.
Due contro uno era una proporzione
ancora accettabile ma qui, in questo
maledetto deserto, lo svantaggio era
di cinque a uno, se non di più. Ma
Sala era un soldato da quando aveva
diciotto anni, volontario per salvare
la Patria minacciata da austriaci e
tedeschi. Non aveva mai disobbedito ad un ordine e ora, sentendo l’orribile rumore dei cingoli dei carri
armati nemici, decise che era ormai
troppo tardi per prendere iniziative
azzardate.
Il capitano si tolse il cappotto e
la bustina color sabbia che portava
in testa: cominciava già a fare caldo
e fra poco ne avrebbe fatto ancora
di più.
Puntò la Leica verso i suoi soldati, regolando il diaframma del-
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scatti nel tempo
EL ALAMEIN: 23 ottobre 1942, una Leica in guerra
lo Zeiss a f/2,8; certo i tedeschi in
fatto di fotografia erano imbattibili
e la fotocamera portentosa: chissà
se sarebbe riuscito a riportarla in
Italia. Scattò un paio di fotografie: il mitragliere Esposito era un
napoletano calmo e fatalista, mentre l’uomo che reggeva il nastro
delle pallottole della mitragliera
era pallido, sudato fradicio, con le
pupille dilatate. Girò lentamente
il bottone di riavvolgimento della
Leica, controllò che il Sonnar fosse posizionato sull’infinito, mise la
ghiera dei diaframmi a f/8, e scattò
verso il deserto, là dove s’ intravedevano le sagome dei carri. Dietro
a questi già si notavano gli uomini
della fanteria inglese, inconfondibili, col loro caratteristico elmetto
a padella e i lunghi fucili Enfield.
Sala indossò il pesante elmetto,
chiuse la fibbia e, girandosi verso gli
uomini ai mortai, fece un cenno: le
bombe iniziarono a partire, mentre
anche Esposito con la Breda iniziò
a fare fuoco. Tutto il fronte italiano
incominciò a sparare mentre i carri
inglesi si avvicinavano. Improvvisamente un Grant esplose, prendendo fuoco: fu come un segnale. Tutti
i carri inglesi cominciarono a tirare
simultaneamente, mentre l’aria si
faceva torrida ed irrespirabile.
Sala si avvicinò ad Esposito e,
poiché il frastuono rendeva inutile
qualunque comunicazione a voce,
allungando il braccio gli indicò un
gruppo di uomini che cercavano di
aggirarli sul fianco. Esposito, con
una tipica imprecazione partenopea,
girò la mitragliera, e con brevi raffiche rabbiose stese il gruppetto di
nemici. L’interruzione aveva fatto
perdere a Sala la visione della battaglia: ritornò al centro della trincea e
vide che ora diversi carri erano stati colpiti. Un fumo acre e denso si
levava da diversi punti della pianura, segno che i semoventi da 75mm
dell’Ariete, ben interrati a filo di terreno, avevano fatto un buon lavoro
di sbarramento. Tuttavia Sala si avvide con disperazione che dietro la
prima ondata di Grant si avvicinava
una seconda ondata di carri leggeri
Stuart, veloci e maneggevoli.
Ormai si vedevano chiaramente
anche ad occhio nudo le sagome
degli uomini della fanteria inglese: mentre correva chinato lungo la
trincea, Sala sentì che la Leica nella
tasca gli sbatteva contro il fianco:
avrebbe voluto scattare delle immagini di quei momenti, ma non ne
aveva né il tempo né la disposizione
d’animo.
I carri nemici si trovavano ormai a pochi metri di distanza: era
tutto inutile, erano semplicemente
troppi. Improvvisamente un Grant
si arrestò rombando sul terrapieno fatto dai sacchetti di sabbia che
proteggeva la trincea italiana. Per
qualche istante la pancia del mostro
d’acciaio rimase totalmente scoperta: come al rallentatore Sala vide il
sergente Capasso piazzare una mina
magnetica alla base del carro e poi
scivolare via. L’esplosione terrificante si mescolò alle altre esplosioni, ma ora il carro era in fiamme e
gli sfortunati carristi inglesi tentarono di uscire del portello superiore,
urlando come forsennati. I soldati di
Sala li abbatterono a fucilate, mentre i primi fanti inglesi già si affacciavano alla trincea.
Era il caos. Esposito aveva smesso di sparare: Sala corse verso la
postazione della mitragliera, ma
ora c’era solo un buco con dei corpi
bruciacchiati. Mentre contemplava
la scena, sentì un dolore al fianco
e si girò di colpo: un fante inglese aveva cercato di colpirlo con la
baionetta, ma questa era stata provvidenzialmente deviata da qualcosa
che teneva in tasca: la Leica.
scatti nel tempo ___________________________________________________________
19
EL ALAMEIN: 23 ottobre 1942, una Leica in guerra
Approfittando della sorpresa del
soldato inglese, che era scivolato in
avanti, Sala ebbe ancora la forza di
estrarre la Beretta d’ordinanza e di
sparare: caddero entrambi dentro la
trincea, mentre sopra di loro decine
di carri e centinaia di uomini dilagavano oltre le postazioni italiane.
Alcune ore dopo Sala fu raccolto
da un reparto inglese: la battaglia si
era spostata di alcuni chilometri a
ovest e ora gli italiani sopravissuti
venivano rastrellati.
Gli inglesi notarono che Sala era
un ufficiale e, dopo aver controllato
che fosse disarmato, lo misero insieme con altri ufficiali italiani prigionieri; tuttavia nella confusione
riuscì a nascondere la piccola Leica
nella tasca interna dei pantaloni.
Il capitano Giuseppe Sala, dopo
essere stato trasferito ad Ismailia,
all’estremità del canale di Suez,
fu imbarcato su un vapore civile
con migliaia d’altri soldati italiani
prigionieri: dopo quasi un mese di
viaggio per nave arrivò finalmente a Bombay, in India. Dai lì, dopo
tre giorni di treno nell’immensa
pianura gangetica, i prigionieri arrivarono a Bangalore; da qui, in
altri due giorni, giunsero finalmente a Dharamsala e al vicino campo di prigionia di Jol, situato nella giungla, all’altezza di duemila
metri, alle pendici dell’Himalaya.
Nel campo, dove erano rinchiusi cir-
ca 10.000 ufficiali italiani, infuriava
la malaria e la dissenteria: gli inglesi, a corto di cibo e di medicinali,
sottoposti agli attacchi dei giapponesi in Birmania, non avevano né
la voglia né l’intenzione di sprecare
risorse per i prigionieri italiani.
Sala trascorse in India momenti
drammatici, forse più drammatici di
quelli trascorsi in Nord Africa. Molti compagni morirono di debolezza
di malattia: molti sopravvissuti alla
battaglia di El Alamein finirono miseramente i loro giorni per banali
infezioni non curate adeguatamente.
Il terribile clima indiano, un caldo
torrido alternato a snervanti piogge
monsoniche, debilitava i già logorati
prigionieri, fiaccati da anni di guerra.
Ma la preziosa Leica venne ancora
in aiuto al capitano Giuseppe Sala:
costui scambiò con le guardie inglesi l’ambita macchina tedesca e l’ancor più ricercato obiettivo Zeiss con
diverse scatole di chinino e grazie a
questi medicinali riuscì non solo a
salvare se stesso dalla malaria, ma
anche diversi compagni ammalati.
Sala tornò in Italia solo a metà del
1946, dopo quasi un anno dalla fine
della guerra: gli ufficiali scelsero di
essere gli ultimi ad essere imbarcati
e il viaggio di rientro durò ben tre
mesi. La moglie e la figlia, prive di
notizie da lungo tempo, lo credevano disperso o addirittura morto .
Il capitano Giuseppe Sala, mio
nonno, divenuto poi colonnello, mi
regalò per il mio dodicesimo compleanno la bustina gialla con le stel-
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scatti nel tempo
EL ALAMEIN: 23 ottobre 1942, una Leica in guerra
vo Zeiss, avverto la terribile solitudine di chi si trova tra migliaia di
altri internati, nel campo di prigionia di Jol. Quando osservo la ‘K’
bianca stampigliata sulla tendina
della Leica mi sfilano nella mente
le foto della guerra nel deserto che
mio nonno mi faceva vedere più di
quarant’anni fa, e di cui io allora capivo ben poco.
Ripongo la IIIcK e il Sonnar nella
mia bacheca: mi sembra quasi udire
ancora la voce di mio nonno, il coraggioso capitano Giuseppe Sala.
lette da capitano portata ad El Alamein, e mi raccontò tutta la storia:
da lì nacque la mia ammirazione per
la Leica e per le ottiche Zeiss.
Un’ammirazione dovuta più al
fatto che avevano salvato la vita
al mio adorato nonno, il padre di
mia madre, che alle loro qualità
tecniche, di cui non ero certo cosciente. La Leica IIIcK è dall’ora
la mia Leica preferita, la prima che
acquistai appena potei permettermelo, quella da cui non mi sepa-
rerò mai. Trovare l’obiettivo Zeiss
da 5cm con passo a vite 39x1 fu “La guerra è la cosa più stumolto più difficile, ma alla fine riu- pida inventata dall’uomo”
scii a completare la combinazione.
Ogni volta che tocco i comandi della piccola Leica grigia mi sembra
di sentire ancora il freddo intenso
di quell’alba nel deserto. Quando
poso gli occhi nel piccolo mirino,
mi sembra di vedere non i tetti che
circondano la mia casa, ma i carri
inglesi che si avvicinano minacciosamente. Svitando il grosso obietti-
Leica IIIcK
Inizio produzione: 1940
Innesto ottiche: passo a vite 39x1
Peso: 400g
Tempi d’otturazione: da 1sec a 1/1000 di secondo
Colorazione: grigia Feldgrau
Versione speciale con otturatore montato su cuscinetti a sfere: identificata dalla K sul tettuccio dopo il numero di matricola, e dalla K bianca stampata sulla tendina (talvolta mancante).
Carl Zeiss Jena Sonnar 5cm f/1,5 passo a vite 39x1
Schema ottico: 7 lenti in 3 gruppi
Versione con passo a vite dell’ottica standard con baionetta Contax;
Peso: 190g, contro i 210g della versione a baionetta
Ghiera di messa a fuoco e scala delle profondità di campo, entrambe mancanti nella versione per ContaxDiaframmi da f/1,5 a f/22, con ghiera dotata d’alette.
Obiettivo dotato di trattamento antiriflesso a tre strati, brevetto Zeiss, identificato dalla T rossa, T per Trasparenz.
scatti nel tempo ___________________________________________________________
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Zeiss Contaflex Super B
di Pino Preianò
T
ra gli ultimi anni cinquanta e i primi anni sessanta
la ditta Bagnini di Roma
pubblicava
periodicità
semestrale un interessante catalogo Foto-Cine. Il catalogo tanto ben
progettato e disegnato da essere regolarmente brevettato offriva una
immagine degli apparecchi che era
circa la metà della grandezza naturale e così risultava possibile confrontare ad occhio i vari apparecchi
tra loro. Inoltre la descrizione era
accompagnata da un rettangolo (o
quadrato) che riproduceva in grandezza naturale la forma e le dimensioni del negativo. La proposta di
vendita rateale faceva sembrare
a portata di mano oggetti del desiderio altrimenti irraggiungibili.
