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Hanno scritto
DATA: 17-09-2004
HANNOSCRITTO
PUNTI
DI VISTA
In questa rubrica
proponiamo gli articoli
più significativi
della stampa italiana
e internazionale
su Islam, Europa
e Stati Uniti
120
DI JEREMY RIFKIN
ADDIO SOGNO AMERICANO
È MEGLIO QUELLO EUROPEO
Quello che segue è parte dell’introduzione
al nuovo libro, recentemente uscito nelle
librerie, di Jeremy Rifkin. Il libro si intitola Il sogno europeo (Mondadori, pag 456,
euro 18,50)
Negli anni Sessanta ero un giovane
attivista politico e, come molti miei
contemporanei, mi trovai coinvolto
nella grande sollevazione sociale. La
liberazione era nell’aria, la si poteva
annusare. Stanchi di voci allarmiste su
attacchi nucleari, guerre fredde, uomini in abito grigio, e dell’ottundente uniformità della vita nei sobborghi, i giovani erano ovunque in rivolta: la libertà
di parola, il sesso libero, il rock and
roll, la droga e il movimento hippy si
diffusero in America e raggiunsero ogni
città e ogni paese. La ribellione era in
continua evoluzione, tanto che a volte
era difficile tenere il passo o anche
semplicemente fermarsi. Alla lotta di
classe subentrarono la politica culturale, poi la politica sessuale, quindi la
politica ambientale. Alle pareti erano
appesi i poster di Che Guevara e Huey
Newton, poi sostituiti dai manifesti dei
concerti dei Beatles e dei Rolling
Stones, che a loro volta furono rimpiazzati dalle foto della terra vista dallo
spazio. La vecchia sinistra dovette
cedere il passo alla nuova: la coscienza
storica e i discorsi astratti su dialettica, materialismo e imperialismo cominciarono a perdere forza, a vantaggio
della “coscienza terapeutica”.
Invece di citare il Manifesto del Partito
comunista di Karl Marx o il Libretto
rosso del presidente Mao, i giovani
cominciarono a condividere i sentimenti più intimi e a parlare di dinamica
delle relazioni interpersonali, trasformando la politica in terapia di gruppo.
I discorsi sulla rivoluzione lasciarono
progressivamente spazio alla ricerca di
una trasformazione spirituale più personale, cosicché all’inizio degli anni
’70 questo processo aveva quasi del
tutto eclissato l’ideologia. Ma ai margini c’erano già nuovi movimenti che
avrebbero lasciato il segno.
Il movimento femminista, il movimento
ambientalista, i movimenti per i diritti
umani e per i diritti degli animali, il
movimento gay conquistarono via via la
ribalta, imponendosi all’attenzione del
pubblico.
Allora tutti sognammo una nuova era in
cui i diritti delle persone fossero rispettati, nessuno venisse lasciato indietro,
le differenze culturali fossero bene
accette e tutti potessero godere di una
buona qualità della vita, vivendo in
armonia con la natura e in pace con gli
altri.
Molti di noi manifestavano contro l’impero americano, considerato unico
responsabile dei mali di una società
malata. Alcuni, nella vana speranza di
abbattere il sistema, presero perfino la
strada
del
terrorismo.
Contemporaneamente, un’analoga sollevazione sociale aveva luogo in Europa
e in altre parti del mondo.
Comunque sia, quasi tutti i giovani
attivisti americani che conoscevo erano
sicuri che, qualora ci fossero stati dei
cambiamenti radicali, essi sarebbero
cominciati in America, da dove poi si
sarebbero diffusi nel resto del mondo.
Questo perché, anche nei giorni più
neri della nostra rivolta, continuavamo
a credere nello “spirito americano”;
mantenevamo cioè l’incrollabile convinzione che l’America fosse un posto
speciale con un destino speciale.
Anche se allora nessuno dei miei amici
del “movimento” avrebbe osato ammetterlo, tutti avevamo la sensazione, tipicamente americana, che qui, in questo
paese, tutto fosse possibile, tutto
potesse essere raggiunto e conquistato:
bastava solo volerlo con la forza necessaria ad essere sufficientemente determinati a ottenerlo. I giovani europei
erano molto meno sicuri della reale
efficacia delle proprie azioni: la loro
politica era motivata più dal piacere
della sfida che dalla volontà di cambiare.
➔
DATA: 17-09-2004
HANNOSCRITTO
DI JEREMY RIFKIN
Ora, a oltre trent’anni di distanza, la
situazione si è rovesciata: quell’intuizione che nel mondo ci fosse qualcosa
di sbagliato, e che si dovesse fare qualcosa per porvi rimedio, non si è radicata e non si è sviluppata in America.
Certo, abbiamo gruppi di attivisti che
promuovono le numerose idee germogliate dal caotico movimento nato una
generazione fa nelle strade dei ghetti
neri e nei campus universitari, ma –
curiosamente – è in Europa che le
intuizioni della generazione degli anni
Sessanta hanno dato vita a un nuovo
audace esperimento, i cui indistinti
contorni erano impossibili da delineare
allora, al tempo della nostra giovinezza.
