l`arco nella rimini di augusto

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l`arco nella rimini di augusto
LA RIMINI DI AUGUSTO
L’Arco è il primo dei tanti interventi urbanistici che Augusto promuove in Ariminum
per conferirle la dignità di splendida città dell’impero.
Dal 27 a.C. lo sguardo di chi raggiunge Ariminum da Sud, percorrendo la via
Flaminia, viene attratto dal grandioso Arco che segna l’ingresso alla città.
L’imponente monumento cattura l’attenzione per il candore della pietra calcarea che
lo riveste, per il bagliore del bronzo dorato dell’iscrizione, per il gruppo scultoreo
sull’attico, per l’altezza che lo eleva al di sopra della linea difensiva, per l’ampiezza
del passaggio. La percezione più immediata che ne deriva è quella di una città aperta,
di un invito a entrare fra le mura oramai spogliate della loro funzione di barriera. In
una parola l’Arco esprime pace. Interpreta l’idea che è terminata l’epoca travagliata
delle guerre civili e che le città dell’impero possono finalmente spalancare le porte,
travalicare i loro confini.
Il grandioso monumento, porta urbica e insieme arco onorario, viene eretto al termine
della via Flaminia laddove prima esisteva Porta Romana. Nello stesso sito, affiancato
dai torrioni delle possenti mura in pietra arenaria della prima età repubblicana, viene
ad aprirsi una mirabile architettura che, non chiamata ad assolvere funzioni difensive,
intende piuttosto porsi come segno propagandistico del potere di Augusto e
celebrativo della sua figura di giovane princeps. A esaltarlo sono l’intera struttura,
che richiama il tempio, l’apparato decorativo e scultoreo, l’iscrizione che esplicita i
motivi della costruzione.
Proprio alla monumentale epigrafe con i caratteri in bronzo rivestiti da foglia d’oro,
una sorta di striscione dei tempi moderni posta sull’attico che sosteneva la statua
dell’imperatore, Augusto affida la dichiarazione del programma politico che ha il
primo atto nel rifacimento delle “più splendide” vie d’Italia. A partire dal riassetto
della via Flaminia che il senato celebra decretando l’innalzamento ai suoi estremi di
due archi. Nel linguaggio sintetico proprio dell’epigrafia, l’iscrizione dell’Arco
riminese propaganda i valori su cui Ottaviano fonda l’immagine che va costruendosi,
esaltandolo come promotore del rifacimento delle strade
A distanza di 4 anni dalla battaglia di Azio, oramai lontana l’eco della guerra,
Augusto sceglie di abbandonare la veste del generale vittorioso per assumere quella
del governante impegnato in opere al servizio dell’impero. L’attenzione alla
viabilità intende rafforzare l’unità del territorio romano, agevolando le
comunicazioni che incrementano i commerci e la crescita economica.
L’intero apparato figurativo dell’Arco è vettore di significati sottesi. A iniziare dalla
scenografica statua equestre dell’imperatore che doveva coronare la sommità.
La struttura del monumento si fonde con l’apparato decorativo che ne sottolinea ogni
parte. Una protome taurina segna la chiave di volta, emblema della sacralità della
porta. Fra il fornice e la trabeazione,si inseriscono i clipei, gli scudi da cui guardano
le divinità care a Ottaviano: nel lato esterno Giove con i fulmini e la faretra e Apollo
con la cetra e il corvo, in quello interno Nettuno con il delfino e il tridente e Roma
con il gladio e un trofeo.
Il gusto decorativo esplode anche nel variegato repertorio dei lacunari nelle
trabeazioni dei timpani. Gli stessi elementi strutturali (la trabeazione, le colonne
ioniche e i capitelli italo-corinzi) persa la funzione di sostegno, diventano motivi di
ornamento e di partizione della superficie:
La fabbrica dell’Arco è il primo atto del progetto urbanistico che Augusto riserva ad
Ariminum trasformandola in splendida città dell’impero. Un profilo immutato grazie
ai monumenti che segnano gli ingressi alle estremità dell’antico decumano: da un lato
l’Arco, dall’altro il Ponte sul Marecchia, iniziato nel 14 d.C., anno della morte di
Ottaviano, e terminato nel 21 da Tiberio.