Era richiesta come anticipo la cifra
puramente simbolica di mille lire e
l’importo totale poteva essere diluito in tre anni lungo 36 rate mensili.
Ricordo di avere da ragazzo ripetutamente e piacevolmente sfogliato
tali cataloghi in compagnia di mio
cugino Marcello che condivideva
e condivide con me la passione per
la fotografia. Una sezione del catalogo era puntualmente dedicata
alla produzione Zeiss Ikon. In essa,
l’ammiraglia di punta (la Contax (a
telemetro) prima, la Contarex poi)
era preceduta dagli apparecchi della
serie Contaflex. Si trattava di apparecchi reflex monoculari 35mm con
otturatore a lamelle e ottica scomponibile. I modelli Contaflex più
semplici ed economici erano dotati
di obiettivo Pantar 2,8/45 mm e le
uniche alternative alla lunghezza
focale standard era costituita da due
aggiuntivi addizionale grandangolo
e addizionale tele che producevano una modesta variazione focale
portandola rispettivamente a 30 e
75 mm. Il modello più completo (e
costoso) era invece equipaggiato di
obiettivo Carl Zeiss Tessar che, per
mezzo di tre aggiuntivi ottici permetteva di disporre delle focali di
35, 85 e 115 mm oltre a quella normale di 50 mm. Erano inoltre disponibili un aggiuntivo per le riprese in
grandezza naturale 1:1 e un monoculare Zeiss 8x30 (in pratica mezzo
binocolo) che montato direttamente
sulla lente frontale del Tessar portava la lunghezza focale a ben 400
mm.
Il modello che descriveremo è la
Contaflex nella versione commercializzata dall’agosto 1962 al novembre 1965 come Zeiss Contaflex
Super B
Si tratta di una macchina dall’aspetto imponente, massiccia e pesante senza comprometterne la bellezza. Design spigoloso. Comandi
razionalmente disposti. Bella ed elegante la borsa pronto in cuoio marrone bordato di metallo all’esterno,
vellutata all’interno. Come per la
borsa della Bessamatic la parte frontale-superiore è amovibile per una
maggiore comodità d’uso. Inoltre a
differenza della Voigtländer Bessamatic la Contaflex dispone di anelli
laterali per cinghia e questo consente di poter rinunciare eventualmente
rinunciare alla borsa pronto.
Il corpo dell’apparecchio si pre-
senta rivestito in pelle nera e tutte le
parti metalliche sono ricche di cromature vistose. Sia la pelle del rivestimento che le cromature mantengono a distanza di oltre quarant’anni
l’aspetto del nuovo senza mostrare
alcun segno di invecchiamento o di
degrado. E ciò conferma la serietà
e la bontà di una costruzione fatta per durare. Siamo distanti anni
luce dalla mentalità consumistica
per non dire usa e getta dei giorni
nostri. Sulla parte frontale che racchiude l’obiettivo, anch’essa interamente cromata, fa bella mostra di
sé la cellula al selenio rettangolare
recante la scritta ZEISS IKON in
lettere bianche su fondo scuro. Non
essendo l’ottica completamente intercambiabile la ghiera di messa a
fuoco è collocata proprio a ridosso
del corpo e nonostante la presenza
di due sporgenze il suo uso non è
proprio comodissimo. Serve per
l’obiettivo standard (Tessar 2,8/50)
e per tutti gli aggiuntivi. La distanza
minima di messa a fuoco senza aggiuntivi è di 70 cm. Subito dopo c’è
la scala per considerare la profondità di campo nitido e poi la ghiera
del diaframma. Essendo possibile
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scatti nel tempo
Zeiss Contaflex Super B
l’automatismo di esposizione che
è a priorità dei tempi, la ghiera dei
diaframmi è normalmente impostata sulla posizione “A” (auto). È
possibile disinserire tale posizione
su cui la ghiera per ragioni di sicurezza si blocca e impostare a mano
il diaframma desiderato. Tale operazione è piuttosto scomoda. Successivamente, nella posizione più
esterna trova posto l’anello dei tempi dell’otturatore Synchro Compur
con valori da 1 sec a 1/500 di sec.
da sinistra a destra preceduti dalla
posa B. Ancora sulla montatura dell’obiettivo è presente il solito selettore X M V per selezionare il tipo
di sincero-flash o l’attivazione dell’autoscatto. Il fondello della macchina è interamente cromato (nella
Bessamatic era anch’esso rivestito
quasi interamente in pelle nera) ed è
bene fare attenzione a non sciuparlo
quando si poggia l’apparecchio senza la protezione della borsa pronto.
Al centro del fondello l’attacco a vite
per il treppiede solidale con il corpo
macchina mentre il resto del fondello forma tutt’uno con il dorso ed è
completamente amovibile per consentire il caricamento della pellicola
e l’uso dei magazzini. L’operazione
è più scomoda che in altre macchine perché è necessario poggiare il
dorso-fondello da qualche parte. Il
fondello reca simmetricamente alle
due estremità due chiavette che comandano l’apertura, la chiusura e
il bloccaggio dello stesso fondello
e dell’unito dorso. Una delle due
chiavette serve anche a comandare
lo sbloccaggio per il riavvolgimento del film. Tale comando (che nella
Bessamatic è in posizione comodissima sul tettuccio accanto alla leva
di carica) per essere azionato richiede l’estrazione della macchina dalla
borsa pronto ma va tenuto presente
che la rimozione della borsa sarebbe comunque inevitabile per scaricare l’apparecchio con l’apertura
del dorso-fondello. Sul fondello
cromato, al centro e in corrispondenza con l’innesto per il treppiede
è incisa la scritta Made in Germany.
Tutti gli altri comandi sono ubicati
sul tettuccio e comprendono, a sinistra del pentaprisma: la ghiera per
la regolazione sella sensibilità del
film, il dispositivo per la correzione
dell’esposizione sovresponendo di
un valore e la leva di riavvolgimen-
to. La ghiera di regolazione della
sensibilità del film al momento dello scatto può essere fatta ruotare in
corrispondenza di un contrassegno
previsto per i casi di riprese in controluce o comunque se si desiderasse sovresporre di un valore di diaframma in determinate circostanze.
Tale comando è a molla con ritorno
automatico e deve perciò essere tenuto in tensione mentre si scatta e
risulta perciò alquanto scomodo. La
parte superiore della ghiera consente di memorizzare tramite simboli
il tipo di film caricato. In posizione
centrale e coassiale la manovellina
ripiegabile per il riavvolgimento
il cui fulcro è impreziosito da una
guarnizione nella stessa pelle nera
che fascia tutto il corpo. Tra questi comandi e il pentaprisma trova
posto una finestrella che mostra
indicato da un ago il valore di diaframma impostato automaticamente dall’esposimetro. Al centro, sulla
calotta del pentaprisma è collocata
stabilmente la slitta porta accessori
preceduta sul davanti da due contatti
elettrici per il sincro-flash: il primo,
a sinistra, per i lampeggiatori comuni, l’altro per i lampeggiatori Zeiss
dedicati. La macchina dispone inoltre di un dispositivo automatico per
luce lampo che facendo riferimento
a numeri guida regola automatica-
scatti nel tempo ___________________________________________________________
23
Zeiss Contaflex Super B
mente l’apertura del diaframma durante l’operazione di messa a fuoco.
A destra del pentaprisma, ancora sul
tettuccio la leva di avanzamento del
film che ovviamente, dato il tipo di
costruzione, comanda contemporaneamente anche il riarmo dell’otturatore, il ritorno dello specchio, la
riapertura del diaframma e l’avanzamento del contafotogrammi che
è anche qui come nella Bessamatic
di tipo sottrattivo ma comodamente leggibile dall’alto a differenza di
quanto avviene sulla Voigtländer.
Coassiali alla leva di armamento
il contafotogrammi e il bottone di
scatto.
L’uso dell’apparecchio è molto semplice facilitato com’è dall’automatismo di esposizione. È
sufficiente impostare il tempo di
otturazione desiderato compatibilmente con le condizioni di luce e il
diaframma sarà chiuso automaticamente al valore considerato giusto
dalla fotocellula che terrà conto del
tempo d’otturazione e della sensibilità del film rispetto alla luminosità
della scena inquadrata. Il valore di
diaframma impostato compare sia
nel mirino che nella finestrella già
citata sul tettuccio a sinistra del pentaprisma. Ciò consente di poter controllare l’apertura senza portare la
macchina all’occhio e senza quindi
insospettire il soggetto da fotografare in caso di foto fatte di sorpresa.
L’unica correzione possibile dell’esposizione consiste nel comando
già menzionato abbinato alla ghiera
che regola l’impostazione delle sensibilità del film e che consente, in
condizioni per esempio di controluce, di sovraesporre di un valore.
Sovraesposizioni di maggiore ampiezza non sono possibili e neppure
sottoesposizioni volontarie.
A proposito di esposizione, il
test della Contaflex Super B effettuato dai redattori di Progresso Fotografico pubblicato sul numero di
ottobre 1965 rilevavano come in
fabbrica l’esposimetro fosse tarato
già in partenza in modo da offrire
una lieve sovraesposizione: Cellula
fotoelettrica: inspiegabilmente la
taratura di tutti gli esposimetri di
tutti i modelli della Contaflex è predisposta in modo tale da dare da 2/3
a un diaframma di sovraesposizione rispetto ad una lettura effettuata
con esposimetro campione. Ciò probabilmente è stato imposto dal fatto
che l’angolo di lettura della cellula
è superiore a quello dell’obiettivo
ed in genere sono proprio il cielo o
le lampade di una stanza che entrano più facilmente, non graditi e non
visti, nel campo della cellula determinando una chiusura del diaframma maggiore di quella che competerebbe alla scena, ma compensata
dall’opportuna taratura. Ma non
sempre queste sono le condizioni di
presa e con scene a basso contrasto,
a toni uniformi, o in difetto di zone
intensamente illuminate ai limiti del
campo, il meccanismo compensatore non funziona più e non funziona
se si utilizza la cellula per letture
selettive. Un’altra ragione che può
aver determinato questa taratura è
quella di avere un fattore di sicurezza nell’esposizione, eccessivo però
per materiale invertibile a colori.
A parte questo criterio di taratura,
che noi abbiamo eliminato variando opportunamente il valore della
sensibilità della pellicola inserita,
la risposta della cellula è risultata
perfetta a tutte le intensità di illuminazione e le esposizioni corrette
(con taratura alterata) (p. 31 della
rivista citata).
