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DATA: 17-09-2004 HANNOSCRITTO PUNTI DI VISTA In questa rubrica proponiamo gli articoli più significativi della stampa italiana e internazionale su Islam, Europa e Stati Uniti 120 DI JEREMY RIFKIN ADDIO SOGNO AMERICANO È MEGLIO QUELLO EUROPEO Quello che segue è parte dell’introduzione al nuovo libro, recentemente uscito nelle librerie, di Jeremy Rifkin. Il libro si intitola Il sogno europeo (Mondadori, pag 456, euro 18,50) Negli anni Sessanta ero un giovane attivista politico e, come molti miei contemporanei, mi trovai coinvolto nella grande sollevazione sociale. La liberazione era nell’aria, la si poteva annusare. Stanchi di voci allarmiste su attacchi nucleari, guerre fredde, uomini in abito grigio, e dell’ottundente uniformità della vita nei sobborghi, i giovani erano ovunque in rivolta: la libertà di parola, il sesso libero, il rock and roll, la droga e il movimento hippy si diffusero in America e raggiunsero ogni città e ogni paese. La ribellione era in continua evoluzione, tanto che a volte era difficile tenere il passo o anche semplicemente fermarsi. Alla lotta di classe subentrarono la politica culturale, poi la politica sessuale, quindi la politica ambientale. Alle pareti erano appesi i poster di Che Guevara e Huey Newton, poi sostituiti dai manifesti dei concerti dei Beatles e dei Rolling Stones, che a loro volta furono rimpiazzati dalle foto della terra vista dallo spazio. La vecchia sinistra dovette cedere il passo alla nuova: la coscienza storica e i discorsi astratti su dialettica, materialismo e imperialismo cominciarono a perdere forza, a vantaggio della “coscienza terapeutica”. Invece di citare il Manifesto del Partito comunista di Karl Marx o il Libretto rosso del presidente Mao, i giovani cominciarono a condividere i sentimenti più intimi e a parlare di dinamica delle relazioni interpersonali, trasformando la politica in terapia di gruppo. I discorsi sulla rivoluzione lasciarono progressivamente spazio alla ricerca di una trasformazione spirituale più personale, cosicché all’inizio degli anni ’70 questo processo aveva quasi del tutto eclissato l’ideologia. Ma ai margini c’erano già nuovi movimenti che avrebbero lasciato il segno. Il movimento femminista, il movimento ambientalista, i movimenti per i diritti umani e per i diritti degli animali, il movimento gay conquistarono via via la ribalta, imponendosi all’attenzione del pubblico. Allora tutti sognammo una nuova era in cui i diritti delle persone fossero rispettati, nessuno venisse lasciato indietro, le differenze culturali fossero bene accette e tutti potessero godere di una buona qualità della vita, vivendo in armonia con la natura e in pace con gli altri. Molti di noi manifestavano contro l’impero americano, considerato unico responsabile dei mali di una società malata. Alcuni, nella vana speranza di abbattere il sistema, presero perfino la strada del terrorismo. Contemporaneamente, un’analoga sollevazione sociale aveva luogo in Europa e in altre parti del mondo. Comunque sia, quasi tutti i giovani attivisti americani che conoscevo erano sicuri che, qualora ci fossero stati dei cambiamenti radicali, essi sarebbero cominciati in America, da dove poi si sarebbero diffusi nel resto del mondo. Questo perché, anche nei giorni più neri della nostra rivolta, continuavamo a credere nello “spirito americano”; mantenevamo cioè l’incrollabile convinzione che l’America fosse un posto speciale con un destino speciale. Anche se allora nessuno dei miei amici del “movimento” avrebbe osato ammetterlo, tutti avevamo la sensazione, tipicamente americana, che qui, in questo paese, tutto fosse possibile, tutto potesse essere raggiunto e conquistato: bastava solo volerlo con la forza necessaria ad essere sufficientemente determinati a ottenerlo. I giovani europei erano molto meno sicuri della reale efficacia delle proprie azioni: la loro politica era motivata più dal piacere della sfida che dalla volontà di cambiare. ➔ DATA: 17-09-2004 HANNOSCRITTO DI JEREMY RIFKIN Ora, a oltre trent’anni di distanza, la situazione si è rovesciata: quell’intuizione che nel mondo ci fosse qualcosa di sbagliato, e che si dovesse fare qualcosa per porvi rimedio, non si è radicata e non si è sviluppata in America. Certo, abbiamo gruppi di attivisti che promuovono le numerose idee germogliate dal caotico movimento nato una generazione fa nelle strade dei ghetti neri e nei campus universitari, ma – curiosamente – è in Europa che le intuizioni della generazione degli anni Sessanta hanno dato vita a un nuovo audace esperimento, i cui indistinti contorni erano impossibili da delineare allora, al tempo della nostra giovinezza. Si potrebbero dare diverse spiegazioni del fatto che, a quanto pare, sono gli europei a indicare la strada verso la nuova era, ma ce n’è una che si impone su tutte: è stato il caro Sogno americano, un tempo idealizzato e invidiato dal mondo intero, a portare l’America all’attuale situazione di impasse, quel sogno che pone l’accento sull’illimitata opportunità concessa a ogni individuo di cercare il successo, che nell’interpretazione corrente significa soprattutto, se non esclusivamente, successo