SCanti del confine

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La salvezza
nella canzone
americana
Canti
del confine
Nonostante le diversità dei generi, dei tempi e
delle molteplici identità culturali che la percorrono, la canzone popolare americana attinge a
piene mani dal patrimonio simbolico cristiano,
ora attraverso citazioni letterali della sacra
Scrittura, ora per via di attraversamenti e incroci
tra il serbatoio d’immagini dell’esperienza
umana di fede e di quella storica di schiavitù e
oppressione, in un continuo rimando tra la
dimensione del «qui e ora» e quella dell’«oltre»
e in un poetico ricorrere di luoghi letterari quali
la casa, l’acqua, il fiume, il treno, il sogno. Se è
importante conoscere l’influenza di elementi
satanici in certe espressioni musicali contemporanee, non lo è di meno verificare quanto il pretesto religioso e biblico – anche attraverso la
grande eredità del gospel afroamericano – sia un
elemento fondativo della cultura USA. Esso si
esprime nella canzone e in ogni altro aspetto
della produzione letteraria e della rappresentazione simbolica, come ha mostrato anche la
recente campagna elettorale del neo-presidente
Barack Obama.
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Nebraska, tra Ogallala e North Platte;
alla pagina precedente, Washington, 1975:
celebrazione della Pasqua in Lincoln Park
(da L’Illustrazione italiana, 1984).
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C’
è una tensione che inesauribile percorre l’intero mondo della canzone
americana. Questa urgenza è l’ansia
di redenzione, il «salto» verso la salvezza. Una salvezza declinata in modi diversi, e che s’incarna in una serie di simboli e figure. Nell’universo
apparentemente leggero e profano
della canzone USA si può scorgere
una trama che è possibile definire «sacramentale»:
nell’«ora» e nel «qui» irrompe qualcosa che trascende la
mera realtà fenomenica, che tiene assieme gli orli dell’irraggiungibile e di ciò che è prossimo, che consente un
transito inatteso tra il presente e l’«oltre». Non è un caso che uno dei motivi più ricorrenti sia quello dell’acqua,
la cui valenza battesimale ne fa uno dei luoghi privilegiati del manifestarsi della grazia.
In questo tessuto – del quale proveremo a seguire i fili – possiamo scorgere un’attitudine propria della civiltà
americana, che si esprime compiutamente nella letteratura: investire del senso verticale del sacro e della trascendenza realtà – come l’intero arco dei mezzi tecnologici – decisamente «terrene». In una cultura che ha sempre esaltato la mobilità e le figure che la consentono – a
partire dal treno –, «sempre ossessionata da limiti e confini»,1 il movimento incarna il desiderio di trascendenza.
La salvezza si esprime con metafore che indicano continui attraversamenti. Ma l’enfasi sul movimento può rovesciarsi nel suo opposto: nel desiderio di ancoramento,
di stabilità, del «ritorno a casa». Casa e paradiso – come
vedremo – condividono lo stesso spazio «semantico», si
pongono in perenne tensione una con l’altro, si scambiano immagini e attributi, fino a convergere: la casa trova
pieno significato solo se illuminata dal paradiso.
La salvezza può allora coincidere con la liberazione
dai dolori di questa vita, con l’attraversare il confine
estremo, quello che separa la vita dalla morte: come nella tradizione degli spiritual, i canti neri della schiavitù,
che possono essere compresi solo nella cornice della visione escatologica che li trattiene. Ora invece si esprime
nella liberazione dal dolore già in questa vita, nel raggiungimento di una dimensione di pienezza, nel superamento della colpa o del peccato, nel lasciarsi alle spalle
il peso dei padri, la coazione a ripetere le loro esistenze.
Ma c’è liberazione, può esserci liberazione, solo perché c’è il male. Solo la consapevolezza del male, della
sua presenza – della sua invasività, della sua matericità,
persino del suo fascino – spinge a desiderare l’affrancamento dalla sua presa.
«Ho ucciso un uomo a Frisco
solo per vedere cosa si prova»,
canta Johnny Cash. E Bruce Springsteen:
«Mio amato Gesù
il tuo amore e sangue prezioso
mi dispiace proprio
ma non mi riempiono il cuore come questo fucile
e il nome dell’uomo che devo uccidere».