Si potrebbero dare diverse spiegazioni
del fatto che, a quanto pare, sono gli
europei a indicare la strada verso la
nuova era, ma ce n’è una che si impone su tutte: è stato il caro Sogno americano, un tempo idealizzato e invidiato dal mondo intero, a portare
l’America all’attuale situazione di
impasse, quel sogno che pone l’accento sull’illimitata opportunità concessa
a ogni individuo di cercare il successo,
che nell’interpretazione corrente significa soprattutto, se non esclusivamente, successo economico. Il Sogno americano è troppo centrato sul progresso
materiale personale e troppo poco
preoccupato del benessere generale
dell’umanità per continuare ad avere
fascino e importanza in un mondo
caratterizzato dal rischio, dalla diversità e dall’interdipendenza: è diventato
un sogno vecchio, intriso di una mentalità legata a una frontiera che è stata
chiusa tanto tempo fa. E mentre lo
“spirito americano” guarda stancamente al passato, nasce un Sogno europeo,
più adatto ad accompagnare l’umanità
nella prossima tappa del suo percorso:
un sogno che promette di portare l’uomo verso una consapevolezza globale,
all’altezza di una società sempre più
interconnessa e globalizzata.
Il Sogno europeo pone l’accento sulle
relazioni comunitarie più che sull’auto-
nomia individuale, sulla diversità culturale più che sull’assimilazione, sulla
qualità della vita più che sull'accumulazione di ricchezza, sullo sviluppo
sostenibile più che sull’illimitata crescita materiale, sul “gioco profondo”
più che sull’incessante fatica, sui diritti umani universali e su quelli della
natura più che sui diritti umani universali e su quelli della natura più che sui
diritti di proprietà, sulla cooperazione
globale più che sull’esercizio unilaterale del potere.
Il Sogno europeo è germogliato al crocevia fra la postmodernità e l’emergente era globale, e rappresenta il ponte
che può colmare la distanza fra le due
epoche. La postmodernità non è mai
stata intesa come un’era a sé stante,
quanto piuttosto come una fase crepuscolare della modernità: un tempo per
formulare un giudizio sui molti peccati
dell’era moderna. Le proteste e gli
esperimenti della generazione degli
anni Sessanta miravano ad abbattere i
vecchi confini che vincolavano lo spirito umano e a sondare nuove realtà, e
sono nati insieme al loro compagno
intellettuale: il pensiero postmoderno.
I postmodernisti si domandano in che
modo il mondo sia arrivato a infilarsi in
un vicolo cieco. Quali sono le ragioni
che hanno portato a sganciare le
bombe atomiche su Hiroshima e
Nagasaki, a costruire i lager nazisti in
Europa, il Gulag in Unione Sovietica e
i campi di rieducazione maoisti nelle
campagne cinesi? Come siamo giunti a
un mondo diviso più che mai fra ricchi
e poveri? Quando e come il materialismo ha sostituito l’idealismo, e il consumo si è trasformato da concetto
negativo in positivo? I postmodernisti
hanno attribuito la responsabilità di
tutto ciò alla modernità e individuato i
colpevoli dei mali del mondo in quelli
che considerano i rigidi assunti del
pensiero moderno: l’Illuminismo europeo, con la sua visione di un illimitato
progresso materiale, è fra i maggiori
accusati, insieme al capitalismo di
mercato, al socialismo di Stato e ➔
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DATA: 17-09-2004
HANNOSCRITTO
DI JEREMY RIFKIN
all’ideologia dello Stato-nazione. La
modernità, secondo i teorici postmodernisti, è viziata fin nei suoi presupposti: le stesse idee di realtà oggettivamente conoscibile, di progresso lineare
irreversibile e di perfettibilità dell’uomo sono state interpretate in maniera
troppo rigida e storicamente distorte, e
non tengono conto di altre prospettive
sulla condizione umana e i fini della
storia. (…)
Se i postmodernisti hanno raso al suolo
l’edificio ideologico della modernità,
liberando chi ne era prigioniero, non
hanno offerto all’uomo una dimora
alternativa: siamo diventati nomadi esistenziali che vagano in un mondo senza
frontiere di desideri insoddisfatti, alla
ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi e
in cui credere. Lo spirito umano, liberato dalle vecchie categorie concettuali, ha spinto ciascuno di noi a trovare
una strada propria in un mondo caotico
e frammentato, ancora più pericoloso
di quello “totalizzante” che ci siamo
lasciati alle spalle.
Il pensiero postmoderno non ha trovato
terreno fertile in quella che viene chiamata la “middle America”, ma ha sempre avuto maggiore influenza in
Europa. Oltre la metà degli americani
sono religiosi – più che in qualsiasi
altro paese industrializzato- e non sono
disposti a sottoscrivere l’idea di un
mondo in cui tutto è relativo, ma credono ancora in un grande ordine delle
cose e vivono la propria fede intimamente, giorno dopo giorno. Gli americani più laici, benché non dispongano
di un riferimento religioso onnicomprensivo, sono in genere devoti a un’altra visione sociale: l’idea illuminista di
storia come continuo e inarrestabile
avanzamento del progresso materiale.
Gli europei, invece, sono stati più disposti ad accettare le critiche agli
assunti fondamentali della modernità e
ad abbracciare un orientamento postmoderno; questa loro disponibilità ha
molto a che vedere con le devastazioni
e le carneficine delle due guerre mondiali e con lo spettro di un continente
122
che, a causa della cieca obbedienza a
visioni utopistiche e a ideologie, nel
1945 si trovò sull’orlo del baratro.