economico. Il Sogno americano è troppo centrato sul progresso materiale personale e troppo poco preoccupato del benessere generale dell’umanità per continuare ad avere fascino e importanza in un mondo caratterizzato dal rischio, dalla diversità e dall’interdipendenza: è diventato un sogno vecchio, intriso di una mentalità legata a una frontiera che è stata chiusa tanto tempo fa. E mentre lo “spirito americano” guarda stancamente al passato, nasce un Sogno europeo, più adatto ad accompagnare l’umanità nella prossima tappa del suo percorso: un sogno che promette di portare l’uomo verso una consapevolezza globale, all’altezza di una società sempre più interconnessa e globalizzata. Il Sogno europeo pone l’accento sulle relazioni comunitarie più che sull’auto- nomia individuale, sulla diversità culturale più che sull’assimilazione, sulla qualità della vita più che sull'accumulazione di ricchezza, sullo sviluppo sostenibile più che sull’illimitata crescita materiale, sul “gioco profondo” più che sull’incessante fatica, sui diritti umani universali e su quelli della natura più che sui diritti umani universali e su quelli della natura più che sui diritti di proprietà, sulla cooperazione globale più che sull’esercizio unilaterale del potere. Il Sogno europeo è germogliato al crocevia fra la postmodernità e l’emergente era globale, e rappresenta il ponte che può colmare la distanza fra le due epoche. La postmodernità non è mai stata intesa come un’era a sé stante, quanto piuttosto come una fase crepuscolare della modernità: un tempo per formulare un giudizio sui molti peccati dell’era moderna. Le proteste e gli esperimenti della generazione degli anni Sessanta miravano ad abbattere i vecchi confini che vincolavano lo spirito umano e a sondare nuove realtà, e sono nati insieme al loro compagno intellettuale: il pensiero postmoderno. I postmodernisti si domandano in che modo il mondo sia arrivato a infilarsi in un vicolo cieco. Quali sono le ragioni che hanno portato a sganciare le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, a costruire i lager nazisti in Europa, il Gulag in Unione Sovietica e i campi di rieducazione maoisti nelle campagne cinesi? Come siamo giunti a un mondo diviso più che mai fra ricchi e poveri? Quando e come il materialismo ha sostituito l’idealismo, e il consumo si è trasformato da concetto negativo in positivo? I postmodernisti hanno attribuito la responsabilità di tutto ciò alla modernità e individuato i colpevoli dei mali del mondo in quelli che considerano i rigidi assunti del pensiero moderno: l’Illuminismo europeo, con la sua visione di un illimitato progresso materiale, è fra i maggiori accusati, insieme al capitalismo di mercato, al socialismo di Stato e ➔ 121 DATA: 17-09-2004 HANNOSCRITTO DI JEREMY RIFKIN all’ideologia dello Stato-nazione. La modernità, secondo i teorici postmodernisti, è viziata fin nei suoi presupposti: le stesse idee di realtà oggettivamente conoscibile, di progresso lineare irreversibile e di perfettibilità dell’uomo sono state interpretate in maniera troppo rigida e storicamente distorte, e non tengono conto di altre prospettive sulla condizione umana e i fini della storia. (…) Se i postmodernisti hanno raso al suolo l’edificio ideologico della modernità, liberando chi ne era prigioniero, non hanno offerto all’uomo una dimora alternativa: siamo diventati nomadi esistenziali che vagano in un mondo senza frontiere di desideri insoddisfatti, alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi e in cui credere. Lo spirito umano, liberato dalle vecchie categorie concettuali, ha spinto ciascuno di noi a trovare una strada propria in un mondo caotico e frammentato, ancora più pericoloso di quello “totalizzante” che ci siamo lasciati alle spalle. Il pensiero postmoderno non ha trovato terreno fertile in quella che viene chiamata la “middle America”, ma ha sempre avuto maggiore influenza in Europa. Oltre la metà degli americani sono religiosi – più che in qualsiasi altro paese industrializzato- e non sono disposti a sottoscrivere l’idea di un mondo in cui tutto è relativo, ma credono ancora in un grande ordine delle cose e vivono la propria fede intimamente, giorno dopo giorno. Gli americani più laici, benché non dispongano di un riferimento religioso onnicomprensivo, sono in genere devoti a un’altra visione sociale: l’idea illuminista di storia come continuo e inarrestabile avanzamento del progresso materiale. Gli europei, invece, sono stati più disposti ad accettare le critiche agli assunti fondamentali della modernità e ad abbracciare un orientamento postmoderno; questa loro disponibilità ha molto a che vedere con le devastazioni e le carneficine delle due guerre mondiali e con lo spettro di un continente 122 che, a causa della cieca obbedienza a visioni utopistiche e a ideologie, nel 1945 si trovò sull’orlo del baratro. Sono stati gli intellettuali europei a suonare la carica contro il progetto della modernità, ansiosi di scongiurare il pericolo che i vecchi dogmi potessero di nuovo condurre l’umanità lungo la strada della distruzione. Il loro attacco frontale alle metanarrazioni li ha portati a difendere il multiculturalismo, i diritti umani universali e i