Di tale caratteristica è bene essere consapevoli soprattutto quando si
faccia uso di pellicola per diapositive. In tal caso sarà bene impostare una sensibilità doppia di quella
nominale del film (p. es. 200 Asa
invece che 100). Tale correzione
rimane a mio avviso consigliabile
per qualsiasi pellicola. Si aggiunga
che tali apparecchi al giorno d’oggi
sono più che quarantenni e, tarature di fabbrica a parte, è probabile
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scatti nel tempo
Zeiss Contaflex Super B
che la cellula al selenio si sia un
po’ indebolita nel tempo. Conviene sempre pertanto confrontare gli
esiti della misurazione con un buon
esposimetro che si sappia ben tarato e ben funzionante apportando
poi la giusta correzione alla regolazione della sensibilità della
pellicola.
Chiarito tutto questo si conferma che l’uso ordinario è semplicissimo: si imposta il tempo
di posa desiderato e, se il diaframma indicato dall’ago del
galvanometro risulta convincente, si mette a fuoco e si scatta.
L’operazione di focheggiatura è
semplicissima grazie al doppio
telemetro (immagine spezzata/
anello finemente smerigliato).
Anche se la luminosità delle ottiche non supera mai il valore
di f:2,8 l’immagine offerta dal
mirino è sempre luminosissima
rendendo possibile una misurazione della distanza sicura anche
in condizioni precarie di illuminazione. Chi non fosse abituato
all’uso di apparecchi del genere
dovrà all’inizio considerare che
la nitidezza del soggetto su tutto
il campo che compare nel mirino è in realtà ingannevole ed è
dovuta all’immagine aerea del
sistema di ripresa: la nitidezza
effettiva va sempre verificata
con il doppio telemetro presente
al centro del mirino. Naturalmente al momento dello scatto
l’immagine del mirino scompare perché lo specchio non è dotato di ritorno automatico e per
riguardare il soggetto è necessario riarmare l’apparecchio con
l’apposita leva di avanzamento
del film.
L’uso degli aggiuntivi ottici è
abbastanza comodo. A differenza
di altri apparecchi dell’epoca (p.
es. la Topcon PR) gli aggiuntivi
che modificano la lunghezza focale
non si avvitano semplicemente sul-
l’obiettivo normale ma è necessario
rimuovere la lente anteriore del Tessar dopo averla sbloccata premendo
un piccolo tasto collocato sotto la
montatura dell’obiettivo e inserire,
inquadratura e messa a fuoco anche
in presenza dell’aggiuntivo.
Gli inconvenienti di tale sistema
sono più di uno: maneggiare la lente anteriore del Tessar è imbarazzante più che maneggiare un
qualsiasi obiettivo intercambiabile e non si sa mai dove
metterla mentre non si usa e
si ha il timore di danneggiarla o smarrirla. Ovviamente
bisognerà stare attenti a non
toccare la lente e a non rovinarla o sporcarla. Inoltre gli
aggiuntivi sono tutti alquanto
ingombranti e pesanti. Ciò si
nota soprattutto con quello da
35 mm. Tutti hanno una lente
frontale molto più grande di
quella del Tessar e il 115 mm
un diametro di ben 67mm sinceramente eccessiva per un’ottica di luminosità f:4 e di soli
115 mm di focale. La disparità di diametro tra 50, 35-85
(questi due aggiuntivi hanno
lo stesso diametro) e 115 mm
crea complicazioni per il paraluce che ovviamente dovrà essere diverso. Per il Tessar 50
è indispensabile disporre del
suo piccolo paraluce originale in gomma che, ripiegabile,
può essere tenuto montato sull’obiettivo anche con la borsa
pronto chiusa. Ha un attacco
a vite di mm 27. Il 115 può
montare qualsiasi paraluce
con attacco a vite di 67mm.
Va benissimo quello in gomma del sistema Contax moderno. Per l’85 io uso un vecchio
paraluce Canon (S-60) dotato
di collare di serraggio esterno
che lo fissa alla montatura con
a baionetta, l’aggiuntivo desiderato una piccola vite. Tale paraluce può
dopo aver fatto coincidere in basso anche essere montato sul 35mm che
due puntini rossi di riferimento. La ha lo stesso diametro dell’85 ma è
focale effettiva a quel punto sarà pratica da evitare almeno col matequella resa possibile dal tipo di ag- riale invertibile perché oscura con la
giuntivo (35, 85 o 115 mm). La vi- vignettatura gli angoli del formato.
sione reflex continuerà a garantire Infine se è vero che la visione reflex
scatti nel tempo ___________________________________________________________
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Zeiss Contaflex Super B
garantisce precisione nella messa
a fuoco e nell’inquadratura ciò non
vale per il controllo della distanza e
della profondità di
campo dal momento che i riferimenti riportati sulla
montatura dell’apparecchio valgono
solo per il Tessar
50. Perciò se si volesse consultare la
scala di profondità
di campo o sapere
a che distanza si
trova veramente il
soggetto sarebbe
necessario ruotare
a mano la ghiera apposita di cui
ogni aggiuntivo è comunque dotato. Naturalmente la rotazione per
l’operazione di messa a fuoco che
era già scomoda per il 50mm diventa ancora più faticosa dal momento
che la ghiera rimane troppo vicina
all’apparecchio, addossata al corpo,
mentre con l’aggiuntivo il complesso da manovrare si è fatto più ingombrante e più pesante.
Si capisce come il sistema Bessamatic risulti al confronto enormemente più pratico: più ampia
la scelta delle ottiche che essendo
completamente intercambiabili rimangono, almeno fino al 135 mm
estremamente compatte e maneggevoli. Inoltre gli obiettivi Bessamatic
50 (Color Skopar), 90, 100 e 135
mm hanno tutti lo stesso diametro
(40,5 mm) e possono usare un unico
paraluce (e anche le stesse lenti addizionali). Anche il 35mm Skoparex avrebbe lo stesso diametro ma
necessita di un suo paraluce rettangolare che non vignetta.
Per le riprese ravvicinate la Contaflex fa uso come la Bessamatic ad
un sistema di quattro lenti addizionali. Si chiamano Proxar, sono piccolissime (ø 28,5 mm) e si montano
a pressione sulla lente frontale del
Tessar 50 mm. Le lenti addizionali
per la Bessamatic, di diametro più
Zeiss Contaflex
Accessorio
Lenti addizionali Proxar (cad.)
Borsa pronto
Paraluce
Pro-Tessar 3,2/35 mm
Pro-Tessar 3,2/85 mm
Pro-Tessar 4/115 mm
Prezzo in lit.
3.500
11.600
1.400
55.000
60.000
62.000
grande (40,5 mm), sono anch’esse
quattro, si chiamano Focar e si montano a vite su tutti gli obiettivi dello
stesso diametro. Anche gli aggiuntivi Zeiss Contaflex possono fare uso
di lenti addizionali ma saranno ovviamente tutte di grande diametro e
di grandezza diversa.
Una caratteristica apparentemente del sistema Contaflex consiste
nella possibilità di adoperare magazzini portapellicola di ricambio.
Tali magazzini vengono montati
dopo avere asportato il dorso-fondello della macchina. Il loro uso
consente un rapido caricamento a
pellicola esaurita o l’intercambio in
qualsiasi momento di una pellicola
Voigtländer Bessamatic
Accessorio
Prezzo in lit.
Lenti addizionali Focar (cad.)
3.600
Borsa pronto
10.400
Paraluce
2.000
Obiettivo Skoparex 3,4/35 mm
55.300
Obiettivo Dynarex 3,4/90 mm
69.000
Obiettivo Super-Dinarex 4/135
60.500
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scatti nel tempo
Zeiss Contaflex Super B
con un’altra di caratteristiche diverse (bianco-nero/colore, alta/media/
bassa sensibilità, negativo/invertibile) senza perdere alcun fotogramma ma è bene tener presente che
l’uso di tali accessori è macchinoso.
Tra l’altro la Contaflex ha all’interno del vano che ospita il caricatore
del film un pezzo di lamiera che dovrebbe servire per tenere meglio in
posizione lo stesso caricatore. Tale
oggetto (di cui si può comunque
fare tranquillamente a meno) deve
essere rimosso per poter montare il
magazzino che dispone ovviamente
di un’antina mobile per proteggere
la pellicola dalla luce quando il magazzino stesso è separato dal corpo
macchina Ma la cosa più grave è
che nell’inserire l’antina la pellicola
potrebbe essere urtata e spinta fino
ad accartocciarsi bloccando completamente l’apparecchio e richiedendo l’intervento di un riparatore. Per farla breve, i magazzini per
Zeiss Contaflex possono oggi anche
fare bella mostra di sé in una collezione ma è sconsigliabile tentare di
usarli. Bessamatic e Contaflex erano dirette concorrenti sul mercato:
oltre all’impostazione progettuale
anche i prezzi erano molto simili:
Nel catalogo Bagnini n. 15 del semestre settembre 1963 - febbraio
1964 la Zeiss Contaflex Super B era
offerta a 174.600 lire mentre la Voigtländer Bessamatic (con obiettivo
Color-Skopar equivalente al Tessar) a 163.000 lire. Anche il costo
del resto del corredo era comparabile (i dati che seguono sono ricavati
dalla Guida italiana della Fotografia edita nel 1964 dalla ditta Lori di
Roma):
Andare in giro a fare fotografie
con una Contaflex (o una Bessamatic) è cosa piacevolissima e gratificante anche perché oggi l’apparecchio non passa inosservato e sono
numerose le persone che riconoscendolo o comunque sedotti dalla
vistosità e dall’elegante imponenza
nonché dalla lucentezza delle cromature si avvicinano per osservarlo
meglio e per parlarne. La resa dell’obiettivo Tessar è assolutamente
superlativa anche facendo uso degli
aggiuntivi offrendo come risultato finali immagini dettagliatissime e dai
colori brillanti. Anche la resa delle
ottiche della Bessamatic è straordinaria ma l’effetto è visibilmente diverso: più pittoriche, pastellate (che
non vuol dire meno nitide) le immagini Voigtländer, più scolpite quelle
Zeiss. E a questo punto è soltanto
questione di gusti.
Giuseppe Preianò
scatti nel tempo ___________________________________________________________
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Summicron 90 II° versione: il Canada testa svitabile
di Cesare Trentanni
I
l 90 mm Summicron II versione, meglio conosciuto come
“90 testa svitabile”, è sicuramente uno dei capolavori ottici
della Leica, classificabile fra i migliori obiettivi di focale medio-lunga mai realizzati al mondo.
Il primo Summicron 90 f:1/2
vide la luce nel 1957 con schema ottico tipo tripletto modificato di SEI
LENTI in cinque gruppi, su progetto del Dott. Walter Mandler (19222005), geniale ideatore dal 1950 al
1985 di alcune mitiche ottiche Leitz
(fra le quali è d’obbligo ricordare ad
esempio il 35 summilux, il 75 summilux ed il 50 noctilux).