Sono stati gli intellettuali europei a
suonare la carica contro il progetto
della modernità, ansiosi di scongiurare
il pericolo che i vecchi dogmi potessero di nuovo condurre l’umanità lungo la
strada della distruzione. Il loro attacco
frontale alle metanarrazioni li ha portati a difendere il multiculturalismo, i
diritti umani universali e i diritti della
natura. I postmodernisti considerano il
multiculturalismo una sorta di antidoto
al pensiero moderno, un modo per
bilanciare l’unicità dottrinaria con la
molteplicità delle prospettive. La questione dei diritti ha ulteriormente allargato la critica all’unicità del punto di
vista: i diritti umani universali e i diritti della natura sono un modo per riconoscere che la storia di ciascuno ha
uguale valore e che anche il nostro pianeta è, in sé, importante. Ma qui la
logica postmodernista ha cominciato a
scontrarsi con le proprie contraddizioni
interne. Universale significa fondamentale e indivisibile, qualcosa che tutti
riconoscono e accettano come tale;
dunque, involontariamente, i postmodernisti si sono scavati la fossa da soli,
riconoscendo che esiste almeno un’idea universale su cui tutti potrebbero
potenzialmente concordare: ogni vita
umana ha uguale valore e la natura è
degna di rispetto e considerazione.
Il Sogno europeo comincia là dove i
postmodernisti hanno rinunciato.
Ridotto all’essenziale, è un impegno
per la creazione di un nuovo schema
storico di riferimento, che liberi l’individuo dal vecchio gioco dell’ideologia
occidentale e, nello stesso tempo, leghi
l’umanità a una nuova storia condivisa,
fatta di diritti umani universali e di
diritti intrinseci della natura: ciò che
chiameremo consapevolezza globale. Il
Sogno europeo, insomma, è il tentativo
di creare una nuova storia.
Il nuovo Sogno europeo è potente perché riserva attenzione ed aspetti come
la qualità della vita, la sostenibilità, la
DATA: 17-09-2004
HANNOSCRITTO
DI JEREMY RIFKIN
pace e l’armonia. Nella nuova visione
del futuro, l’evoluzione personale
diventa più importante dell’accumulazione
individuale
di
ricchezza.
L’accento si sposta così sull’elevazione
dello spirito umano, non sull’aumento
della ricchezza; sulla crescita dell’empatia dell’uomo, non sull’estensione
dei territori soggetti al suo dominio.
L’umanità è liberata dalla prigione del
materialismo, in cui è stata rinchiusa
all’inizio
del
Settecento
dall’Illuminismo, e portata verso un
nuovo futuro animato dall’idealismo.
Per quanto io sia visceralmente legato
al Sogno americano, e soprattutto alla
sua incrollabile fede nella preminenza
dell’individuo e della responsabilità
personale, la speranza per il futuro mi
spinge verso il Sogno europeo, che
esalta la responsabilità collettiva e la
consapevolezza globale.
Per questo ho cercato di trovare una
sinergia fra le due visioni, allo scopo di
combinare il meglio dei due sogni. C’è
una cosa, però, di cui sono relativamente sicuro. Il nascente Sogno europeo rappresenta le più alte aspirazioni
dell’umanità a un futuro migliore.
traduzione: Paolo Canton
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DATA: 24-08-2004
HANNOSCRITTO
DI PAOLO SAVONA
GLI SLOGAN DI BARROSO
impressero una nuova svolta coerente
con i nuovi dati del sistema, riportando
l’attenzione e l’impegno della politica
La prima intervista rilasciata da José economica dalla domanda all’offerta.
Manuel Barroso in qualità di presidente Oggi la ricerca di un equilibrio tra le due
designato della Commissione di componenti dello sviluppo è presente in
Bruxelles è talmente importante per noi quasi tutte le politiche economiche degli
cittadini europei da consentire che sia Stati del pianeta, Europa inclusa, ma lo
gettata subito nel sempre più capiente scenario è nuovamente cambiato.
cestino dell’attualità. Nella parte strettaLa caduta della Cortina di ferro
mente economica dell’intervista Barroso e la crescente integrazione tra mercati
rilancia il logoro slogan di un’Europa che nazionali conseguente al processo di glodiventi entro il 2010 “l’economia più balizzazione hanno fatto emergere le
competitiva del mondo” e ritiene che ciò contraddizioni nascenti dal fatto che una
sia realizzabile con le “riforme”, oggi a parte del mondo ha progredito economisuo dire possibili perché i cittadini camente e socialmente, mentre un’altra,
hanno capito che sono necessarie. E per giunta più popolosa, è rimasta indieaggiunge che si darà da fare per mettere tro, in taluni casi molto più indietro. La
d’accordo i 25 Governi dell’Unione su prima ha un assetto politico organizzato
linee comuni che rafforzino i tentativi in per difendere il benessere raggiunto,
corso in molti Paesi europei.
mentre la seconda non lo ha e, anzi, ha
Da queste dichiarazioni si pos- accettato, anche dai Paesi che si dichiasono trarre due amare considerazioni. La rano ancora comunisti, che i suoi abitanprima è che nonostante il fallimento ti possano raggiungerlo al costo di ogni
della politica economica europea – cia- personale sacrificio.
scuno decida se per assenza o per insufSe per “riforme” Barroso intenficienza, tanto il risultato non cambia – de l’estensione di questi sacrifici anche
essa viene riproposta senza alcuna corre- ai cittadini europei sarà difficile convinzione di sostanza, ma solo di forma. cerli che la Ue è la soluzione ai loro proBarroso, infatti, si propone come media- blemi. Per fare sacrifici essi non hanno
tore e non come leader. La seconda è necessità né dell’Europa unita, né di
che, per essere accreditato a Bruxelles, politiche economiche. Per dirla in italiaogni “nuovo venuto” deve recitare la no, forse hanno necessità di un Bava
farsa di credere nelle supreme sorti Beccaris, ma è improbabile che esista e,
dell’Unione europea come primario com- se esistesse, che possa bastare! Il sacripetitor globale purché lasci le cose come ficio è una dote individuale che non
sono state decise a Maastricht nel 1992 necessita di politiche essendo capace di
e interpretate e attuate nel decennio affermarsi nell’area ricca come in quella
successivo. Il fiuto politico del neopresi- povera.
