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TICONTRE
TEORIA TESTO TRADUZIONE
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ISSN 2284-4473
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TICONTRE. TEORIA TESTO TRADUZIONE
numero 2 - ottobre 2014
con il contributo dell’Area dipartimentale in Studi Linguistici, Filologici e Letterari
Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Trento
Comitato direttivo
Pietro Taravacci (Direttore responsabile),
Andrea Binelli, Matteo Fadini, Fulvio Ferrari, Carlo Tirinanzi De Medici.
Comitato scientifico
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(Roma Tre), Fabrizio Cambi (Istituto Italiano di Studi Germanici), Claudio Giunta (Trento), Declan Kiberd (University of Notre Dame), Armando López Castro
(León), Francesca Lorandini (Trento – Paris Ouest Nanterre La Défense), Roberto Ludovico (University of Massachusetts Amherst), Caterina Mordeglia (Trento), Siri Nergaard (Bologna), Thomas Pavel (Chicago), Giorgio Pinotti (Milano),
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Redazione
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(Trento), Alessandro Anthony Gazzoli (Trento), Carla Gubert (Trento), Alice
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Camilla Russo (Trento), Federico Saviotti (Pavia), Marco Serio (Trento), Paolo Tamassia (Trento), Pietro Taravacci (Trento), Carlo Tirinanzi De Medici
(Trento), Alessia Versini (Trento), Alessandra Elisa Visinoni (Bergamo).
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all’esito positivo di una valutazione anonima di due esperti scelti anche al di fuori del Comitato scientifico. Il Comitato direttivo revisiona la correttezza delle procedure e approva o
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hot cognition : come funziona il romanzo
della globalizzazione
Stefano Calabrese, Roberto Rossi, Sara Uboldi, Teresa Vila, Elena
Zagaglia – Università di Modena e Reggio Emilia
Se si assumono parametri multipli e si dà ascolto alle
neuroscienze, oggi lo storytelling è il terreno di formazione e la palestra entro i quali esercitiamo la nostra capacità di leggere la realtà. Le narrazioni a struttura sospesa garantiscono elevati standard in termini di mind reading, mentre il predominio sostanziale del controfattuale (esternalizzato come realismo
magico o saghe fantasy) migliora le nostre capacità
predittive, così come il ricorso a elementi magici trasforma il sistema di attese standard in una hot cognition allertata dinanzi a qualsiasi elemento di novità
si presenti all’individuo.
Granting multiple parameters of interpretation and
the relevance of today’s neuroscientific discoveries,
storytelling is the training field where we put to trial
our abilities in deciphering reality. Narrations with a
“suspended” framework grant us high standards of
mind-reading, while a marked dominance of counterfactuals (as expressed in magic realism of phantasy sagas) helps us improve our skills at predicting further developments. The recurrent appeal to
magic elements transforms our set of standard expectations into a hot cognition continuously alerted
to face any element of novelty.
Le recenti scoperte della psicologia cognitiva, delle teorie della mente e delle neuroscienze hanno sino ad oggi confermato che le narrazioni costituiscono la principale forma
di comunicazione di qualsiasi esperienza umana che necessiti di essere filtrata attraverso
uno o più punti di vista; la narratività dunque non rappresenta qualcosa che si trova
solo in un testo, al di fuori dell’uomo, ma qualcosa di potenzialmente riconoscibile come proprio dai lettori, talvolta da essi stessi proiettato all’interno dei testi. Siamo noi a
narrativizzare il mondo – almeno secondo le più recenti prospettive cognitiviste e neuroscientifiche –, anche là dove il mondo non si presenta affatto come una fluida catena
di eventi legati da leggi crono-causali. Un grande, faticoso lavoro: il mondo altamente
strutturato della fiction richiede infatti adattamenti neuro-cognitivi sempre maggiori,1
soprattutto in presenza di narratori inaffidabili, come avviene nella giallistica e nei racconti noir, dove dobbiamo conservare informazioni sulla base di indizi con una ‘etichetta’ (tag)2 differente a seconda che il portatore di informazioni sia più o meno plausibile.3
Per quale ragione, si è chiesto una volta David Lodge, dopo aver letto quelle finzioni allo
stato puro che sono i romanzi abbiamo la curiosa sensazione di avere appreso qualcosa?
Perché per vivere è necessario apprendere a distinguere la realtà dalla rappresentazione
della realtà, ciò che esiste da ciò che qualcuno crede che esista. Si tratta delle cosiddette
1 Kendall Walton, Mimesis as Make-Believe. On the Foundations of the Representational Arts,
Cambridge, Cambridge University Press, 2001, pp. 41 e sgg.
2 La metarappresentatività (metarepresentationality) consiste nella capacità di archiviare informazioni secondo un elaborato e complesso modello che ci consente di ‘applicare un’etichetta’ (source tag) alla fonte e alla
sua affidabilità, e di verificarne l’attendibilità nel tempo in base ai riscontri successivi. In altre parole la nostra
mente costruisce rappresentazioni e insieme le loro metarappresentazioni, e le verifica di continuo; socialmente molto importante, questa facoltà sembra incepparsi nei soggetti schizofrenici ed essere latitante negli
autistici (Lisa Zunshine, Why We Read Fiction? Theory of Mind and the Novel, Columbus, Ohio State
University Press, 2006).
3 Yevgenya Goldvarg e Philip Johnson-Laird, Illusions in Modal Reasoning, in «Memory &
Cognition», xxviii (2000), pp. 282-294.
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verità architettoniche, per cui è noto che arriviamo ad archiviare informazioni mediate
anche fino al IV o V grado («Io so che tu sai che egli sa che noi sappiamo…»).4
Le narrazioni sono dunque una palestra di mind reading,5 luoghi in cui si apprende
a leggere il modo in cui gli altri leggono il mondo. Letture di letture, a proposito delle quali dobbiamo innanzitutto chiederci: quali sono le unità minime della narrazione,
dal punto di vista del lettore? Secondo quali leggi si combinano e quali regole di trasformazione ne assicurano l’invarianza? Soprattutto: di cosa è fatto un racconto? Esistono
contrassegni extralinguistici che consentano ai lettori di classificare un atto verbale come
narrativo? Sono queste le principali domande cui nel Novecento i narratologi – a partire
da Propp e dai suoi prosecutori parigini, tra i quali Barthes e Genette – hanno cercato di
offrire risposte convincenti, attraverso la messa a punto di una serie di strumenti di analisi essenziali per classificare, tra le altre cose, la posizione del narratore all’interno di una
storia, valutare il rapporto sempre mutevole tra il tempo della storia narrata e il tempo
del discorso che la narra, identificare il punto di vista attraverso cui una storia è raccontata. Nondimeno, la narratologia ha rischiato di soccombere alle sue stesse ambizioni: ogni
storia ha finito per assomigliare alle altre, perché siamo stati messi in grado di percepire
gli elementi ripetitivi ma non quelli differenziali. Principale accusato di questa situazione
è la nozione di motivo, che già con la Scuola Finlandese di Aarne ha dato luogo a corpora
e repertori di unità narrative comprensive di personaggi (ad es. amazzone), azioni (ricerca, matrimonio), luoghi (paradiso, rovine gotiche), oggetti (spada, rosa), fasi temporali
(primavera, notte) e disposizioni (follia, malattia).
È servito tutto questo? Da un certo punto di vista sì, ma chi continuava a latitare era
proprio lui, il lettore/ascoltatore, destinatario delle narrazioni con le sue abitudini percettive, con la complessità della sua memoria, con le sue transcodificazioni – insomma
con la sua mente. A colmare la lacuna ci ha pensato, a partire dagli anni Novanta, chi ha
imboccato una nuova, più fertile strada grazie agli apporti incrociati del cognitivismo,
delle neuroscienze e degli studi sull’intelligenza artificiale: si è creata una collaborazione
pluridisciplinare in cui gli studiosi di letteratura hanno assunto un ruolo molto minore
rispetto al passato, in quanto il concetto di narratività (di cui la letteratura costituisce
un esempio alto) è divenuto cruciale per attività mentali, pratiche quotidiane e sfere semiotiche del tutto nuove. I cognitivisti si sono resi conto che la nostra mente, a partire
dall’infanzia, si fonda sulla connessione crono-causale di episodi, in sostanza su narrazioni in cui stadio dopo stadio apprendiamo a correlare eventi come cause ed effetti, o a
fare di uno stato interiore il motore di un fatto esterno, o a interpretare un fatto esterno
come motore di un cambiamento interiore, o a rapportare la nostra evoluzione interiore
al contesto in cui agiamo. Quando osserviamo qualcosa, o lo raccontiamo, o ascoltiamo il racconto di questo qualcosa lo classifichiamo sulla base di un confronto con un
4 Zunshine, Why We Read Fiction?, cit., p. 148.
5 Con Theory of the Mind (T.o.M.) o Mind Reading, da considerare espressioni sinonime, in italiano tradotte più frequentemente con ‘Teoria della Mente’, si intende la complessa architettura cognitiva che ci
permette di inferire il pensiero e le emozioni altrui per mezzo di rappresentazioni; abilità determinante nella
costruzione di legami sociali complessi, non matura appieno nei soggetti autistici (Simon Baron-Cohen,
Mindblindness. An Essay on Autism and Theory of Mind, Cambridge (Mass.)-London, MIT Press, 1995;
Zunshine, Why We Read Fiction?, cit., per una proposta di applicazione del concetto all’analisi letteraria).
