- 1 - FEDE, CULTURA E SOCIETÀ Budapest, Università Corvinus 6

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- 1 - FEDE, CULTURA E SOCIETÀ Budapest, Università Corvinus 6
FEDE, CULTURA E SO CIETÀ
Budapest, Uni versità Corvinus
6 febbraio 2014
Card. Gianfranco Ravasi
L’orizzonte temati co suggerito dal trin om io “moralità, economia, società secolarizzata ”
– oppure, alla rgando l o sguardo, “fed e, cult ur a, società” – è evidentemente immenso e
ammette infiniti percorsi di analisi e m olt eplici esiti di bilancio e di sintesi. È indub bio,
perciò, che la nostra potrà essere solo una r iflessione emblematica all’interno della qu ale
si aprono spa zi bianchi , passibili di ulteriori e ampie considerazioni.
Una premessa
Iniziamo con una premessa. “Econom ia” è un a parola greca che significa “ la legge de lla
casa” del m ondo, nella quale sono da considerare innanzitutto le persone prima d i
ogni r ealtà finanziaria. F inanza ed economia non sono quindi sinonimi . L’eleme nto
fondamental e è riconoscere che la figur a centr ale che domina l’orizzonte è la pers on a
umana. La f inanza è soltanto uno str ument o che deve essere al servizio dell’economia ,
che è la regola della vita sociale dell’in tera umanità.
In momenti diff ici li c’è la necessità di rit rovare alcuni valori culturali ed etici fondativ i.
Da uomo di Chiesa e da esegeta biblico vor rei p artire dalla visione cristiana profondame n te
innervata all’interno della società e della cu ltura, tanto da costituirne una presen za
imprescindibile. Inf att i, come è noto, la te si cen trale del cristianesimo resta l’Incarnazio n e:
«Il Verbo divenne carne» ( Giovanni 1, 14 ). Pe rt anto, nel cristianesimo si ha un intreccio tra
fede e storia e, perci ò, un contatto tra religion e e vita politica e sociale.
Trattare, dunque, un tema simile rientr a n ei fondamenti stessi dell’esperienza ebr aicocristiana, e q uindi della Bibbia, che tr a l’alt ro è anche il “grande Codice” della nostra
cultura occi d ental e. Goethe riteneva il cr istianesimo la “lingua materna” dell’Euro pa,
perché r appresenta una sorta di “imprint ing” che noi tutti ci portiamo dietro. Per alcun i
forse potrà essere un peso; per molt i, invece, rimane un’eredità preziosa. Ebbene, pe r
sviluppare il t ema sia pure in modo sem plificato, ci affideremo a quattro componen ti o
principi emblemat ici f ondamentali, lascia nd o t ra parentesi altri ugualmente rilevanti.
1. Il principio personalista
La pr ima concezi one radicale che prop on iam o potrebbe essere definita come il “principio
personalista”. I l concetto di persona, alla cui n ascita hanno contribuito anche altre corre nti
di pensiero, acqui sta infatti nel mondo e br aico-cristiano una particolare configurazione
attraverso un volto che ha un duplice pr of ilo e che ora rappresenteremo face n do
riferimento a due test i biblici essenzia li che so no quasi l’incipit assoluto dell’antropo logia
cristiana e de ll a st essa antropologia o ccidenta le.
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Il primo testo proviene da Genesi 1,27, quin di dalle prime righe della Bibbia: «Dio cre ò
l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò: maschio e femmina li creò». Ap pare
qui la pr ima dimensi one antropologica: essa è “ orizzontale”, cioè la grandezza della natu ra
umana è situat a nel la relazione tra ma schio e f emmina. Si tratta di una relazione feco n da
che ci r ende simili al Creatore (“immagine di Dio” ) perché, generando, l’umanità in un ce rto
senso continua l a creazione. Ecco, allor a, u n primo elemento fondamentale: la relaz ione ,
l’essere in società è strutturale per la pe rsona. L’uomo non è una monade chiusa in sé
stessa, m a è per eccel lenza un “io ad ext ra” , u na realtà aperta. Solo così egli raggiunge la
sua piena dignità, divenendo l’“immagin e d i Dio”. Questa relazione è costituita dai due vo lti
diversi e complement ari dell’uomo e della do nn a che si incontrano (rilevante, al riguard o ,
è la riflession e di Lévi nas).