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Steve Earle:
«L’oscurità è il mio rifugio
il vuoto la mia luce
E chiunque tu sia
il cielo ti aiuti
se le nostre strade si incroceranno».
Townes van Zandt:
«Puoi toccarmi
se proprio vuoi
mi scorre dentro il veleno
posso morderti».
Jimmie Rodgers:
«Mi comprerò un fucile
lungo quanto la mia altezza
sparerò alla povera Thelma
solo per vederla saltare e cadere».
L’appartenenza è alla stirpe di Caino (Down there by
the train, Tom Waits), il marchio di Caino è ereditato dai
padri (Adam raised a Cain, Bruce Springsteen). Il male
è una pianta che germoglia nel buio della paura:
«Per ogni muro che costruirai attorno alle tue paure
mille cose più buie nascono.
E ammetterai che ciò che ti spaventa
è l’uomo che è dentro di te»
(The Truth, Steve Earle).
Al centro di questo campo di forze, assediato da desideri e scosso da tremori, ma sempre proteso verso la
salvezza, si trova il cuore dell’uomo. Un cuore «affamato» (Bruce Springsteen), «senza paura» (Steve Earle),
«freddo» (Hank Williams), «d’oro» (Neil Young), «un
cuore rock’n roll» (Lou Reed). Un cuore perennemente
sospeso tra grazia e dannazione.
Questo senso di indecisione, di sospensione, di drammatica contesa tra due scelte opposte è reso nel brano
Cross roads blues di Robert Johnson con la figura dell’incrocio, che rende – nella sua immediatezza spaziale – il
conflitto tra le due forze, fino ad assurgere a figura di
una condizione ontologica: «Il crocevia è segnato dalla
transitorietà di ciò che vi accade; chi lo percorre, o meglio ancora chi lo “abita”, è un viaggiatore di qualche
genere, ben vicino alla condizione dello sradicamento».2
«Ho guardato a sinistra / ho guardato a destra / mani
mi afferravano da ogni parte», canta Tracy Chapman,
anche lei ferma a un incrocio, in Crossroads.
La dimora in paradiso
Per comprendere la ricchezza simbolica del motivo
della salvezza nella canzone americana è necessario inquadrarne storicamente le radici. Una delle sue matrici è
il repertorio degli spiritual prima e dei gospel dopo, che
rappresentano la grande «voce» della cultura afroamericana. Il serbatoio di simboli elaborato dagli afroamerica-
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ni si è poi riversato anche negli altri generi musicali, ora
appiattendosi, ora trovando nuova linfa. Lo spiritual, in
particolare, è stata la «risposta» alla dissoluzione dei legami familiari, identitari e culturali, alla quale i neri furono
condannati dal sistema schiavista. Dinanzi alla sopraffazione e alla violenza, gli afroamericani crearono – attraverso il canto-preghiera – «un nuovo mondo, trascendendo gli angusti confini nei quali erano costretti». Come ha
scritto l’etnomusicologo Harold Courlands, «se gli spiritual fossero sistematizzati in ordine cronologico rappresenterebbero una versione orale della Bibbia. Ogni canto si nutre di un passo significativo delle sacre Scritture».3
Il cristianesimo ha così riversato il suo patrimonio figurale, lessicale e simbolico negli spiritual, lasciando
un’impronta indelebile sull’intero corpo della canzone
USA. Negli spiritual il motivo della liberazione dal male assume una preminenza assoluta, all’interno di una
prospettiva marcatamente escatologica. Il dolore e la
sofferenza che spezzano la vita dello schiavo non sono
l’ultima parola sulla sua esistenza. Una destinazione infatti la attende: il paradiso. «Fu con l’idea del paradiso
che gli schiavi cristiani furono in grado di dare un senso
alla loro sofferenza in un mondo che cercava di disumanizzarli».4 Ma la salvezza non è solo un discorso relegato
all’oltre vita. Il canto, attraverso la riattualizzazione della storia della salvezza e l’identificazione degli schiavi
con i protagonisti della storia dell’Esodo, opera una «trasformazione spirituale», riversando la sua carica escatologica nell’«ora» e nel «qui», attraverso l’esperienza totalizzante della conversione. Tra il credente e Dio si apre
lo spazio della confidenza, del dialogo amoroso, della
promessa e della consolazione. Non a caso la destinazio-
ne ultima del viaggio terreno assume un contorno quasi
intimo, privato, domestico: è la mansion, la casa, il posto
in paradiso, promessa a ogni credente.