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modello stereotipico, derivato da esperienze simili registrate nella memoria: ogni nuova esperienza viene valutata sulla base della sua conformità o difformità rispetto a uno
schema pregresso.6
La direzione assunta dal romanzo a partire dagli anni Novanta, come l’introduzione
della cultura digitale e la sua successiva, perfusiva penetrazione negli stili di vita nell’ultimo decennio, hanno messo in luce, per così dire, gli stili cognitivi delle narrazioni con
una evidenza mai prima raggiunta. Così abbiamo assistito a una duplice, parallela trasformazione: mentre cambiavano gli intrecci narrativi e le modalità di focalizzazione dei
romanzi, anche la letteratura critica acquisiva competenze differenti. Infatti, contrariamente a quanto pensassero i narratologi del Novecento, oggi i cognitivisti e i neuroscienziati ritengono che i temi aiutino il lettore a organizzare i testi secondo ‘cornici’ (frames)
concettuali, creando unità e coerenza: in questo caso il tema è un dispositivo semantico
ed ermeneutico per selezionare, specificare e organizzare i significati che un testo mette
in gioco. La funzione dei temi è triplice. (a) Consentendo ai lettori di collegare motivi a
categorie di significato più astratte e generali, i temi narrativi descrivono essenzialmente
l’interazione di agenti e indicano quali tipi di azioni, intenzioni e risultati vengono messi
in atto dai motivi (ad esempio: inganno, vendetta e violazione di un divieto); (b) aiutano i lettori a delineare lo scheletro semantico dell’intreccio tramite l’indicazione dei suoi
punti strategici, che descrivono quegli eventi, azioni, intenzioni e risultati indispensabili
per comprendere la totalità dell’intreccio; (c) possono essere usati come un’espressione
sintetica per gli schemi astratti di intreccio sottesi ad una narrazione. Tali concettualizzazioni tematiche dei modelli dell’intera narrazione possono infine assumere la forma
di un’espressione proverbiale (prendere due piccioni con una fava), una situazione tipica (un uomo conteso tra due donne), il nome di un personaggio (Edipo). Secondo la
prospettiva cognitivista di Monika Fludernik, sono tuttavia i lettori a narrativizzare i testi che leggono: la narratività non sarebbe infatti qualcosa di semplicemente presente o
assente nei testi, ma un fattore riconosciuto dai lettori o addirittura da essi proiettato
all’interno dei testi. La ragione per cui i lettori/ascoltatori si impegnerebbero attivamente ad organizzare i testi in forma narrativa risiederebbe nel fatto che essi riportano ogni
cosa a schemi esperienziali pregressi e già noti, allineando la realtà a parametri cognitivi
familiari al lettore/ascoltatore. Insomma, leggiamo il mondo secondo una narratologia
naturale.7
Ma se la narrativizzazione ci serve a reintegrare le dimensioni del nuovo (e, in quanto tale, perturbante) con il conosciuto, operando sulla base di vraisemblances di livello
profondo, che ripropongono e variano configurazioni neuronali,8 è evidente che anche
il lavoro di classificazione dei racconti dovrà mutare, dal momento che la nostra mente legge qualcosa che non è scritto in ciò che sta leggendo. È questa la scommessa dei
6 Monika Fludernik, An Introduction to Narratology, London-New York, Routledge, 2009, pp. 18 e sgg.
7 Monika Fludernik, The Cage Metaphor. Extending Narratology into Corpus Studies and Opening it
to Analysis of Imagery, in Narratology in the Age of Cross-Disciplinary Narrative Research, ed. by Sandra
Heiner and Roy Sommer, Berlin-New York, de Gruyter, 2009, pp. 120 e sgg.
8 Si veda a titolo di esempio l’affascinante schema interpretativo proposto nella teoria del Blending concettuale di Fauconnier e Turner (Gilles Fauconnier e Mark Turner, The Way We Think. Conceptual
Blending and the Mind’s Hidden Complexities, New York, Basic Books, 2002).
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prossimi anni, poiché oggi siamo addirittura in grado di conoscere il momento in cui,
da bambini, segnatamente intorno ai cinque anni o poco prima, cominciamo a operare
quella distinzione cruciale per la sopravvivenza. È stato infatti condotto un esperimento,
in cui si mostra a un bambino di cinque anni una confezione di Smarties e gli si chiede
cosa contiene: quando il bambino risponde «Smarties», lo sperimentatore apre la confezione e gli mostra che è vuota, chiedendogli a questo punto: cosa pensi che risponderà
il tuo amico e coetaneo, che ci aspetta nella stanza di fianco, che contenga questa confezione di Smarties? Se il bambino risponde «Il mio amico dirà che non contiene niente»,
non ha ancora appreso a distinguere la realtà dalla rappresentazione di essa; se invece risponde «Il mio amico dirà che contiene Smarties», ha già oltrepassato la linea d’ombra
che divide le cose dai loro fantasmi comunicativi.9
Ebbene: cominciamo a renderci conto che se osserviamo il romanzo contemporaneo
nelle sue principali morfologie (dalle detective stories al fantasy) e allarghiamo lo sguardo
all’intero mercato editoriale che comprende il blocco euro-americano con le sue filiazioni
anglofone (dall’Australia al Sudafrica) e le sue ramificazioni in Estremo Oriente – dove
le osmosi con le morfologie narrative occidentali si sono mostrate intense, soprattutto in
Giappone – a emergere è uno stile cognitivo tendenzialmente assimilabile e unitario, alle
cui spalle giocano gli stessi fattori socio-culturali e condizioni antropologiche di vita assai simili. Uno stile, va detto, che oggi gli studiosi teorizzano come il più plausibilmente
utilizzato dagli individui nell’attuale fase storica e cui in particolare ricorriamo nell’offrire risposte emozionali alle narrazioni (letterarie, filmiche, intermediali ecc.), traendone
un fatturato cognitivo che sta crescendo in modo esponenziale. In accordo con le indagini più avanzate della comunità scientifica chiamiamo tale stile hot cognition, intendendo
con ciò una forma di acquisizione e elaborazione dei dati percettivi e delle informazioni che comporta sempre – e non esclude mai – il coinvolgimento personale del fruitore
e una sua attivazione essenzialmente patemica. Se a partire da Antonio Damasio e dal
suo bel libro L’errore di Cartesio si è cominciato a comprendere che ragione e emozione
non sono mai separabili,10 poiché qualsiasi dato memorizzato dalla nostra mente viene
‘flaggato’ (flagged) con un’emozione particolare (si pensi alle fenomenologie proustiane
del ricordo: un sapore comporta un’emozione, un odore consente di riaprire un archivio
mnemonico e sapienziale), oggi si dà addirittura per scontato quanto sia erronea la tradizionale suddivisione degli atti cognitivi in processi di comprensione vera e propria e in
processi di elaborazione delle emozioni e dei moventi patemici del nostro modo di agire
e pensare («motivations» e «conations», come li definisce Damasio).11 Il sintagma hot
cognition è stato utilizzato per la prima volta da Schank e Abelson in relazione alle capacità di elaborazione dei dati da parte dei computer (computer modelling) e in analogia a
quanto avviene nella mente dei bambini quando pensano di fare o raccontare qualcosa,12
9 Kathleen H. Corriveau et al., Abraham Lincoln and Harry Potter. Children’s Differentiation Between
Historical and Fantasy Characters, in «Cognition», cxiii (2009), pp. 213-225, a p. 219.
10 Antonio Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Milano, Adelphi, 1995,
pp. 120 e sgg.
11 Antonio Damasio, The Feelings of What Happens. Body, Emotion and the Making of Consciousness,
London, Vintage, 2000, pp. 70 e sgg.
12 Roger C. Schank e Robert Abelson, Scripts, Plans, Goals, and Understanding. An Inquiry Into
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mentre oggi A. J. Sanford e C. Emmott nel loro fondamentale studio intitolato Mind,
Brain and Narrative13 arrivano addirittura a sostenere che se nell’analisi dei testi e dei
loro effetti non prendessimo in considerazione le emozioni non riusciremmo letteralmente a comprendere il significato di una narrazione. Tutto ci apparirebbe insensato, o
uguale, o indistinguibile da ciò che è già accaduto, esattamente come capita a chi è affetto
da sindrome autistica o agli psicotici.
Il punto su cui ormai la comunità scientifica ha trovato un definitivo accordo è che
la frequentazione della letteratura ci consente (e consente soprattutto ai bambini tra i 4
e i 13 anni) di esercitare delle abilità sociali che altrimenti faticheremmo ad apprendere.
Le competenze sociali richiedono sia capacità in compiti complessi di problem solving e
nell’assunzione di prospettive differenti, sia competenza emotiva. In generale le emozioni svolgono una funzione di adattamento, in quanto consentono una risposta coerente a
determinati stimoli ed eventi, configurandosi quindi come dispositivi fondamentali per
comprendere, stabilire e mantenere relazioni sociali. All’interno di una prospettiva di tipo evoluzionistico è anzi possibile sostenere che le emozioni sono una risposta alle esigenze della ‘adattatività evolutiva’,14 poiché ci preparano all’azione e mettono in luce aspetti
degli eventi legati a obiettivi rilevanti quali successi, ostacoli, minacce e sconfitte: in altri
termini, si tratta di un vero e proprio repertorio emotivo che ci consente di estrapolare script 15 di procedure o azioni per far fronte agli avvenimenti.16 In ambito cognitivista
Keith Oatley ha costruito una teoria delle emozioni basata sull’individuazione di stati
coordinati di prontezza e disponibilità in grado di attivarci per mantenere lo stato attuale in caso di felicità, fare uno sforzo per modificarlo (rabbia), immobilizzarsi e/o fuggire
(paura) o restare in una condizione stativa (depressione). Ogni stato emotivo corrisponde
insomma a uno script di riferimento (vedi la tabella 1 nella pagina seguente).17
Le emozioni possono quindi avere una dimensione individuale e una dimensione
sociale, che ci predispone a specifiche sceneggiature comportamentali: la felicità determina ad esempio collaborazione, mentre la collera il conflitto, e fin dalla prima infanzia
apprendiamo a concettualizzare le emozioni come risultato di particolari relazioni tra i
desideri o gli obiettivi che ci siamo posti e la realtà, in modo tale da considerare la felicità
come il risultato del raggiungimento di un obiettivo desiderato e, a contrasto, la paura
come reazione alla perdita di esso, mentre tristezza e rabbia si manifesterebbero quanHuman Knowledge Structures, London, Rou, 1977.