Restò in produzione per ventidue anni (fino al 1979) nel corso dei
quali il sopradescritto schema ottico
non fu mai variato; i primi pochissimi pezzi, calcolabili in poche decine,
furono assemblati a Wetzlar; tutta la
restante produzione fu realizzata in
Canada.
Del Summicron 90 sei lenti ne
esistono due diverse versioni.
La prima versione (1957-1958)
fu realizzata in circa 400 pezzi (di cui
qualche decina a vite ed i restanti con
baionetta M) con gruppo ottico non
svitabile e paraluce separato, tutti in
finitura cromata, con diaframma da
f/2 ad f/16 e matricola compresa fra
1.450.000 circa ed 1.650.000 circa
(i primissimi prototipi riconosco-
ad epoche diverse riflessi diversi
a sx produzione del 1967 a dx del 1973
no matricola atipica compresa fra
1.119.000 e 1.119.100).
La seconda versione (19591979) fu prodotta in grande serie
con baionetta M ed in circa 500
unità con attacco a vite, con gruppo ottico svitabile per l’utilizzo con
Visoflex, paraluce telescopico incorporato e matricola compresa fra
1.651.000 circa e 3.010.000 circa.
Fino alla matricola 2.000.000 circa
il diaframma minimo chiudeva ad
f/16, poi portato ad f/22; il diaframma era costituito da dodici lamelle.
Dalla matricola 2.200.000 circa cessò la realizzazione in finitura
cromata, sostituita da quella verniciata nera.
A questa seconda versione, nel
f. 5,6
corso degli anni di produzione, furono apportate modifiche alla montatura che riguardarono la forma
della ghiera di messa a fuoco ed il
senso di rotazione di quella dei diaframmi; sicure variazioni, anche
se mai dichiarate dalla casa madre,
interessarono anche il trattamento
antiriflessi delle lenti e la brunituraannerimento delle parti interne del
barilotto oltre, verosimilmente, alla
formulazione e composizione dei
costituenti base di alcune lenti.
La fusione e la paziente stagionatura di pregiate “mescole” di
componenti base contenenti terre
rare, consentì alla Leica di creare
vetri con alto indice di rifrazione,
bassissima dispersione, trasparenza
di circa il 100% al passaggio dei fotoni luminosi nel campo dello spettro di luce visibile con trasmissione
uniforme e fedele di tutta la gamma
cromatica. La lavorazione manuale
e il controllo di ogni singolo componente era finalizzato ad ottenere
bassissimi indici di tolleranza qualitativa.
Da ricordare che la applicazione di rivestimenti antiriflesso delle
superfici delle singole lenti è sempre stata finalizzata e calcolata per
un ottimale rapporto fra riduzione delle aberrazioni da dispersione e conservazione della traspa-
28 _______________________________________
scatti nel tempo
Summicron 90 II° versione: il Canada testa svitabile
f. 2,8
renza; anche il disegno della struttura portante ed il suo oscuramento
interno è stato sempre calcolato per
migliorare quanto più possibile la
resa ottica e non solo per tenere le
lenti nella giusta posizione.
Le resa globale del 90 Summicron “Testa Svitabile” è una esaltazione di tutte quella caratteristiche
che hanno contribuito al mito dei
vetri Leitz.
Una nitidezza brillante e al contempo delicata, non aggressiva, uniforme su tutto il campo, restituisce
immagini dense e pastose, con ottimale saturazione cromatica e precisa differenziazione dei colori, grazie ad un grado di contrasto splendidamente bilanciato. La plasticità è
superba e la progressione armonica
ed omogenea dei piani focalizzati e
di quelli fuori focheggiatura dona
una netta sensazione di profondità e
tridimensionalità; nel B/N la riproduzione di una ampia scala di livelli
di grigio offre risultati di grande armonia. Ottima e ben equilibrata la
capacità di lettura delle zone d’ombra e di quelle ad alta luminosità,
con una discriminazione precisa dei
cromatismi e delle tonalità di grigio
e una lettura agevole del dettaglio
anche più fine.
La vignettatura è virtualmente
assente anche alla massima apertura
del diaframma così come l’aberrazione di coma; nella messa a fuoco
ravvicinata può essere percettibile
una minima distorsione a cuscino.
Alle brevi distanze si ottengono
immagini più morbide che non all’infinito, caratteristica che denota
la grande versatilità dell’obiettivo,
splendido sia nel ritratto che nella
ripresa del particolare di paesaggio.
La resa generale non offre significative differenze nei diversi diaframmi, ad eccezione della massima
apertura dove la risolvenza tende a
diminuire.
I risultati migliori si ottengono
in condizioni di basso contrasto luminoso; ciò a causa dell’unica nota
dolente fra le caratteristiche del Testa Svitabile, data da una netta tendenza al fenomeno di “flare”, soprattutto alle aperture maggiori del
diaframma ed in presenza di forti
fonti di illuminazione diretta fino ad
un angolo di circa 60° rispetto all’asse ottico.
Il “flare” è peraltro più marcato
nelle realizzazioni più vecchie rispetto a quelle più recenti, dove risulta più contenuto grazie a quelle
modifiche in corso d’opera già accennate riguardanti il trattamento
antiriflesso e forse la composizione
di qualche lente.
Tali aggiustamenti sono già percepibili alla semplice osservazione
di due oggetti di differente produzione e probabilmente le variazioni
furono effettuate fra le matricole
2.300.000 e 2.400.000 circa; una
personale analisi di due obiettivi
distinti, uno del 1967 e l’altro del
1973, entrambi in finitura nera, rivela una colorazione diversa dei vetri quando attraversati da una fonte
luminosa diretta: il più “vecchio”
denota una riflessione cromatica
tendente all’azzurro-violetto delle
lenti interne e posteriori mentre nel
più “giovane” la stessa riflessione
appare color ambra.
f. 4
scatti nel tempo ___________________________________________________________
29
Summicron 90 II° versione: il Canada testa svitabile
Inoltre, alla osservazione di larmente delicata ed una saturauna superficie bianca omogenea zione cromatica un poco più pieattraverso le lenti degli obietti- na rispetto al fratello giovane.
vi, si scopre una restituzione del
In conclusione, qualunque sia
bianco neutra nel più recente ed
una leggerissima tendenza al viraggio paglierino nel più datato.
Le due produzioni descritte
godono anche di una resa appena
diversa, con sfumature di bassissimo grado percettivo anche ad
un occhio particolarmente attento; il 90 Summicron del 1973, rispetto a quello del 1967, offre un
contrasto appena inferiore ed una
lettura delle zone d’ombra leggermente migliore; la resa cromatica
è fedele, neutra con lievissima
tendenza a toni freddi.
Le immagini del 90 Summicron del 1967 sono invece magicamente dotate di una accennata
dominante caldo-avorio che abbellisce soprattutto il ritratto con
una resa dell’incarnato partico-
il numero di matricola, il Testa
Svitabile è uno strumento ottico
strepitoso che non dovrebbe mai
mancare in un corredo Leica M.
30 _______________________________________
scatti nel tempo
CONTAX RX - quasi un autofocus
di Mauro Di Giovanni
Un po’ di storia…
Siamo nel 1994 e già diverse generazioni di reflex autofocus si sono
succedute da quel lontano 1985 in
cui Minolta avvia la commercializzazione del modello 7000 AF. Tutte
le altre case, con un ritardo più o
meno marcato, la seguono su questa
via, tranne i marchi più tradizionalisti, come Leica e Contax. Queste
ultime, dotate di un celebrato parco ottiche, poco inclini a sostituire
le nobili leghe metalliche dei loro
barilotti con elementi
sintetici e ad aumentare le tolleranze delle
parti in movimento,
continuano imperterrite per diversi anni
sulla loro strada (e
Leica ancora continua…). Ad un certo
punto Contax cerca
però di limitare questo handicap introducendo, con la RX,
un sistema di messa a
fuoco assistita, denominato DFI (Digital
Focus Indicator), per
poi presentare una reflex autofocus unica
nel suo genere (il modello AX) che, grazie
allo spostamento del piano di messa
a fuoco, consente la focheggiatura
automatica con gli obiettivi manuali! L’approdo all’autofocus vero e
proprio arriva con la N1 all’avvento
del terzo millennio, rendendo però
impossibile – così come fece Canon
– lo scambio fra il tradizionale innesto a fuoco manuale Contax/Yashica
ed il nuovo Contax N autofocus.
Però, con un comunicato a sorpresa del 12 aprile 2005, Kyocera
annuncia la sospensione della produzione delle fotocamere 35mm
Contax entro settembre dello stesso anno, mentre per alcuni mercati
continuerà fino a dicembre la commercializzazione della 645.
Altro recente annuncio a sorpresa è quello della Carl Zeiss, che
proporrà le proprie prestigiose ottiche manuali per reflex 35mm – fino
ad oggi con innesto esclusivo Contax/Yashica – anche con altri innesti, cominciando da quello Nikon F
(ZF) e dall’intramontabile innesto a
vite 42x1 (ZS), a partire dalla prossima estate. Verranno prodotte dalla
Cosina su progetto e con controlli
effettuati per mezzo di apparecchiature “made in Oberkochen”, e pre-
ai quali faranno seguito la 159 MM,
la longeva 167 MT fino ad arrivare
all’attuale Aria). Modelli intermedi
saranno invece rappresentati dalla
ST del ’92 (simile alla RX del ’94
– oggetto di questo articolo – ma
priva del sistema DFI e con sincroflash pari a 1/200 di secondo) dalla
S2 totalmente meccanica con esposizione spot e dalla S2b, identica
ma con esposizione media ponderata. Un caso a parte è la AX del ’96,
una autofocus del tutto particolare,
dotata di dorso mobile che permette
di mettere a fuoco automaticamente
vederanno anche nuove formulazioni ottiche.
con gli obiettivi manuali! Dal 2000
anche Contax entra nel mondo delle
autofocus vere e proprie con la N1
seguita dalla più economica (si fa
per dire) NX, dotate di un nuovo innesto – incompatibile con il precedente – che andranno ad affiancare
la produzione a fuoco manuale. Nel
2002 la RX viene aggiornata con la
versione RX II, priva del sistema
DFI, mirino più luminoso del 20%
e un secondo autoscatto con ritardo
di 2 secondi.