dente della Commissione lo ha convinto
C’è però una parte dell’intervidella necessità di allinearsi al comune sta di Barroso che risponde alla nuova
pensare ancor prima del suo ingresso realtà, quella in cui afferma che la risponell’incarico.
sta è la costruzione in Europa di una
Dopo la Grande Crisi del 1929- Knowledge based society, una società
33 il mondo comprese l’utilità dell’inter- basata sulla conoscenza, capace di una
vento pubblico a sostegno della doman- continua innovazione. L’obiettivo è stato
da e trovarono in Roosevelt il politico più già indicato ben quattro anni orsono a
abile e rapido nell’intraprenderlo e in Lisbona, ma subito reso inefficace dalla
Keynes lo studioso capace di darne for- simultanea decisione di non guidare il
male dimostrazione.
processo “al centro” e di lasciare a ogni
Dopo la crisi del dollaro e quel- Paese la responsabilità di realizzarlo. Il
la petrolifera la Thatcher e Reagan tentativo di sconfiggere i bassi costi ➔
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DATA: 24-08-2004
HANNOSCRITTO
DI PAOLO SAVONA
del lavoro e gli oneri trascurabili del
Welfare dei Paesi poveri muovendo alle
loro produzioni una competizione basata
sulle innovazioni tecnologiche richiede
che i partner europei facciano scelte
comuni in materia e mettano in comune
le risorse finanziarie per raggiungere la
dimensione necessaria per attuarle. Il
tentativo di innovare a livello di singolo
Paese annulla i potenziali effetti della
politica proposta. In breve, manca
l’Unione europea, non mancano né le
risorse, né sono indispensabili le “riforme” se per esse si intende solo la riduzione dei salari, delle pensioni e dell’assistenza sanitaria. Tenuto conto dei divari esistenti tra Paesi ricchi e poveri, la
dimensione di queste riduzioni necessaria per competere sarebbe infatti impraticabile politicamente e si ritorcerebbe,
data l’attuale struttura del Pil europeo,
in una riduzione del nostro sviluppo e
della nostra occupazione.
Questo non significa che il benessere
economico e sociale europeo non debba
essere oggetto di una qualche razionalizzazione, ma che questa ha un significato
politico – e forse accettabilità democratica – se accompagnata da una politica
estera che induca un’estensione dei
benefici goduti dai Paesi ricchi ai Paesi
poveri, improntando il loro sviluppo non
solo a schemi di produzione per l’esportazione, ma anche di produzione per
consumi interni, ivi inclusi quelli dello
Stato del benessere. Se l’Europa intende
esercitare una leadership politica globale, può farlo per ora solo esportando
modelli di organizzazione sociale, come
ha fatto nei secoli passati. Può sembrare
un invito generico, ma se non lo fa, la
sua politica di sacrifici è impraticabile
politicamente e improduttiva economicamente; provvederà alla bisogna il mercato, come va facendo, attraverso un minore sviluppo e una maggiore disoccupazione.
Se le dichiarazioni di Barroso vanno
inquadrate nel modello indicato, lo scenario che si presenta nella Ue è il solito:
la continuazione di inutili discussioni sul
rispetto del 3% come simbolo della
disciplina fiscale a supporto della disciplina monetaria e su altre esortazioni
egualmente inconcludenti. È possibile
sperare in una diagnosi che conduca a
uno scenario diverso? Come ci è stato
autorevolmente insegnato, la speranza è
sempre l’ultima ad abbandonare l’uomo,
ma occorre che si affermino politici
dotati di coraggio per innovare, imponendo nuovi schemi di azione.
125
DATA: 21-09-2004
HANNOSCRITTO
DI ARTURO C. QUINTAVALLE
MILLE E UNA NOTTE,
L’ORIENTE CHE NON C’ERA
Dal Medioevo alla caduta di Costantinopoli:
viaggio in un mondo che ha proposto
modelli ed esperienze dalla struttura delle
città alla costruzione delle navi.
Segno di un patrimonio comune
che gli orrori del nostro tempo mettono di
nuovo a rischio Per due secoli letteratura
e arte hanno letto quella realtà
come semplice folclore esotico
Forse non ci si pensa neppure ma l’Islam,
che oggi entra prepotentemente nella cronaca quotidiana, è stato per anni sfondo,
paesaggio, non luogo, se non della fiaba,
del folclore, mai dunque, per l’Occidente,
cultura, civiltà. E resta da capire quanto
questa sostanziale non considerazione
della realtà dell’Islam abbia portato l’intero Occidente a non vedere le profonde trasformazioni, le gravi contraddizioni che in
quel contesto oggi sono esplose. Resta da
capire quando tutto questo è iniziato e
perché.
Nella storia della cultura, l’Islam è un
grande rimosso: le raccolte di arte islamica si formano quasi sempre nel ‘900, i
pochi resti di arte islamica antica stanno
nei tesori delle cattedrali, avori, stoffe,
magari ceramiche o bronzi. Eppure, nel
lungo tempo medievale, fino alla caduta
di Costantinopoli nel 1453 e ancora dopo,
fino all’età moderna prima del colonialismo, il mondo islamico è stato sempre
parte essenziale di un sistema di cultura
collegato, dove gli scambi, i rapporti, le
integrazioni dei diversi modelli ed esperienze, dalla struttura alla città alla
costruzione delle navi, dalla strumentazione tecnica ai commenti ad Aristotele,
dall’astronomia all’algebra era o diventava
comune, da Occidente a Oriente. Quando
dunque si determina quella crisi della
quale viviamo ancora oggi le conseguenze? Forse considerare due territori culturali, quello del racconto e quello della
fotografia, può aiutare a capire.