13 Anthony J. Sanford e Catherine Emmott, Mind, Brain and Narrative, Cambridge, Cambridge
University Press, 2012.
14 Leda Cosmides e John Tooby, Evolutionary Psychology and the Emotions, in Handbook of Emotions,
ed. by Michael Lewis and Jeanette Haviland-Jones, New York, Guilford, 2000, pp. 81-86.
15 Script è un termine in uso nelle scienze cognitive (mutuato dagli studi sull’intelligenza artificiale: Schank
e Abelson, Scripts, Plans, Goals, and Understanding, cit.) per indicare una sequenza di azioni, comportamenti, parametri cognitivi e stati emotivi che si attiva in modo pressoché automatico al riconoscimento
di una situazione (frame) nota il cui esito è prevedibile; frames e scripts configurano una sorta di manuale
di procedure dell’attività della mente, allo scopo di migliorarne l’efficienza operativa. L’uso nella corrente
pratica narratologica, ad esempio da parte di Herman (David Herman, Story Logic. Problems and Possibilities of Narrative, Lincoln, Nebraska University Press, 2002) ne ha ampliato e approfondito la risonanza,
in relazione alle situazioni narrative e alla ricettività dei lettori.
16 Cosmides e Tooby, Evolutionary Psychology and the Emotions, cit., p. 70.
17 Keith Oatley, Breve storia delle emozioni, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 108-109.
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Tabella 1: Keith Oatley e gli stati emotivi in relazione agli scripts.
Emozione
Direzione verso un obiettivo
o uno scopo
Movimenti prodotti
dall’emozione
Scopo sociale
Script di riferimento
Felicità
Realizzazione di un obiettivo
Continuare a impegnarsi
Stare con gli altri
Tristezza
Non raggiungimento
di un obiettivo
Frustrazione provocata
da impedimenti
per raggiungere un obiettivo
Pericolo nel raggiungimento
di un obiettivo
Inattività
Perdita del rapporto
Continuare a sforzarsi,
ritentare
Insulti,
perdita di controllo
Collaborazione,
manifestazione
di affetto e solidarietà
Ricerca di aiuto e nuove
forme di rapporto sociale
Reazione aggressiva,
creazione di conflitto
Immobilizzarsi, fuggire
Separazione,
rifiuto sociale
Collera
Paura
Isolamento
do un obiettivo desiderato è considerato perso o non raggiunto. Attualmente, il lavoro
neuro-cognitivo del lettore è evidentemente accresciuto dal fatto di trovarsi a vivere in
contesti complessi e intercategoriali, dove diviene problematico persino etichettare la situazione che viene potenzialmente ad incontrare: ecco allora che le narrazioni ci aiutano
ad addestrarci sin dalla prima infanzia ad affrontare questa complessità. Dobbiamo diventare predittivi, apprendere a distinguere la routine dall’eccezione, il reale dal virtuale,
l’affidabile dall’inaffidabile, e tutto ciò attraverso l’attribuzione di relazioni crono-causali
agli accadimenti di cui facciamo esperienza. Come fare? Il primo passo è quello della hot
cognition, cioè di processare narrazioni complesse in cui il rapporto tra desiderio e realtà si
sposta più volte nel corso della storia, riuscendo ad assegnare etichette emotive basandoci
sulla valutazione del raggiungimento degli obiettivi.18 Ad esempio, attraverso la letteratura romanzesca o parimenti guardando un film impariamo non solo a considerare la
felicità in relazione al raggiungimento dell’obiettivo, ma a qualificarla attraverso l’esercizio della capacità e dello sforzo che generano orgoglio o gratitudine, nel caso in cui sia
intervenuto l’aiuto di qualcuno. Allo stesso modo, possiamo provare rabbia se il raggiungimento dell’obiettivo è stato ostacolato da qualcuno o qualcosa, ma anche vergogna o
senso di colpa se l’insuccesso è da imputare a una mancanza di capacità o di impegno.
Comprendiamo inoltre che non tutti gli individui reagiscono alle situazioni emotive in
modo identico, ma che la loro risposta è legata alla personalità, alla storia pregressa, alle
abilità comportamentali, alle preferenze personali e alle competenze in termini di mind
reading.
Oggi si sta facendo un ulteriore passo avanti nello studio dei modi in cui un testo
narrativo incapsula le informazioni logico-referenziali in una sorta di contenitore emozionale. È infatti nato un orientamento specifico della narratologia, battezzato ‘affective
narratology’ dallo psicologo Patrick Colm Hogan,19 che si occupa appunto delle emozioni come elementi strutturali del plot delle narrazioni o meglio ancora del tenore emotivo delle parole, per cui lessemi a elevato contenuto emotivo (ad es. ‘guerra’ o ‘fiori’), in
contrasto con termini neutri quali ‘tostapane’ o ‘bicicletta’, possono appartenere a sottocategorie tra cui spiccano i lessemi tabù (ad es. le maledizioni) e i termini minacciosi
18 Sanford e Emmott, Mind, Brain and Narrative, cit., passim.
19 Patrick C. Hogan, Affective Narratology, Lincoln, Nebraska University Press, 2011, pp. 11-40.
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(come ‘abuso’). Non è questa la sede per affrontare le prospettive della affective narratology, ma piuttosto per stabilire di quale natura siano le emozioni vicarie che il lettore
prova quando si identifica in un personaggio finzionale.
Il problema può essere posto in due modi differenti. Le cognitive appraisal theories
(‘teorie della valutazione cognitiva’) utilizzano il termine ‘appraisal’ per intendere la valutazione e la misurazione dell’emozione, cioè – a differenza della semplice percezione,
che si limita a presentare e recepire un oggetto – la relazione tra l’oggetto percepito ed il
soggetto percettore, per cui ad esempio un oggetto può essere considerato dal soggetto
percipiente a seconda delle circostanze come desiderabile o disgustoso, tranquillizzante o temibile, in base a parametri variabili per la rilevanza dell’oggetto per il soggetto o
per fattori sociali in grado di inibire/attivare la risposta emotiva del soggetto. Nondimeno è importante sottolineare che l’appraisal (schema valutativo della relazione soggetto/oggetto) non costituisce l’essenza dell’emozione ma per così dire il suo habitat,
l’ecosistema psichico e coscienziale entro il cui perimetro si rivela l’emozione in prima
persona, cioè una action tendency, l’essere attratti o respinti da qualcosa. Comprendere
– ci dicono infatti gli studiosi – significa essere mossi verso qualcosa e transcodificarlo
secondo le nostre intenzioni.
Se questa prima modalità di spiegazione delle emozioni non rifiuta affatto una sorta
di embodiment assumption (‘principio della mente incarnata’) che fisicalizza la ragione,20
un secondo modo di spiegare le emozioni noto come somatic feeling theory pone solo ed
esclusivamente l’accento sui cambiamenti corporei che si verificano dinanzi ad un determinato avvenimento e che a loro volta danno luogo a una risposta emotiva. Il principale
promotore di questa teoria è appunto Antonio Damasio,21 che si è occupato del modo
in cui il nostro corpo reagisce alla realtà attivando una serie di emozioni viscerali – ‘di
pancia’, potremmo dire per tradurre l’espressione inglese «gut reactions». Damasio si
concentra in particolare sulle emozioni primarie, non mediate cognitivamente, che sin
dalla primissima età si istituiscono nell’uomo e nell’animale come risposta intuitiva preorganizzata agli stimoli esterni (come quando alla vista di un plantigrado il nostro corpo
dà luogo a una serie di reazioni istintive ancor prima di capire che si tratta di un orso, e
solo conseguentemente ci sentiamo spaventati).
Elaborate nel sistema limbico del cervello e in particolare grazie all’amigdala, sarebbero le gut reactions a costituire ancor oggi l’unico e sia pur tenue contatto con quel brodo
percettivo costituito dalla cara, vecchia Realtà. Un brodo oggi divenuto raro da delibare.
Infatti più il contesto è civilizzato e la trasmissione del sapere rapida e voluminosa, come
nell’attuale comunicazione globalizzata, più si sviluppano quelle che Antonio Damasio
denomina ‘emozioni secondarie’, caratteristiche dell’età adulta e la cui prerogativa è di
‘taggare’ la notizia/oggetto di una nuova esperienza attraverso una sorta di ‘valutazione consapevole’ (conscious evaluation); oggi inizierebbe a manifestarsi addirittura un terzo tipo di emozione virtuale caratteristico della ricezione di un testo letterario, filmico,
videoludico ecc., detto as-if-body-loop (che potremmo tentare di tradurre con ‘circuito
corporeo simulativo’), legato all’empatia per un verso attraverso l’attivazione dei neuro20 Sanford e Emmott, Mind, Brain and Narrative, cit., p. 193.
21 Damasio, The Feelings of What Happens. Body, Emotion and the Making of Consciousness, cit., p. 15.
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ni specchio, per l’altro attraverso il richiamo di esperienze emotive pregresse.22 Come si
vede, esistono tanti gradi di intensità di un’emozione e altrettante modalità conoscitive
differenti dove l’elemento razionale ‘freddo’ (cool) e l’elemento patemico hot si mescolano indissolubilmente; soprattutto nel caso della rielaborazione cognitiva di un testo
letterario, dove il lettore tende a rivivere in prima persona le emozioni del personaggio
secondo un meccanismo di rispecchiamento oggi denominato ‘simulazione incarnata’
(embodied simulation).23 Se capire l’importanza emozionale degli eventi dal punto di vista di un personaggio è fondamentale per predire l’evolversi di una trama narrativa, il
lettore deve spesso inferire i dati necessari dalla descrizione delle azioni di un personaggio, senza che essi siano forniti direttamente dal narratore. Non per caso le narrazioni
costituiscono una valida, ineguagliata e imprescindibile palestra cognitiva: la presenza di
un narratore inaffidabile o di una descrizione altamente ambigua – come un sorriso che
può preludere a un atto di simpatia o a un gesto di ostilità – costringono di per se stesse
ogni lettore a dotarsi di una valida capacità di mind reading nel seguire le vicende di un
intreccio narrativo. Di qui i meccanismi procedurali in regime di hot cognition.