La mansion compare continuamente sia negli spiritual sia nei gospel, tanto della tradizione nera quanto di
quella bianca (il cosiddetto southern gospel). Nel brano
Mansion over the hilltop essa sorge «nella terra luminosa
nella quale non si invecchia mai», l’approdo nelle sue
stanze significherà «la fine di ogni vagabondaggio»,
quando si camminerà su «strade dell’oro più puro». Il
gospel My father’s house – cantato anche da Elvis Presley
– riprende alla lettera un passo del Vangelo di Giovanni
(14,2-3), che illumina il campo di significati nel quale la
mansion si staglia: «Nella casa del Padre mio vi sono
molte dimore (mansion). Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto”? Quando sarò andato e vi
avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò
con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via».
Nella casa del Padre – nella quale la mansion è ancorata – ci sarà un «domani luminoso» e il mondo «sarà
liberato dal peccato e dal conflitto». Non ci sarà «pianto» né «morte». Nel paradiso c’è una «mansion vuota»
che attende il fedele alla fine di «una vita piena di problemi» (An empty mansion). Il brano I’m bound for the
promised land è un vero serbatoio di immagini di salvezza. La terra promessa appare nella luce di «una scena
estatica / che si alza davanti agli occhi», sulla sua sponda ci sono «frutti abbondanti che non cadono mai»,
lungo i suoi margini si stagliano «montagne colline ruscelli e valli dove scorrono latte e miele». Il «giorno
eterno disperde la notte». Sulla sua riva «benefica» non
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Murales di Kent Twitchell, California
(da L’Illustrazione italiana, 1986).
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soffia «nessun vento freddo o brezza velenosa», «dolore
e rimpianto / malattia e dolore sono spazzati via». Il
paradiso è «una casa oltre i cieli», una casa nella quale
«nessuna nuvola tempestosa si alza», il paradiso è «la
terra del giorno senza nuvole» (Cloudless day), «l’albero
della vita è eternamente in fiore» e «la sua fragranza si
sparge nel giorno senza nuvole». Nel Regno celeste è assiso «il trono di Dio», che è «più bianco della neve nella città fatta d’oro».
La destinazione ultima è oltre la vita stessa. «I miei
tesori sono da qualche parte oltre il cielo», si canta in
This world is not my home. La vera casa è allora un’altra,
alle sue porte spalancate «gli angeli invitano» a entrare.
Nelle sue stanze riecheggiano le «lodi più dolci intonate
dai santi». Le finestre del paradiso sono «spalancate» e
chi vi entra baratta «il suo vestito strappato» con «una
tunica di un bianco puro». Nella casa non c’è «pioggia
che bagni», «sole che bruci», non ci sono «dure tribolazioni», non ci sono «frustate sibilanti» (I want to go home). Nello spiritual irrompe il dramma della schiavitù –
nella sua forma più terribile, lo schiantarsi della frusta –,
che «fonda» la dimensione poetica della musica nera
americana.
Nella mansion avviene l’inaspettato: l’incontro con le
persone amate e perse.
«Il posto (mansion) di mia madre
sarà proprio vicino al mio
lei è stata la prima a insegnarmi del paradiso
la prima, mio Signore, a parlarmi di te»
(Build my mansion. Next door to Jesus).
L’idea di salvezza trae la sua centralità proprio dalla
consapevolezza che la vita dello schiavo è materiata di
dolore, offesa dal peso della schiavitù e della prevaricazione. Gli spiritual registrano immagini di dolore, mortificazione, morte.
«A volte mi sento proprio come un orfano
alle volte mi sento proprio come un orfano»
(Motherless child).
«Alle volte mi sento a posto
altre mi sento a pezzi
sì Signore
certe volte sono proprio a terra»
(Nobody knows the trouble I’ve seen).
Ma l’onnipresenza del dolore – del trouble – non
ostruisce la possibilità della liberazione, ma anzi la «fonda». Il brano Didn’t my Lord deliver Daniel? è una sorta
di catalogo di interventi salvifici:
«Ha salvato Daniele dalla fossa dei leoni
Giona dal ventre della balena
e i bambini ebrei dalla fornace ardente.