In Francia, appena dopo la pubblicazione
de Le mille e una notte (1704-1717) tradotte da Galland, nasce l’idea dello spazio
126
del mondo islamico come sfondo, come
scenografia fittizia. Così Montesquieu con
le sue Lettere persiane (1721) oppure
Voltaire con Zadig (1748) propongono un
racconto dell’Oriente in termini mitici,
l’Oriente, non importa che esso sia la
Persia o Babilonia, è il luogo della saggezza, il luogo della fiaba, harem ed
eunuchi, vizir e pascià, castighi terribili e
salvezze insperate; questo territorio mitico viene usato per criticare, per mettere
in evidenza le contraddizioni dell’assolutismo in Occidente.
Ma il carattere del racconto è destinato a
trasformarsi ancora: la spedizione di
Napoleone in Egitto (dal 1798) ribalta la
visione mitica dell’Oriente e permette la
riscoperta di una civiltà antichissima presto considerata la matrice di tutte le altre,
quella dell’Egitto dei Faraoni. Certo,
quando gli scienziati e disegnatori di
Napoleone costruiscono la loro monumentale Description de l’Egypte essi propongono anche la illustrazione della fauna e
della flora, ma l’accento è posto sui grandi monumenti dei Faraoni scatenando
così anche una perversa corsa al collezionismo delle potenze d’Occidente; nell’opera troviamo anche immagini incise
delle architetture e dei costumi arabi, ma
sono da considerare come documenti di
un folclore estraniato dal “civile” occidente, come lo è la pittura degli “orientalisti” che diventerà presto di moda. Dopo
Napoleone, il rapporto col mondo islamico appare sempre più difficile. Così
Chateaubriand, poco dopo aver pubblicato Le genie du Christianisme (1802),
giunge in palestina alla ricerca dei luoghi
della vita del Cristo e vive il mondo islamico, e gli ebrei, come alienante disturbo.
E presto l’impero ottomano è destinato a
trovarsi di fronte un altro enorme problema: quello della indipendenza nazionale
della Grecia: Byron che muore a
Missolungi, l’intervento occidentale e la
sconfitta ottomana a Navarino, tutto questo viene esaltato da Victor Hugo ne Les
Orientales (1829), poesie appassionate
che disegnano gli Ottomani come oppressori e la Grecia, culla della civiltà occidentale, come la vittima. E dopo?
➔
DATA: 21-09-2004
HANNOSCRITTO
DI ARTURO C. QUINTAVALLE
Dopo la storia è ancora diversa: una spedizione che dura dal 1849 al 1851 in
Egitto, Nubia, Siria, Palestina, vede insieme due amici, Gustave Flaubert e Maxime
du Camp, mentre Flaubert scrive poche
note di viaggio che poi trasformerà in
romanzo, Salambò, Du Camp fotografa i
monumenti dell’antico Egitto inventando
la loro iconografia per le generazioni a
venire. Karnak e i colossi di Memnone, le
piramidi, la sfinge, tutti ripresi come
forme assolute, bloccate nella luce. Dopo
Du Camp che aveva pubblicato le sue foto
in volume nel 1852, molti fotografi proseguiranno su questa strada: Antonio Beato,
Bonfils, Auguste-Rosalie Bisson, Zangaki,
Abdullah Frères e molti altri, dagli anni
60 alla fine del secolo. Essi riprenderanno anche i monumenti cristiani di
Gerusalemme o di Costantinopoli e, a
volte, anche quelli antichi della Grecia. E
l’Islam? L’Islam, a questo punto, per
l’Occidente torna a essere luogo di racconti mitici, così ad esempio Gerard de
Nerval, rifacendosi agli schemi de Le
mille e una notte, costruisce la sua Storia
del califfo Hakem. Siamo alla metà del
secolo, una generazione dopo Guy de
Maupassant, ne La vita errante, visita
Cartagine e parla degli arabi come di “un
popolo fanatico e nomade” e sottolinea
come la moschea di Kairouan sia un centone di frammenti “presi dalle città
cadenti” certo opera eretta in onore di
Allah ma ben diversa dalle grandi cattedrali dell’Occidente. Dunque, l’Islam
resta folclore, salvo che per Pierre Loti,
appassionato viaggiatore e testimone,
rimasto quasi il solo, fino agli inizi del
‘900, a difendere la civiltà islamica, a
identificarsi in essa, persino a perorare la
causa dell’Impero ottomano cercando così
di impedirne lo smembramento.
Dunque il mondo islamico, da due secoli,
per la nostra poesia, per il romanzo e la
letteratura di viaggio, è sfondo mitico e
più spesso spazio visto con distacco di
una non cultura che fa da contorno a
monumenti antichi egizi, bizantini, cristiani, per noi importanti; la fotografia,
l’incisione, la pittura replicano questo
schema di racconto: nell’800 i fotografi
piazzavano i fellah accanto ai templi dei
faraoni, come metro per fare capire le
dimensioni enormi degli edifici, adesso,
sotto le piramidi, ci si fa fotografare sui
dromedari, travestiti da beduini. Dunque
ancora folclore.