La situazione è più complessa di quanto sembri. Anche nelle storie più semplici, infatti, può risultare complesso stabilire quali emozioni il lettore attribuisca a un personaggio. Alcuni ricercatori hanno ad esempio cercato di stabilire se oltre alle cosiddette emozioni primarie i lettori sono normalmente in grado di riconoscere le interstiziali emozioni
descritte in un testo romanzesco della contemporaneità per un pubblico medio-colto. I
risultati dei test sono di complessa decifrazione.24 Emerge il fatto che il lettore non si
mette sulla lunghezza d’onda di una sola emozione ma adotta una modalità immersiva di ricezione in cui molteplici elementi patemici entrano in gioco; inoltre, se è stato
rilevato che il lettore impiega più tempo a leggere conclusioni narrative in cui compaia
un’emozione apertamente contraddittoria rispetto al prosieguo del testo (mismatched
words), si è altresì notato che quando il lettore deve inferire le emozioni del personaggio
allo scopo di rendere coerente un testo tendenzialmente contraddittorio l’attribuzione
dell’emozione si rivela appropriata in maniera molto più considerevole. Di nuovo, siamo
alla hot cognition: noi comprendiamo qualcosa sulla base dell’emozione che ci trasmette,
soprattutto se quest’ultima è strumentale a farci comprendere ciò che più ci è utile comprendere.25 Un minuetto che mette in cortocircuito realtà e finzione, ragione e emozione, argomentazione e percezione, autore e lettore; esattamente come accade nel romanzo
globalizzato, il global novel che dagli anni Novanta ha cambiato i destini della letteratura
romanzesca e ha allungato il passo rispetto alle narrazioni postmoderne esemplate sullo
stile di Borges, Perec e Calvino – narrazioni algide, anaffettive e classificatorie come la logica formale, fatta di bivi e ramificazioni diadiche, castelli dei destini incrociati e giardini
dei sentieri che si biforcano.
22 Cosmides e Tooby, Evolutionary Psychology and the Emotions, cit., pp. 180 e sgg.
23 Vittorio Gallese, Corpo e azione nell’esperienza estetica. Una prospettiva neuroscientifica, in Mente e Bellezza. Mente relazionale, arte, creatività e innovazione, a cura di Ugo Morelli, Torino, Umberto
Allemandi, 2010, pp. 245-262, a p. 245.
24 Hogan, Affective Narratology, cit., pp. 40 e sgg.
25 Ivi, p. 18.
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Hot cognition : come funziona il romanzo della globalizzazione 131
Peraltro, l’ipotesi di base che il lettore simuli e riproduca mentalmente l’azione della
frase che sta leggendo – non nuova di per sé, e attribuita da sempre al lettore popolare del
diciannovesimo secolo – ha cercato conferma attraverso numerosi esperimenti, che risultano una variante delle ricerche su un fenomeno denominato action-sentence compatibility effect (‘effetto di compatibilità azione-frase’). Tali ricerche stabiliscono ad esempio
che se viene chiesto a un soggetto di premere un bottone vicino a sé mentre sta leggendo di un movimento che procede verso di sé, si avrà una risposta più veloce rispetto alla
richiesta di un bottone collocato lontano, e al tempo stesso che un lettore dallo stato
emozionale disforico riscontra maggiori difficoltà a leggere frasi dal contenuto positivo,
e viceversa. A conferma della teoria damasiana di un’interazione tra emozione e cognizione nell’elaborazione del linguaggio, gli individui decodificano i segni delle emozioni
in maniera diversa a seconda che siano d’umore positivo o negativo. A maggior ragione
ciò accade in relazione alla letteratura, ambito in cui la risposta partecipatoria è un’esperienza fondamentale, tanto da produrre una particolare forma di piacere: l’isomorfismo,
la condivisione piena e riflessa dello stato emotivo dei personaggi. Letteralmente, il senso
del testo si costituisce quando al lettore accade qualcosa e si attiva una mediazione tra la
condizione psicologica precedente e l’esperienza della lettura.26
Uno studio della ricezione di un testo narrativo deve considerare il fatto che il tipo e
la tonalità della partecipazione emotiva possono assumere forme diverse in funzione del
contributo cognitivo: mentre in alcuni casi la risposta partecipativa è governata prevalentemente dalla componente emotiva, in altri casi sono le concezioni del mondo e del Sé
ad avere particolare rilevanza. La risposta empatica del lettore in relazione al personaggio
evidenzia appunto un mix di cognizione ed emozione, di decodificazione semantica degli
eventi presentati dalla trama e di risposta affettiva allo status emotivo percepito in questo altro soggetto, ancorché finzionale; in tale condizione vicariante, che si genera quando osserviamo qualcuno che prova quell’emozione, prende corpo un’esperienza per così
dire di seconda mano, frutto del rispecchiamento del lettore nel testo. Gesti e reazioni
niente affatto attribuibili a momenti superflui dell’esistenza come la lettura di romanzi,
bensì atavici, pulsionali e degni di una piena considerazione di impronta darwiniana. Ad
esempio, una forma primitiva di reazione empatica è quella che si può osservare fin dai
primi giorni di vita quando i bambini piangono sentendo il pianto di un altro bambino: gli adulti tendono a interpretare questa forma come una mera risposta imitativa, ma
benché il meccanismo sottostante sia di tipo istintivo si tratta di vere e proprie forme di
sofferenza speculare e, per così dire, mediata. Se udire il pianto altrui evoca una risposta
di pianto come reazione involontaria, innata e non acquisita, si può presumere che tale
condotta abbia per la specie umana un significato adattativo: il mercato dell’usato non
è, in campo emozionale, un mercato periferico e degradato ma, al contrario rappresenta
il centro della nostra esistenza. Nessuna ipotesi scientifica può essere avanzata in modo congruo circa l’empatia e gli effetti ‘a specchio’ (mirror), ma si potrebbe pensare che
per i genitori impegnati a raccogliere cibo o in attività produttive lontano dal villaggio il
pianto di più bambini costituisse un richiamo e un segnale di pericolo facilmente udibili.
Certo, a questa elementare forma di empatia detta contagio manca il requisito essenziale
26 Maria Chiara Levorato, Le emozioni della lettura, Bologna, il Mulino, 2002.
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della risposta empatica – e cioè la differenziazione tra se stessi e l’altro –, ma può essere
qui considerata un precursore di forme di empatia più mature che oggi sperimentiamo
a contatto con i testi romanzeschi.27
Abbiamo visto come dagli esperimenti portati a termine dai neuro-cognitivisti si possa dedurre che, nel caso delle narrazioni, i lettori includono nelle loro rappresentazioni
mentali le emozioni attribuite ai personaggi e dall’altro esercitano una sorta di trasporto personale, un riflesso quasi fisico delle emozioni di ciò che leggono – segnatamente,
ciò che qui definiamo hot cognition; non può dunque stupirci che la formattazione delle storie romanzesche si orienti oggi verso le medesime fenomenologie. C’è di più. Un
recentissimo esperimento, curato da due psicologi cognitivisti della New School for Research di New York, ha dimostrato come la lettura di romanzi aumenti i livelli di empatia
tra noi e gli altri, migliori la percezione sociale e renda assai più affilata la nostra intelligenza emotiva, cioè la capacità di capire quello che gli altri sentono sentendolo a nostra
volta.28
Il mind reading o Teoria della Mente,29 ossia la comprensione di un fatto o un gesto
sia pur minimo attraverso le intenzioni che ipoteticamente ha nutrito chi ha dato luogo
a quel fatto o gesto, risulta addirittura moltiplicato in maniera esponenziale nel lettore
di romanzi. Nel corso di 5 test, a 100 partecipanti sono stati sottoposti esemplari di letteratura ‘di consumo’ contemporanea (estrapolati dalla classifica di Amazon), romanzi di
alta tradizione occidentale (da Anton Čechov a Don DeLillo) e frammenti di saggistica.
La selezione dei testi rispecchia la distinzione di Roland Barthes30 tra scritti writerly, ovvero più incentrati sui personaggi, le dinamiche interiori e le caratteristiche ambientali, e
scritti readerly, più incentrati sulla trama e dunque propensi a favorire la narcotizzante,
benché edonistica, passività del lettore. In particolare, la modalità writerly per gli psicologi avrebbe dovuto favorire la partecipazione dei lettori al mondo finzionale (storyworld),
invitandoli a esercitare in prima persona una serie di competenze e inferenze sociali, anche grazie ad artifici retorico-narratologici in grado di incoraggiare ipotesi sui caratteri
e le sfumature emotive dei personaggi. La domanda generale era: più che limitarsi alla
simulazione dell’esperienza sociale, i romanzi writerly divengono essi stessi un campo di
esperienza sociale? La domanda specifica suonava invece così: i romanzi servono?31
Per testare il grado di coinvolgimento empatico, cognitivo ed emotivo dei lettori e le
variazioni nella loro competenza di mind reading sono stati impiegati diversi test strumentali di misurazione delle reazioni, di osservazione e auto-osservazione,32 nel tentativo
27 Si veda, ad esempio, Brian Boyd, On the Origin of Stories. Evolution, Cognition and Fiction, Cambridge
Mass.–London, The Belknap/Harvard University Press, 2009, in particolare il cap. 7 (Art and Attention)
dedicato alle dinamiche attentive intese come sofisticato strumento adattativo ed evolutivo, fondamentale
per la cooperazione e l’integrazione sociale.
28 David C. Kidd e Emanuele Castano, Reading Literary Fiction Improves Theory of Mind, in
«Science», cccxlii (2013), pp. 377-380.