Sempre restando nell’ambito di que sto primo fondamentale principio personalista ,
passiamo a un’altra dimensione non più orizzontale, ma “verticale” che illustria mo
ricorrendo sempre a un’altra frase della Genesi: «Il Signore Dio plasmò l’uomo con po lvere
del suolo». Ciò è tipico di tutte le cosmolog ie or ientali ed è una forma simbolica per defin ire
la materialità dell’uomo. Ma si aggiunge: «e so ffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo
divenne un essere vi vente» (2,7).
Per intuire il vero significato del testo è necessario risalire all’originale ebraico: nishma t
hayyîm, locuzione che nell’Antico Test am ento r icorre 26 volte e, curiosamente, è applica ta
solo a Dio e all ’uomo, mai agli animali ( rûah , lo spirito, l’anima, il respiro vitale pe r la
Bibbia è, invece, presente anche negli a nim ali). Questa specifica categoria antropologica
è s piegata da un passo del libro biblico dei Proverbi: la nishmat hayyîm nell’uomo è «u n a
lampada del Signore, che illumina il suo cuor e fino nell’intimo» (20,27).
Com’è facile immaginare, mediante tale sim bolica, si arriva a rappresentare la capa cità
dell’uomo di conoscersi, di avere un a coscienza e perfino di entrare nell’inconscio
(l’ebraico usa l’immagine forte di «ca mer e oscure del ventre»). Si tratta d ella
rappresentazione dell ’i nteriorità ultim a, pr of onda, quella che la Bibbia in altri pun ti
descrive simbolicamente coi “reni”. C he co sa, dunque, Dio insuffla in noi? Una qualità che
solo egli ha e che noi condividiamo co n lui e che possiamo definire come “autocoscie nza”,
ma anche “coscienza etica”. Subito d op o, inf atti, sempre nella stessa pagina bib lica,
l’uomo viene presentato solitario sott o “ l’a lbero della conoscenza del bene e del male”,
un albero evidentemente metaforico, m et afisico, etico, in quanto rappresentazione d ella
morale.
Abbiam o, così , identificato un’alt ra dim en sione: l’uomo possiede una cap acità
trascendente che lo porta a essere unit o “ve rt icalmente” a Dio stesso. È la capacità d i
penetrar e in se stesso, di avere un’int er ior ità, un’intimità, una spiritualità. La dup lice
rappresentazione etico-religiosa della pe rsona finora descritta nella relazione col prossimo
e con Dio potrebbe essere delineata co n un’immagine molto suggestiva di Wittgenstein
che, nella pre fazi one al Tractatus logico-p hilosophicus , illustra lo scopo del suo lavoro.
Egli affer ma che era sua intenzion e invest igare i contorni di un’isola, ossia l’uo mo
circoscritto e limit ato. Ma ciò che ha scopert o alla fine sono state le frontiere dell’oce ano .
La parabola è chiara: se si cammina su un’isola e si guarda solo da una parte, ver so la
terra, si riesce a circoscriverla, a misur ar la e a definirla. Ma se lo sguardo è più vasto e
completo e si volge anche dall’altra par te, si scopre che su quella linea di confine batto n o
anche le onde dell’oceano. In sostanza, com e affermano le religioni, nell’umanità c’è u n
intreccio fra la finitudine limitata e un qualcosa di trascendente, comunque poi lo si vog lia
definire.