Una rapida carrellata sui vari
modelli reflex 35mm…
La prima Contax reflex nata dall’accordo Zeiss-Yashica è la professionale RTS del ’74 (arrivata alla
sua terza edizione: da rimarcare
nella RTS III del ’90 la presenza
di un esclusivo dorso aspirante in
ceramica per mantenere l’assoluta
planeità del film) affiancata, alla
fine degli anni settanta, da alcuni
modelli economicamente più abbordabili (137MD ed MA, 139 Quartz,
La tecnica…
Come tradizione Contax – rin-
scatti nel tempo ___________________________________________________________
31
CONTAX RX - quasi un autofocus
vigorita dalla gestione Kyocera
che in passato ha creduto molto in
questo marchio – la qualità dei materiali impiegati e delle finiture è
di prim’ordine. Piuttosto corposa
e di peso non indifferente (otto etti
abbondanti “a secco”), si impugna
però con facilità grazie all’attento
studio ergonomico, che prevede una
guancia anatomica frontale ed una
sporgenza posteriore per ancorare
il pollice. L’estetica è praticamente identica a quella del modello ST
ma con il pentaprisma spigoloso un
po’ più largo e schiacciato, simile a
quello delle vecchie RTS; per il resto le linee sono morbide e sinuose,
con gli spigoli dolcemente arrotondati. La livrea è nera, come si conviene ad un apparecchio professionale, con inserti gommati al posto
della tradizionale finta pelle, che fascia il dorso e la parte anteriore, favorendo la presa dell’apparecchio.
Ottima e duratura la brunitura delle
parti metalliche, tranne quella della
slitta porta accessori che, sottoposta
ad un continuo sfregamento, può
mostrare in alcuni punti il suo colore naturale. Sovradimensionato il
mirino, anche per la presenza della
particolare conchiglia in gomma che
segue l’estetica del pentaprisma.
La qualità complessiva si può apprezzare anche nella realizzazione
dei vari comandi, in special modo
nelle manopole, prive di giochi e
dall’ottima frizione che consentono
– grazie al loro sovradimensionamento – un’ottima manovrabilità,
anche indossando i guanti. Il corpo
macchina è realizzato in pressofusione con una lega di rame/silumin,
temprata con vapore a pressione ad
elevata temperatura, per offrire una
notevole resistenza alla torsione; calotta e fondello sono invece in lega
d’ottone, mentre la baionetta è in acciaio inox, saldamente ancorata alla
scocca con sei viti. Impeccabile anche l’interno della fotocamera, con
sistema di avanzamento automatico
fino al primo fotogramma.
Il dorso smontabile offre di serie il datario, ed è provvisto di finestrella d’ispezione per la pellicola
in uso. La RX incorpora anche il
motore di trascinamento e riavvolgimento capace di sostenere la cadenza di 3 fotogrammi al secondo;
è possibile decidere se far rientrare
o meno la coda della pellicola nel
caricatore con la funzione personalizzata
CF8 (vedi oltre), e
attivare il riavvolgimento automatico a
fine film (CF9).
Rispettando
la
tradizione
Contax,
il selettore dei tempi
lo troviamo inusualmente alloggiato a
sinistra del pentaprisma; coassiale la levetta (con fermo di
sicurezza disabilitato
dal pulsantino sul retro della calotta) che
permette si selezionare i vari modi d’esposizione: Av = automatismo a priorità
del diaframma, Tv =
a priorità del tempo d’esposizione,
P = programmato, M = manuale, X
= sincro-flash, B = posa. Facendola
ruotare ulteriormente in senso antiorario troviamo la posizione ISO
per impostare manualmente la sensibilità – disabilitando la lettura DX
– e la posizione CF (Custom Functions) che permette di personalizzare alcune funzioni della RX, per la
precisione nove oltre al reset (CLE);
in questi ultimi due casi la selezione
avviene tramite i pulsantini up/down
posti sul lato opposto della calotta,
sotto il display; nel testo citeremo le
principali funzioni personalizzabili.
Sul fianco sinistro un tappino a vite
cela la presa coassiale per il flash;
più in basso il meccanismo d’apertura del dorso con pulsante centrale
di sicurezza. Sulla slitta porta-accessori troviamo il contatto diretto per
il flash e quattro contattini dedicati
(invece dei soliti due) che permettono un maggior scambio di informazione con il lampeggiatore TLA
360, come l’accensione automatica
di quest’ultimo premendo leggermente il pulsante di scatto. Sul fianco sinistro del mirino la levetta per
32 _______________________________________
scatti nel tempo
CONTAX RX - quasi un autofocus
oscurarlo, mentre sul
fianco destro del pentaprisma una rotellina
zigrinata con avanzamento a scatti serve a
regolare le diottrie del
mirino. Il correttore
d’esposizione, privo
di fermi di sicurezza
ma ben frenato nella
posizione “0”, è costituito da una grossa
manopola, con incrementi di 1/3 di stop;
una levetta coassiale
permette di impostare
il bracketing automatico di +/-0,5 o +/-1
EV; è possibile personalizzare la seguenza
degli scatti (CF6). A
fianco una manopola più piccola
(selettore DRIVE) stabilisce i modi
d’avanzamento: singolo (S), continuo (C), autoscatto, esposizioni
multiple; il pallino verde predispone
il sistema DFI per un funzionamento standard, indipendentemente dalle impostazioni personalizzate. Alla
base un selettore coassiale imposta
la classica lettura bilanciata al centro oppure quella spot. Il pulsante di
scatto elettromagnetico è circondato
da una corona mobile che ne limita
la pressione accidentale ed attiva,
manovrandola in senso antiorario,
l’accensione dei circuiti (ON) e poi
il blocco della memoria esposimetrica (AEL); premendo leggermente
il pulsante vengono visualizzati i
dati nel mirino, ma è possibile personalizzarlo facendo in modo che
attivi contemporaneamente anche il
blocco della memoria sul pulsante
di scatto (CF4). Il piccolo pannello LCD mostra, alternativamente,
il numero dei fotogrammi, il valore
ISO, lo stato di carica della batteria, il numero di esposizioni multiple programmato e le funzioni
personalizzate (CF), il cui schema
è riassunto in un adesivo applicabi-
le nel fondello. A destra del mirino
una levetta con blocco centrale di
sicurezza permette di riavvolgere
la pellicola in qualsiasi momento;
più a destra l’attacco per il cavetto
flessibile con filettatura standard. In
basso a sinistra un tappino protegge
una presa per l’alimentazione esterna. Al centro del dorso i tre pulsanti
per settare data e ora, che verranno
impressi nello spazio tra i fotogrammi. Sul frontale troviamo il pulsante
per visualizzare i dati nel mirino (in
alternativa al pulsante di scatto) e,
sul fianco del bocchettone, il pulsante di sblocco per l’obiettivo; più
in basso, quello per visualizzare la
profondità di campo nel mirino, che
si può personalizzare (CF7) facendo in modo che il diaframma resti
chiuso fino a nuova pressione del
pulsante. Nel fondello il foro filettato per il treppiede e, ad una estremità, la vite per smontare il fondello
ed accedere al vano batteria.
Vanto delle reflex Contax è la
qualità del mirino, e la RX non
smentisce questa fama. Di tipo
long eyepoint (quindi adatto a chi
indossa gli occhiali), copre il 95%
dell’area effettivamente inquadrata
con un ingrandimento pari a 0,8x ed
è dotato di cinque schermi di messa a fuoco intercambiabili; quello
standard (FW-1) è finemente smerigliato con lente di Fresnel, corona di
microprismi e telemetro ad immagine spezzata. E’ possibile regolare le
diottrie da +3 a –1 ed è oscurabile.
Nitida e ben contrastata l’immagine fino ai bordi estremi, con una
lieve dominante calda; non valutabili ad occhio le distorsioni. Tutte
le informazioni appaiono in basso,
in un display LCD retroilluminato ad intensità variabile secondo la
luminosità ambientale; anche la visualizzazione di queste può essere
personalizzata, eliminando il sistema DFI oppure oscurando del tutto
i dati (CF1). Oltre alle indicazioni
per la messa a fuoco, che appaiono
al centro del display e di cui abbiamo già parlato, troviamo il contafotogrammi (se lampeggia è stato
inserito il bracketing automatico),
il tipo di lettura esposimetrica (lampeggia quando è inserito il blocco
della memoria), la compensazione
dell’esposizione (lampeggiante), il
simbolo del flash che indica l’avvenuta carica e la corretta esposizione,
scatti nel tempo ___________________________________________________________
33
CONTAX RX - quasi un autofocus
i diaframmi, due freccette che indicano sovra/sotto o corretta esposizione per la misurazione manuale, il
tempo di posa. I dati restano visibili
per circa 16 secondi.
La RX utilizza due cellule al silicio separate, una posta all’interno
del mirino per le rilevazioni in luce
continua (media ponderata e spot),
l’altra nel box specchio per l’esposizione TTL con i flash dedicati,
rivolta verso il piano pellicola. Il
campo di risposta si estende tra 1 e
20 EV con la lettura media ponderata, e tra 5 e 20 EV con lettura spot
utilizzando pellicola da 100 ISO ed
obiettivo f/1,4, per sensibilità comprese tra 25 e 5000 ISO in DX e tra
6 e 6400 ISO con impostazione manuale.
I modi d’esposizione vanno
dall’automatismo a priorità del
diaframma, a quello a priorità dei
tempi, all’automatismo programmato (questi ultimi due funzionano
solamente con obiettivi della serie
“MM”), all’esposizione completamente manuale. Con i flash dedicati
l’esposizione è automatica TTL. I
controlli possibili sull’esposizione
sono molteplici, e vanno dal clas-
sico correttore d’esposizione (+/-2
EV con intervalli di 1/3 di EV), al
blocco della memoria esposimetrica
che consente lo slittamento fra coppie tempo-diaframma equivalenti,
al bracketing automatico (+/- 0,5
EV oppure +/-1 EV), con possibilità
di stabilirne la sequenza preferita.
La RX sfrutta un otturatore controllato elettronicamente (senza alcun tempo meccanico) con lamelle
metalliche a scorrimento verticale
tipo Copal. La gamma dei tempi si
estende da 16 ad 1/4000 di secondo nei modi “AV” e “P”, da 4 ad
1/4000 di secondo nei modi “TV” e
manuale, oltre alla posa B e al sincro-flash (X). Quest’ultimo si assesta su 1/125 di secondo: pensiamo
però che una fotocamera come la
RX avrebbe meritato qualcosa di
più, almeno 1/200 di secondo come
la consorella ST per poter meglio
sfruttare la tecnica del fill-in; con i
flash dedicati predisposti è possibile ottenere la sincronizzazione sulla
seconda tendina. Si possono effettuare fino a nove esposizioni multiple sullo stesso fotogramma.
L’autoscatto elettronico garantisce un ritardo di 10 secondi ed è
revocabile; il suo funzionamento è
accompagnato dal lampeggiare di
un led alla base dell’impugnatura
frontale. Occorre ricordarsi di disinserirlo una volta effettuata la ripresa.
L’alimentazione alla RX viene
fornita da una (costosa) batteria al
litio tipo da 6 Volt tipo 2CR5 per il
funzionamento della fotocamera, e
da una batteria tipo CR2025 (sempre
al litio) per il dorso datario di serie.