Non ha il Signore liberato Daniele?
Non ha il Signore liberato Daniele?
E perché allora non ogni uomo?».
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Nel brano fa irruzione il giorno del giudizio:
«Il vento soffia a Est
il vento soffia a Ovest
soffia come il giorno del giudizio
e ogni povera anima che non ha mai pregato
sarà felice di pregare quel giorno».
«Gli spiritual incorporano una prospettiva teologica
che suggerisce che ogni situazione che non equivale alla
liberazione è male ed è contro la volontà di Dio».5 Essi
non aggirano o anestetizzano l’idea del male, ma l’anelito alla salvezza rappresenta proprio la «risposta alla sua
presenza».
Ritorno a ca sa, desiderio del Padre
Chi ha dato linguaggio, forza e densità poetica all’impossibilità di raggiungere una condizione di pienezza è Bruce Springsteen.6 Il tema di questa impossibilità
si salda intimamente – nella produzione del rocker del
New Jersey – al conflitto con il padre, al motivo del peccato e della casa, al desiderio di redenzione e al suo irrimediabile smacco. Pienezza, casa e padre formano insomma una trama il cui disegno svela alcune immagini
di salvezza, anche quando essa rimane preclusa.
Nel brano Mansion on the hill torna la «dimora»
(mansion) della tradizione gospel: il suo spessore escatologico rimane intatto, ma essa ora appare irraggiungibile. La villa si staglia in alto, si alza su una collina. Sorge
al di là del confine della città, oltre i campi e le fabbriche, i luoghi abituali del lavoro. Il suo primo attributo è
dunque l’altezza. Il protagonista del brano ricorda
quando il padre lo portava con sua sorella ai piedi della
villa. Quali immagini le vengono prestate? La luce che
d’estate essa riverbera, la musica che riecheggia nelle sue
stanze, le risa dei bambini che vi giocano. Ma queste immagini, che suggeriscono pienezza, si «arrestano» davanti ai cancelli di ferro che la circondano. Qui Springsteen rovescia un topos dei gospel, nei quali per accedere
alla casa del Padre si passa attraverso «pearly gates», cancelli perlacei. La villa e la pienezza che essa simboleggia
– «c’è una luna piena che si alza sulla villa della collina»
– rimane dunque inaccessibile.
In un altro brano, My father’s house – che già nel titolo rinvia alla dimora celeste –, un uomo sogna di essere tornato bambino e di correre verso la casa del padre.
Rovi gli strappano i vestiti, il diavolo ansima alle sue
spalle, voci spettrali si alzano dai campi finché la corsa
del bambino termina tra le braccia del padre. La casa
del padre si erge «luminosa». L’uomo, ormai sveglio, ripercorre il tragitto che lo ha condotto alla casa del padre. Ma la troverà deserta. La riconciliazione sognata è
resa impossibile da quella «autostrada nella quale i nostri peccati giacciono inespiati». La casa del padre svetta come un «faro» che «chiama» il figlio nella notte.
L’immagine del faro richiama ancora una luce che interrompe il buio, ma essa rimane «fredda» e «isolata». Si
tratta di un vero e proprio slittamento semantico rispetto a un brano precedente, Adam raised a Cain. Qui il legame che unisce padre e figlio non è più reso dalla luce
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intermittente di un faro (il ricordo), ma da una prigionia:
«Eravamo prigionieri / di un amore in catene».
Nel brano la casa è satura, ma del rancore del padre.
«Papà ha lavorato per tutta la vita
e solo per dolore
ora cammina in queste stanze vuote
cercando qualcosa da maledire
tu erediti la colpa
e tu erediti le fiamme».
Per comprende la «natura» della luce che circonda la
mansion bisogna ascoltare un altro brano, My beautiful
reward. Anche qui appare una casa dalla quale risplende una luce «sacra». L’uomo che vi è entrato cammina
per le sue stanze, ma sente che nessuna di essa gli appartiene veramente. L’esperienza della salvezza rimane
inaccessibile. L’immagine della mansion è suggerita a
Springsteen da un brano di Hank Williams, considerato
uno dei padri della canzone country. La villa sulla collina questa volta è abitata dalla donna amata dal protagonista del brano: la loro relazione si è però spezzata. L’uomo guarda la villa dal basso, dalla distanza, nell’impossibilità di entrarvi. La mansion è ora «senza amore». Le
immagini usate nei due brani sono molto simili. La casa
è bagnata di luce, circondata dagli alberi «immobili e silenziosi». Ma l’ingresso nelle sue stanze – e l’accesso a
una condizione di pienezza – resta negato, come accadeva nei brani di Springsteen.