Questa difficile storia del come
l’Occidente ha mascherato, raccontandoselo, l’Islam, deve aver contribuito non
poco a perdere di vista la realtà di una
cultura che si è progressivamente isolata
o che noi stessi abbiamo isolato, mettendo fra parentesi o rifiutando quell’insieme
di conquiste che, dall’Habeas corpus al
Contratto sociale formano la struttura
delle costituzioni degli Stati. Certo, i
musei d’arte islamica nascono assai tardi
in Occidente, mentre in Medio Oriente la
loro organizzazione sembra svilupparsi
meglio, ma in Afghanistan, ricordiamolo,
non è andata altrettanto bene ai tesori
dell’arte, tesori che vogliono dire consapevolezza della storia, dunque civiltà;
inoltre solo di recente l’Unesco ha cominciato a tutelare come patrimonio dell’umanità l’architettura islamica. Forse un
articolato dibattito sulle culture attorno
alle rive del Mediterraneo medievale potrà
proporre una riflessione ulteriore sull’imponente realtà storica dell’Islam e sulla
tutela del suo patrimonio culturale che
eventi recenti, peraltro, sembrano mettere
profondamente a rischio.
127
DATA: 11-09-2004
HANNOSCRITTO
DI MOUNA NAÏM
AL DI LÀ DEL PENSIERO
INTEGRALISTA,
UN ISLAM POLITICO DI TIPO
PLURALISTA ESISTE
contesto da cui prendono vita e
dall’»attività che perseguono: nostalgici di una «purezza» musulmana originale, tali movimenti mirerebbero a torRiflesso di un mondo musulmano
nare alla cosiddetta «essenza prima»
costituito da oltre un miliardo di persone, della religione, così come enunciata
i movimenti che si riconoscono
dal Profeta, per liberarne i principi di
nell’islamismo sono molto diversi.
gestione del mondo. Visto attraverso
questo prisma, l’Islam politico sarebbe
“Dio voleva che l’Islam fosse una reli- una regressione, un rifiuto della modergione, ma gli uomini hanno voluto nità, della ragione, della scienza e del
farne una politica, scrive Saïd Al- progresso. Questo Islam politico esiste,
Ashmawy in L'Islamisme contre l'islam. ma è un islam dalle frange integraliste
Nella sua semplicità, questo postulato che si ispira soprattutto agli insegna– che si potrebbe applicare a tutte le menti del siriano ultrarigorista Ibn
religioni – è assai pertinente, quali che Taymiya (1262-1328), principale maesiano le distanze che si possono pren- stro di Mohammed Ben Abdel Wahab,
dere dalle tesi di questo alto magistra- la cui alleanza con gli Al-Saoud fu, cinto egiziano, tesi che sono una requisi- que secoli più tardi, alla base della
toria senza sfumature contro qualsiasi creazione dell’Arabia Saudita e il cui
movimento politico che si fa forte obiettivo era purificare la pratica
dell’Islam, quanto meno in Egitto.
dell’Islam da qualsiasi associazione e
L'islam è stato costellato da conflitti idolatria. Ibn Taymiya permane ancora
politico-religiosi, non sempre soltanto uno dei principali maestri di gruppi
retorici: dalla fitna, la grande crisi che minoritari, ma la sua visione ha pernell’anno 37 dall’egira (anno 657 del- meato a livelli diversi praticamente
l’era cristiana) portò alla divisione dei tutti i movimenti islamici.
musulmani per la successione del pro- Senza voler ignorare questo pensiero
feta e la costituzione della comunità integralista, e pur valutando il posto
musulmana, fino ai nostri giorni, pas- centrale occupato dall’elemento relisando attraverso le diverse scissioni e gioso, i lavori di specialisti e ricercatoscismi, le scuole giuridiche e teologi- ri mostrano tuttavia che l’Islam politico
che, e i pensatori e le correnti integra- è plurale, come lo è il «mondo» musulliste e “moderniste”.
mano fatto di un miliardo di persone
Cos’è oggi l’Islam politico? Secondo la presenti su tutti i continenti.
definizione di Olivier Carré (in L'Utopie Qualunque ne sia l’espressione concreislamique dans l'Orient arabe), si tratta ta, l’Islam politico si iscrive sempre
di correnti di pensiero e d’azione, tal- nella realtà banalmente definita da
volta violenta, a favore dell’islamizza- precisi dati storici, geografici, sociali
zione delle istituzioni, della vita socia- ed economici a livello locale e regionale, del diritto, del governo, delle rela- le, alla stregua di qualunque altra
zioni internazionali. Fermo restando, espressione politica. Da qui la necessiprecisa lo specialista dell’Islam, che il tà di ciò che lo storico siriano Aziz Altermine utopia non indica «un sogno Azmeh chiama una «scomposizione crisenza efficacia immediata», bensì «una tica della nozione dell’Islam e un’anapotenza mobilitante, a volte considere- lisi delle condizioni della sua recente
vole».
emersione», lontano dal «ruolo fantaLa spiegazione più breve, che relega smatico» imputato all’Islam come
l’Islam politico nella sua sola dimen- «categoria totalizzante».
sione religiosa, vuole che tutti i movi- Dal tempo del colonialismo l’Islam è
menti islamici abbiano un unico e stato uno dei vettori della lotta per il
medesimo obiettivo, a prescindere dal recupero dell’indipendenza e dell’i- ➔
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HANNOSCRITTO
DI MOUNA NAÏM
dentità contro una tutela straniera globale, percepita come un’alienazione.
Nel passaggio dal XIX al XX secolo questo era già il significato del pensiero
del persiano Jamal Eddine Al-Afghani e
dell’egiziano Mohammed Abdou – per
limitarsi soltanto a due più importanti
pensatori che caratterizzarono quest’epoca che predicavano un ritorno ai
valori dell’Islam, pur tenendo conto
delle necessità del loro secolo.