Intrapresa, quest’ultima, dal carattere funzionale, affidata a ingegneri e architetti che
applicano tecniche di costruzione idraulica, tali da garantire nei millenni la stabilità
del ponte, l’unico, fino agli inizi del Novecento, a raccordare il centro al suburbio
settentrionale. Ma anche un palinsesto su cui immortalare i segni del potere politico
centrale. A iniziare dall’iscrizione sui parapetti interni che dichiara la paternità
dell’opera ricordando, a grandi lettere, le titolature dei due imperatori; per proseguire
con il sobrio apparato decorativo sulle chiavi di volta delle arcate, un richiamo
all’autorità civile (la corona d’alloro e lo scudo) ma soprattutto religiosa (il lituo, cioè
il bastone del sacerdote, la brocca e la patera per i sacrifici) che connota il princeps
come uomo di pace e interprete della pietas.
Punto di partenza della via Aemilia e della via Popilia, il ponte, rivestito da pietra
calcarea, si sviluppa per oltre 70 m su 5 arcate che poggiano su massicci piloni con
speroni frangiflutti, disposti in obliquo rispetto all’asse stradale al fine di assecondare
la corrente per attenuarne l’urto.
Oltre a questi grandi segni sopravvissuti nella storia, l’archeologia documenta altri
interventi di riqualificazione che trasformano la città e il territorio in un grande
cantiere aperto. In primis la lastricatura delle strade urbane, documentata
dall’iscrizione, ora nel Lapidario romano del Museo della Città, che data all’1 d.C.
l’opera pubblica assegnandola al nipote di Ottaviano, Caio Cesare. E inoltre il
potenziamento dell’acquedotto e della rete fognaria, la bonifica di un intero quartiere
nel settore meridionale della città intorno all’Arco, il riassetto dei ponti sul torrente
Ausa e sulla fossa Patara, il restauro delle vie consolari, il rinnovo dell’edilizia
privata… Ma è sull’area del foro che si concentra il programma urbanistico mirato a
esprimere in forme monumentali cultura, potere e ordine civico del neonato impero.
L’ingresso meridionale del foro è segnato da un arco in blocchi di arenaria che crea
una “isola pedonale” vietata al traffico pesante dei carri. Ciò sottolinea il ruolo vitale
della piazza, cuore della comunità civile e religiosa, su cui vengono a prospettare la
basilica, i templi e il teatro che ridefiniscono lo spazio del foro (più ampio rispetto
all’attuale piazza Tre Martiri) conferendogli unitarietà e attribuendo maggior dignità
alle funzioni che qui si svolgono.
A fare da sfondo è proprio il teatro, inserito nella prima insula a Nord. Della
costruzione in laterizio non restano che timide tracce inglobate nel tessuto urbano e
colonne in marmo cipollino dalla scena, esposte al Museo della Città insieme a un
grande dolio. Edificato probabilmente in età augustea, il teatro testimonia come il
luogo di spettacolo avesse assunto il ruolo di fattore qualificante della vita cittadina e
di punto di aggregazione culturale. Non a caso, nonostante la sua costruzione
comportasse uno stravolgimento nel tessuto insediativo, il teatro viene a prospettare
proprio sul foro creando una quinta scenografica all’ambiente disegnato da portici e
costellato di monumenti onorari, statue e iscrizioni.
Pur in mancanza di conferme archeologiche, si può ipotizzare che nella prima età
imperiale siano state potenziate altre infrastrutture, quale il porto, e che siano stati
riservati spazi alla celebrazione della famiglia imperiale, come fa supporre la testaritratto in marmo che immortala Ottaviano Augusto, in origine inserita forse in una
galleria di statue in prossimità del foro e ora al Museo della Città.