Il motivo simbolico della casa è centrale nel country,
il genere musicale espressione della cultura del Sud degli Stati Uniti, quel «Sud infestato di Cristo», secondo
l’espressione coniata dalla scrittrice Flannery O’Connor.7 Lo testimonia un’infinità di canzoni, da The little
old cabin in the Lane a Homecoming, da Take me home,
country road a Home, sweet home. Il simbolismo della casa, del «ritorno a casa», come ha notato David Fillingim,
cattura «un desiderio di segno escatologico e non nostalgico».8 Esso rimanda a una condizione di purezza assoluta, spesso in radicale contrapposizione con la città (come in Big City di Merle Haggard), il peccato e le seduzioni che essa simboleggia. Nel celebre I’m going home,
interpretato da Hank Williams, la casa mostra una vertiginosa prossimità con il paradiso cantato dai gospel:
«Sto viaggiando nella luce
e la mia via è chiara e splendente
giorni felici
sto andando a casa.
Attraverso i cancelli perlacei
dove il Signore mi aspetta.
Sto andando a casa».
Lungo i fiumi
Il fiume è un topos dell’immaginario letterario americano. Basti pensare a un testo fondativo come Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, al fiume che
scorre in Uomini e topi di John Steinbeck, al racconto
omonimo di Flannery O’ Connor o alle acque dell’Ohio
attraversate – mentre partorisce – dalla protagonista di
Beloved di Toni Morrison, in una scena che è una sorta
di riscrittura di un altro attraversamento: quello che si
legge in La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher
Stowe.
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Sopra: California, 1962, nei pressi di Yuma;
sotto: New York City, 1980, Trentanovesima strada;
(da L’Illustrazione italiana, 1984).
Nei gospel e negli spiritual i fiumi scorrono senza tregua. Lungo le acque verranno deposti «dolori e preoccupazioni»:
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«Poserò la spada e lo scudo
lungo le rive del fiume.
Poserò il mio fardello
laggiù lungo le rive del fiume» (Down by the riverside).
Attraversandole si giungerà «on the other side», dall’altra parte, nella terra nella quale scorrono «latte e
miele»:
«Il fiume è profondo
il fiume è immenso alleluia
latte e miele sull’altra riva alleluia»
(Micheal row the boat ashore).
Sull’altra riva regnano pace e gioia, non si appartiene
completamente a questa vita e ai suoi dolori, la destinazione che attende l’esistenza dell’uomo è un’altra.
«Oh ragazzo
non vuoi venire alla festa del Vangelo?
Nella terra promessa
nella terra della pace.
Cammina diritto nel paradiso
e prendi una sedia
fiume profondo la mia casa è oltre il Giordano»
(Deep river).
Il fiume è il confine tra la vita e la morte, le sue rive
connettono l’irraggiungibile con «l’ora e il qui», il paradiso con le acque terrene. Il fiume apre l’esistenza umana al «totalmente altro». «Il flusso e la deriva – come ha
notato Alessandro Portelli – non rappresentano più l’assenza fantasmatica di forma, ma la possibilità liberatoria della mutevolezza e del movimento». Il fiume è figura della rigenerazione.
L’immersione nelle acque purifica, lava via i peccati, segna – nel battesimo – la rinascita, l’attraversamento delle sue acque apre alla risurrezione, consegna l’esistenza dell’uomo alla gioia, come nel celeberrimo Oh
happy day.
La liberazione non avviene solo con la fine di questa
vita. La nascita di Cristo è un’esperienza personale e liberante già nel «qui e ora», nell’abbraccio con il Dio
della consolazione e della tenerezza, se è vero che «la
consolazione è il capolavoro di Dio» (Sergio Quinzio).