diritti della natura. I postmodernisti considerano il multiculturalismo una sorta di antidoto al pensiero moderno, un modo per bilanciare l’unicità dottrinaria con la molteplicità delle prospettive. La questione dei diritti ha ulteriormente allargato la critica all’unicità del punto di vista: i diritti umani universali e i diritti della natura sono un modo per riconoscere che la storia di ciascuno ha uguale valore e che anche il nostro pianeta è, in sé, importante. Ma qui la logica postmodernista ha cominciato a scontrarsi con le proprie contraddizioni interne. Universale significa fondamentale e indivisibile, qualcosa che tutti riconoscono e accettano come tale; dunque, involontariamente, i postmodernisti si sono scavati la fossa da soli, riconoscendo che esiste almeno un’idea universale su cui tutti potrebbero potenzialmente concordare: ogni vita umana ha uguale valore e la natura è degna di rispetto e considerazione. Il Sogno europeo comincia là dove i postmodernisti hanno rinunciato. Ridotto all’essenziale, è un impegno per la creazione di un nuovo schema storico di riferimento, che liberi l’individuo dal vecchio gioco dell’ideologia occidentale e, nello stesso tempo, leghi l’umanità a una nuova storia condivisa, fatta di diritti umani universali e di diritti intrinseci della natura: ciò che chiameremo consapevolezza globale. Il Sogno europeo, insomma, è il tentativo di creare una nuova storia. Il nuovo Sogno europeo è potente perché riserva attenzione ed aspetti come la qualità della vita, la sostenibilità, la DATA: 17-09-2004 HANNOSCRITTO DI JEREMY RIFKIN pace e l’armonia. Nella nuova visione del futuro, l’evoluzione personale diventa più importante dell’accumulazione individuale di ricchezza. L’accento si sposta così sull’elevazione dello spirito umano, non sull’aumento della ricchezza; sulla crescita dell’empatia dell’uomo, non sull’estensione dei territori soggetti al suo dominio. L’umanità è liberata dalla prigione del materialismo, in cui è stata rinchiusa all’inizio del Settecento dall’Illuminismo, e portata verso un nuovo futuro animato dall’idealismo. Per quanto io sia visceralmente legato al Sogno americano, e soprattutto alla sua incrollabile fede nella preminenza dell’individuo e della responsabilità personale, la speranza per il futuro mi spinge verso il Sogno europeo, che esalta la responsabilità collettiva e la consapevolezza globale. Per questo ho cercato di trovare una sinergia fra le due visioni, allo scopo di combinare il meglio dei due sogni. C’è una cosa, però, di cui sono relativamente sicuro. Il nascente Sogno europeo rappresenta le più alte aspirazioni dell’umanità a un futuro migliore. traduzione: Paolo Canton 123 DATA: 24-08-2004 HANNOSCRITTO DI PAOLO SAVONA GLI SLOGAN DI BARROSO impressero una nuova svolta coerente con i nuovi dati del sistema, riportando l’attenzione e l’impegno della politica La prima intervista rilasciata da José economica dalla domanda all’offerta. Manuel Barroso in qualità di presidente Oggi la ricerca di un equilibrio tra le due designato della Commissione di componenti dello sviluppo è presente in Bruxelles è talmente importante per noi quasi tutte le politiche economiche degli cittadini europei da consentire che sia Stati del pianeta, Europa inclusa, ma lo gettata subito nel sempre più capiente scenario è nuovamente cambiato. cestino dell’attualità. Nella parte strettaLa caduta della Cortina di ferro mente economica dell’intervista Barroso e la crescente integrazione tra mercati rilancia il logoro slogan di un’Europa che nazionali conseguente al processo di glodiventi entro il 2010 “l’economia più balizzazione hanno fatto emergere le competitiva del mondo” e ritiene che ciò contraddizioni nascenti dal fatto che una sia realizzabile con le “riforme”, oggi a parte del mondo ha progredito economisuo dire possibili perché i cittadini camente e socialmente, mentre un’altra, hanno capito che sono necessarie. E per giunta più popolosa, è rimasta indieaggiunge che si darà da fare per mettere tro, in taluni casi molto più indietro. La d’accordo i 25 Governi dell’Unione su prima ha un assetto politico organizzato linee comuni che rafforzino i tentativi in per difendere il benessere raggiunto, corso in molti Paesi europei. mentre la seconda non lo ha e, anzi, ha Da queste dichiarazioni si pos- accettato, anche dai Paesi che si dichiasono trarre due amare considerazioni. La rano ancora comunisti, che i suoi abitanprima è che nonostante il fallimento ti possano raggiungerlo al costo di ogni della politica economica europea – cia- personale sacrificio. scuno decida se per assenza o per insufSe per “riforme” Barroso intenficienza, tanto il risultato non cambia – de l’estensione di questi sacrifici anche essa viene riproposta senza alcuna corre- ai cittadini europei sarà difficile convinzione di sostanza, ma solo di forma. cerli che la Ue è la soluzione ai loro proBarroso, infatti, si propone come media- blemi. Per fare sacrifici essi non hanno tore e non come leader. La seconda è necessità né dell’Europa unita, né di che, per essere accreditato a Bruxelles, politiche economiche. Per dirla in italiaogni “nuovo venuto” deve recitare la no, forse hanno necessità