2. Il principio di autonomia
Il secondo principio dell’ideale mappa so cio-antropologica che stiamo delinean do è
parallelo al precedente ed è, come quello, d up lice. Potrebbe essere detto “di autono mia”
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e, per illustra rlo, ricorreremo a un t est o che è fondamentale non solo nella religiosità ,
ma anche nella stessa memoria della cu lt ur a occidentale, sebbene non sia stato sempre
correttamente interpretato. Si tratta di u n ce leberrimo passo evangelico: «Rendete a
Cesare quello che è di Cesare e a Dio q uello che è di Dio» ( Matteo 22,21). Un a
formulazione lapi daria, l’unico vero p ronunciamento politico-sociale di Cristo, me ntre
tutti gli altr i sono più indiretti e meno esp liciti. Per comprendere correttamente questa
afferm azione, bisogna entrare nella me nt alit à semitica che ricorre molto spesso a lle
cosiddette “parabole i n azione” attraver so le quali il messaggio viene formulato co n u n
gesto, con un a serie di comportamen ti simbolici e non solo con le parole.
Cristo, infatti, all’inizio dice ai suoi inte rlo cut or i: «Mostratemi la moneta», facendo seg u ire
una domanda fondamentale: «Di chi è l’im magine e l’iscrizione?». E la risposta è: « Di
Cesare». Di conseguenza: «Rendete a Cesar e quello che è di Cesare». La prima p arte
della fr ase di C risto riconosce, dunque, u n’autonomia alla politica. Una vera concezio ne
cristiana dovrebbe sempre escludere q ua lsia si tipo di teocrazia sacrale. Non appartie n e
all’autentico spirito cristiano l’unione fr a tr ono e altare, anche se nella storia, purtro ppo ,
il cristianesimo l’ha favorita in molte occa sioni.
La concezione giuridi ca islamica nella f or ma più conosciuta della shariyyah è estranea allo
spirito cristi ano: il codi ce di diritto ca no nico n on può essere automaticamente il codi ce d i
diritto civile o penale, così come la ca rt a co stituzionale di uno stato nazionale non p uò
essere il Vangelo. Si t ratta di realtà che devono rimanere sempre ben distinte. La pol itica,
l’economia, la societ à ci vile hanno un loro spazio di autonomia, al cui interno si svilupp a no
norme, scelte, at tuazi oni dotate di una loro immanenza, sulle quali non devono interferire
altri ambiti esterni .
Ma le par ole di Cristo non finiscono qu i: c’è una seconda parte implicita, sempre basata
sul tema dell’“immagine”. Gesù, infatti, chiedendo di chi sia l’“immagine” a proposito d ella
moneta, indiret tamente fa riferimento a l t esto biblico sopra citato riguardante l’uomo co me
“imm agine” di Di o. E cco, allora, una se con da dimensione: la creatura umana deve , sì,
rispettare le norme proprie della pólis, d ella società, ma, al tempo stesso, non d eve
dimenticare di essere dotata di una dim ensione ulteriore. È, questo, l’ambito specifico
della religione e della morale, nel quale e mer gono le questioni della libertà, della dign ità
umana, della realizzazione della persona, d ella vita, dell’interiorità, dei valori, dell’amore .
Tutti questi t emi hanno una loro pr ecisa a ut onomia e non ammettono prevarica zioni
o sopraffazio ni da parte del potere p olitico- economico. Infatti, se è vero, che n o n
ci dev’essere una teocrazia, è altret tanto in ammissibile una statolatria che incomba
secolaristicamente sull’altro ambito, svu ot andolo o addirittura annullandolo. È fa cile
comprendere quanto si a complessa e fin ar dua la declinazione concreta di tale autonomia,
come lo è il contrappunto fra queste d ue sf er e perché unico è il soggetto a cui entramb e
si dedicano, cioè la persona umana, sin go la e comunitaria.
3. Il principio di sol idarietà, giustizi a e a more
Giungiamo, così, al terzo principio che è fo nd amentale per il cristianesimo e per tutte le
altre religioni, anche se con accenti dive rsi. Ritorniamo al ritratto del volto umano che ,
come abbiamo detto, ha la dimensione d i m asch io e femmina, ossia ha alla base il rapp orto
interpersonale. Nel capitolo 2 della Genesi la vera ominizzazione non si ha solo con la
citata nishmat hayyîm, che rende la cr eatu ra t rascendente; non la si ha neppure solta nto
con l’homo technicus che «dà il nome agli a nim ali», ossia si dedica alla scienza e al la voro .