29 Cfr. nota 5 a pagina 124.
30 Roland Barthes, S/Z, Torino, Einaudi, 1973, pp. 10-11. Citato in Kidd e Castano, Reading Literary
Fiction Improves Theory of Mind, cit., p. 377.
31 Lisa Zunshine, Theory of Mind as a Pedagogical Tool, in «Interdisciplinary Literary Studies», xvi (2014),
pp. 89-109.
32 Tra gli aspetti presi in esame nelle misurazioni ricordiamo anche: le abitudini di lettura, l’età, il genere e il
Ticontre. Teoria Testo Traduzione – 2 (2014)
Hot cognition : come funziona il romanzo della globalizzazione 133
di misurare la teoria della mente sia sul versante emotivo, cioè la capacità di individuare
e comprendere le emozioni di altri (positiva per gli individui empatici, negativa per gli
individui antisociali), sia sul versante cognitivo, cioè la capacità di compiere inferenze sulla rappresentazione delle altrui credenze e intenzioni. I risultati degli esperimenti hanno
registrato non solo una grande discrepanza tra testi narrativi finzionali e saggistica, ma
anche prestazioni di mind reading sensibilmente più elevate a seguito della lettura di romanzi writerly (cioè pensati per un pubblico colto) rispetto a quelli readerly (pensati per
un pubblico scarsamente alfabetizzato): a sorprendere di più non è tanto il fatto che la
lettura di romanzi writerly protratta per un tempo assai limitato di tre-cinque minuti
aumenti in modo esponenziale le performance dei lettori in termini di mind reading, ma
che ad agire in tale direzione sia soprattutto l’adozione di particolari dispositivi narrativi
quali le focalizzazioni multiple (la stessa cosa vista da personaggi differenti), gli spostamenti deittici complessi (i narratori cambiano in continuazione il luogo dal quale narrano e/o fingono di vedere ciò che raccontano), il ricorso a monologhi interiori e a flussi di
coscienza, che consentono al lettore un pieno accesso alle esperienze dei personaggi.
Questo per ciò che riguarda il fatturato cognitivo della lettura romanzesca. E l’emotività? In questo caso i processi di coinvolgimento empatico sono stati studiati in rapporto
alla fiction seriale di Harry Potter e alla trilogia Twilight di Stephenie Meyer, dando luogo a quella che gli psicologi chiamano ‘ipotesi dell’assimilazione narrativa collettiva’.33
Durante l’esperimento, messo a punto presso la Buffalo University, i partecipanti hanno letto parti del romanzo Harry Potter e la pietra filosofale – segnatamente quelle in
cui i protagonisti vengono scelti e divisi nelle quattro diverse squadre di Hogwarts: Grifondoro, Serpeverde, Tassorosso, Corvonero – e di Twilight, in particolare le pagine in
cui Edward spiega a Bella cosa significhi essere un vampiro.
Ebbene: l’esperimento ha non solo rilevato lo scaturire di marcati processi empatici
legati alle dimensione della collettività e dell’affiliazione al gruppo, ma si è visto che la rappresentazione romanzesca di un’assimilazione al gruppo esercitava sui lettori sensazioni
di piacere e soddisfazione pari alla condivisione collettiva della realtà sociale. I ricercatori hanno infatti utilizzato la scala di assimilazione narrativa collettiva, uno strumento
che consente di misurare il grado di identificazione empatica e assorbimento delle storie
da parte dei lettori.34 Nello specifico, i test condotti si basavano su compiti di associazione implicita: i soggetti che avevano letto Harry Potter sono risultati particolarmente
propensi e veloci a collegare l’io a una serie di caratteristiche legate alla sfera della magia. Ciò indica, a livello inconscio, un forte processo d’identificazione con il personaggio
mago. Lo stesso processo è stato rilevato nei lettori di Twilight, per cui i risultati dell’esperimento suggeriscono che di fronte a rappresentazioni narrative di affiliazioni siamo
portati a innescare meccanismi identificativi anche in rapporto a gruppi di personaggi
implausibili ed estranei alla nostra realtà sociale quali maghi e vampiri, per corrispondelivello di istruzione dei soggetti, la piacevolezza dell’esperienza di lettura. Per il dettaglio degli strumenti di
psicologia sperimentale utilizzati, altamente specifici, si raccomanda la lettura dell’articolo dei due studiosi
(Kidd e Castano, Reading Literary Fiction Improves Theory of Mind, cit., pp. 377-378).
33 Shira Gabriel e Ariana F. Young, Becoming a Vampire Without Being Bitten. The Narrative
Collective-Assimilation Hypothesis, in «Psichology Science», xxii (2011), pp. 990-994.
34 Timothy Aubry, Reading as Therapy, Iowa City, University of Iowa Press, 2011, pp. 30 e sgg.
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re all’esigenza primaria di connessione e integrazione sociale.35 Inoltre, siamo portati a
variare i nostri atteggiamenti per fare nostri quelli dei personaggi finzionali. Durante la
lettura si innescherebbe infatti un particolare processo empatico che consente al lettore
di sentirsi parte della comunità del mondo finzionale e di sfruttare i benefici evolutivi
e adattativi dell’appartenenza di gruppo (anche in modalità simulata) per migliorare le
proprie reali competenze sociali. In prima istanza la nostra mente è quindi pronta ad assorbire una serie di caratteristiche che ci consentono di assomigliare ai piccoli maghi di
Hogwarts o ai membri della famiglia dei vampiri, anche perché il livello di immersione
e connessione con il mondo finzionale nella sua dimensione collettiva è così elevato da
indurci addirittura piacere, mentre il senso di appartenenza che scaturisce da questa immersione migliora il nostro livello di soddisfazione e benessere. Così le nostre vite reali si
intersecano alle vite immaginarie dei personaggi in cui ci immergiamo e tutto acquisisce
l’affascinante promiscuità di un brunch: attraversiamo ambienti vero-finti, simuliamo il
falso e falsifichiamo il vero.36
Dan Brown – lo scrittore forse di maggiore successo quantitativo al tempo della globalizzazione e per questo, malgrado i pregiudizi del milieu accademico, assai utile per la
predittività delle teorie qui formulate – rappresenta in questo senso un autentico caso di
studio. I suoi romanzi si ancorano ad esempio a geografie reali – la Roma e il Vaticano di
Angels and Demons,37 la Parigi di The Da Vinci Code38 –, meticolosamente descritte con
dovizia di particolari, cui si mescolano tuttavia imprecisioni intenzionali che obbligano
il lettore a vivere in un habitat verofinto, in cui il noto acquisisce le parvenze dell’ignoto
e viceversa. La familiarità è cognitiva, l’estraneità è emotiva, ma questo ossimoro si alimenta soprattutto di una particolarissima dimensione temporale. Il tempo costituisce il
carburante ineliminabile dei testi browniani. Entrambi i romanzi citati ad esempio sono
di lunghezza simile (tra le 500 e le 600 pagine) e concentrano l’azione in un intervallo di
tempo assai ristretto: nel primo il protagonista Robert Langdon impiega meno di 24 ore
per smantellare una congiura contro la Santa Sede, trovare l’assassino del vecchio Papa,
favorire l’elezione del nuovo, identificare e punire il responsabile di altri cinque omicidi,
sperimentare di persona la potenza distruttrice dell’antimateria e sedurre la scienziata che
ha contribuito alla sua scoperta. Nel secondo romanzo a Langdon occorre solo qualche
ora in più – ma con un epilogo datato due giorni più tardi – per scoprire la verità sul
Santo Graal, porre fine ad una lunga catena di omicidi orchestrati da esponenti deviati
dell’Opus Dei, cercare di restaurare la misconosciuta discendenza di Gesù e Maddalena.
C’è molto altro, beninteso: Langdon risolve misteri che riguardano sette segrete, percorsi
iniziatici le cui tracce sono disseminate nelle città, codici numerici e simbologie nelle opere di Leonardo e Galileo; si getta nel Tevere da seimila metri con un paracadute di fortuna,
rapina una banca svizzera e ha la meglio su uomini armati di tutto punto e addestrati per
uccidere.
35 Eugene Subbotsky, Magic and the Mind. Mechanisms, Functions, and Development of Magical
Thinking and Behavior, Oxford, Oxford University Press, 2011, p. 56.
36 Ivi, pp. 51 e sgg.
37 Dan Brown, Angels & Demons, New York, Pocket Books, 2000.
38 Dan Brown, The Da Vinci Code, New York, Doubleday, 2003.
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La domanda è: cosa risulta piacevole al pubblico che in tutto il mondo ha acquistato i
circa 60 milioni di copie dei romanzi di Brown? Se la consapevole sospensione dell’incredulità è messa a dura prova dai plots poco sopra sintetizzati e il realismo stinge nell’illusione di un film d’azione, la partecipazione empatica del lettore, le fenomenologie impure
della hot cognition e l’immersione nel mondo finzionale si affidano quasi esclusivamente
alla serrata scansione temporale dell’azione. Si faccia attenzione. In The Da Vinci Code
l’intreccio è suddiviso in microsequenze diegetiche che rispettano in modo pressoché totale le unità di tempo, luogo e azione, più o meno coincidenti con un capitolo: 105 brevi
capitoli più un epilogo nelle 489 pagine della versione paperback edita da Doubleday;
ogni microsequenza/capitolo è abilmente costruita in modo che le conoscenze del lettore circa i fatti narrati procedano per pacchetti discreti di informazioni, comprendenti
rivelazioni parziali sui misteri dei capitoli precedenti e un nuovo climax di sorpresa originato nelle ultime righe da un nuovo evento o da una inedita scoperta da interpretare.