di un Bava farsa di credere nelle supreme sorti Beccaris, ma è improbabile che esista e, dell’Unione europea come primario com- se esistesse, che possa bastare! Il sacripetitor globale purché lasci le cose come ficio è una dote individuale che non sono state decise a Maastricht nel 1992 necessita di politiche essendo capace di e interpretate e attuate nel decennio affermarsi nell’area ricca come in quella successivo. Il fiuto politico del neopresi- povera. dente della Commissione lo ha convinto C’è però una parte dell’intervidella necessità di allinearsi al comune sta di Barroso che risponde alla nuova pensare ancor prima del suo ingresso realtà, quella in cui afferma che la risponell’incarico. sta è la costruzione in Europa di una Dopo la Grande Crisi del 1929- Knowledge based society, una società 33 il mondo comprese l’utilità dell’inter- basata sulla conoscenza, capace di una vento pubblico a sostegno della doman- continua innovazione. L’obiettivo è stato da e trovarono in Roosevelt il politico più già indicato ben quattro anni orsono a abile e rapido nell’intraprenderlo e in Lisbona, ma subito reso inefficace dalla Keynes lo studioso capace di darne for- simultanea decisione di non guidare il male dimostrazione. processo “al centro” e di lasciare a ogni Dopo la crisi del dollaro e quel- Paese la responsabilità di realizzarlo. Il la petrolifera la Thatcher e Reagan tentativo di sconfiggere i bassi costi ➔ 124 DATA: 24-08-2004 HANNOSCRITTO DI PAOLO SAVONA del lavoro e gli oneri trascurabili del Welfare dei Paesi poveri muovendo alle loro produzioni una competizione basata sulle innovazioni tecnologiche richiede che i partner europei facciano scelte comuni in materia e mettano in comune le risorse finanziarie per raggiungere la dimensione necessaria per attuarle. Il tentativo di innovare a livello di singolo Paese annulla i potenziali effetti della politica proposta. In breve, manca l’Unione europea, non mancano né le risorse, né sono indispensabili le “riforme” se per esse si intende solo la riduzione dei salari, delle pensioni e dell’assistenza sanitaria. Tenuto conto dei divari esistenti tra Paesi ricchi e poveri, la dimensione di queste riduzioni necessaria per competere sarebbe infatti impraticabile politicamente e si ritorcerebbe, data l’attuale struttura del Pil europeo, in una riduzione del nostro sviluppo e della nostra occupazione. Questo non significa che il benessere economico e sociale europeo non debba essere oggetto di una qualche razionalizzazione, ma che questa ha un significato politico – e forse accettabilità democratica – se accompagnata da una politica estera che induca un’estensione dei benefici goduti dai Paesi ricchi ai Paesi poveri, improntando il loro sviluppo non solo a schemi di produzione per l’esportazione, ma anche di produzione per consumi interni, ivi inclusi quelli dello Stato del benessere. Se l’Europa intende esercitare una leadership politica globale, può farlo per ora solo esportando modelli di organizzazione sociale, come ha fatto nei secoli passati. Può sembrare un invito generico, ma se non lo fa, la sua politica di sacrifici è impraticabile politicamente e improduttiva economicamente; provvederà alla bisogna il mercato, come va facendo, attraverso un minore sviluppo e una maggiore disoccupazione. Se le dichiarazioni di Barroso vanno inquadrate nel modello indicato, lo scenario che si presenta nella Ue è il solito: la continuazione di inutili discussioni sul rispetto del 3% come simbolo della disciplina fiscale a supporto della disciplina monetaria e su altre esortazioni egualmente inconcludenti. È possibile sperare in una diagnosi che conduca a uno scenario diverso? Come ci è stato autorevolmente insegnato, la speranza è sempre l’ultima ad abbandonare l’uomo, ma occorre che si affermino politici dotati di coraggio per innovare, imponendo nuovi schemi di azione. 125 DATA: 21-09-2004 HANNOSCRITTO DI ARTURO C. QUINTAVALLE MILLE E UNA NOTTE, L’ORIENTE CHE NON C’ERA Dal Medioevo alla caduta di Costantinopoli: viaggio in un mondo che ha proposto modelli ed esperienze dalla struttura delle città alla costruzione delle navi. Segno di un patrimonio comune che gli orrori del nostro tempo mettono di nuovo a rischio Per due secoli letteratura e arte hanno letto quella realtà come semplice folclore esotico Forse non ci si pensa neppure ma l’Islam, che oggi entra prepotentemente nella cronaca quotidiana, è stato per anni sfondo, paesaggio, non luogo, se non della fiaba, del folclore, mai dunque, per l’Occidente, cultura, civiltà. E resta da capire quanto questa sostanziale non considerazione della realtà dell’Islam abbia portato l’intero Occidente a non vedere le profonde trasformazioni, le gravi contraddizioni che in quel contesto oggi sono esplose. Resta da capire quando tutto questo è iniziato e perché. Nella storia della cultura, l’Islam è un grande rimosso: le raccolte di arte islamica si formano quasi sempre nel ‘900, i pochi resti di arte islamica antica stanno nei tesori delle cattedrali, avori, stoffe, magari ceramiche o bronzi. Eppure, nel lungo tempo medievale, fino alla caduta di Costantinopoli nel 1453 e ancora dopo, fino all’età moderna prima del colonialismo, il