L’uomo è vera mente completo in sé quando incontra – come dice la Bibbia – «un aiuto ch e
gli sia simile», in ebraico kenegdô , let t er alm ente “che gli stia di fronte” (2,18.20). L’uomo ,
dunque, tende verso l’alto, l’infinito, l’et er no, il divino secondo la concezione religio sa e
può tendere anche verso il basso, verso gli a nimali e la materia. Ma diventa veramen te se
stesso solo quando si trova con “gli occhi n eg li occhi” dell’altro. Ecco di nuovo il tema d e l
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volto. Quando incontra l a donna, cioè il suo simile, può dire: «Costei è veramente carn e
dalla mia carn e, osso dalle mie ossa» ( 2, 23) , è la mia stessa realtà.
E qui si ha il t erzo punto cardinale che f or m uliam o con un termine moderno la cui sostan za
è nella tr adizi one ebraico/cristiana, va le a dire “il principio di solidarietà”. Il fatto di
essere tutti “umani ” vi ene espresso nella Bibbia col vocabolo “Adamo”, che in ebraico è
ha-’adam con l ’articolo ( ha-) e significa semp licemente “l’uomo”. Perciò, esiste in tutti noi
una “adamicità” comune. Il tema della so lid ar ietà è, allora, strutturale alla nostra r ealtà
antropologica di base. La religione espr ime q ue sta unitarietà antropologica con due termin i
che sono due categori e morali: giustizia e am ore. La fede assume la solidarietà, ch e è
anche alla base della filantropia laica , ma p rocede oltre. Infatti, stando al Vangelo d i
Giovanni, nell’ ult ima sera della sua vita te rre na Gesù pronuncia una frase stupenda: «Non
c’è amore più grande di colui che dà la vita pe r la persona che ama» (Giovanni 15,13).
Evitando lung he anal isi , pur necessarie, illustr iamo ora simbolicamente in chiave religio sa
le due virtù morali del la giustizia e d ell’am or e con due esempi attinti a culture religio se
diverse.
Il primo esempi o è un testo sorprend en te rig uardante la giustizia: «La terra – [è il te ma
della destinazione universale dei ben i, e qu indi della giustizia] – è stata creata come un
bene com une per tutti, per i ricchi e per i poveri. Perché, allora, o ricchi, vi arrogate u n
diritto esclusivo sul suolo? Quando aiut i il p ove ro, tu, ricco, non gli dai il tuo, ma gli rend i
il suo. Infatti, la proprietà comune che è st at a data in uso a tutti, tu solo la usi. La terra
è di tutti, non sol o dei ricchi, dunque q ua nd o aiuti il povero tu restituisci il dovuto, no n
elargisci un tuo dono». Davvero sugge stiva qu esta dichiarazione che risale al IV secolo e d
è form ulata d a A mbrogio di Milano ne l suo scr it to De Nabuthe .
Questo for te senso dell a giustizia dovr eb be essere un monito e una spina che la fede
innesta nel fianco dell a società, l’annuncio di una giustizia che si attua nella destinazio ne
universale de i beni. Essa non esclude un sano ed equo concetto di proprietà privata che ,
però, rimane solo un mezzo – spesso co nt in ge nte e insufficiente – per attuare il princip io
fondamental e del l’ universale dono dei beni all’intera umanità da parte del Creatore. In
questa linea, volendo ricorrere ancora un a volta alla Bibbia, è spontaneo risentire la voce
autorevole e severa dei Profeti (si leg ga , ad esempio, il potente libretto di Amos co n le
sue puntuali e documentate denunce cont ro le ingiustizie del suo tempo).
La seconda test imonianza che vogliam o evo care riguarda l’amore e, nello spirito di u n
dialogo interrel igi oso, la desumiamo dal mondo tibetano, mostrando così che le cultu re
religiose, per quanto diverse, hanno in f on do punti di incontro e di contatto. Si tratta
di una par ab ola dove si immagina u na pe rsona che, camminando nel deserto, sco rge
in lontananza qualcosa di confuso. Per q ue sto comincia ad avere paura, dato che ne lla
solitudine assoluta della steppa una realt à oscura e misteriosa – forse un animale, u n a
belva pericolosa – non può non inquie tare . Avanzando, il viandante scopre, però, che non
si tr atta di una best ia, bensì di un uom o. Ma la paura non passa, anzi aumenta al pensie ro
che quella pe rsona possa essere un pr edone. Tuttavia, si è costretti a procedere fin o a
quando si è in presenza dell’altro. Allor a il viandante alza gli occhi e, a sorpresa, esclama :
«È mio fratello che non vedevo da tant i anni!».