La formattazione del testo per item di eguale peso narrativo genera inevitabilmente una
certa frammentarietà e una sorta di escalation nel bisogno di stupire, perché ogni nuovo
climax si costruisce sulle Gestalt irrisolte dei capitoli precedenti, ciò che dovrebbe raffreddare l’empatia e indurre meccanismi di cool cognition nel lettore. Nondimeno, Brown è
molto abile nell’interrompere le sue sequenze diegetiche là dove correrebbero il rischio di
irritare o stancare il lettore per eccesso di tensione narrativa, proponendo rallentamenti
a carattere informativo del ritmo (flashback, riflessioni in pensiero diretto libero, annotazioni descrittivo-referenziali) o addirittura digressioni verso altri personaggi che nella
stessa unità di tempo fanno progredire la vicenda in una diversa direzione.
Timori, brividi di suspense e partecipazione empatica alle avventure di Langdon istituiscono una sorta di packaging emozionale di cui il lettore si alimenta. Ad esempio, in
The Da Vinci Code la lunga sequenza di eventi che ha per sfondo l’inquietante topografia notturna del Louvre a luci spente inizia nel capitolo 4 con il sopralluogo alla scena del
crimine, di per sé un rebus da decifrare; nei capitoli successivi si introducono alcuni personaggi chiave della vicenda (il burbero capitano Fache, l’affascinante agente-crittografa
Neveu, il Vescovo Aringarosa); la coppia Langdon-Neveu decifra i numerosi enigmi preparati appositamente per loro dal defunto curatore Saunière e svela le ricorrenti allusioni
al sacro femminino, mentre siamo informati dell’esistenza e finalità dell’Opus Dei, del
suo coinvolgimento in un misterioso complotto, delle accuse rivolte dalla stampa americana all’organizzazione e delle repliche a tali accuse (cap. 5); a seguire la vicenda si sposta
in un altro scenario, la chiesa di Saint-Sulpice, dove l’albino Silas commette un nuovo
omicidio (il quinto della notte) e va in cerca di un misterioso oggetto (capp. 7, 10, 15, 19,
22, 24, 29, 31); la sequenza termina nel capitolo 32 con la fuga di Langdon e Neveu inseguiti dalla polizia francese. Si faccia caso al fatto che la lettura di ciascuno dei 29 capitoli
della sequenza è temporalmente esigua: per il 23, eccezionalmente lungo perché contiene
un flashback chiarificatore circa l’infanzia di Sophie Neveu e la caccia al tesoro organizzata dal nonno per il suo nono compleanno, si impiegano circa sette minuti, quindi molto
meno per gli altri. L’esperienza di lettura di questa sequenza narrativa è caratterizzata
dalla rapidità del coinvolgimento dei nostri frames interpretativi ed emozionali, nonché
dalla sua volatilità; l’immersività è tale da permetterci di entrare, uscire e rientrare nel
mondo finzionale senza bisogno di rileggere parti precedenti, perché la formattazione
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delle informazioni è in ogni momento appropriata alla fruizione immediata e al quasi
immediato abbandono.
Applicando lo schema interpretativo della «new aesthetic» di Daniel E. Berlyne,39
un modello di ricerca quantitativa di stampo behaviorista in auge negli anni ’70 ma oggi
di nuovo ridiscusso, le variabili cosiddette collative ‘novità’ e ‘interesse’ (cioè aggiunte
dal soggetto percipiente in relazione al contesto) nelle narrazioni di Brown attiverebbero in tempi rapidissimi un notevole arousal del nostro sistema cognitivo, e la brevità di
ogni microsequenza sarebbe tale da non permettere alla variabile ‘complessità’ di attivare i contromeccanismi di difesa con conseguente abbassamento del piacere immersivo.
In altre parole, Brown sarebbe un abile aggiratore del nostro sistema cognitivo, perché
in grado di lubrificare la complessità notevole del suo contenuto narrativo in un frame
temporale a imbuto che la parcellizza come un omogeneizzato rendendola più digeribile, mentre la suspense è tenuta costantemente alta da continui colpi di scena che allertano
i recettori emozionali del lettore, investendolo di paure, ansie e speranze. La lunga parte di spiegazione e informazione sulla vicenda del Priorato di Sion e sull’interpretazione
dell’«ultima cena» a casa di Leigh Teabing nei capitoli dal 54 al 64 è in questo senso la
più debole del libro, perché la ripetitività dello schema domina nella coscienza del lettore. Nessuna invenzione, d’accordo; la scansione dell’azione segue lo sperimentatissimo
modello delle detective stories, con una ulteriore accelerazione di ritmo che ricorda le fiction televisive seriali; prodotti per il piccolo schermo che sono in grado, a differenza di
quelli su carta stampata, di compensare e addirittura valorizzare il vuoto informativo
causato dal loro procedere ellittico e frammentario grazie al livello sofisticato della transcodifica fotografica, scenografica, musicale, persino cromatica. Veri e propri non-luoghi
della percezione in cui il bombardamento polisensoriale dello spettatore ottiene effetti
stupefattivi che coprono l’horror vacui di una vicenda astrusa; come nelle macchine crittografiche descritte da Brown in The Da Vinci Code, le rondelle della vicenda in formato
televisivo girano impazzite fino ad allinearsi magicamente in un prescritto ma ambiguo
lieto fine che restaura il senso della realtà e riconduce lo spettatore – dopo la lunga, protratta letargia empatica indotta dalla caleidoscopica esperienza – a rientrare nei ranghi
storico-anagrafici che gli pertengono.
Il concetto di empatia è in effetti assai più complesso del semplice mettersi nei panni
di un altro. Al livello più elementare è un’esperienza parallela di natura automatica, fisica
o emozionale – dove a entrare in scena è quella parte del cervello denominata corteccia
somatosensitiva secondaria, generalmente attiva durante la nostra effettiva percezione
del dolore –, ma si comprende come essa costituisca la base della hot cognition, cioè per
39 Nella sua teoria Berlyne ipotizzava che le «variabili collative» proprie di una serie di stimoli ambientali (novità, complessità, incongruenza, presenza di elementi inattesi) producano nei soggetti riceventi uno stato di
piacevole attivazione dei sistemi recettori (arousal) finché questi sono in grado di elaborarle con relativa facilità; all’aumentare dell’intensità delle variabili oltre questa soglia si avrebbe invece una sensazione sgradevole
di affaticamento e rifiuto, secondo una classica curva a campana. Più volte rivista, la versione più articolata
del quadro teorico si ha nella miscellanea: Daniel Berlyne (ed.), Studies in the New Experimental Aesthetics. Steps Toward an Objective Psychology of Aesthetic Appreciation, Washington, Hemisphere, 1974. Per
una sua rivisitazione critica, a favore di una maggiore complessità dei meccanismi di responso emotivo, si
veda Paul J. Silvia, Emotional Responses to Art. From Collation and Arousal to Cognition and Emotion,
in «Review of General Psychology», ix (2005), pp. 342-357.
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eccellenza di un processo cognitivo avanzato, proprio in quanto chi empatizza sussume
la prospettiva focalizzatrice di un altro accordando – in senso musicale – le proprie emozioni con quelle altrui, vere o finzionali che esse siano. La rilevanza sociale di tale processo non deve sfuggire: come già sosteneva Aristotele, l’identificazione del destinatario nel
personaggio costituisce anche la base per l’acquisizione di un codice etico, per cui – si leggeva nella Poetica – si apprende a sentirsi felici se un personaggio che consideriamo retto
trionfa o infelici se un malvagio (il villain, secondo la tradizione critica anglosassone) vive
in condizioni di benessere sfruttando il prossimo. Le reazioni del lettore alle situazioni e
agli eventi presenti negli intrecci narrativi comportano dei veri e propri responsi partecipativi (participatory responses, detti sinteticamente p-responses), per cui se ad esempio si
assiste al trionfo di un malvagio è molto probabile che nella mente del lettore si produca
un p-response in cui ci si augura la sua punizione.
Ma come vengono elaborate effettivamente durante la lettura queste p-responses, e in
che modo possono interferire con l’elaborazione del significato del testo? Da una serie di
test condotti sulla fruizione di testi romanzeschi si è notato che se nella lettura di un testo gli auspici del lettore (p-response) e l’effettivo accadimento non concordano, il primo
elabora il testo in maniera assai più lenta, come se esso presentasse delle difficoltà di decodifica, dimostrando quindi come il sistema di attese del destinatario del testo influenzi
pesantemente il testo stesso. Insomma, empatia e simpatia fanno rima anche là dove il
lettore si avvicina a mondi possibili assai distanti dalla realtà quotidiana in cui è radicato,
e che quindi non favoriscono alcun ‘allineamento autobiografico’ (autobiographical alignment):40 dove tutto diverge (per genere, appartenenza etnica, condizione sociale, età),
a tenere uniti empaticamente il lettore e il testo è il ricorso agli epici temi dell’amore, della giustizia, del diritto alla felicità – ciò che spiega ad esempio il fascino dei romanzi di
Haruki Murakami e il fatto che essi facilitino processi di simulazione incarnata e di hot
cognition malgrado la tendenziale abitudine a divergere dalla quotidianità nei modi di un
realismo magico senza eguali neppure nella tradizione latino-americana. La dimensione
del magico consente ai personaggi di Murakami di conoscere le metamorfosi e i processi della mente umana con risultanze probatorie altrimenti irraggiungibili. L’avvento del
fantastico può occorrere in millenarie, inquietanti foreste come in Kafka sulla spiaggia41
e Nel segno della pecora,42 nelle isole del Mediterraneo come in L’uccello che girava le
viti del mondo,43 nelle profondità della terra come in Dance, Dance, Dance44 o ai confini dell’esistente come in La fine del mondo e il paese delle meraviglie.45 Come si vede,
siamo di fronte a un Jules Verne del terzo millennio e di tradizione nipponica – benché
siano note le propensioni di Murakami verso la letteratura statunitense del Novecento,
da Scott Fitzgerald a Raymond Carver –, che si serve della descrizione dell’ignoto e del
fantastico per produrre effetti di rispecchiamento emozionale nel lettore e consentirgli di
declinare la hot cognition secondo un particolarissimo stile: quello aggregativo che tiene
40
41
42
43
44
45
Sanford e Emmott, Mind, Brain and Narrative, cit., p. 211.