mondo islamico è stato sempre parte essenziale di un sistema di cultura collegato, dove gli scambi, i rapporti, le integrazioni dei diversi modelli ed esperienze, dalla struttura alla città alla costruzione delle navi, dalla strumentazione tecnica ai commenti ad Aristotele, dall’astronomia all’algebra era o diventava comune, da Occidente a Oriente. Quando dunque si determina quella crisi della quale viviamo ancora oggi le conseguenze? Forse considerare due territori culturali, quello del racconto e quello della fotografia, può aiutare a capire. In Francia, appena dopo la pubblicazione de Le mille e una notte (1704-1717) tradotte da Galland, nasce l’idea dello spazio 126 del mondo islamico come sfondo, come scenografia fittizia. Così Montesquieu con le sue Lettere persiane (1721) oppure Voltaire con Zadig (1748) propongono un racconto dell’Oriente in termini mitici, l’Oriente, non importa che esso sia la Persia o Babilonia, è il luogo della saggezza, il luogo della fiaba, harem ed eunuchi, vizir e pascià, castighi terribili e salvezze insperate; questo territorio mitico viene usato per criticare, per mettere in evidenza le contraddizioni dell’assolutismo in Occidente. Ma il carattere del racconto è destinato a trasformarsi ancora: la spedizione di Napoleone in Egitto (dal 1798) ribalta la visione mitica dell’Oriente e permette la riscoperta di una civiltà antichissima presto considerata la matrice di tutte le altre, quella dell’Egitto dei Faraoni. Certo, quando gli scienziati e disegnatori di Napoleone costruiscono la loro monumentale Description de l’Egypte essi propongono anche la illustrazione della fauna e della flora, ma l’accento è posto sui grandi monumenti dei Faraoni scatenando così anche una perversa corsa al collezionismo delle potenze d’Occidente; nell’opera troviamo anche immagini incise delle architetture e dei costumi arabi, ma sono da considerare come documenti di un folclore estraniato dal “civile” occidente, come lo è la pittura degli “orientalisti” che diventerà presto di moda. Dopo Napoleone, il rapporto col mondo islamico appare sempre più difficile. Così Chateaubriand, poco dopo aver pubblicato Le genie du Christianisme (1802), giunge in palestina alla ricerca dei luoghi della vita del Cristo e vive il mondo islamico, e gli ebrei, come alienante disturbo. E presto l’impero ottomano è destinato a trovarsi di fronte un altro enorme problema: quello della indipendenza nazionale della Grecia: Byron che muore a Missolungi, l’intervento occidentale e la sconfitta ottomana a Navarino, tutto questo viene esaltato da Victor Hugo ne Les Orientales (1829), poesie appassionate che disegnano gli Ottomani come oppressori e la Grecia, culla della civiltà occidentale, come la vittima. E dopo? ➔ DATA: 21-09-2004 HANNOSCRITTO DI ARTURO C. QUINTAVALLE Dopo la storia è ancora diversa: una spedizione che dura dal 1849 al 1851 in Egitto, Nubia, Siria, Palestina, vede insieme due amici, Gustave Flaubert e Maxime du Camp, mentre Flaubert scrive poche note di viaggio che poi trasformerà in romanzo, Salambò, Du Camp fotografa i monumenti dell’antico Egitto inventando la loro iconografia per le generazioni a venire. Karnak e i colossi di Memnone, le piramidi, la sfinge, tutti ripresi come forme assolute, bloccate nella luce. Dopo Du Camp che aveva pubblicato le sue foto in volume nel 1852, molti fotografi proseguiranno su questa strada: Antonio Beato, Bonfils, Auguste-Rosalie Bisson, Zangaki, Abdullah Frères e molti altri, dagli anni 60 alla fine del secolo. Essi riprenderanno anche i monumenti cristiani di Gerusalemme o di Costantinopoli e, a volte, anche quelli antichi della Grecia. E l’Islam? L’Islam, a questo punto, per l’Occidente torna a essere luogo di racconti mitici, così ad esempio Gerard de Nerval, rifacendosi agli schemi de Le mille e una notte, costruisce la sua Storia del califfo Hakem. Siamo alla metà del secolo, una generazione dopo Guy de Maupassant, ne La vita errante, visita Cartagine e parla degli arabi come di “un popolo fanatico e nomade” e sottolinea come la moschea di Kairouan sia un centone di frammenti “presi dalle città cadenti” certo opera eretta in onore di Allah ma ben diversa dalle grandi cattedrali dell’Occidente. Dunque, l’Islam resta folclore, salvo che per Pierre Loti, appassionato viaggiatore e testimone, rimasto quasi il solo, fino agli inizi del ‘900, a difendere la civiltà islamica, a identificarsi in essa, persino a perorare la causa dell’Impero ottomano cercando così di impedirne lo smembramento. Dunque il mondo islamico, da due secoli, per la nostra poesia, per il romanzo e la letteratura di viaggio, è sfondo mitico e più spesso spazio visto con distacco di una non cultura che fa da contorno a monumenti antichi egizi, bizantini, cristiani, per noi importanti; la fotografia, l’incisione, la pittura replicano questo schema di racconto: nell’800 i fotografi piazzavano i fellah accanto ai templi dei faraoni, come metro per fare capire le dimensioni enormi degli edifici, adesso, sotto le piramidi, ci si fa fotografare sui dromedari, travestiti da beduini. Dunque ancora folclore. Questa difficile storia del come l’Occidente ha mascherato, raccontandoselo, l’Islam, deve