Purtroppo la RX dipende, in ogni
sua funzione, dalla buona efficienza
delle batterie, e non è previsto alcun
tempo meccanico d’emergenza, per
cui in mancanza d’energia si blocca
tutto. Inoltre l’elemento al litio previsto non è di così facile reperimento come le batterie stilo o ministilo. E’ comunque prevista una presa
per alimentazione esterna (Power
Pack P-8 con quattro elementi stilo) ed una efficace segnalazione
sul display che avvisa per tempo
sull’esaurimento della batteria. Sarebbe buona norma munirsi di un
elemento di riserva, specialmente
in situazioni in cui uno scatto non
potrà più essere replicato.
34 _______________________________________
Il sistema DFI…
Il “Digital Focus
Indicator” non è altro che un sistema di
messa a fuoco servoassistita. Il sensore, posto sul fondo
della scatola dello
specchio, riceve le
informazioni attraverso l’obiettivo tramite uno specchietto
incernierato su quello principale Al centro del display nel
mirino appaiono due
quadratini sovrapposti che rappresentano la messa a fuoco
perfetta; a sinistra o
a destra una serie di
scatti nel tempo
CONTAX RX - quasi un autofocus
cerchietti (sei) per parte indicano quanto ci si discosta
dalla messa a fuoco ideale: più sono numerosi maggiore sarà lo scostamento. Superando il limite dei sei cerchietti, appare una freccetta lampeggiante che indica la
corretta direzione verso cui ruotare la ghiera di messa a
fuoco; se lampeggiano entrambe le freccette il sistema
non è in grado di valutare la corretta focheggiatura.
Rispetto ai sistemi simili, la novità è costituita dalla possibilità di valutare la profondità di campo entro
cui i soggetti appariranno nitidi: il circuito digitale è
infatti collegato anche al simulatore del diaframma.
Sopra ai cerchietti appaiono una serie di trattini (variabili secondo il diaframma utilizzato) che indicano
l’estensione della profondità di campo; in questo modo
si può facilmente valutare, focheggiando due soggetti
diversi, se questi rientrano nella zona nitida: basta che
i cerchietti di riferimento non oltrepassino la zona delimitata dai trattini. La sensibilità del sistema si estende
tra 2 e 20 EV.
realizzata con materiali idonei per durare nel tempo e
resistere ad un uso intenso, e con una versatilità d’impiego ancora oggi più che valida. Comoda da usare per
la sua ergonomia e i selettori sovradimensionati, silenziosa nel funzionamento nonostante i vari motori addetti alle diverse funzioni della fotocamera, offre anche
una serie di comode personalizzazioni ed il dorso data
incorporato. In rapporto al peso piuma di alcune reflex
attuali quello della RX, abbinato ai sostanziosi vetri
Zeiss, può sembrare eccessivo, ma è lo scotto da pagare alla qualità dei materiali impiegati, e questo garantisce anche un assorbimento ottimale delle vibrazioni
causate dalle parti in movimento. Molto valido – come
sempre nelle Contax – il mirino di tipo long-eyepoint,
nitido e ben contrastato, mentre quella che doveva essere la caratteristica saliente della RX – il sistema DFI
per la messa a fuoco servoassistita – appare oggi poco
rapido e soprattutto poco sensibile in condizioni di bassa luminosità, là dove sarebbe stato più utile, specialmente per chi ha problemi di vista. Manca purtroppo la
possibilità di operare con almeno un tempo meccanico,
e la batteria la litio utilizzata non è sempre di facile reperimento. Per una reflex di questa categoria manca il
sollevamento anticipato dello specchio anche se, come
già detto, la massa dell’apparecchio assorbe egregiamente eventuali vibrazioni.
Ancora oggi ben quotata, la RX è destinata ad integrare un corredo professionale Contax, ma è sicuramente valida anche come reflex d’esordio per un fotoamatore impegnato ma dotato di buoni mezzi economici
visto che oggi, per questo marchio, restano disponibili
solamente gli ottimi ma costosi vetri Zeiss, essendo venuta meno l’alternativa economica dei cugini marchiati
Yashica. A meno di non rivolgersi al mercato dell’usato
e/o degli obiettivi universali.
Le conclusioni…
Nella gamma di reflex Contax, la RX si pone ad
un livello intermedio, appena al disotto della RTS III.
La costruzione è quella tipica delle reflex professionali,
scatti nel tempo ___________________________________________________________
35
KODAK RETINA
di Papajoannou Konstantinos
che condannava i fotografi a pensare come la luce disegnava il reale. Gli imponeva a imparare con l’osservazione dell’errore perpetuato nel tempo che la fotografia
non è altro che interpretazione della materia tramite
l’anima della luce.
Ma le privazioni non finivano qui. Pensate che la
leva di carica era situata nella parte inferiore della macchina provocando, a quel tempo, chi sa quante critiche
e dividendo magari il mondo tra i “leicisti” e i “retinomani” entrambi probabili difensori delle diversità secondarie che spesso oscurano la sostanza del mezzo
come supporto di ricerca . Tra quelli che privilegiavano
il concetto dell’impugnabilità quasi perfetta di una leva
pronta a rispondere all’impulso tattile e quelli che accettando qualche spostamento del pollice verso il basso
continuavano allegramente a trascinare il rullino verso
E adesso il vero dilemma sta tra un racconto “perso” la realizzazione delle loro immaginazioni fotografiche.
nell’ oggettività strumentale del mezzo o tra un tentaIn ogni caso di leva si trattava visto che ancora il
tivo magari “profano” e poco “esperto” di scoprire le
trascinamento automatico era destinato ad un futuro
impressioni di “sognare” e “fare” l’immagine.
E’arrivata da un carissimo amico. Un “amante” della lontano ed incerto. Il “calvario” procurato da questa
macchina fotografica e della sua evoluzione nel tempo. macchinetta magra e timida si individuava nel meccaSpesso mi diceva che la trasformazione dello strumen- nismo dell’impostazione del primo fotogramma per lo
to fotografico come mezzo di creatività non è altro che scatto. Inserita la pellicola e chiusa la parte posteriolo “specchio” dell’evoluzione umana, dei suoi bisogni re il fotografo del tempo era costretto a spingere nella
parte superiore un bottone per poi con un altro situae orizzonti.
Piccola, maneggevole e saldamente rinchiusa in un to nella parte alta posteriore trascinare tutto sul primo
“contenitore” ben rifinito targato “Kodak Retina IIC”. fotogramma. Il momento era probabilmente molto laUna folding estraibile pronta a fermare l’attimo fug- borioso visto che le mani agivano sul corpo macchina
gente trasferendolo su una pellicola 35mm che qualcu- distraendo la mente dalla riflessione. Non a caso oggi
no insiste ancora ad usare malgrado le conquiste del- con l’aiuto dell’elettronica questa “terribile” fase nella
l’era digitale. Ieri il mondo ignorava questo traguardo. storia della fotografia è felicemente superata.
Oggi questo mondo dei “pixel evoluti” riscopre che
L’otturatore meccanico era situato tra le alette del
l’idea dello scatto continua a prevalere sull’idea della sua manipolazione tecnologica. Il calcolatore deve diaframma impedendo il ricambio degli obiettivi proessere accompagnato da qualcuno per poter andare a blema che fu risolto con la costruzione di un primo
gruppo ottico fisso e un secondo per il 35 e 80mm inspasso a caccia dei momenti immaginari…
tercambiabile. Il mirino, che per questo motivo si pronunciava con la C maiuscola, era di grandi dimensioni
Pensate che questa Retina costruita in Germania con la presenza delle sagome per la delimitazione delle
dalla Nagel non aveva bisogno di batterie per funzio- focali 35, 50 e 80mm.
nare privando il mondo dal piacere dell’inquinamento
Infine gli obiettivi erano costruiti dalla celebre ditprocurato dai distratti e incuranti utilizzatori dell’energia accumulata. Ma questo era poco di fronte alla to- ta di ottica Schneider Kreuznar con la denomiziazione
tale assenza dell’esposimetro, di questo meraviglioso Xenon. Il C rosso sul fronte della lente indicava che
strumento di misurazione della luce magari anche con l’obiettivo era trattato per il colore.
“prevalenza al centro”, sistema conosciuto ai “vecchi”
Impressioni
fotografi ormai dimenticato dai cultori dei calcoli zonali e frammentari della realtà. Questa assenza spingeva
La Retina IIC si tiene in mano offrendo dal primo
chi fotografava a osservare con cura la dimensione, la
quantità e il “sapore fisico” della luce. Una costrizione momento una sensazione di compattezza e di solidità.
36 _______________________________________
scatti nel tempo
KODAK RETINA
Una piccola macchina che convince
subito per la sua precisione meccanica secondo le migliori tradizioni
dell’industria fotografica tedesca.
Il meccanismo di estrazione del
gruppo ottico è veramente preciso e
fluido. La messa a fuoco altrettanto dolce e precisa. Lo scatto, grazie
all’otturatore centrale, molto silenzioso e senza vibrazione…magari
avessero uno scatto simile le macchine moderne. Gli obiettivi Schneider Xenon insieme alla finezza
dei dettagli offrivano una particolare plasticità che conferiva all’immagine una sensazione di volumetria e
tridimensionalità.
Con questi obiettivi costruiti ancora con l’utilizzo di vetri si possono ottenere, ancora oggi, delle
bellissime immagini caratterizzate
dalla ricchezza dei dettagli e, per
quel che riguarda il bianco e nero,
da una incredibilmente vasta gamma tonale.
La “dolcezza” dello scatto e la
luminosità del mirino contribuivano all’uso della macchina a mano
libera anche con scarsa luce. L’otturatore compur garantiva precisione
e costanza nel tempo.
due musicisti, Leopald Mannes e
Leopold Godowsky, e perfezionata
nei laboratori Kodak. Nel 1935 è
disponibile nel formato 16 mm per
cinema; nel 1936 viene lanciata nei
formati 8 mm per cinema e 35 mm
per diapositive.
Confrontarsi con le conquiste
tecnologiche oltre che utile lezione per la compressione storica dell’evoluzione del mezzo costituisce probabilmente un momento di
sostanziale critica di quello che è
realmente utile. L’uomo fruitore e
insieme, costruttore di conoscenze
Le prime Retina I del 1939 erano delle compatte a mirino galileiano, dal 1951 alle ultime del 1957
l’obiettivo era l’eccellente SchneiUn po’ di storia
der-Kreuznach Retina Xenar 50mm
f2,8. Ma per noi l’interesse è sulle
La Retina IIC è la “logica” con- Retina II, IIa e IIc a telemetro (proseguenza di una lunga tradizione dotte dal ‘49 al ‘57) e sulla Retina
Kodak nel campo della fotografia e IIIc, una sofisticata telemetro propiù specificatamente delle macchi- dotta dal ‘54 al ‘57, folding come le
ne a telemetro 35mm.
prime Retina, ma con esposimetro
Il 1933 è l’anno della presenta- al selenio e obiettivo intercambiabizione della sua prima macchina con le (una rarità per le folding).
tempi d’otturazione fino a 1/1000 di
secondo.