La lontananza genera ti mori e incubi; l’uom o d eve avvicinarsi all’altro per vincere qu e lla
paura per quant o comprensibile essa sia. Rifiutarsi di conoscere l’altro e di incontra rlo
equivale a ri nunci are a quell’amore solidale che dissolve il terrore e genera la vera società.
Qui fiorisce l’amore che è l’appello p iù alto del cristianesimo per l’edificazione di u na
pólis diversa (il ri mando scontato è al celebr e inno paolino all’agápe-amore presente n el
capitolo 13 del la P rima Lettera ai Corinzi) .
4. Il principio di verità
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Il vocabolo “cul tura” è divenuto ai nostr i giorni una sorta di parola-chiave che apre
le serrature p iù diverse. Quando il te rmine f u coniato, nel Settecento tedesco ( Cu ltur,
divenuto poi K ultur ), il concetto so tte so e ra chiaro e circoscritto: esso abbracciava
l’orizzonte intellettuale alto, l’aristocr azia del pensiero, dell’arte, dell’umanesimo . Da
decenni, invece, quest a categoria si è “demo cratizzata”, ha allargato i suoi confini, ha
assunto carat teri antropologici più genera li, sulla scia della nota definizione creata n e l
1982 dall’Unesco, tant ’è vero che si adott a orm ai l’aggettivo “trasversale” per indicare la
molteplicità d i ambiti ed esperienze um an e che essa “attraversa”.
È in questa luce che si comprendon o le r iser ve avanzate dal sociologo tedesco Niklas
Luhmann, con vint o che i l termine “cul tura ” sia « il peggiore concetto mai formulato», e a lu i
farà eco il col lega americano Clifford Geer tz quando affermerà che «esso è destitui to di
ogni capacità euristica». Eppure, quest a gener icità o, se si vuole, “generalismo” ci riporta
alla concezione classica allorché in vig or e era no altri termini sinonimici molto significativi:
pensiamo al greco paideia, al latino h um anitas, o al nostro “civiltà”.
A questo punt o è nat urale entrare – sia p ur e sempre in modo molto essenziale – nella
questione del nesso più specifico e de lle int er azioni tra le diverse culture che vengon o a
contatto tra loro. Ora, fu proprio in quel Sett ecento tedesco, nel quale – come si è d etto
sopra – si era coniato il termine Cult ur /Kultur , che si iniziò anche a parlare di “cultu re”
al plurale, get tando così le basi per r iconoscere e comprendere quel fenomeno che ora è
definito come “mult icul turalità”.
Ad apr ire questa via era stato Johann Go ttf ried Herder con le sue Idee sulla filoso fia
della storia dell’umanit à (1784-91). L’eme rgersi di un pluralismo culturale – con qualch e
semplificazion e – vedeva incrociarsi e tnocentr ismo e interculturalità. È stata costa n te,
infatti, l’oscillazione tra questi due est rem i e noi ne siamo ancor oggi testimoni.
L’etnocentrismo si esaspera in ambiti polit ici o r eligiosi di stampo integralistico, aggrappa ti
fieramente all a convinzione del prim at o assoluto della propria civiltà, in una sca la
di gradazioni che giungono fino al depr ezza mento di altre culture classificate come
“prim itive” o “barbare”. Lapidaria era l’a ffe rma zione di Tito Livio nelle sue Storie: «Gue rra
esiste e sempre esisterà tra i barbari e t ut t i i greci» (31,29). Questo atteggiamen to è
riproposto ai nostri giorni sotto la for m ula de llo “scontro di civiltà”, codificata nell’orma i
famoso saggio del 1996 del politologo Sam uel Huntington, scomparso nel 2008, Lo scontro
delle civiltà e i l nuovo ordine mondiale.