aver contribuito non poco a perdere di vista la realtà di una cultura che si è progressivamente isolata o che noi stessi abbiamo isolato, mettendo fra parentesi o rifiutando quell’insieme di conquiste che, dall’Habeas corpus al Contratto sociale formano la struttura delle costituzioni degli Stati. Certo, i musei d’arte islamica nascono assai tardi in Occidente, mentre in Medio Oriente la loro organizzazione sembra svilupparsi meglio, ma in Afghanistan, ricordiamolo, non è andata altrettanto bene ai tesori dell’arte, tesori che vogliono dire consapevolezza della storia, dunque civiltà; inoltre solo di recente l’Unesco ha cominciato a tutelare come patrimonio dell’umanità l’architettura islamica. Forse un articolato dibattito sulle culture attorno alle rive del Mediterraneo medievale potrà proporre una riflessione ulteriore sull’imponente realtà storica dell’Islam e sulla tutela del suo patrimonio culturale che eventi recenti, peraltro, sembrano mettere profondamente a rischio. 127 DATA: 11-09-2004 HANNOSCRITTO DI MOUNA NAÏM AL DI LÀ DEL PENSIERO INTEGRALISTA, UN ISLAM POLITICO DI TIPO PLURALISTA ESISTE contesto da cui prendono vita e dall’»attività che perseguono: nostalgici di una «purezza» musulmana originale, tali movimenti mirerebbero a torRiflesso di un mondo musulmano nare alla cosiddetta «essenza prima» costituito da oltre un miliardo di persone, della religione, così come enunciata i movimenti che si riconoscono dal Profeta, per liberarne i principi di nell’islamismo sono molto diversi. gestione del mondo. Visto attraverso questo prisma, l’Islam politico sarebbe “Dio voleva che l’Islam fosse una reli- una regressione, un rifiuto della modergione, ma gli uomini hanno voluto nità, della ragione, della scienza e del farne una politica, scrive Saïd Al- progresso. Questo Islam politico esiste, Ashmawy in L'Islamisme contre l'islam. ma è un islam dalle frange integraliste Nella sua semplicità, questo postulato che si ispira soprattutto agli insegna– che si potrebbe applicare a tutte le menti del siriano ultrarigorista Ibn religioni – è assai pertinente, quali che Taymiya (1262-1328), principale maesiano le distanze che si possono pren- stro di Mohammed Ben Abdel Wahab, dere dalle tesi di questo alto magistra- la cui alleanza con gli Al-Saoud fu, cinto egiziano, tesi che sono una requisi- que secoli più tardi, alla base della toria senza sfumature contro qualsiasi creazione dell’Arabia Saudita e il cui movimento politico che si fa forte obiettivo era purificare la pratica dell’Islam, quanto meno in Egitto. dell’Islam da qualsiasi associazione e L'islam è stato costellato da conflitti idolatria. Ibn Taymiya permane ancora politico-religiosi, non sempre soltanto uno dei principali maestri di gruppi retorici: dalla fitna, la grande crisi che minoritari, ma la sua visione ha pernell’anno 37 dall’egira (anno 657 del- meato a livelli diversi praticamente l’era cristiana) portò alla divisione dei tutti i movimenti islamici. musulmani per la successione del pro- Senza voler ignorare questo pensiero feta e la costituzione della comunità integralista, e pur valutando il posto musulmana, fino ai nostri giorni, pas- centrale occupato dall’elemento relisando attraverso le diverse scissioni e gioso, i lavori di specialisti e ricercatoscismi, le scuole giuridiche e teologi- ri mostrano tuttavia che l’Islam politico che, e i pensatori e le correnti integra- è plurale, come lo è il «mondo» musulliste e “moderniste”. mano fatto di un miliardo di persone Cos’è oggi l’Islam politico? Secondo la presenti su tutti i continenti. definizione di Olivier Carré (in L'Utopie Qualunque ne sia l’espressione concreislamique dans l'Orient arabe), si tratta ta, l’Islam politico si iscrive sempre di correnti di pensiero e d’azione, tal- nella realtà banalmente definita da volta violenta, a favore dell’islamizza- precisi dati storici, geografici, sociali zione delle istituzioni, della vita socia- ed economici a livello locale e regionale, del diritto, del governo, delle rela- le, alla stregua di qualunque altra zioni internazionali. Fermo restando, espressione politica. Da qui la necessiprecisa lo specialista dell’Islam, che il tà di ciò che lo storico siriano Aziz Altermine utopia non indica «un sogno Azmeh chiama una «scomposizione crisenza efficacia immediata», bensì «una tica della nozione dell’Islam e un’anapotenza mobilitante, a volte considere- lisi delle condizioni della sua recente vole». emersione», lontano dal «ruolo fantaLa spiegazione più breve, che relega smatico» imputato all’Islam come l’Islam politico nella sua sola dimen- «categoria totalizzante». sione religiosa, vuole che tutti i movi- Dal tempo del colonialismo l’Islam è menti islamici abbiano un unico e stato uno dei vettori della lotta per il medesimo obiettivo, a prescindere dal recupero dell’indipendenza e dell’i- ➔ 128 DATA: 11-09-2004 HANNOSCRITTO DI MOUNA NAÏM dentità contro una tutela straniera globale, percepita come un’alienazione. Nel passaggio dal XIX al XX secolo questo era già il significato del pensiero del persiano Jamal Eddine Al-Afghani e dell’egiziano Mohammed Abdou – per limitarsi soltanto a due più importanti pensatori che caratterizzarono