Il rinnovamento avviato da Ottaviano investe anche l’ambito privato: emblematici i
raffinati edifici a fianco dell’Arco d’Augusto, dotati di impianti di riscaldamento,
fontane ornamentali, ambienti absidati e mosaici per lo più a fondo nero, anche
impreziositi da lastre di marmo.
L’influenza della cultura dominante pervade tutte le manifestazioni artigianali e
artistiche, generando una koinè di cui Ariminum si rivela un’efficace testimone:
sculture, arredi, suppellettili oltre a mosaici e affreschi arredano le ricche domus
caratterizzate da impianti estensivi, con vani di rappresentanza e ameni giardini
porticati.
LA VIA POPILIA
Ariminum fin dalla fondazione si qualifica come importante porto militare e
commerciale e come nodo strategico nei collegamenti fra il settentrione e il centro
della penisola, nonché punto di partenza verso l’Europa. Traguardo, quest’ultimo,
concepito nel disegno politico del console Caio Flaminio che, con il tracciato della
via omonima, trasforma la colonia in trampolino di lancio per la conquista della
Cisalpina.
Alla via Flaminia (220-219 a.C.) che, dal ponte Milvio a Roma, termina all’ingresso
meridionale di Ariminum, Porta Romana, sostituita nel 27 a.C. dall’Arco di Augusto,
si aggiunge nel 187 a.C. la via Aemilia, che esce dalla parte opposta della città,
scavalcando l’Ariminus, e attraversa la Pianura Padana fino a Piacenza; l’articolato
sistema stradale si completa nel 132 a.C, con la via Popilia, il percorso litoraneo
volto a Nord.
Il territorio di Bordonchio, che doveva collocarsi in un’area costiera oltre il limite del
territorio centuriato (la linea di riva di età romana correva più a occidente
dell’attuale), era attraversato da due importanti direttrici di traffico: quella che noi
oggi chiamiamo la “via del Confine” - che costituiva appunto “il confine” orientale
della centuriazione e che assicurava un rapido collegamento in senso NO-SE tra
l’area cesenate e quella riminese – e la via Popilia, una direttrice importante per le
comunicazioni e per il passaggio delle truppe, attrezzata dal console Publio Popilio
Lenate, che univa Ariminum ad Adria, centro da cui partivano la via Annia diretta ad
Aquileia e itinerari fluviali lungo i corsi del Po e dell’Adige.
Il primo tratto della via Popilia, da Rimini a Bellaria, coincide sostanzialmente con
l’attuale percorso della statale Adriatica, come indicano i ritrovamenti archeologici.
La strada, che usciva da Rimini attraverso il ponte di Tiberio, ricalcava il tracciato
della via Emilia fino alla zona delle Celle, fiancheggiata, secondo l’usanza del tempo,
da necropoli. Quindi proseguiva in direzione N-NO seguendo l’andamento della linea
di costa, lungo un cordone sabbioso-ghiaioso sopraelevato rispetto alle circostanze
aree lagunari e vallive.
All’altezza della frazione di Bordonchio (nel comune di Bellaria-Igea Marina) si
allineavano ai lati della strada tre sepolcreti pertinenti a un insediamento sparso
collegato ai commerci lungo la via Popilia -in particolar modo a quello del sale delle
vicine saline nel territorio dell’attuale Cervia, nelle zone basse a ridosso del cordone
costiero-, e a una economia agricola alimentata da coltivazioni ortive. Ricordiamo al
proposito che il poeta Marco Valerio Marziale, vissuto nel I secolo d.C., elogiò in
versi gli asparagi dalla polpa tenerissima, consigliando di assaggiare quelli
provenienti dalle coltivazioni nel litorale di Ravenna, esportati a Roma per deliziare il
palato dei ceti benestanti.
