1 Inizi di Romanzi (1870-1926)

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1 Inizi di Romanzi (1870-1926)
Inizi di Romanzi (1870-1926)
Carlo Dossi, Vita di Alberto Pisani, 1870
Cap. IV
Degno di paracelso! È lo studio degli studi. Sente il tabacco, l'inchiostro e la citazione latina. È a
tramontana, a terreno; è a volta da cui die' in fuori l'umidità. Tien le pareti, tutte a scaffali, con su
spaventosi volumi in ramatina come il sospiro dei gatti. Ecco i dieci schienali arabescati di oro della
rarìssima òpera "de nùmero atomorum"; presso, è la completa voluminosa sèrie delle gramàtiche
(gramàtica, cioè a dire, il modo con cui si apprende a piedi il montare a cavallo); poi, raccolta delle
più massiccie disputazioni... e quella sulla parola culex, e l'altra intorno alla lèttera e considerata
siccome còpula, e la arcifiera "sulla natura dell'aurèola del Monte Tàbor". Ed ecco, in un tratto
dell'ùltimo palco, il famoso trattato "de nuce beneventana" quaranta tomi inoctavo, vestiti di
pergamena, i quali, per il manco di uno, sèmbran dentiera priva di un dente occhiale; ecco - tagliando
corto - una infinita turba di libraccioni, e nelle scansìe e fuori... spècula, theatra, convìa, thesàuri... di
astrologìa, teologìa, etimologìa, ed altre scienze in ìa - tutta marròca.
Cap. I
Un dopo-pranzo di estate; il sole fà da trìpoli ancora alle gronde, e stelleggia i vetri a Praverde.
Praverde è una brigata di case attorno di un campanile su 'n monticello isolato.
Sotto di lui, la pianura. L'occhio, dall'alto, non si lascia mai di còrrere lungo le viti a festone ed i filari
di gelsi dalle seguaci ombrettine; di attraversare i verdi pratelli solcati di rivoletti e i campi dalle ande
quasi a riga e compasso; nè di girare e le cascine e i tuguri, così puliti, così di pace... in distanza,
saltando e risaltando canali, siepi, sentieri. E, come si avesse innanzi una gran planimetrìa a colori.
Ma, da lontano, un rintrono. Che vi ha? Niun contadino astròloga il cielo. Vi ha un temporale, ma è
copia; quello dell'uomo; cattivo mille volte di più; mille di meno, maestoso
Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli, 1890
Verso mezzodí Cesarino Pianelli, cassiere aggiunto, vide entrare nell’ufficio il cassiere Martini piú
pallido del solito, col viso stravolto, con un telegramma in mano. «Ebbene?» gli domandò, «che
notizie mi dà?» «Bisogna che io parta immediatamente. È moribonda!» rispose il Martini, con un
groppo alla gola che gli mozzò le parole. Povero diavolo! L’aveva sposata da poco piú di un anno e
dopo un anno di tribolazioni, e quasi di agonia continua la poverina moriva consunta a Nervi, dove il
medico l’aveva mandata a passare l’inverno. «Vada, vada, Martini, resto io. Si faccia coraggio, vedrà.
La gioventú si aiuta sempre.» «Dovrei avvertire il commendatore, ma la corsa parte alle dodici e
quarantacinque e non ho tempo. Gli scriverò appena potrò. Guardi, Pianelli, chiudo in questa cassa i
valori principali e lascio a lei la chiave di quest’altra cassa. Vuole che gliene faccia la consegna?
Saranno dieci o dodici mila lire in tutto.» «Se lei si fida di me, per conto mio non ho bisogno di
consegna» soggiunse il cassiere aggiunto, tutto commosso e premuroso. «Mi fa una carità. Tenga
conto del movimento di cassa e basta.» «Si fidi di me: vada, non perda tempo» disse premurosamente
il Pianelli, confrontando il suo orologio con quello elettrico del cortile. «Se c’è bisogno, mi telegrafi.»
«Si faccia animo; fin che c’è vita, c’è speranza.» «Grazie» balbettò il Martini. Strinse la mano al
Pianelli, sforzandosi di ingoiare le sue lagrime e se ne andò. «Povero diavolo!» mormorò l’altro,
tornando al suo posto. «Se c’è un galantuomo, gli càpitano tutte.»
Antonio Fogazzaro, Piccolo mondo antico, 1895
Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di voler cacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri
delle montagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico,
non pioveva ancora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva, sconquassavan le barche incatenate,
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mostravano qua e là, sino all'opposta sponda austera del Doi, un lingueggiar di spume bianche. Ma giù
a ponente, in fondo al lago, si vedeva un chiaro, un principio di calma, una stanchezza della breva; e
dietro al cupo monte di Caprino usciva il primo fumo di pioggia. Pasotti, in soprabito nero di
cerimonia, col cappello a staio in testa e la grossa mazza di bambù in mano, camminava nervoso per la
riva, guardava di qua, guardava di là, si fermava a picchiar forte la mazza a terra, chiamando
quell'asino di barcaiuolo che non compariva.
Il piccolo battello nero con i cuscini rossi, la tenda bianca e rossa, il sedile posticcio di parata piantato
a traverso, i remi pronti e incrociati a poppa, si dibatteva, percosso dalle onde, fra due barconi carichi
di carbone che oscillavano appena.