L'abolizione del califfato nel 1924 da
parte di Kamal Ataturk non fu estranea
all’afflato dato all’Islam politico. Non è
un caso se l’associazione dei Fratelli
musulmani nacque quattro anni più
tardi in Egitto. Non che il suo fondatore Hassan Al-Banna, impregnato del
pensiero del rigorista siriano Rachid
Rida, volesse ripristinare il califfato,
ma allora si pose la questione della
fondazione di una nuova comunità politica e la questione stessa del politico,
come asserisce il docente universitario
Bourhan Ghalioun (in Islam et politique, la modernité trahie).
(L'Islamisme en face), l'islamismo non
è un rifiuto puro e semplice della
modernità, ma una volontà di riappropriarsene, di farne una «riscrittura con
la terminologia del sistema simbolico
musulmano». L'islamismo diventa
aggressivo e violento a partire dagli
anni 70. Il pensiero di Ibn Taymiya, ma
anche quello dei radicali del XX secolo
– l’egiziano Sayyed Qotb e il pakistano
Abdel Alaa Al-Mawdudi – ne sono all’origine, da parte sunnita. Da parte sciita, l’imam Rouhollah Khomeyni teorizzerà la violenza. La radicalizzazione
non affonda le sue giustificazioni nella
sola ideologia. Non è nemmeno soltanto una reazione a condizioni economiche sfavorevoli – i «radicali» appartengono di solito alla classe media e spesso hanno fatto studi superiori. Essa è
anche una reazione alla violenza esercitata dai regimi esistenti e traduce la
convinzione che le vie legali sono inefficaci. Proprio come accanto ai partiti
comunisti sono sorte formazioni come
le Brigate Rosse e l’esercito rosso,
sostiene il sociologo specialista
Ricettacolo di malcontenti
dell’Islam,
Farhad
Khosrokhavar,
Considerata
come
la
matrice nell’Islam politico si è avuto il passagdell’Islamismo del XX secolo, l’associa- gio all’attivismo violento. Il sentimento
zione, che avrebbe fatto degli emuli di
umiliazione
e
la
volontà
ovunque in terra di Islam, si inseriva dell’Occidente di imporre valori preallora nel contesto della lotta per l’in- sentati come universali sono anch’essi
dipendenza e la giustizia sociale. Più motori del radicalismo. È vero nei Paesi
tardi, in Egitto come altrove, sarà il musulmani come pure in Occidente,
discredito delle ideologie nazionaliste, dove, sottolinea il sociologo, «l'islam è
la confisca del potere da parte dei regi- oramai una religione esterna-interna:
mi repressivi che hanno copiato i loro esterna a causa del disprezzo nel quale
obiettivi nazionali su quelli delle vengono spesso tenute le comunità
potenze occidentali, «asfissiando in musulmane; interna perché queste
maniera autoritaria il sentimento isla- comunità affrontano i problemi endomico (…) a beneficio di uno sviluppo geni delle società occidentali». Nella
economico accelerato percepito giusta- sua forma più estrema, questo Islam
mente come un fallimento« (Olivier della djihad ha optato per il «martirio»
Carré), che faranno dell’Islamismo il – anche se questo «martirio» non ha lo
ricettacolo dei malcontenti. L’Islam è stesso portato simbolico per tutti.
diventato in qualche modo l’ideologia Farhad Khosrokhavar vi distingue tre
dei dominati, un po’ come lo fu il periodi: quello libanese e iraniano degli
comunismo che, vista la repressione anni 70-80, quello talebano negli anni
dei regimi esistenti, non riuscì a drena- 90 e l’ultimo che corrisponde al dopore folle in terra d’Islam. Nella maggior regime talebano, di cui Afghanistan,
parte dei casi, insiste Francois Burgat Pakistan e Irak sono il centro di gra- ➔
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HANNOSCRITTO
DI MOUNA NAÏM
vità con estensioni ideologiche in tutto
il mondo. La strumentalizzazione dei
problemi palestinese, ceceno, afgano e
irakeno da parte di gruppi quali AlQaida e i suoi complici, non sarebbe
stata efficace se, a torto o a ragione, le
– o alcune – comunità musulmane non
vi avessero percepito un’aggressione
contro la loro identità religiosa. E tale
strumentalizzazione è messa a servizio
di una strategia di globalizzazione
attraverso la rappresentazione mistificata di una sorta di «neo-oumma»
(comunità) su scala mondiale.
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DATA: 10-09-2004
HANNOSCRITTO
DI PHILIP STEPHENS
FALSO CONFORTO DALLE VOCI
DI GUERRA
Troppo spesso il linguaggio della politica è nemico di un giudizio intelligente.
Un semplice slogan oscura più di quanto illumini. A tre anni dagli orrori
dell’11 settembre 2001 e una settimana dopo gli attentati sanguinari agli
scolari di Beslan, tutti sappiamo che
cosa intendono i politici quando parlano di guerra al terrorismo. Eppure, nonostante questa apparente chiarezza,
l’espressione è pericolosamente fuorviante, fonte di comoda autoillusione
per i leader politici e di falso conforto
per noi. La confusione sorge in parte
perché il termine terrorismo descrive
una tattica piuttosto che un nemico.
Ma il problema è ben più profondamente radicato di questa ovvia inesattezza linguistica. Una dichiarazione di
guerra porta a concludere che si tratti
dell’unica risposta legittima, che tutto
il resto sia stato tentato e fallito.
Sostenere qualcos’altro è solo un modo
per mantenere la calma. I terroristi –
altro luogo comune – sono tutti uguali.