La liberazione è resa dal passaggio, dall’attraversamento delle acque. Dio «apre un guado» (Wade a water), ordina alle acque del mar Rosso di spalancarsi (Oh Mary
don’t you weep). Gesù in persona ha dato alla samaritana acque di «vita, d’amore, eterne» (Jesus gave me water).
Nel classico Cool water, il motivo dell’acqua si coniuga a quello del deserto:
«Per tutto il giorno affronto il deserto
senza il sapore dell’acqua
il vecchio Dan e io con le gole riarse
e le anime che gridano in cerca di acqua
acqua chiara».
Oltre le acque del fiume c’è l’incontro con Gesù:
«Aspetterò che Gesù arrivi giù al fiume»
(Down by the riverside).
«La campana del Paradiso rintocca
conosco bene la strada
Gesù è seduto sulla sponda del fiume»
(Jesus is sitting on the waterside).
Il fiume è sempre il Giordano:
«Ho guardato oltre il Giordano e cosa ho veduto?
Una schiera di angeli che mi seguiva
Se arrivate lì prima di me dite a tutti i miei amici
che anch’io sto arrivando.
A volte sono su
a volte sono giù
ma la mia anima è sempre in cammino verso il cielo»
(Swing low).
«Scorri, Giordano, scorri
voglio andare in Paradiso
quando morirò a vedere il Giordano scorrere.
Madre voglio essere seduto nel Regno
per sentire il Giordano che scorre.
Padre, fratello, voglio essere seduto là nel regno
per sentire il Giordano che scorre»
(Roll, Jordan, Roll).
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Il treno, fuga e liberazione
Il simbolo del treno è uno dei più densi e ricorrenti
dell’intero immaginario americano. E non solo musicale: basta rileggere le pagine dedicate all’irruzione del
treno negli scritti di Nathaniel Hawthorne o Henry
Thoreau e al tentativo di questi scrittori di armonizzare l’immaginario pastorale con quello delle macchine. Il
treno introduce in un nuovo tempo – quello della tecnologia – che ben si accorda all’animo dell’uomo americano: «Senza radici, perennemente in movimento, affamato di velocità e accelerazione».9 Ma se in campo letterario il treno assume spesso una connotazione negativa, in quello musicale esso si carica di una valenza soteriologica.
L’origine del simbolo del treno in campo musicale è
da ricercare, ancora una volta, nell’esperienza afroamericana: non è un caso che le prime e più potenti codificazioni di questo simbolismo siano rintracciabili nei sermoni pronunciati da pastori neri. Il treno può viaggiare
verso il paradiso, come nel sermone I’m going home on
the heaven bound train del reverendo J.M. Gates. O
precipitare verso l’inferno: Black diamond express to hell
di A.W. Nixs. Perché l’irruzione del treno è così frequente? Perché esso vibra così potentemente nell’immaginario musicale afroamericano?
La schiavitù significò per il nero l’impossibilità di
ogni movimento. È con la fine dell’Ottocento che «la
rappresentazione della ferrovia tra i neri guadagnò in
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complessità e visibilità per divenire rapidamente un incrocio simbolico nel quale le speranze e le ambizioni
dei neri urtavano contro un sistema sociale e legale che
ancora li contrastava».10 Con la fine delle discriminazioni, l’afroamericano scopre le possibilità del movimento. Il treno assurge a simbolo di libertà, di fuga dalla durezza della realtà. Nei loro sermoni i pastori neri
fanno vibrare, in una comunità ancora sostanzialmente condannata all’immobilità, le sirene del movimento:
la liberazione prima di essere fisica è spirituale. Il treno
soppianta gli altri mezzi di trasporto e irrompe nelle
versioni stilizzate e riattualizzate dell’Esodo: diviene
simbolo di salvezza, il mezzo grazie al quale si approda alla terra promessa.
Una delle più antiche metafore del treno in chiave
religiosa appare nel brano I’m going home to die no more: in esso i binari congiungono «la terra alla vita eterna», la stazione alla quale vengono fatti salire i passeggeri è «il pentimento». Altrettanto popolare fu l’inno
Life’s railway to heaven, nel quale la vita è assimilata «a
una ferrovia che corre tra le montagne». A guidare il
Gospel train «è Gesù in persona». In This train, che
sarà ripreso anche da Woody Guthrie, uno dei padri
della canzone folk americana, il treno è «diretto verso
la gloria»:
«Questo treno non trasporta speculatori,
questo treno
neppure imbroglioni o ladri o pezzi grossi a zonzo
questo treno non trasporta bugiardi questo treno».
