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Corso di lingua e cultura russa
Anno accademico 2012 - 2013
Impero, nazione e nazionalismo in Russia
(Dispensa prof. Andrea Panaccione)
I concetti di impero e nazione: indicano due diversi principi sia riguardo all’ambito dell’attività
di governo (governare le diversità, governare qualcosa che tende ad essere omogeneo) sia, dal 1700,
riguardo al titolo, la legittimità, in base a cui si governa (la nazione come principio di una sovranità
collettiva o popolare, anche quando è rappresentata da un monarca: “ciò che era regale diventa
nazionale” secondo Lucien Febvre; l’impero come espressione di un potere legato alla persona di
colui che lo esercita, di un legame di fedeltà). Questo corrisponde anche a diversi tipi di legami
sociali nella collettività governata come corpo sociale: una comune appartenenza etnica, culturale
ecc., o una rete di gerarchie e fedeltà. In un sistema imperiale autocratico come quello zarista, la
nazione era un concetto che poteva solo essere introdotto dall’esterno.
La questione del carattere imperiale della storia russa (imperskost’) viene definita, dall’epoca di
Pietro I a partire dal termine di imperija (e imperskij): ciò è dovuto al fatto che l’occidentalizzante
Pietro aveva assunto il titolo di imperator, calcato dal latino, e in particolare di Imperator
Vserossijskij (Imperatore di tutte le Russie). E’ da questo momento che Rossija e rossijskij
sostituiscono Rus’ e russkij per indicare l’unità politico/statale (gosudarstvennost’) russa
indipendentemente dal carattere etnico dei suoi abitanti: Rossijskaja imperija; Atlas vserossijskoj
imperii (1734); Istorija rossijskaja di V. Tatiščev; zemlja naša rossijskaja; zemlja Rossijskogo
Vladenija (le targhe che indicavano i possedimenti russi sul territorio americano). Queste
designazioni segnano anche l’accantonamento definitivo del concetto di moskovskoe carstvo o
gosudarstvo, in voga fino alla fine del ‘600, così come della designazione di Moskovija. Il titolo di
imperator affianca ma non sostituisce quello di car’, assunto stabilmente da Ivan IV ma già
introdotto da Ivan III accanto a quelli di velikij knjaz’ e di gosudar’ (in russo quello che sarà
chiamato lo Stato è direttamente legato al concetto di “signore”, mentre nell’Europa occidentale
aveva in generale sostituito i concetti di res publica o di commom wealth; lo Stato in Europa
occidentale come scostamento dalle coppie re/regno, roi/royaume, king/kingdom, e quindi
gosudar’/gosudarstvo, signore/signoria).
A partire da Pietro nella storiografia si parla di imperatorskij period, anche se la data iniziale
dell’impero può essere posta molto prima con la conquista del chanato di Kazan’ (1552) e pochi
anni dopo di quello di Astrachan (Ma la presenza tatara a Kazan’ è ancora uno dei fantasmi che
attraversano la Russia di Putin: il 2013 proclamato anno di Batyj dalle organizzazioni
nazionalistiche musulmane del Tatarstan). In celebrazione della conquista dei due chanati viene
consacrata nel 1561 la cattedrale di San Basilio (chram Vasilija Blažennogo), posta fuori delle mura
della fortezza (il kreml’) come segno di forza ed esaltazione nelle forme e nei colori della eredità
culturale bizantina.
L’influenza bizantina viene ereditata dalla Moscovia dalla Rus’ di Kiev, dove sotto Vladimiro I
era avvenuta nel 988 la conversione dei russi al cristianesimo nella versione ortodossa di Bisanzio
che dal 1054 si separerà definitivamente da quella romana (il che separerà la Russia dall’evoluzione
religiosa dell’Europa centro-occidentale). Dopo la caduta di Costantinopoli l’influenza bizantina
sarà rafforzata dal matrimonio di Ivan III con Zoe (Sofija) Paleologo e dall’assunzione del simbolo
dell’aquila bicefala e del cerimoniale di corte bizantino: l’eredità bizantina appare soprattutto
finalizzata al rafforzamento del potere del sovrano russo. Invece la formula della “terza Roma”
(tretij Rim), suggerita in una lettera del monaco Filotej di Pskov a Vasilij III nel 1514 aveva
essenzialmente un valore religioso e solo nell’Ottocento sarà riscoperta ed enfatizzata sul piano
politico come la formula di una vocazione universalistica e imperiale russa e di un uso della
religione a questo fine (è un esempio significativo di come le ideologie nazionalistiche possano
utilizzare materiali nati in contesti e con propositi del tutto diversi). Per la storia della formulazione
di Mosca come “terza Roma”, è importante tenere presente che alla Mosca “terza Roma” sarà da
Pietro I contrapposta la nuova capitale come “la città di San Pietro”, la vera Roma: cfr. Lotman –
Uspenskij, Otzvuk koncepcii “Moska – Tretij Rim” v ideologii Petra Pervogo, in Chudožestvennyj
jaz’yk srednevekov’ja, Moskva, 1982, pp. 236-249.