L’Eta in Spagna, Hamas sulla costa
occidentale, i dissidenti in Irlanda del
Nord, i militanti nel Kashmir e i separatisti ceceni nel Caucaso vanno tutti
considerati alla stessa stregua dei
sostenitori della jihad di al-Qaeda, che
hanno abbattuto le torri gemelle di New
York. Esistono il bene e il male e nel
mezzo non c’è nulla; non c’è posto per
precise tarature o impegni politici. Così
Vladimir Putin, presidente russo, ha
dichiarato questa settimana che la critica alla repressione di Mosca in
Cecenia potrebbe far pensare che
Osama bin Laden venga invitato alla
Casa Bianca per una cordiale chiacchierata e per esporre le sue richieste
per poi dire: “Nessuno ha moralmente
il diritto di dirci di parlare con gli
assassini dei bambini.” Invece Putin,
in accordo con il presidente americano
George W. Bush, ha affermato il diritto
di lanciare attacchi preventivi ai terro-
risti in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo.
A questo punto, sospetto che uno o due
dei miei soliti inviati si stiano buttando
sulla tastiera… Voi europei siete sempre stati molto accondiscendenti nei
riguardi del terrorismo; non avete mai
provato nulla di simile agli attentati di
New York e Washington; non avete mai
capito la differenza tra principio e
pragmatismo; e ancora peggio mi dicono le esperienze passate. Quindi, prima
di essere inondato da critiche, permettetemi di spiegarmi. La distruzione
delle basi di al-Qaeda e la soppressione del regime talebano in Afghanistan
erano necessarie e giuste. L’errore in
quel Paese è stato non impegnare risorse, militari e finanziarie sufficienti per
portare a termine il lavoro (e, tra l’altro, trovare bin Laden) e garantire così
un futuro stabile all’Afghanistan.
Le forze militari, a volte massicce,
costituiscono un elemento fondamentale della lotta agli estremisti islamici, la
cui ambizione è distruggere i valori
della civiltà, ed è vero che spesso gli
obiettivi e la psicologia di molte di
queste persone le pongono al di là di
un dialogo ragionevole. Ma questo non
significa evitare la verità meno gradevole che i terroristi non sono tutti uguali, che i loro obiettivi sono diversi e che
talvolta, per quanto imperdonabili
siano le loro tattiche, il loro estremismo affonda le sue radici in un legittimo malcontento politico. La storia è
maestra in questo senso. Sono numerose nel mondo le persone un tempo marchiate come terroristi e ormai diventate
rispettabili leader politici in luoghi
remoti come il Sudafrica, l’Irlanda e
Israele.
Putin, ovviamente, non è l’unico a
respingere queste ovvie realtà. Avendo
coniato l’espressione dopo l’11 settembre 2001, Bush ha fatto della guerra al
terrorismo l’elemento centrale della
sua campagna per la rielezione. Con un
cinismo assoluto. Dick Cheney, il vicepresidente, è andato ben oltre. Dal suo
punto di vista, il sostegno da parte ➔
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DATA: 10-09-2004
HANNOSCRITTO
DI PHILIP STEPHENS
di John Kerry di una strategia più
ampia per combattere il terrorismo vale
quanto un tradimento. Se l’oppositore
democratico vince le elezioni di novembre, ha detto questa settimana il vicepresidente, “Il rischio è che ci colpiscano ancora.”
Probabilmente è vero il contrario. Ci
sono state importanti vittorie militari
su al-Qaeda. La combinazione tra un
uso aggressivo della forza, un miglioramento dello scambio d’informazioni e
una maggiore sicurezza interna hanno
indubbiamente evitato molti attentati.
Ma nel medio-lungo periodo, queste
vittorie si dissolveranno in sconfitte
ogni volta che i sostenitori della jihad
troveranno un terreno fertile per reclutare adepti nel mondo islamico.
Emotivamente, le parole di Putin toccano il tasto giusto. Chi potrebbe mai
pensare di provare a ragionare con la
malvagità dei terroristi di Beslan? Ma
questo è un diversivo. Douglas Hurd, ex
ministro degli esteri inglese, ha spiegato perché ieri sera in una conferenza
dedicata alla memoria di Stepen Lawn,
una delle vittime inglesi dell’11 settembre 2001. “Serve un potere “hard”
per trattare con coloro che hanno già
ucciso. Ma un potere “soft“ è essenziale per impedire che vengano reclutati
altri assassini… Per superare in astuzia
i terroristi di oggi niente è più utile di
un impegno serio a istituire in Cecenia,
Palestina e Iraq governi che siano
sostenuti, o almeno accettati, dalla
maggior parte della popolazione.” A
questo
elenco
io
aggiungerei
l’Afganistan.
Ecco perché Cheney parla di tradimento. Ma anche se il numero di soldati
americani uccisi in Iraq supera il
migliaio, l’amministrazione americana
deve ancora imparare la semplice lezione di Falluja. La città non è mai stata
un centro dell’estremismo islamico. Lo
è diventata perché gli Stati Uniti hanno
seguito fedelmente il detto del vicepresidente che la forza è l’unica risposta.
Mi sono sforzato, ma non sono riuscito
a trovare uno slogan per sostituire la
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guerra al terrorismo. Questo perché il
mondo reale chiede tutte quelle cose
ardue e complesse – costruzione di una
nazione, intermediazione degli accordi
di pace, ascolto e apprendimento, dialogo con i nemici del passato, compromesso – che i politici trovano troppo
difficili e gli elettori faticano a capire.
Ma se continuiamo a parlare di guerra,
siamo destinati a perderla.