Anche nel blues, un genere che il teologo James H.
Cone ha definito «secular spiritual», ricorre il motivo
del treno come figura di un transito di natura religiosa.11 In All I want is that pure religion, Blind Lemon
Jefferson, grazie «al treno che arriva dalla curva», è
pronto «a lasciare questo mondo pieno di sofferenze».
E in When the train comes along, interpretato da Henry
Ragtime Texas Thomas l’incontro con Gesù «si compie
alla stazione».
Come riprova dell’omogeneità del corpus della canzone americana – nonostante le diversità dei generi,
dei tempi e delle molteplici identità culturali che la percorrono – il fischio del treno riecheggia anche nel rock
e nella canzone d’autore.
Sul treno di Down there by the train, cantato da Tom
Waits, non salgono solo i puri o i santi. La corsa non è
riservata a chi non si è mai macchiato. Il treno conduce alla redenzione dei peccatori.
«C’è un posto
nel quale i treni scorrono lenti
dove il peccatore può lavarsi nel sangue dell’agnello.
Se hai perso ogni speranza
se hai perso tutta la tua fede
puoi essere salvato».
Il treno ammette tutti:
«Non ho mai chiesto il perdono
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mai pronunciato una preghiera
mai donato me stesso
non mi sono mai veramente preoccupato
delle persone che mi amavano e che ho lasciato.
Sono sempre un Caino
ho preso quella lenta strada
e se farai lo stesso
mi incontrerai lì con il treno».
Anche in Land of hope and dreams di Bruce Springsteen, il treno non «sopporta» divisioni, non è riservato ai pochi, non è esclusiva degli eletti. Il treno che corre verso «la terra della speranza e dei sogni» trasporta
«santi e peccatori», «vinti e vincitori», «prostitute e
giocatori d’azzardo», «anime perse» e «cuori spezzati»,
«ladri e anime trapassate», «pazzi e regnanti». E che si
tratti di una realtà «altra», di una prefigurazione del
Regno, lo confermano le parole del protagonista che
alla donna che lo accompagna assicura: «Questo giorno sarà l’ultimo». Nel ritornello del brano, assieme all’incedere del treno, trova spazio la certezza che «la fede sarà ricompensata».
E in People get ready di Curtis Mayfield, una delle
personalità più complesse del rhythm and blues, il treno che «prende su passeggeri da costa a costa» «corre
verso il Giordano»: «non serve biglietto / solo ringraziare il Signore».
Luca Miele
1
Cf. A. PORTELLI, Canoni americani. Oralità, letteratura, cinema, musica, Donzelli, Roma 2004 e ID., Il testo e la voce. Oralità, letteratura e democrazia in America, Manifestolibri, Roma 1992.
2
Cf. F. MINGANTI, X-Road. Letteratura, jazz, immaginario, Bacchilega, Imola (BO) 1994.
3
Cf. H. COURLANDER, Negro folk music, U.S.A., Columbia University Press, New York (NY) 1963.
4
Cf. A.B. PINN, Why, Lord? Suffering and Evil in Black Theology,
Continuum, New York 1995.
5
Cf. PINN, Why, Lord?
6
Cf. L. MIELE, Oltre il confine. Miti e visioni d’America nelle canzoni di Bruce Springsteen, Pardes, Bologna 2006.
7
Cf. F. O’CONNOR, Mystery and Manners: Occasional Prose, Farrar, Straus, and Giroux, New York (NY) 1961.
8
Cf. D. FILLINGIM, «A flight from liminality: “home” in Country
and Gospel music», in Studies in Popular Culture, 20(1997) 1,75-82.
9
Cf. J. DINERSTEIN, Swinging the Machine: Modernity, Technology and African American Culture between the World Wars, University of Massachusetts Press, Amherst (MA) 2003.
10
Cf. J.M. GIGGIE, After Redemption. Jim Crow and the Transformation of African American Religion in the Delta, 1875-1915, Oxford
University Press, Oxford 1999.
11
Cf. J.H. CONE, The Spirituals and the Blues: An Interpretation,
The Seabury Press, New York (NY) 1972.