Riguardo al rapporto con la Chiesa – dopo la caduta di Kiev ad opera dei mongoli, il
trasferimento della sede del metropolita russo a Mosca nel 1326, la proclamazione dell’autocefalia
della Chiesa russa nel 1348 e l’istituzione del patriarcato nel 1589 - uno sviluppo della eredità
bizantina della “sinfonia” sarà il rapporto di subordinazione al sovrano che si afferma dopo le
riforme liturgiche e le revisioni testuali del patriarca Nikon, con il concilio del 1667, che approva le
riforme ma depone il loro autore stabilendo la supremazia del potere temporale su quello spirituale.
La conclusione di questo processo di subordinazione sarà con Pietro I l’abolizione del patriarcato
nel 1721 e l’instaurazione del Santo Sinodo come organo statale di controllo sulla Chiesa. Il
patriarcato in Russia sarà restaurato solo dopo la rivoluzione del 1917, ma l’uso della Chiesa
ortodossa come strumento del potere politico avrà modo di manifestarsi, come vedremo, anche in
periodo sovietico e l’idea di una Chiesa che ha bisogno di uno zar potrebbe non essere scomparsa
anche dopo la fine dell’Urss.
Ma un effetto di altrettanto lunga durata sia delle riforme di Nikon che della subordinazione
politica della Chiesa ufficiale sarà il cosiddetto raskol, la separazione all’interno della cristianità
russa e la formazione di un grande movimento di raskolniki o “vecchi credenti” (starovery o
staroobrjadcy, seguaci dei vecchi riti, obrjady), che ha tra le sue più importanti motivazioni il
rifiuto, che assumerà anche le forme del settarismo, della compromissione politica della Chiesa.
Erano ancora parecchi milioni nel 1917 e indicano una grande frattura di sensibilità religiosa, ma
anche politica, sociale e culturale, nel cristianesimo russo; saranno non solo perseguitati, ma anche
diffamati con leggende disonoranti come quella di aver offerto il pane e il sale (chleb – sol’) a
Napoleone durante l’occupazione di Mosca nel 1812 (una leggenda ripresa in Russia anche in
occasione del bicentenario).
Secondo alcuni storici, il raskol è un avvenimento decisivo per la separazione tra una società
alta e il popolo, o addirittura per la formazione di due nazioni (Marc Raeff).
La ricerca religiosa russa sarà interpretata anche come la reazione alla mancanza di un vero
spirito religioso nella chiesa ufficiale, così come più tardi la ricerca del popolo e il tentativo di
andare in esso sarà vista come la ricerca di un sostegno sociale da parte della intelligencija, che ne è
priva.
La statalizzazione della Chiesa russa costituirà la premessa del successivo uso nazionalistico della
religione.
Pierre Pascal: una religione di Stato che favorirà il formarsi, dopo il 1917, di una religione dello
Stato.
La conquista di Kazan’ avvia quel processo che le cronache raccontano come soedinenie zemel’ :
quelle dell’Orda d’oro, zolotaja Orda, che aveva sottoposto gran parte della Russia, fino alla fine
del ‘400 al “giogo tataro” (tatarskoe igo; i mongoli o tatari (Genghiz khan, Batyj) che invadono le
terre russe dal XIII secolo saranno chiamati tartari nella vulgata occidentale per evocazione del
Tartaro, l’inferno, dal quale secondo molti osservatori sconvolti erano venuti e al quale dovevano
ritornare) verso oriente, ma anche la colonizzazione della Siberia; quelle dell’antica Rus’ a
occidente, ma anche altre grazie alle quali la Russia entrerà nel gioco delle potenze europee.