All’economia agricola si affiancava quella della pesca e quella dell’allevamento, in
particolare suino legato alla produzione di salumi, di consolidata tradizione in tutta la
regione. A favorirlo anche la disponibilità del sale di Cervia, prodotto e lavorato da
età etrusca; le saline, apprezzate per le caratteristiche tecniche e per le notevoli
estensioni, garantivano la materia prima per la conservazione delle carni. Aspetti che
fanno pensare che le saline cervesi rientrassero nei beni della famiglia imperiale e
godessero di una organizzazione amministrativa autonoma.
Un notevole impulso ai commerci e in genere all’economia del territorio derivò dalla
vicinanza del porto di Ravenna, aperto a traffici con l’intero mondo romano e punto
di approdo di genti e culture dell’impero.
Le testimonianze archeologiche finora rinvenute nel territorio di Bellaria-Igea
Marina, frutto di recuperi per lo più a carattere sporadico e casuale sono leseguenti:
- Moneta fusa della serie riminese più antica (aes grave)
- Lucerna fittile con figura di gallo tra palme
- Fittili anche bollati (bolli Fesonia e Pansiana, Cinniana)
- Podere Vanzi, presso la strada del litorale: ritrovamento nel XIX sec. di n. 2
stele funerarie (CIL XI, 479 e 534). La prima risale alla fine del III-IV secolo e
presenta nel frontoncino triangolare un busto, disegnato molto sommariamente:
dedicata a Lupio (Lurio?) Severo dai figli (esposta nel Lapidario romano). La
seconda è un frammento di stele corniciata in ricordo probabilmente di un
giovane defunto. Si ricostruisce il nome del dedicante, Aurelio Patercolo:
datata alla seconda metà del II sec. (nei magazzini del Museo)
-
Diploma militare in bronzo del III secolo, oggi al Louvre. Ritrovato nel 1838,
doveva essere la copia di un decreto con cui l’imperatore concedeva dei
privilegi a militari di origine non romana (CIL XI, 373)
- Stele di Egnatia Chila (dal terreno Cima)
- Cinerario in marmo con iscrizione sepolcrale, rinvenuto nel 1902 nel terreno
parrocchiale (CIL XI, 6795). Dedicato a Titio Cesio Longino della tribù
aniense, vissuto XX anni (esposto nella Sezione archeologica)
LA STELE DI EGNATIA CHILA
Rinvenuta nel 1752 dal conte Pietra Cima, in uno dei suoi possedimenti a
Bordonchio, e poi donata a Giovanni Bianchi (illustre appassionato di antichità,
notocome Jano Planco), la stele* confluì poi nel XIX secolo nelle raccolte del Museo
di Rimini, con gran parte della sua collezione.
Lo splendido monumento funerario in pietra calcarea, mancante della parte superiore
e di quella inferiore e spezzato in due parti al momento del ritrovamento (alt. m.1,68;
largh. m.0.60, sp. m. 023; alt figura m. 1,27), è una stele di tipo architettonico che in
alto, all’interno di una nicchia racchiusa da due esili colonne una figura femminile
con lunga tunica e mantello drappeggiato, con la mano destra alla spalla e la sinistra
in basso a sostenere il velo raccolto in fitte pieghe. Un’opera scultorea originale sia
per la rappresentazione della figura intera (piuttosto che del più frequente busto), sia
per il corpo longilineo, ma sinuoso e sensuale, e le accentuate trasparenze dei veli.
Un’immagine artistica molto raffinata realizzata a rilievo, che rappresenta la donna
come una dea il cui corpo nudo, sotto la trasparenza del velo, esalta la femminilità e
richiama il senso della maternità nella morbidezza del ventre e del seno.
Sotto l’immagine della donna, una fascia riporta un’iscrizione che, in poche righe,
una sorta di “twitter” dell’epoca, ci fornisce molte informazioni: il nome e il
cognome della donna, Chila della famiglia (gens) Egnatia, la sua condizione di
liberta, schiava liberata, che era appartenuta a una donna. E infine, in rilievo perché
isolato, al centro della seconda riga, la definizione di UXOR, moglie legittima di colui
che ha voluto dedicarle questo splendido monumento e il cui nome era probabilmente
inciso in un altro specchio epigrafico, forse posto in alto.