Haruki Murakami, Kafka sulla spiaggia, Torino, Einaudi, 2002.
Haruki Murakami, Nel segno della pecora, Torino, Einaudi, 2010.
Haruki Murakami, L’uccello che girava le viti del mondo, Torino, Einaudi, 2007.
Haruki Murakami, Dance, dance, dance, Torino, Einaudi, 2007.
Haruki Murakami, Il paese delle meraviglie e la fine del mondo, Torino, Einaudi, 2008.
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contigui l’interiore e l’esteriore, il soggettivo e l’oggettivo, il reale e il fantastico.
Nei romanzi di Murakami può infatti accadere di tutto: ad esempio che si inciampi
nel teschio di un unicorno dentro le trincee della Manciuria (La fine del mondo e il paese delle meraviglie) o addirittura che si viaggi in mondi paralleli come in 1Q84,46 la cui
struttura narrativa si basa su due intrecci che avanzano simultaneamente con rimandi e
connessioni incrociate, in modo tale che gli eventi di un plot hanno una ripercussione immediata nel plot parallelo o in un sub-plot, gestiti da una focalizzazione interna variabile
che si sposta di capitolo in capitolo tra i due protagonisti Tengo e Aomame. Entriamo
per un istante nel testo. Siamo nel 1984, ma altresì in una dimensione parallela chiamata 1Q84. Tengo è un professore di matematica che ha la vocazione dello scrittore, senza
tuttavia avere ancora pubblicato un libro. Il suo editor e mentore Komatsu gli propone
allora di ri-scrivere il romanzo La crisalide d’aria dell’esordiente, enigmatica e affascinante diciassettenne Fukaeri. Di cosa parla questo romanzo nel romanzo? Di un mondo con
due lune, di una bambina che vive in una sorta di comunità tra le montagne per vegliare il corpo di una capra cieca in un hangar dove è stata rinchiusa per dieci giorni. Ecco,
quando scendono le tenebre dal corpo della capra cieca escono i «Little People», una
fatata popolazione proveniente dal mondo parallelo, dove ritornano al sorgere del sole:
compito dei «Little People» è di tessere dei fili invisibili che andranno a comporre una
crisalide d’aria. Nota bene: il romanzo nel romanzo si accredita almeno in parte come
autobiografico, in quanto la stessa Fukaeri è cresciuta nella regione della capra cieca e vi
è fuggita all’età di dieci anni.
L’altra protagonista, Aomame, è un personaggio assai complesso, capace di racchiudere due esistenze e di tenere insieme due schemi identitari differenti, in modo da alimentare ancor più nel lettore i meccanismi di hot cognition e facendolo navigare virtualmente
nel mondo immersivo di un’altra mente che riceve e decodifica altre emozioni. L’incerto
aspetto di donna malinconica, insegnante di ginnastica di un lussuoso centro sportivo
e innamorata sin dall’infanzia di un compagno di classe mai più incontrato, è messo in
crisi dalla seconda identità del personaggio, quella di una professionista perfettamente
in grado di uccidere chiunque: un killer vestito con un elegante «tailleur verde di lana
leggera di Junko Shimada»47 e che porta nella sua borsa griffata un sottile strumento di
morte, un ago che Aomame fa penetrare in una precisa zona del cervello delle sue vittime
– uomini colpevoli di violenza sulle donne – per causarne una morte rapida e indolore.
Siamo al rovesciamento della trilogia di Stieg Larsson, dove erano gli uomini a sopprimere le donne? Più o meno sì, con un rovesciamento accompagnato dalla ossimorica
diversità dei personaggi femminili: in Uomini che odiano le donne48 Lisbeth Salander
si presentava nelle vesti androgine di un digital punk, mentre Aomame è bella, curata,
con i muscoli ben allenati e i lineamenti algidi, in cui fa spicco l’asimmetria delle orecchie
(«osservando bene il suo viso, si sarebbe notato che le orecchie erano diverse per forma
e grandezza»).49
46
47
48
49
Haruki Murakami, 1Q84. Libro 1 e 2, aprile-settembre, Torino, Einaudi, 2013.
Ivi, p. 14.
Stieg Larsson, Uomini che odiano le donne, Venezia, Marsilio, 2007.
Murakami, 1Q84. Libro 1 e 2, aprile-settembre, cit., p. 15.
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Hot cognition : come funziona il romanzo della globalizzazione 139
Questo per ora basti. Se in Kafka sulla spiaggia il narratore aveva già affermato che
«il mondo soprannaturale, alla fine, coincide con le tenebre del nostro spirito», è vero che Murakami mette sempre in atto una strategia volta a trasfigurare la realtà in uno
stato onirico o addirittura allucinatorio, ma al tempo stesso a far rientrare questo stato
onirico nei ranghi della realtà. Di più. Nella dimensione della condizione onirica, così
come in quella limitrofa del soprannaturale, i personaggi murakamiani acquistano tratti di consapevolezza circa la condizione del Sé proprio in quanto, come confermano le
neuro-scienze nella convinzione che letteratura e sogno abbiano ampie zone di condivisione, «la radice della stravaganza onirica è il disequilibrio cognitivo causato dall’instabilità orientativa».50 Cosa significa? Se in sogno ci troviamo a passeggiare in una via
della nostra città e nel momento successivo siamo inspiegabilmente in una foresta impenetrabile, ma senza la consapevolezza dell’incongruità di tale cambiamento di scena, in
condizioni di veglia tale disequilibrio cognitivo ci creerebbe una forte instabilità orientativa, per attenuare la quale sia la rêverie onirica che la hot cognition compiono un lavoro di
raccordo tra percezioni, emozioni, schemi previsionali e abitudini classificatorie. Autentico strumento della globalizzazione, dove i flussi transnazionali e il transito incessante
delle informazioni danno all’individuo un senso di marcato sradicamento dal luogo e
dal tempo in cui si trova, la hot cognition diviene dunque anche per Murakami, piegata
al tema del sogno, la chiave di accesso alla stabilizzazione della realtà, ed è stupefacente
come recenti test di neuro-imaging abbiano dimostrato come il cervello che sogna sia caratterizzato per un verso da una forte attività nelle aree cerebrali collegabili alle emozioni
e alla generazione di immagini visive complesse, e dall’altro da una minore attività nelle
aree cerebrali che presiedono alla memorizzazione, all’autoconsapevolezza e alle operazioni logico-classificatorie. Antonio Damasio ci ha raccontato da scienziato il modo in
cui le emozioni appongono una tag alle informazioni aiutandoci a ricordarle e insieme a
semantizzarle; Murakami ci ha raccontato da narratore il modo in cui le deconnessioni
dell’attenzione e della memoria che si attuano in sogno o nel corso della lettura di un
testo romanzesco servono all’individuo in stato di veglia a percepire meglio immagini
complesse, a decodificare situazioni intercategoriali o a identificare predittivamente gli
script più inattesi.
Per questo i sogni raccontati da Murakami sono così diversi da quelli che il Novecento ha reso celebri nel solco della psicoanalisi freudiana, da Svevo alla Traumnovelle di
Schnitzler, sorta di epifania ontologica dell’individuo. Al contrario: in Murakami i sogni
restano sogni: è la realtà a diventare flessibile come una sceneggiatura onirica. Nel capitolo XIX di 1Q84 Aomami sogna, e le appaiono prima due grandi lune sospese nel cielo,
poi Tsubana, la bambina fuggita dalla setta del Sakigare e adesso addormentata, ma la
scena notturna è interrotta bruscamente dall’apparizione dei Little People:
Poi la bocca di Tsubana si aprì piano piano e da lì cominciavano a uscir fuori,
uno dopo l’altro, i Little People. Apparivano uno alla volta, con molta cautela, osservando l’ambiente circostante... Scivolarono silenziosamente sul pavimento e da
sotto il letto tirarono fuori un oggetto della grandezza di un manjū. Poi si dispose50 Allan J. Hobson e Hellmuth Wohl, Dagli angeli ai neuroni. L’arte e la nuova scienza dei sogni, Roma,
Mattioli 1885, 2007, p. 25.
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ro in cerchio attorno ad esso e cominciarono tutti a lavorarlo alacremente. Era una
cosa bianca ed elastica. Allungando le mani in aria, ne estrassero con gesti pratici un
filo bianco semitrasparente e usandolo ingrandirono a poco a poco quell’oggetto
morbido. Sembrava che il filo avesse un moderato grado di vischiosità.51
I «Little People» appaiono di notte in piccoli gruppi, vestono allo stesso modo,
hanno i medesimi lineamenti del volto tanto da apparire indistinguibili, possono modificare la loro altezza passando dai trenta ai sessanta centimetri, tessono crisalidi d’aria
e le loro apparizioni provocano mutilazioni, smembramenti, scomparse. Se dovessimo
assegnare i Little People a un sottogenere letterario e ricondurli a una tradizione iconologica, dovremmo limitarci a constatare che stanno tra la science fiction e il fantasy, tra
il meraviglioso del fairy tale e le rêveries romantiche di E. T. A. Hoffmann. Tutto e il
contrario di tutto. Sta di fatto che il lettore prova un senso di marcata ansia premonitrice
nell’osservare i Little People uscire dalla bocca di Tsubana, illuminata dalle fluorescenze
innaturali delle due lune, e ha l’impressione di ritrovare nella propria mente il ricordo
di un’arcaica fisiologia, di cui restano frammentarie tracce percettive: «In quel momento, era come se loro due si trovassero in una grotta preistorica. Una grotta buia, umida,
dal soffitto basso. Animali scuri e spiriti ne circondavano l’entrata. Intorno a lei, per un
istante, luce e ombra s’unirono».52 Poi Aomame abbassa il pugno, lo strumento di morte penetra nel cervello del Leader e il sacrificio è compiuto: animali e spiriti rompono il
silenzio con un respiro profondo, mentre la caverna torna a essere la suite di un lussuoso
hotel di Tokio. Come si vede, la narrazione murakamiana si configura come un apparato
percettivo in grado di avvicinare i lettori all’esperienza degli stati alterati della coscienza
e addestrarli alla lettura di script complessi, dove è già difficile comprendere cosa sia reale
e cosa finzionale. Attraversando inconsapevolmente la soglia che divide dimensioni spaziali differenti, Aomame avverte una torsione e un’alterazione percettiva che enfatizzano
i processi di simulazione incarnata vissuti dall’individuo.