In questo testo erano el encate otto cult ur e (occidentale, confuciana, giapponese, islamica,
hindu, slavo-ort odossa, latino-america na e a fr icana), enfatizzandone le differenze, co sì
da far scatta re nell’Occidente un segnale d’allarme per l’autodifesa del proprio teso ro
di valor i, assediato da modelli alterna tivi e dalle «sfide delle società non-occidenta li» .
Significativa in questa visione era l’intu izio ne che, sotto la superficie dei fenomeni politici,
economici, m ilitari , si aveva uno zoccolo du ro e profondo di matrice culturale e religio sa.
Certo è, però, che, se si adotta il par adigm a dello “scontro delle civiltà”, si entra nella
spirale di una guerra i nfinita, come già a veva intuito Tito Livio.
La prospettiva più corretta sia umanisticam ente sia teologicamente è, invece, que lla
dell’ intercultural it à, che è un ben dif f er ente approccio alla “multiculturalità”. Esso si
basa sul r iconosciment o della diversità com e una fioritura necessaria e preziosa della
radice comune “adamica”, senza per ò perd er e la propria specificità. Si propone, allo ra,
l’attenzione, lo studio, il dialogo con civilt à prima ignorate o remote, ma che ora si
affacciano prepotent emente su una rib alta cu lturale finora occupata dall’Occidente (si
pensi, oltre all’Islam, all’India e alla Cina ), un affacciarsi che è favorito non so lo
dall’attuale globalizzazione, ma anche da me zzi di comunicazione capaci di varcare o gni
frontier a (la r ete inf ormatica ne è il simbolo capitale).
Queste culture, “nuove” per l’Occident e, esig ono un’interlocuzione, spesso imposta d a lla
loro presenza imperiosa, tant’è vero che orm ai si tende a parlare di “glocalizzazio ne”
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come nuovo f enomeno di interazione pla ne taria. Si deve, dunque, parlare di un imp egn o
complesso di conf ronto e di dialogo, di int er scambio culturale e spirituale.
Giungiamo, così – dopo questo lungo it inera rio preliminare nelle varie dimensioni de l
concetto di “cultura” – al quarto prin cipio, q uello che denomineremo con un termine
divenuto, se non proprio obsoleto, cer tame nt e fonte di equivoci e di contrasto, qu ello
di “verità”. La cul tura, infatti, si fonda sosta nzialmente sulla conoscenza che compo rta
appunto l’imp ortante profilo della verit à, cat egoria base del conoscere.
Se noi seguiamo il percorso culturale di quest i ultimi secoli, possiamo dire che il conce tto
di verità è divent ato sempre più sogge ttivo f ino ad arrivare al “situazionismo” del seco lo
scorso. S i pe nsi, ad esempio, alla famosa fr ase abbastanza significativa e spesso citata ,
attinta al Leviathan di Hobbes: Auctorita s, n on veritas facit legem . In ultima analisi è,
questo, il prin cipi o del contrattualism o, secondo il quale l’autorità, sia civile sia religiosa ,
può decider e la norma e, quindi, indir et tame nt e la verità, in base alle convenienze d ella
società e ai vantaggi del potere.
Tale concezione f lui da della verità è or mai abbastanza acquisita, basti pensa re
all’antropolog ia cul turale. Il filosofo fra nce se Michel Foucault, studiando le diverse cultu re,
invitava caldamente ad accentuare qu est a dim ensione soggettiva e mutevole della verità,
simile a una medusa cangiante, che muta asp et to continuamente a seconda dei contesti e
delle circostanze. Questo soggettivism o è so stanzialmente ciò che Benedetto XVI ch iama
“relativismo”: è curioso notare come la pensatrice americana, Sandra Harding, face va
il verso alla celebre frase del Vangelo d i Giovanni (8,32): «La verità vi farà lib eri» ,
afferm ando al cont rari o in un suo not o sa gg io che «La verità non vi farà liberi», po iché
essa viene concepita come una capp a di pio mbo, come una pre-comprensione, come una
sterilizzazione del la dinamicità e dell’incandescenza del pensiero.