Come epilogo…
Nell’ 1934 nello stabilimento
Kodak di Stoccarda, in Germania,
Ringraziando intimamente chi
viene realizzata la prima macchina ha “rischiato” pubblicando i miei
fotografica di precisione compatta, “profani” pensieri attorno ad una
la leggendaria Kodak RETINA I.
macchina fotografica su queste belMentre un anno dopo viene mes- le pagine della rivista desidero agsa in vendita la pellicola invertibile giungere ancora qualche timida riKODACHROME, la prima pellico- flessione.
la a colori amatoriale, inventata da
è del resto l’unica valida risposta all’uomo consumatore acritico delle
scelte altrui.
Il sapiente uso del mezzo e nel
nostro caso la “vera” conoscenza
delle privazioni e delle nuove possibilità offerte dal livello tecnologico può “sfamare” la mente umana
dando gli anticorpi per combattere
il deserto delle intenzioni e delle
scelte.
Come dire, anche una Retina, in
un momento della storia della fotografia, in un determinato livello
di conoscenza poteva rispondere a
modo suo alla ricerca del realizzatore dell’attimo fuggente.
A patto che quel momento aveva
senso…
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Intervista a Gianni Ansaldi
di Giampiero Orselli
Come è iniziata la tua avventura di fotografo ritrattista?
La mia avventura di fotografo ritrattista è iniziata guardandomi intorno nella città
in cui vivo (Genova ndr.) e notando il sottobosco culturale nascosto e terribilmente
fertile che c’era. Siccome so fare fotografie ho detto, proviamo a incontrare queste
persone e fotografiamole. Così è iniziata la prima serie di foto dedicata ai personaggi
dell’underground meno conosciuti. Poi, per forza di cose, frequentando persone della
cultra e dello spettacolo più ufficiale, come il poeta Sanguineti o il comico Enrique
Balbontin o il critico Claudio Fava, ho cominciato a ritrarre anche loro, sempre
mantenendomi in ambito ligure diciamo così... stanziale. Dopodiché ho iniziato a
incontrare anche i “liguri della diaspora”, come Cristiano De André o Pietro Cheli.
Poi anche questo vincolo geografico è saltato e le foto si sono estese a personaggi
nazionali e internazionali.
Quali sono le tue apparecchiature?
Visto il modo con cui mi approccio ai soggetti mi sembra d’obbligo usare le
macchine a cui sono più legato, anche grazie alla passione tramandatami da mio
padre. Sono le Leica M, nello specifico una M6 e una M3. La mia non è una scelta
snobistica o legata solamente all’aspetto della qualità e dell’affidabilità, ma è dovuta
anche alla loro discrezione e silenziosità, al fatto che il telemetro mi permette tempi
più brevi rispetto a una reflex, o il fatto che il carisma naturale di macchine come
queste mi aiuta a fare cose migliori. E’ un po’ come frequentare persone di grande
spessore intellettuale, che ti permette di approfondire argomenti più interessanti che
non frequentando… imbecilli. La M3 la uso con il leicameter, che non è il massimo
della precisione pellicole BN cromogene (una fra tutte la Kodak BW400CN) ho una
certa elasticità di esposizione. Le focali che utilizzo hanno un range che va dal 35
al 50 millimetri, ottiche assolutamente “normali” per far sì che possa fotografare le
persone chiacchierando con loro a una distanza “dialogica”. Uso prevalentemente
un Sumicron 35, preasferico, un Summilux 35 sempre preasferico, un fantastico
Summicron 50 del 56, e spesso un Sumicron 40 C, l’obbiettivo nato per la piccola
CL, che amo molto. Non cambio mai obiettivo durante il “dialogo”. Lo scelgo prima in
base alla situazione in cui mi troverò. Un 35 se saremo seduti vicini, magari con una
scrivania in mezzo, il 50 se sarò accolto in un salotto con comode poltrone o il 40 se
non saprò cosa aspettarmi.. In questo modo, evito gli atteggiamenti e riesco a cogliere
la spontaneità.
Bianco e nero o colore?
La scrittura con la luce per me è solo in bianco e nero. Non ricordo nemmeno una
foto a colori che abbia segnato la mia vita di appassionato di fotografie, a parte forse
qualcosa di Haas perché era contenuta nel primo libro che mi hanno regalato da
bambino. Sembra un paradosso, ma ho impressione che solo le foto in bianco e nero
restituiscano i colori e la luce della realtà.
I tuoi fotografi di riferimento?
Due per tutti: Cartier-Bresson perprimo. Molti suoi ritratti sono sfocati, mossi, con
angolature non tradizionali o piacevoli, però posseggono un’anima idefinibile e unica,
come il ritratto ai coniugi Courie
L’altro fotografo di cui mi piace guardare le fotografie la sera prima di un
“ritrattamento” è il buon Boubat , non mi stancherei mai di guardare il suo signore
portoghese sulla spiaggia con il bimbo in braccio, le ragazze di schiena di fronte al
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scatti nel tempo
Intervista a Gianni Ansaldi
scatti nel tempo ___________________________________________________________
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Intervista a Gianni Ansaldi
mare o le foto fatte dalla finestra a donne o a gatti o a semplici piantine con una luce
che sembra venire dal cielo solo per lui. Una luce che non so perché ma credo non
esista più. La stessa luce che filtrava attraverso le foglioline di una piantina di basilico
che mio nonno, io ero bambino, metteva sul bancone per non far entrare le zanzare in
casa...
Il tuo rapporto col computer?
Con il computer ho un rapporto fantastico, lo stesso che avevo con l’ingranditore.
Ho sempre sviluppato e stampato da solo il bianco e nero, ma ho scoperto che ci sono
ottime pellicole cromogene che lo scanner che uso attualmente, un Minolta Dimage
Elite 5400, digerisce benissimo dandomi ottimi risultati. Non trovo molta differenza di
approccio rispetto a quando stavo al buio con l’ingranditore. Oggi mi bagno meno
di acidi e inquino meno l’ambiente (credo). Col computer evito di fare quelle cose
che non potrei fare anche con l’ingranditore, mi limito a semplici mascherature o
a regolazioni di contrasto. Faccio sempre fotografia e non editing. Mi manca un po’
l’odore del bagno di arresto, è vero. Ormai l’acetico lo odoro solo per tenermi sveglio
nelle notti di lavoro al computer.
Ci racconti qualche aneddoto?
Un “non aneddoto”. Quasi nessuno dei ritrattati vedendosi davanti uno con una
macchina di 50 anni ha fatto commenti. Nessuno degli oltre cento ritrattati stranamente
si è stupito di non trovarsi davanti una digitale tutta lucine. L’unico che ha lanciato
una bella esclamazione goduta è stato Fabrizio Casalino (in arte “Giginho”), perché
sua padre possiede una macchina del genere. Lui faceva un po’ il clown durante il
nostro incontro, così ho deciso di pubblicare l’unica foto in cui è molto serio.
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scatti nel tempo
Intervista a Gianni Ansaldi
Il personaggio che sogni di fotografare in assoluto?
Tra i “quasi impossibili” Woody Allen, senza dubbio, Wim Wenders, e non mi
dispiacerebbe neanche Ciampi. Quando andrà in pensione, cerchero di contattarlo. Ho
il rimpianto di una foto mancata. Avevo di fronte Lou Reed, presentatomi da un amico,
gli ho stretto la mano... ma non avevo la macchina con me così mi sono allontanato col
desiderio di sprofondare in un tombino.
E la donna che ti piacerebbe fotografare?
In un’altra intervista, ho dichiarato che non amo fotografare le donne perché di
solito hanno più attenzione per come si vedranno nella foto finale piuttosto che
cercare di proporre un’immagine reale. Ma non è sempre così. Ad esempio non è stato
così con Carla Signoris che di solito vediamo in televisione o su certe giornali glamour
dopo un pesante trattamento di trucco. Da me s’è fatta fotografare di prima mattina
senza ombra di trucco e appare come una splendida “quarantaepassenne” con tutta
la sua storia. Mi è sembrata felice della foto anche se mi ha pregato di mettere come
didascalia: “Attrice senza trucco”.
La donna che in assoluto mi piacerebbe di più fotografare è Juliette Binoche. Film
Blu è uno dei miei film di culto.
Poi ci sono le “mie” donne. Che adoro fotografare. Mia moglie e le mie bambine. Che
mi hanno fatto scoprire che davanti al mio obiettivo già dai quattro anni cominciano a
fare le difficili... è la magia del femminino...
Sai vero che ti chiederò come mai le tue foto sono sempre storte?
Inclinate, please... Mi piacerebbe che a rispondere fossero eventuali critici, ma
proverò ad abbozzare una risposta. Dal lato “estetico” posso dirti che questo
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Intervista a Gianni Ansaldi
“movimento” favorisce la cognizione del “dialogico” da cui i miei ritratti partono
sempre... l’”onda del dialogo”... da quello teorico potrei dire che ho notato che
quando parlo con qualcuno mi accorgo di avere sempre il viso e quindi lo sguardo
leggermente inclinato, e quindi ho la voglia di ricreare quel tipo di “visione”... in realtà
è che nei miei ritratti voglio che prevalga sempre l’istintualità, il “baciare l’attimo” nel
modo più imprevisto e improvviso... e quando si bacia è giocoforza inclinare il volto...
Hai mai fatto autoritratti?
Non resisto agli autoritratti. Ogni volta che mi trovo in un ascensore davanti allo
specchio, tiro fuori la macchina. Nove volte su dieci, la foto viene mossa perché gli
ascensori di Genova sono vecchi (e menomale), bui e sballonzolano in un modo che
si nota solo quando si cerca di fare una foto. Rendo pubbliche solo le foto recenti,
perché non voglio dare di me un’immagine che non corrisponde più alla realtà.
L’occhio del padrone ingrassa il cavallo, e l’occhio del fotografo?
Spero che per molto tempo ancora ingrassi i mercanti di pellicole.. ma il digitale
avanza. E’ il progresso, baby...
Frammenti di un’intervista a Gianni Ansaldi realizzata a Genova il 1 marzo 2006
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scatti nel tempo
Arturo Rebora e il suo “angolo”
Rimescolando in ottiche
“In un bosco trovai pastorella, più che bella al mio parere….” Il poeta va avanti ed io mi fermo. Nei miei amati
cassetti ho trovato, ma non dimenticati, quei begli obiettivi Zeiss per Contarex unici almeno per la meccanica e la
cosmesi fatti a botticella; come li vedo me ne innamoro
sempre di più specie oggi che giovani ragazze mi offrono il
posto a sedere in autobus che rifiuto sempre cortesemente
ringraziando per il gesto. Ma perché sono finiti sulla Contarex? Perché ostinarsi a fare anche le macchine fotografiche?