«Feeling of body», li ha chiamati Vittorio Gallese: leggendo una narrazione a forte
densità emotiva, privati della necessità di sorvegliare il procedere della realtà, attiviamo
una rete associativa di stimoli, risposte e rappresentazioni semantiche capaci di coinvolgere quello che è stato definito «inconscio cognitivo».53 Esperimenti di laboratorio dimostrano oggi come l’esercizio di immersione in un tempo fuori dal tempo e di uno
spazio indefinito agisca direttamente sulla percezione del proprio corpo e sui nessi con
il mondo circostante, determinando uno spostamento del centro deittico, per cui l’alterazione del tempo risulta correlata alla percezione corporea: di fronte alle distorsioni
temporali, la nostra mente reagisce manipolando la coscienza enterocettiva dei confini
del Sé, che risultano spesso ampliati.54 Un recente esperimento con l’impiego della riso51 Murakami, 1Q84. Libro 1 e 2, aprile-settembre, cit., p. 307.
52 Ivi, p. 577.
53 Vittorio Gallese, Seeing Art…Beyond Vision. Liberated Embodied Simulation in Aesthetic Experience,
in Seeing with the Eyes Closed, ed. by Alexander Abbushi, Berlin, Association for Neuroesthetics, 2011,
pp. 62-65.
54 Aviva Berkovich-Ohana et al., Alterations in the Sense of Time, Space, and Body in the Mindfulnesstrained Brain. A Neurophenomenologically-guided MEG Study, in «Frontiers in Psychology», iv, 912
(2013), pp. 1-19.
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nanza magnetica ha dimostrato come la lettura di un romanzo possa trasportare il corpo
del lettore nel corpo del personaggio finzionale55 e come ciò possa inoltre determinare
delle trasformazioni a livello di connessione neurologica:56 i ricercatori hanno notato,
durante la lettura, l’attivazione di particolari aree che registrano il processo di assunzione e spostamento di prospettiva (giri temporale sinistro e posteriore destro) e nei giorni
successivi all’esperimento, dopo che i partecipanti all’esperimento erano stati sottoposti
a monitoraggio, si è rilevata un’accresciuta connettività nella zona del cervello nota come
solco centrale, una regione principalmente associata alla rappresentazione sensoria del
corpo, e infatti i neuroscienziati parlano non a caso di «semantica incarnata».
Leggiamo ancora cosa scrive Murakami in A sud del confine, a ovest del sole:
La nostra memoria e le nostre sensazioni sono troppo incerte e unilaterali e
quindi, per provare la veridicità di alcuni fatti, ci basiamo su una “certa realtà”.
Ma quella che per noi è la realtà, fino a che punto lo è davvero e fino a che punto è
quella che noi percepiamo come tale? Spesso è addirittura impossibile distinguere
tra le due. Quindi, per ancorare nella nostra mente la realtà a provare che sia tale,
abbiamo bisogno di un’altra realtà attigua che possa relativizzare la prima. Questa
realtà attigua però necessita, come base, a sua volta, di una terza.57
Qui il realismo magico non è più quello straordinario volano diegetico che produceva accadimenti romanzeschi nella letteratura latino-americana dopo l’apparizione di
Gabriel Garcìa Màrquez, bensì una sorta di esperimento identitario, il tentativo di aggregare la realtà allo storyworld testuale e dare forma a uno spazio di nuova generazione.
Il caso di Orhan Pamuk resta l’esempio più clamoroso di volontà di produzione di una
nuova prossemica: il romanzo Il museo dell’innocenza58 genera lo spazio museale denominato Museo dell’innocenza a Istanbul, nel quartiere di Çukurcuma, il quale a propria
volta genera una narrazione descrittiva e classificatoria, L’innocenza degli oggetti;59 anche
in Murakami la hot cognition si aggrappa ai luoghi come a un amuleto da cui trarre rassicurazioni terapeutiche, ma si tratta di luoghi magici, resilienti alla quotidianità. Letteralmente, luoghi che non stanno mai dove dovrebbero stare, spazi occasionali e flessibili,
metamorfici e ipersemantici. Luoghi magici, come ad esempio la grande ruota panoramica di La ragazza dello Sputnik,60 , lo schermo televisivo di After Dark,61 il paese dei
gatti che si coagula in 1Q84 e ne La fine del mondo e il paese delle meraviglie.
Ma perché è solo nelle distese del magico che la psiche dell’individuo globale sembra
poter ancora sussistere? Per quale ragione il protagonista omonimo di Kafka sulla spiaggia per dare un senso al suo Bildungsroman deve prima fuggire da Tōkiō e poi perdersi
nell’isola di Takamatsu, incontrare l’androgino Ōshima e fare ingresso nella foresta per
55 Gregory S. Berns et al., Short- and Long-Term Effects of a Novel on Connectivity in the Brain, in «Brain
Connectivity», 3 (2013), pp. 590-600.
56 Allan J. Hobson e Karl Friston, Waking and Dreaming Consciousness. Neurobiological and
Functional Considerations, in «Progress in Neurobiology», xcviii (2012), pp. 82-98, passim.
57 Haruki Murakami, A sud del confine a ovest del sole, Torino, Einaudi, 2000, p. 196.
58 Orhan Pamuk, Il museo dell’innocenza, Torino, Einaudi, 2009.
59 Orhan Pamuk, L’innocenza degli oggetti, Torino, Einaudi, 2012.
60 Haruki Murakami, La ragazza dello Sputnik, Torino, Einaudi, 2001.
61 Haruki Murakami, After Dark, Torino, Einaudi, 2008.
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sfuggire a una profezia che ricorda quella di Edipo? Il punto è che se lo spazio sembra tale
da consentire una permutazione della materia in pulviscoli e atomi capaci ad esempio di
passare persino attraverso uno schermo televisivo, come in After Dark, o da permettere
la transizione tra realtà parallele, come in 1Q84, l’elemento magico è il vero, irrinunciabile ingrediente primo della gastronomia romanzesca di Murakami. La ragione è semplice:
come già abbiamo detto in relazione alle saghe di Harry Potter e di Twilight, la magia ancora ci assiste nel formulare spiegazioni causali ad ampio spettro non solo preservandoci
dall’inettitudine di fronte al nuovo, ma aiutandoci altresì nella delicata e più importante
operazione di entrare in empatia con gli altri. Avvicinarsi alla letteratura, dunque, e abbandonare la vita di routine per vestire i panni del lettore immaginoso migliora quella
vita stessa che avevamo creduto di abbandonare. Come sostiene Murakami, nel leggere e
nel correre sta la nostra futura salvezza.
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Ticontre. Teoria Testo Traduzione – 2 (2014)
Hot cognition : come funziona il romanzo della globalizzazione 145
parole chiave
Cognitive poetics, affective narratology, hot cognition; neuroscienze, best seller, global
novel, Dan Brown, Haruki Murakami.
notizie degli autori
Stefano Calabrese è ordinario di Semiotica del testo all’Università di Modena e Reggio Emilia; Sara Uboldi è dottoressa di ricerca in Scienze umanistiche – percorso in Narratologia – presso l’Università di Modena e Reggio Emilia; Roberto Rossi, Teresa Vila e
Elena Zagaglia sono dottorandi presso la medesima scuola di dottorato.
[email protected]
come citare questo articolo
Stefano Calabrese, Roberto Rossi, Sara Uboldi, Teresa Vila, Elena
Zagaglia, “Hot cognition”: come funziona il romanzo della globalizzazione, in «Ticontre. Teoria Testo Traduzione», 2 (2014), pp. 123–145.
L’articolo è reperibile al sito www.ticontre.org.
§
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modifichi.
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Sommario – Ticontre. Teoria Testo Traduzione – II (2014)
letteratura mondo e dintorni
a cura di S. Calabrese, A. Coiro e A. Loda
Ipotesi per una letteratura mondo: contatti, circolazioni, intersezioni
Filippo Pennacchio, Autorialità reloaded. Qualche nota (e un’ipotesi) sul narratore del romanzo globalizzato
Paola Loreto, The Causality of Casualness in the Translations of World Poetry:
Jorie Graham vs Mary Oliver in Italy
Giorgia Falceri, Nancy Huston, Self-Translation and a Transnational Poetics
Anne-Laure Rigeade, A Room of One’s Own, Un Cuarto propio, Une chambre
à soi : circulations, déplacements, réévaluations
Andrea Chiurato, Gates Wide Shut. Un’ipotesi comparatistica per lo studio delle
gated communities
Rosanna Morace, Il romanzo tra letteratura-mondo e global novel
S. Calabrese, R. Rossi, S. Uboldi, T. Vila, E. Zagaglia, Hot cognition: come
funziona il romanzo della globalizzazione
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saggi
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Valentina Gritti, Come lavorava Boiardo volgarizzatore. Il caso della Pedia de
Cyro
149
teoria e pratica della traduzione
Jean-Charles Vegliante, En langue étrange (ou presque)
John McGahern, Una letteratura senza qualità (trad. di Nadia Tomaselli)
167
169
179
reprints
185
Aleksandr Voronskij, L’arte di vedere il mondo. Il nuovo realismo (a cura di
Adalgisa Mingati e Cinzia De Lotto)
187
indice dei nomi
219
crediti
223