E’ un processo che si concluderà con la sottomissione del Caucaso e di tutta l’Asia centrale solo
nel corso dell’Ottocento. Ma è un processo che assumerà forme diverse di unione e di
colonizzazione e che darà all’impero russo caratteristiche diverse dalla formazione dei grandi
imperi coloniali europei. Le forme della colonizzazione e della conquista, su cui più avanti, e il più
accentuato mescolamento e integrazione tra la popolazione russa e le altre daranno a questo impero
alcuni caratteri distintivi anche rispetto all’altro grande impero continentale europeo, quello degli
Asburgo, costituito soprattutto attraverso successioni e unioni dinastiche con formazioni politiche
già esistenti, e combinazioni matrimoniali (“Tu, felix Austria, nube!”).
L’impero russo è un impero “oggettivamente” eurasiatico, in quanto si estende su due
continenti diversi, ma il rapporto tra queste due componenti, anche se entrambe sono il prodotto
di successive conquiste e quindi della potenza militare, non è affatto semplice. Le terre che si
riuniscono a occidente sono degli stanziamenti stabili, con una loro storia, con dei confini definiti,
nei quali il passaggio di sovranità non modifica il principio patrimonialistico della appartenenza
della terra al sovrano e della sua concessione da parte di questi ai suoi collaboratori in base al
servizio prestato (i concetti espressi dai due termini originari russi della votčina, derivato da otec, e
del pomest’e). Il sovrano deve imporre direttamente il suo potere contro quelle tendenze al
disordine e alla ribellione (la smuta o smutnoe vremja, il bunt, o quello che Puškin chiamava “il
bunt russo insensato e impietoso: “Ne privedi bog videt’ russkij bunt, bessmyslennyj i
bespoščadnyj!”), la cui stessa evocazione è la migliore giustificazione del potere assoluto (e in
modo ricorrente viene indicato come la premessa all’instaurazione di un regime forte, da quello dei
Romanov nel ‘600 a quello dei bolscevichi nel ‘900 a quello di Putin nel 2000). Le terre a est sono
spesso grandi distese di steppe abitate da popolazioni nomadi o, a nord, un’immensa distesa la cui
frontiera si sposta rapidamente sulla base della conquista e della colonizzazione, come il far west
americano, e arriverà addirittura all’Alaska e alla California (Fort Ross). In molte di queste zone
continuerà per secoli a valere quella che Andreas Kappeler (La Russia. Storia di un impero
multietnico, Roma, Edizioni Lavoro, 2002) chiama “la politica della steppa”, degli accordi, delle
divisioni, dell’imposizione di forme di tributo e di professioni di lealtà, più che di un controllo
diretto. In entrambi i casi, dove esistono territori non direttamente controllabili o dove esistevano
formazioni politiche precedenti con una loro storia complessa (pensiamo alla Polonia – Lituania, ma
già a quella parte dell’Ucraina che con la grande sollevazione cosacca del ‘600 si era staccata dalla
stessa o ancora prima agli stessi chanati tatari) è necessaria qualche forma di accordo con le classi
dirigenti locali: l’impero si regge sulla solidarietà di élites che possono essere molto differenziate
per origine etnica, lingua, professione di fede, livelli di civiltà, in alcuni casi anche più avanzati
(alcune di queste élites, come è il caso dei tedeschi del Baltico, possono essere considerate élites
complementari di quella russa). (La distinzione tra rossjanin e inorodec, russo e allogeno, a partire
dallo Statuto di Speranskij del 1822; l’affermarsi di un’esigenza di conoscenza geografica ed
etnografica). Anche la fissazione degli Urali come strumento per una divisione tra la madrepatria e
la colonia (Tatiščev), tra la Russia evropejskaja deržava, come viene definita da Caterina II e l’Asia
colonizzata, non può surrogare l’assenza di uno Stato nazionale consolidato a partire dal quale
l’impero si è formato.
L’elemento russo-moscovita come elemento originario, ma sempre rimescolato con altri.
La specificità della costruzione dell’impero russo rispetto agli imperi coloniali europei: la
continuità territoriale (il grande storico russo Vasilij Ključevskij: la colonizzazione come fattore
dominante della storia russa, ma la Russia come paese che colonizza se stesso); la formazione di
una classe dirigente non solo russa; la diversità delle modalità di annessione (la colonizzazione
come in Siberia e Asia centrale, la conquista militare legata anche al rapporto con le altre grandi
potenze e che deve fare fronte a diverse forme di resistenza dalla Polonia al Caucaso, l’egemonia
politica e l’instaurazione di rapporti di protettorato) e dei rapporti tra il centro e le periferie annesse.