quest’epoca che predicavano un ritorno ai valori dell’Islam, pur tenendo conto delle necessità del loro secolo. L'abolizione del califfato nel 1924 da parte di Kamal Ataturk non fu estranea all’afflato dato all’Islam politico. Non è un caso se l’associazione dei Fratelli musulmani nacque quattro anni più tardi in Egitto. Non che il suo fondatore Hassan Al-Banna, impregnato del pensiero del rigorista siriano Rachid Rida, volesse ripristinare il califfato, ma allora si pose la questione della fondazione di una nuova comunità politica e la questione stessa del politico, come asserisce il docente universitario Bourhan Ghalioun (in Islam et politique, la modernité trahie). (L'Islamisme en face), l'islamismo non è un rifiuto puro e semplice della modernità, ma una volontà di riappropriarsene, di farne una «riscrittura con la terminologia del sistema simbolico musulmano». L'islamismo diventa aggressivo e violento a partire dagli anni 70. Il pensiero di Ibn Taymiya, ma anche quello dei radicali del XX secolo – l’egiziano Sayyed Qotb e il pakistano Abdel Alaa Al-Mawdudi – ne sono all’origine, da parte sunnita. Da parte sciita, l’imam Rouhollah Khomeyni teorizzerà la violenza. La radicalizzazione non affonda le sue giustificazioni nella sola ideologia. Non è nemmeno soltanto una reazione a condizioni economiche sfavorevoli – i «radicali» appartengono di solito alla classe media e spesso hanno fatto studi superiori. Essa è anche una reazione alla violenza esercitata dai regimi esistenti e traduce la convinzione che le vie legali sono inefficaci. Proprio come accanto ai partiti comunisti sono sorte formazioni come le Brigate Rosse e l’esercito rosso, sostiene il sociologo specialista Ricettacolo di malcontenti dell’Islam, Farhad Khosrokhavar, Considerata come la matrice nell’Islam politico si è avuto il passagdell’Islamismo del XX secolo, l’associa- gio all’attivismo violento. Il sentimento zione, che avrebbe fatto degli emuli di umiliazione e la volontà ovunque in terra di Islam, si inseriva dell’Occidente di imporre valori preallora nel contesto della lotta per l’in- sentati come universali sono anch’essi dipendenza e la giustizia sociale. Più motori del radicalismo. È vero nei Paesi tardi, in Egitto come altrove, sarà il musulmani come pure in Occidente, discredito delle ideologie nazionaliste, dove, sottolinea il sociologo, «l'islam è la confisca del potere da parte dei regi- oramai una religione esterna-interna: mi repressivi che hanno copiato i loro esterna a causa del disprezzo nel quale obiettivi nazionali su quelli delle vengono spesso tenute le comunità potenze occidentali, «asfissiando in musulmane; interna perché queste maniera autoritaria il sentimento isla- comunità affrontano i problemi endomico (…) a beneficio di uno sviluppo geni delle società occidentali». Nella economico accelerato percepito giusta- sua forma più estrema, questo Islam mente come un fallimento« (Olivier della djihad ha optato per il «martirio» Carré), che faranno dell’Islamismo il – anche se questo «martirio» non ha lo ricettacolo dei malcontenti. L’Islam è stesso portato simbolico per tutti. diventato in qualche modo l’ideologia Farhad Khosrokhavar vi distingue tre dei dominati, un po’ come lo fu il periodi: quello libanese e iraniano degli comunismo che, vista la repressione anni 70-80, quello talebano negli anni dei regimi esistenti, non riuscì a drena- 90 e l’ultimo che corrisponde al dopore folle in terra d’Islam. Nella maggior regime talebano, di cui Afghanistan, parte dei casi, insiste Francois Burgat Pakistan e Irak sono il centro di gra- ➔ 129 DATA: 11-09-2004 HANNOSCRITTO DI MOUNA NAÏM vità con estensioni ideologiche in tutto il mondo. La strumentalizzazione dei problemi palestinese, ceceno, afgano e irakeno da parte di gruppi quali AlQaida e i suoi complici, non sarebbe stata efficace se, a torto o a ragione, le – o alcune – comunità musulmane non vi avessero percepito un’aggressione contro la loro identità religiosa. E tale strumentalizzazione è messa a servizio di una strategia di globalizzazione attraverso la rappresentazione mistificata di una sorta di «neo-oumma» (comunità) su scala mondiale. 130 DATA: 10-09-2004 HANNOSCRITTO DI PHILIP STEPHENS FALSO CONFORTO DALLE VOCI DI GUERRA Troppo spesso il linguaggio della politica è nemico di un giudizio intelligente. Un semplice slogan oscura più di quanto illumini. A tre anni dagli orrori dell’11 settembre 2001 e una settimana dopo gli attentati sanguinari agli scolari di Beslan, tutti sappiamo che cosa intendono i politici quando parlano di guerra al terrorismo. Eppure, nonostante questa apparente chiarezza, l’espressione è pericolosamente fuorviante, fonte di comoda autoillusione per i leader politici e di falso conforto per noi. La confusione sorge in parte perché il termine terrorismo descrive una tattica piuttosto che un nemico. Ma il problema è ben più profondamente radicato di questa ovvia inesattezza linguistica. Una dichiarazione di guerra porta a concludere che si tratti dell’unica risposta legittima, che tutto il resto sia stato tentato e fallito. Sostenere qualcos’altro è solo un modo per mantenere la calma. I terroristi – altro luogo comune – sono tutti uguali. L’Eta