Gabriele D’Annunzio, Il piacere, 1889
L'anno moriva, assai dolcemente. Il sole di San Silvestro spandeva non so che tepor velato,
mollissimo, aureo, quasi primaverile, nel ciel di Roma. Tutte le vie erano popolose come nelle
domeniche di Maggio. Su la piazza Barberini, su la piazza di Spagna una moltitudine di vetture
passava in corsa traversando; e dalle due piazze il romorio confuso e continuo, salendo alla Trinità de'
Monti, alla via Sistina, giungeva fin nelle stanze del palazzo Zuccari, attenuato.
Le stanze andavansi empiendo a poco a poco del profumo ch'esalavan ne' vasi i fiori freschi. Le rose
folte e larghe stavano immerse in certe coppe di cristallo che si levavan sottili da una specie di stelo
dorato slargandosi in guisa d'un giglio adamantino, a similitudine di quelle che sorgon dietro la
Vergine nel tondo di Sandro Botticelli alla Galleria Borghese. Nessuna altra forma di coppa eguaglia
in eleganza tal forma: i fiori entro quella prigione diafana paion quasi spiritualizzarsi e meglio dare
imagine di una religiosa o amorosa offerta.
Andrea Sperelli aspettava nelle sue stanze un'amante. Tutte le cose a torno rivelavano infatti una
special cura d'amore. Il legno di ginepro ardeva nel caminetto e la piccola tavola del tè era pronta, con
tazze e sottocoppe in maiolica di Castel Durante ornate d'istoriette mitologiche da Luzio Dolci, antiche
forme d'inimitabile grazia, ove sotto le figure erano scritti in carattere corsivo a zàffara nera esametri
d'Ovidio. La luce entrava temperata dalle tende di broccatello rosso a melagrane d'argento riccio, a
foglie e a motti. Come il sole pomeridiano feriva i vetri, la trama fiorita delle tendine di pizzo si
disegnava sul tappeto.
Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, 1904
Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia
Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de' miei amici o conoscenti dimostrava d'aver
perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle
spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:
Io mi chiamo Mattia Pascal.
Grazie caro. Questo lo so.
- E ti par poco?
Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non
sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all'occorrenza:
- Io mi chiamo Mattia Pascal.
Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l'atroce cordoglio d'un
disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt'a un tratto che... sì, niente, insomma: né padre, né madre,
né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei
costumi, e de' vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero
innocente.
Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui
esporre, di fatti, in un albero genealogico, l'origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare
come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni,
in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.
E allora?
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Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo.
Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1926
– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo
dolorino.
Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
– Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
– Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.
Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto
decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e
sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di
sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta
improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Prefazione, 1923
Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psicoanalisi s'intende, sa dove piazzare l'antipatia che il paziente mi dedica.
Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver
indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psicoanalisi arriccerranno il naso
a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse,
che l'autobiografia fosse un buon preludio alla psicoanalisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona
perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si
fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch'io sono pronto di dividere con lui i lauti
onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di
se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie
ch'egli ha qui accumulate!... DOTTOR S.
Grazia Deledda, Canne al vento, 1913
Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l'argine primitivo
da lui stesso costruito un po' per volta a furia d'anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo
il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall'alto, seduto davanti alla capanna
sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina dei Colombi.
Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d'acque nel crepuscolo, il poderetto
che Efix considerava più suo che delle sue padrone: trent'anni di possesso e di lavoro lo han
fatto ben suo, e le siepi di fichi d'India che lo chiudono dall'alto in basso come due muri grigi
serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.
Il servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dall'altra
erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rimpianto inutile.
Meglio pensare all'avvenire e sperare nell'aiuto di Dio.
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Federigo Tozzi, Il podere, 1921
Nel millenovecento, Remigio Selmi aveva venti anni; ed era aiuto applicato alla stazione di Campiglia.
Da parecchio tempo stava in discordia con il padre e non sapeva che al suo piede bucato da una
bulletta delle scarpe era ormai venuta anche la cancrena. Invece credeva che stesse meglio; senza
sospettare che, se non gliene facevano sapere niente, volevano tenerlo lontano da casa più che fosse
possibile. Ma una sera ricevette una cartolina dal chirurgo che lo curava; nella quale era scritto che la
malattia non dava più da sperare. La fece leggere al capostazione; ed ebbe il permesso di partire
subito, con il diretto che era per passare. Arrivò alla Casuccia la notte: tre miglia da Siena, fuor di
Porta Romana; e, trovato l’uscio aperto, entrò nella camera del padre senza che prima nessuno lo
vedesse.
Giacomo era desto e appoggiato a quattro guanciali; mentre due delle assalariate, Gegia e Dinda, gli
sostenevano le braccia lungo la coperta, attente a mettergliele in un altro modo quando non poteva
stare più nella stessa positura. Sopra il canterano, una lucernina di ottone; con tutti e quattro i beccucci
accesi.
Remigio salì in ginocchio sul letto. Ma Giacomo, che aveva la testa ciondoloni sul petto e gli occhi
chiusi, non se ne accorse né meno. Allora, gli chiese:
«Non mi riconosci?».
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