Gerarchia delle varie popolazioni in base alla fedeltà e alla possibilità di cooptazione delle élites
(Kappeler: le diverse gerarchie nei rapporti tra il centro e le periferie). I diversi strumenti di
governo, compresa la religione, usati in modo differenziato secondo le necessità. L’esaltazione di
Chomjakov degli Slavi popolo contadino, al quale “è estraneo l’aristocratico disprezzo per le altre
nazioni, in particolare il sentimento di una superiorià razziale” (cit. in A. Walicki, Una utopia
conservatrice, Torino, Einaudi, 1973, p. 212). L’adozione di un ottica coloniale europea dai tempi
di Pietro il Grande contraddetta da molte esperienze successive (accordi e protettorati in Asia
centrale e in Transcaucasia) e contestata da quelli che saranno chiamati gli eurasisti. I caratteri
particolari della colonizzazione russa discussi anche negli studi recenti sull’orientalismo russo: la
ricerca sull’oriente o orientalistica russa (vostok, vostokovedenie) molto meno caratterizzata da
un’impostazione coloniale classica (ma la terra e il cotone come fattori di colonizzazione
economica nell’Asia centrale).
Torniamo a Pietro il Grande e alla proclamazione occidentalizzante dell’impero.
Il paradosso che si apre con Pietro: l’edificazione di un corpo sul modello degli Stati assoluti
europei al quale manca un’anima corrispondente ai caratteri con cui si era formata la realtà russa;
una geografia storica e cangiante, una grande forza espansiva sul piano territoriale, una grande
varietà culturale, ma il tutto accompagnato dalla coscienza di una arretratezza e di una dipendenza
sul piano dello sviluppo tecnico ed economico e di una separazione tra i vertici e le masse
popolari nella società russa (verchi da verch, nizy da niz) che si era manifestata già con il raskol e
che si accentua con l’importazione di una cultura occidentale patrimonio solo di una élite ristretta
(La figura di Pietro e l’imposizione di un’altra cultura come approfondimento delle differenze
sociali secondo Nikolaj Trubeckoj: L’Europa e l’umanità, Einaudi, 1982 e L’eredità di Gengiz
Khan, Cusano Milanino, Barbarossa,2005). Ma d’altra parte, il confronto con l’Europa come
elemento formativo di una coscienza nazionale russa: necessità di confrontarsi con altri modelli,
con altre culture, con il ruolo che queste, e coloro che ne sono portatori, cominciano a svolgere nella
vita russa (l’elemento tedesco con Pietro e i suoi primi successori, l’elemento francese con
Caterina). Il formarsi di una coscienza nazionale come prodotto dell’occidentalizzazione e della
reazione ad essa (Hans Rogger, National Consciousness in Eighteenth-Century Russia, Cambridge
1960): i traduttori, i divulgatori, i viaggiatori, i commentatori, i critici; la recezione e la traduzione
sempre come interpretazione e selezione, apertura di un confronto interno, “rappresentanza” prima
che rappresentazione (gli occidentalisti come rappresentanti dell’Occidente, nel senso diplomatico
della parola), che permettono una ricerca selettiva dell’altro, di prendere coscienza sia dell’altro che
di se stessi, di ciò che viene recepito e di chi recepisce (Jurij Lotman e scuola di Tartu). Da una
ostilità di alcuni settori della nobiltà russa verso gli elementi stranieri dominanti a corte si passa a
una reazione più generale contro la francesizzazione delle classi più elevate durante il regno di
Caterina II e la loro completa estraneazione alla vita della propria società; l’idea di quella
civilizzazione del bon ton e dei begli spiriti come falsità (in Guerra e pace la contrapposizione tra il
principe Vasilij e Marja Dmitrievna), fino ad arrivare in epoca sovietica a un diffuso
compiacimento bolscevico per le manifestazioni di grossolanità e rozzezza (Stalin al XIV congresso
del partito: “Si, compagni, sono un tipo rozzo e che va al sodo, è così, non lo nego”; Putin e la
rivendicazione di essersi formato “sulla strada di Leningrado”). Si afferma un vero e proprio genere
di letteratura satirica sui “cosmopoliti senza radici” (Rogger), su una generazione di stranieri in
patria (Ključevskij: cercavano di essere a casa loro fra gli stranieri e riuscivano soltanto a essere
stranieri a casa loro), i petimetry (petits maîtres) e i farmazony (franc-maçons); la questione
dell’educazione (Fonvizin) e quella della lingua. Questo significa anche l’inizio di una ricerca di
una natura russa e di un carattere nazionale che viene indirizzata verso quel popolo che non è stato
contaminato dalle influenze importate dall’esterno, verso quelle qualità nazionali che possono
essere rivendicate di fronte agli altri paesi.