in Spagna, Hamas sulla costa occidentale, i dissidenti in Irlanda del Nord, i militanti nel Kashmir e i separatisti ceceni nel Caucaso vanno tutti considerati alla stessa stregua dei sostenitori della jihad di al-Qaeda, che hanno abbattuto le torri gemelle di New York. Esistono il bene e il male e nel mezzo non c’è nulla; non c’è posto per precise tarature o impegni politici. Così Vladimir Putin, presidente russo, ha dichiarato questa settimana che la critica alla repressione di Mosca in Cecenia potrebbe far pensare che Osama bin Laden venga invitato alla Casa Bianca per una cordiale chiacchierata e per esporre le sue richieste per poi dire: “Nessuno ha moralmente il diritto di dirci di parlare con gli assassini dei bambini.” Invece Putin, in accordo con il presidente americano George W. Bush, ha affermato il diritto di lanciare attacchi preventivi ai terro- risti in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo. A questo punto, sospetto che uno o due dei miei soliti inviati si stiano buttando sulla tastiera… Voi europei siete sempre stati molto accondiscendenti nei riguardi del terrorismo; non avete mai provato nulla di simile agli attentati di New York e Washington; non avete mai capito la differenza tra principio e pragmatismo; e ancora peggio mi dicono le esperienze passate. Quindi, prima di essere inondato da critiche, permettetemi di spiegarmi. La distruzione delle basi di al-Qaeda e la soppressione del regime talebano in Afghanistan erano necessarie e giuste. L’errore in quel Paese è stato non impegnare risorse, militari e finanziarie sufficienti per portare a termine il lavoro (e, tra l’altro, trovare bin Laden) e garantire così un futuro stabile all’Afghanistan. Le forze militari, a volte massicce, costituiscono un elemento fondamentale della lotta agli estremisti islamici, la cui ambizione è distruggere i valori della civiltà, ed è vero che spesso gli obiettivi e la psicologia di molte di queste persone le pongono al di là di un dialogo ragionevole. Ma questo non significa evitare la verità meno gradevole che i terroristi non sono tutti uguali, che i loro obiettivi sono diversi e che talvolta, per quanto imperdonabili siano le loro tattiche, il loro estremismo affonda le sue radici in un legittimo malcontento politico. La storia è maestra in questo senso. Sono numerose nel mondo le persone un tempo marchiate come terroristi e ormai diventate rispettabili leader politici in luoghi remoti come il Sudafrica, l’Irlanda e Israele. Putin, ovviamente, non è l’unico a respingere queste ovvie realtà. Avendo coniato l’espressione dopo l’11 settembre 2001, Bush ha fatto della guerra al terrorismo l’elemento centrale della sua campagna per la rielezione. Con un cinismo assoluto. Dick Cheney, il vicepresidente, è andato ben oltre. Dal suo punto di vista, il sostegno da parte ➔ 131 DATA: 10-09-2004 HANNOSCRITTO DI PHILIP STEPHENS di John Kerry di una strategia più ampia per combattere il terrorismo vale quanto un tradimento. Se l’oppositore democratico vince le elezioni di novembre, ha detto questa settimana il vicepresidente, “Il rischio è che ci colpiscano ancora.” Probabilmente è vero il contrario. Ci sono state importanti vittorie militari su al-Qaeda. La combinazione tra un uso aggressivo della forza, un miglioramento dello scambio d’informazioni e una maggiore sicurezza interna hanno indubbiamente evitato molti attentati. Ma nel medio-lungo periodo, queste vittorie si dissolveranno in sconfitte ogni volta che i sostenitori della jihad troveranno un terreno fertile per reclutare adepti nel mondo islamico. Emotivamente, le parole di Putin toccano il tasto giusto. Chi potrebbe mai pensare di provare a ragionare con la malvagità dei terroristi di Beslan? Ma questo è un diversivo. Douglas Hurd, ex ministro degli esteri inglese, ha spiegato perché ieri sera in una conferenza dedicata alla memoria di Stepen Lawn, una delle vittime inglesi dell’11 settembre 2001. “Serve un potere “hard” per trattare con coloro che hanno già ucciso. Ma un potere “soft“ è essenziale per impedire che vengano reclutati altri assassini… Per superare in astuzia i terroristi di oggi niente è più utile di un impegno serio a istituire in Cecenia, Palestina e Iraq governi che siano sostenuti, o almeno accettati, dalla maggior parte della popolazione.” A questo elenco io aggiungerei l’Afganistan. Ecco perché Cheney parla di tradimento. Ma anche se il numero di soldati americani uccisi in Iraq supera il migliaio, l’amministrazione americana deve ancora imparare la semplice lezione di Falluja. La città non è mai stata un centro dell’estremismo islamico. Lo è diventata perché gli Stati Uniti hanno seguito fedelmente il detto del vicepresidente che la forza è l’unica risposta. Mi sono sforzato, ma non sono riuscito a trovare uno slogan per sostituire la 132 guerra al terrorismo. Questo perché il mondo reale chiede tutte quelle cose ardue e complesse – costruzione di una nazione, intermediazione degli accordi di pace, ascolto e apprendimento, dialogo con i nemici del passato, compromesso – che i politici trovano troppo difficili e gli elettori faticano a capire. Ma se continuiamo a parlare di guerra, siamo destinati a perderla.