Proprio l’imperatore Augusto fu ispiratore di una serie di leggi nel campo del diritto
di famiglia, con evidente intento moralizzatore. Fra queste la possibilità degli uomini
liberi, purché non appartenenti all’ordine senatorio, di sposare liberte a condizione
che non fossero malfamate.
Accompagnano Chila (questo il suo nome proprio che i Romani definivano
cognomen) due volti femminili, rappresentati ai suoi piedi. Due giovani donne di cui
non conosciamo il rapporto con la defunta: erano sue congiunte oppure sue ancelle,
oppure….? I capelli, raccolti secondo la moda in voga a cavallo fra il I secolo a.C. e il
I sec. d.C., lanciata dalle donne della famiglia di Augusto che facevano tendenza,
contribuiscono a datare il monumento insieme ai caratteri dell’epigrafe che esprime la
dedica. I capelli appaiono raccolti in uno chignon sulla nuca; solo un ciuffo anteriore
centrale è acconciato in un nodo gonfio, ricadente sulla fronte, che una treccia sottile
raccorda allo chignon.
La gens Egnatia è attestata a Rimini da altre due iscrizioni che riconducono a
personaggi di estrazione modesta, ma economicamente solidi. Del resto anche la
nostra stele, opera di un’officina di alto livello seppure locale, dovette richiedere un
notevole impegno economico. Un tale monumento, alla volontà di perpetuare la
memoria della defunta, associava quella di affermare la posizione sociale e
finanziaria raggiunta dalla famiglia.
Una donna senza volto, perduto nel tempo, che potremo solo ritrovare con la nostra
immaginazione, riconducendolo al nome di Egnatia Chila per restituire “identità” al
personaggio.
Il recente restauro, affidato a Fabio Bevilacqua del CRC Restauri srl di Molinella
(Bologna), con la pulitura della superficie, ha evidenziato segni che accendono nuove
luci sulla storia del monumento dalla sua collocazione all’interno di un piccolo
sepolcreto lungo la via Popilia al suo ritrovamento casuale nel XVIII secolo.
Questi i passaggi principali dell’intervento:
- indagini preliminari alla conoscenza della pietra e dei trattamenti di superficie che
avevano interessato il manufatto nel tempo
- test di pulitura per individuare il tipo di intervento utile a rimuovere sedimenti e
incrostazioni di superficie
- individuazione di una serie di fratture e stuccature su tutta la superficie lapidea
- intervento di pulitura attraverso un impacco composto da Sali a base alcalina in
soluzione acquosa
- incollaggi di alcuni frammenti staccatisi
- stuccature e riempimenti, attraverso anche nuove integrazioni, con impasti a base di
povere di calcare e carbonati di calcio
- integrazione estetica consistente nella velatura con colori ad acquarello delle
stuccature nei toni della pietra
-fissaggio di protezione con trattamento a cera in emulsione
Il restauro ha evidenziato inoltre consunzioni e levigature in punti ben distinti, come
il seno, la mano, il ventre e un piede, tali da far supporre che la stele fosse oggetto di
venerazione per supposte proprietà guaritrici.
*Così i Romani definivano una lastra verticale di pietra con decorazioni in rilievo e/o
iscrizioni, eretta a scopo commemorativo, votivo o come monumento funebre.
Bibliografia
Angela Donati, Rimini antica. Il lapidario romano, Rimini 1981
Pier Luigi Dall’Aglio (a cura di), Storia di Bellaria, Bordonchio, Igea Marina.
Ricerche sul territorio dalle origini al XIII secolo, Rimini 1993
Francesca Cenerini, La donna romana. Modelli e realtà, Bologna 2002
Lorenza Bonifazi, Marzia Ceccaglia, Angela Fontemaggi, Orietta Piolanti (a cura di),
Le pietre raccontano, Rimini 2013