Dall’idea di Caterina che lo spirito da infondere a quella grande macchina costruita da Pietro
potesse venire solo dai Lumi alla ricerca di un’anima russa (il folklore, la lingua, la storia) alla
quale un corpo che si pretende occidentalizzato si deve adattare.
Compaiono così nel dibattito intellettuale alcune idee che resteranno nella coscienza nazionale del
paese:
l’idea che il popolo russo non solo non è peggiore degli altri ma può essere anche migliore
perché non contaminato da una falsa civiltà (in questo gioca un ruolo importante anche
l’influenza di Rousseau. Ju. Lotman, Rousseau e la cultura russa del XVIII secolo, in Da Rousseau
a Tolstoj, il Mulino 1984: Rousseau decisivo in Russia per la problematica naturale / in- (anti-)
naturale, la natura buona e le istituzioni come contro-natura; gli eroi positivi, “naturali”, della
letteratura russa: gli innocenti e gli idioti, i contadini, i briganti, come i ceceni ecc., e i cosacchi,
anche gli animali: quelli delle favole di Krylov, che Gogol’ giudicava addirittura troppo russi, ma
anche il cane Valetka nelle Memorie di un cacciatore, che “Di solito stava seduto con la coda
mozza ripiegata sotto di sé, si accigliava, sussultava ogni tanto e non sorrideva mai”. Sulla base di
questa antitesi, una letteratura critica verso le istituzioni e le proprie realtà sociali in nome del
“naturale”;
l’idea che il fatto di essere più giovani e più indietro nella scala dello sviluppo (l’immagine della
“pagina bianca” in Čaadaev) può dare anche il vantaggio di non ripetere gli errori degli altri
(l’idea dei vantaggi dell’arretratezza dal populismo dell’Ottocento alla Storia della rivoluzione
russa di Trockij; Herzen, 1855: “La storia è veramente ingiusta, a coloro che giungono tardi non
darà le ossa già rosicchiate, ma il primato dell’esperienza”; Trockij: “Costretto a mettersi a
rimorchio dei paesi avanzati, un paese arretrato non segue lo stesso ordine di successione: il
privilegio di una situazione storicamente arretrata – perché esiste tale privilegio – autorizza o, più
esattamente, costringe un popolo ad assimilare tutto quello che è stato fatto prima di una
determinata data, saltando una serie di date intermedie”).
La contrapposizione del mondo del villaggio (derevnja) – come natura, semplicità, autenticità – a
quello della città (gorod), artificiale e premeditato; l’esaltazione della campagna come
conservazione di valori naturali e nazionali, fino alla “prosa del villaggio” della piena maturità
sovietica.
I primi viaggi di intellettuali russi in Europa (Fonvizin, Karamzin): l’inizio di un genere che usa il
viaggio per contrapporre la Russia all’Europa, il cui vertice è rappresentato dalle Note invernali su
impressioni estive di Dostoevskij (1863; Editori Riuniti 1984 e poi nella “Universale Economica”
Feltrinelli).
Si può parlare di un senso della nazione quando il confronto con l’occidente da passivo
diventa attivo, da imitativo reattivo. Quello che all’inizio è solo la reazione di alcuni intellettuali
nei quali la riflessione sullo stato del Paese (di cui la rivolta di Pugačev durante il regno di Caterina
II è la rivelazione più drammatica, come si vede dalla stessa ampia composizione sociale del
movimento: contadini servi, vecchi credenti, calmucchi, kazachi, ecc.) è alimentata dalla protesta
sociale (Novikov, Radiščev) diventa una vera e propria scoperta della nazione nella guerra contro
Napoleone del 1812 (O. Figes, La danza di Natasha, il capitolo su I figli del 1812; Guerra e pace di
Tolstoj come l’esaltazione di alcuni forti elementi nazionali legati al 1912: la questione della lingua,
l’esaltazione del ruolo di Mosca rispetto a S. Pietroburgo, il contadino Platon Karataev come “la
personificazione di quanto c’è di russo, di buono e di rotondo”), che fissa definitivamente nella
coscienza russa l’archetipo e il mito fondativo del 1612, la cacciata dello straniero polacco
esattamente due secoli prima grazie all’unione di tutte le forze vive della Russia (Putin: il 4
novembre, “giorno dell’unità popolare”, celebrativo non di una vittoria sui polacchi ma di una
vittoria su se stessi, sulle inimicizie e divisioni interne) e produce una forte spinta al rinnovamento
nella nobiltà russa (moto dei decabristi nel 1825) e all’affermazione di un orgoglio nazionale: per la
prima volta sarà avanzata l’idea di una Russia decisiva per il destino di tutta l’Europa (Michail
Pogodin, in N. Riasanovsky, Nicholas I and the Official Nationality in Russia, Berkeley and Los
Angeles, 1959, p. 55), che si ripresenterà alla fine della seconda guerra mondiale. Il senso politico è
naturalmente diverso: Napoleone era stato l’esecutore testamentario della Rivoluzione francese,
Hitler è la barbarie nazista, ma è comune nei due casi e persistente nella coscienza russa (come
dimostra anche l’enfasi posta l’anno scorso nelle celebrazioni del bicentenario) l’idea o la
inversione prospettica di un ruolo dominante e provvidenziale della Russia in Europa.