In una officina ho visto uno strumento Zeiss di controllo
profili, una meraviglia struggente ed ancora perché Contarex ed altre? Due di questi obiettivi sono già finiti sulla mia
Leicaflex SL, qualcuno mi disprezza, altri no; sono comunque convinto del mio gioco. E’ proprio obbligatorio fotografare con la reflex? Certo è più comodo, la reflex ha inventato
il mirino, prima esistevano solo dispositivi di puntamento ed
inquadratura, un poco come nelle armi a tiro lontano ed ecco
che oggi voglio tornare indietro.
Voglio usare gli obiettivi Contarex sulla Leica a vite IF
con bei mirini dedicati alle varie focali. Sarà un gioco suscettibile di critiche ma eccovi il risultato con le dovute rinuncie
e limitazioni.
Perché ragiono così? Non ho mai capito perché chi è stato
bravo a costruire ottiche voglia fare macchine fotografiche
e viceversa, è una gelosia incomprensibile o la prepotenza
di condizionare il fotoamatore? Oggi nell’universale mondo
degli scambi questo dovrebbe cessare: tu costruisci la macchina, io gli obiettivi entrambi al meglio per costo e qualità e
saremo tutti contenti coi nostri mercati. Solo Exakta ed Alpa
hanno ragionato come me: Quanta gelosia così il mercato
muore o si orienta a rottamaglia generica.
Credo di aver espresso ilmio punto di convinzione, stampo cinque foto per notte 18x24 o 30x40 apro il laboratorio
casalingo alle ventidue e lo chiudo alle due e trenta del giorno
dopo. Di notte non vi sono vibrazioni sull’ingranditore e la
concentrazione è totale.
Se dovessi vivere però di questo pane peserei meno della
metà con grande gioia di mia moglie, ma senza tale gioco sarei da tempo vestito di mogano da tre centimetri di spessore.
Amici, non mi sento portato a questo tipo di abito.
A voi il giudizio insindacabile come sempre. Arturo Rebora
Che ne dite di questa prima esposizione?
Leica IF con Blogon 21 Contarex
Leicaflex con Olymoia Sonar 250 l’avete già visto in
Scatti di aprile un anno fa
E questi bei Hektor 135 impossibili sulle vite ed M
come li vedete sulla mia Leicaflkex?
Allegare foto disco
Faccio il ritratto
Molti anni fa ho conosciuto un fotografo ritrattista con u
a attrezzatura unica mai riscontrata in altri laboratori e ve la
voglio descrivere. E’ risaputo che oltre al trucco dei visi da
ritrarre il buon risultato si ottiene dirigendo acconciamente le
luci in funzione degli effetti che si vogliono ottenere illuminando il viso in base alla forma, pregi e difetti.
Poi entrano in funzione tipo di film usato ed obiettivo fotografico. Ecco la descrizione.
1°) Set di ripresa: due faretti laterali ed uno sfondo; sullo
sfondo luci di effetto abbastanza tradizionali più qualche spot
diffuso. Ma il pregio visto sono state le pareti laterali; in sintesi dodici più dodici lampade laterali disposte a scacchiera
e puntate sul soggetto al centro del set ma non sempre tutte
accese.
A questo punto il signor mago fotografo l’ho visto armeggiare su una pulsantiera tipo fisarmonica che accendeva o
spegneva le lampade ottenendo illuminazioni sul viso atte ad
esaltare o ridurre le sinuosità. Ho provato con una statuetta ed
una lampada direttiva. E’ una esperienza che può far capire
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Arturo Rebora e il suo “angolo”
come la illuminazione possa cambiare i
volumi degli oggetti.
2°) Film: il mago ha usato Tri X vecchia, cristalli tradizionali, sviluppo D76
diluito oppure naturale, carta baritata
opaca , credo non si possa scegliere meglio in ambito tradizionale.
3°) Obiettivo: luminoso ma usato a
diaframma 4 ( 5,6 è già troppo chiuso)
focale 85/90/100; 135 per i testoni o
particolari del viso. Io ho usato anche
un 250 a 4 per il diaframma, inoltre ho
modificato un Sonar 85 Contarex per un
montaggio su Leica SL; ha il diaframma da predisporre come ho già descritto
in altro Scati nel Tempo (aprile 2005)
ma tutto rimane comodamente fisso e
facilitato. Tra i vari in mio possesso lo
preferisco specie per la focale.
Amici se non vi stancate di provare ritengo possiate giocare con buon
divertimento ed apprezzamento delle
vostre modelle. Ed eccovi la pianta del
set. (aggiungere disegno)
Dove vai fotografia? Dove?
Quando frequentavo il liceo prima
del 1950 due parole studiando latino e
tedesco mi affascinavano: “Quo vadis”
che poi è anche un film famoso e “Gotterdammerun” o Crepuscolo degli Dei.
Ecco Rebora che rompe ma udite, sentite anche se devo prenderla un poco da
lontano.
Ogni epoca ha i propri miti, mode
e tecniche e quindi anche la fotografia;
sono passati il collodio, altro, ed oggi la
pellicola sensibile, niente da dire, specchio dei tempi, ma fotografare e fare
fotografia vuol dire scrivere con la luce
ancora oggi. Prima si vede si osserva si
studiano le luci che illuminano i soggetti
da ritrarre e poi si fissa con la attrezzatura acconcia quanto si è visto, qualunque
attrezzatura può andare bene.
Oggi però non è più come in passato a mio avviso. Vedo, escludendo i
veri fotografi almeno in parte, masse
di persone con un quadretto ad altezza
d’occhio con i gomiti alzati a comporre
l’immagine sul quadretto, certo bella,
ma sento anche dire: “poi con l’elaboratore o computer cambio inquadratura,
colore, tolgo i disturbi d’immagine”; un
signore guardandomi mentre lo guardo
interviene: “ sa’ ne ho già scattate centoventi poi questa sera le selezionerò”
– sarà possibile in una sera?
Non ho risposto, oggi mi riesce difficile conversare a base di pixel, milioni
di pixel più ve ne sono migliore è la fotografia, foto e banche, autotreni di milioni, milioni di euro milioni di dollari e
così via ai pixel.
E la profondità di campo, il diaframma, la lunghezza focale, lo sfuocato il
mosso, i tempi lunghi il flou che anche i
fotografi di matrimoni confondono con
lo sfuocato dove sono finiti? Non servono più? E le esportazioni di Alfredo
Ornano ai neofiti a ben costruire un negativo per la stampa in camera oscura
sul proprio ingranditore dove sono finiti, e non parlo di Ansel Adams.
Oggi con tutti i pixel ed il computer
collegato alla stampante. Niente mani
abili per mascherare e dosare la luce
sulla stampa, niente abilità a maneggiare le bacinelle coi reagenti adeguati
e differenti, niente chimici e niente dialogo tra amici appassionati di fotografia
capaci o no ma comunque coinvolti nella realizzazione di una immagine.
Appunto dove vai fotografia? E pensare che in passato qualche volta venivano esclusi dai concorsi amatoriali
quelli che si sapevano possessori di una
Leica (quelle a vite) i quali inoltre non
avevano ancora capito di avere solo un
buon otturatore. (sarò punito per questa
constatazione?).
Anche per mia figlia ho comprato
una pizcamera ma con lei parlo solo di
immagine, lei sa usare i programmi che
cancellano cambiano zoomano mettono
ciò che non c’è e non si è visto neanche
al momento della ripresa sul campo.
Io e qualche mio amico che tutti conoscono sappiamo solo mettere le nuvole nei cieli troppo tersi, e per procurarci le nuvole fotografiamo il cielo
dopo un temporale per averle ben
grasse e contrastate con tanti grigi
ed ovviamente con pellicola Bianco/Nero.
Secondo voi senza invocare Wagner ciò è o non è il crepuscolo degli
dei? Ed allora Tessar, planar, Sonar
unibilissimi vetri insieme ai colossi
Gauss, Rodolph, Taylor tutti in coperta marinai ed informate i mega
pixel imperanti che la fotografia la
fate ancora voi, voi che guidatela
luce e scrivete con i suoi raggi.
Salve amici del vetro. Arturo
Rebora
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scatti nel tempo
OPERE DI PIERO FARINA ALLA GALLERIA CARRA’
Da la GAZZETTA DI PARMA – Martedì 20 gennaio 2004.
OPERE DI PIERO FARINA ALLA GALLERIA CARRA
Come trasformare la fotografia in “pittura”. Si potrebbe, a prima vista, raccontare così la mostra di Piero Farina, aperta alla Galleria
d’arte fotografica Carra di Piazzale Cervi, fino al 7 febbario. Ma è solo un’”illusione” visiva, perché il fotografo e stampatore, milanese
d’origine ma pavese d’adozione, non ha mai abbandonato nella sua ricerca il mezzo e le tecniche della fotografia. L’esposizione presenta
poco più di una ventina di opere, realizzate tutte tra il 2002 ed il 2003, raccolte sotto l’allusivo titolo “La materia delle immagini”, e
mette in evidenza l’evolversi di un’operazione creativa, che affonda le radici in un passato tutto “in bianco e nero” e che è approdata
alle chimigrafie di cui il colore diventa soggetto del percorso creativo.L’autore utilizzando in maniera “anomala” le chimiche per uso
fotografico con attenzione anche ai loro effetti sulle carte di stampa, realizza infatti una sorta di trama “informale”, in cui il colore
acquista valenze e forme diverse, elevando in questo modo la materia a vera e propria espressione autonoma dagl infiniti significati “in
libertà”. A monte un’esperienza che guarda ad una lunga tradizione di fotografi-artisti che hanno indagato le possibilità espressive dei
materiali fotografici e della luce quali Man Ray, Moholy-Nagy, Veronesi, Mulas, Migliori, e che hanno lasciato una traccia ben definita
in questo tipo di ricerca dentro la creatività. Il percorso prosegue con le fotochimigrafie dove l’immagine di base acquista una propria
specifica valenza sia che resti leggibile sia che venga scomposta in sequenza fino a perdere i connotati definiti tanto da essere in alcuni
casi rintracciabile solo dall’occhio attento. La riflessione sulla materia viene così a riunirsi all’idea di soggetto che vive però di una
sorta di distruzione progressiva, quasi forma in disgregazione. Ma Farina non si ferma qui. Se la mostra riassume infatti un ben preciso
percorso, l’autore, da instancabile ricercatore, si apre già a nuove intenzioni. “Il prossimo passo – conferma – andrà verso quelle che io
chiamo le combustioni e le foto sculture”, alla ricerca di nuovi effetti visivi, affidandosi a nuove invenzioni e interventi sui modi e sui
mezzi della fotografia.
Stefania Provinciali
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Associazione Castello
Immagini
Assessorato alla Cultura e Tempo Libero
Assessorato allo Sviluppo Economico
Comune di Castel San Giovanni
vi aspettiamo per la prossima
edizione che si terrà
Domenica 15 aprile 2007
PHOTO ‘90
Val Tidone
Mostra-Mercato di materiale fotografico
usato e d'epoca
www.photo90.it
-
E-mail: [email protected]
Per informazioni Dante Tassi 335-33.05.08 oppure Anna Dallanoce 335-60.77.836
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