Tutte le r eligi oni, e in particolare il crist ianesimo, hanno invece una concezio n e
trascendente della verità: la verità ci pr ece de e ci eccede; essa ha un prima to d i
illuminazione, non di dominio. Anche se il pensiero di Theodor Adorno andava in ben a ltra
direzione, è suggesti va una sua espressione t ratta dai Minima moralia . Il filosofo ted esco
parla della ve rità comparandola alla felicit à e dichiara: «La verità non la si ha, vi si è», cio è
si è im mer si in essa. Musil, nel suo fam oso r om anzo L’uomo senza qualità, al protagon ista
fa dire una fra se interessante: «La verità non è come una pietra preziosa che si mette in
tasca, la verit à è come un mare nel qu ale ci si immerge e si naviga».
Si tr atta, fon damentalmente, della classica concezione platonica espressa nel F edro
mediante l’immagine del la “pianura della verità ”: la biga dell’anima corre su questa pian u ra
per conoscerla e conquistarla, mentre nella Apologia di Socrate , al di là delle obiezio n i
che qualche speci ali sta potrà muover e per q uanto concerne la traduzione del passo in
questione, si l egge: «Una vita senza ricerca n on merita di essere vissuta», ed è pr oprio
questo l’itinerario da compiere nell’orizzo nt e “dato” della verità. Da tale punto di vista le
religioni sono nett e: la verità ha un prima to che ci supera, la verità è trascendente, comp ito
dell’uomo è essere pellegrino all’inter no dell’assoluto della verità. E questo è talmente
decisivo da far sì che il cristianesimo applichi a Cristo l’identificazione con la verità pe r
eccellenza (Giovanni 14,6: «Io sono la Via, la Verità, la Vita»).
Conclusione
La tetr alogia di principi che abbiamo delineat o in modo discorsivo non esaurisce, cer to, la
complessità delle relazioni e le stesse te nsioni che intercorrono tra fede, cultura e socie tà.
Altri principi si pot rebbero allegare, altr et tanto rilevanti e delicati. Pensiamo, ad esemp io,
a un’altra tetralogi a che si potrebbe sviluppare e che condiziona fortemente il dibattito
contempor ane o sul t ema: la categoria “ na tura ”, il concetto di “bene comune”, la question e
del rapporto etica-diritto, la prospettiva p rogett uale dell’“utopia”.
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La nostra è stata solo un’introduzione u n po’ scontata attorno a quattro assi antropologici.
Al centro, infatti, c’è sempre la persona u mana nella sua dignità, nella sua libertà e
autonomia, ma anche nella sua relazione all’esterno di sé, e quindi verso la trascende nza.
Tener e insieme le varie dimensioni della cr ea tura umana nell’ambito della vita soci ale e
politica è spe sso di ff ici le e la storia osp it a una costante attestazione delle crisi e d e lle
lacerazioni.
Eppur e, la ne cessit à di tener insieme “ simbolicamente” (syn-bállein ) queste differenze è
indiscutibile se si vuole edificare una p ólis a ut entica, non spezzata “diabolicamente” ( diàbállein ) in frammenti f ondamentalisticam ente opposti l’uno all’altro. È ciò che delineiamo
sinteticament e, in conclusione, ricorre nd o a u n’altra testimonianza di indole etico-religio sa
desunta ancora una vol ta da una cultu ra diversa dalla nostra occidentale. Ci riferiamo a
un settenario proposto da Gandhi che de finisce in modo folgorante questa “simbolicità” d i
valori necess aria a impedire la distruzio ne della convivenza sociale.
1. L’uomo si di strugge con la politica senza pr incipi;
2. l’uomo si distrugge con la ricchezza senza fatica e senza lavoro;
3. l’uomo si distrugge con l’intelligenza se nza la sapienza;
4. l’uomo si distrugge con gli affari sen za la m orale;
5. l’uomo si distrugge con la scienza se nza umanità;
6. l’uomo si distrugge con la religione senza la fede [il fondamentalismo insegna];
7. l’uomo si distrugge con un amore sen za il sa crificio e la donazione di sé.
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