Gli intrecci e i rinvii delle date nella storia russa: 1612, 1812, 1853-56, 1945.
Questione narodnost’ (carattere del popolo russo) e nacija (concetto politico di nazione e sovranità
popolare). Il significato di narod da sinonimo di etnia (‘600) al termine usato da Caterina per
indicare i suoi sudditi alla nazione politica e culturale.
L’introduzione nella sfera pubblica, e con i crismi della ufficialità, di un concetto di nazionalità
(narodnost’) per indicare un fondamento popolare (narod) dell’impero russo va vista come un
portato e una reazione a questi sviluppi e anche a uno sviluppo importante degli interessi etnografici
dalla seconda metà del’700, a una “scoperta del popolo”; ma nel quadro dell’impero zarista si
caratterizza subito come la negazione di quello che era stato e poteva essere il potenziale liberatorio
del concetto di nazione in occidente (senso di partecipazione e comunità sociale, sovranità
popolare).
Narodnost’: la nazione cercata nel popolo, ma in un popolo non sovrano e sottomesso. L’impatto
del 1812 è quello di un processo di liberazione, ma anche di una identificazione più forte con il
sovrano (è la questione che si riproporrà in Urss dopo la seconda guerra mondiale): un decabrista
condannato avrebbe scritto a Nicola I che “è amaro per un russo non avere una nazione ma risolvere
ogni cosa nel sovrano”. Nella triade del ministro dell’istruzione di Nicola I, Uvarov, la narodnost’
occupa rigorosamente il terzo posto dopo il pravoslavie (ortodossia) e il samoderžavie (autocrazia),
ovvero la qualità nazionale dei russi sta nella piena sottomissione e devozione a un potere personale
caratterizzato dal rapporto diretto con Dio (lo zar è il capo della chiesa e la terra russa è la santa
Russia, svjataja Rus’, secondo una formula che circola già dal ‘500 e che si afferma definitivamente
con la cacciata dei polacchi, portatori dell’eresia cattolica, e l’ascesa dei Romanov) e
dall’assolutezza del dominio sui sudditi che ne deriva. La narodnost’ è il rapporto indistinto tra zar
e popolo che potenzialmente riduce il ruolo dell’aristocrazia, della solidarietà delle élites; è
l’obbedienza e la fedeltà a un padre padrone, alla cui bontà ci si affida anche quando si subiscono
dei torti di cui egli non può essere a conoscenza (lo “zar buono”). L’accentuazione dei caratteri
nazionali della figura dello zar, che sostituiscono una rappresentazione fondata sulla
estraneità e la lontananza, tipica di molte culture che evidenziano la separazione del capo dalle
relazioni locali e che nel caso russo è legata anche alla sacralizzazione della figura del sovrano
(Richard Wortman, Scenarios of Power: Myth and Ceremony in Russian Monarchy, Princeton
2000), non impedisce che fino a Nicola II gli zar russi rimangano i padroni e non l’espressione del
loro popolo. Nella seconda ondata della “nazionalità ufficiale” caratterizzata da un più accentuato
processo di “russificazione” (obrusenie) – sul piano amministrativo, linguistico, religioso,
economico - delle varie parti dell’impero, durante il regno di Alessandro III, ci sarà anche la
reazione alla messa in discussione di un’unica russkaja narodnost’ nell’articolo di Kostomarov,
Dve russkie narodnosti, considerato da alcuni studiosi il “vangelo del nazionalismo ucraino”
(Introduzione di M. Clementi a: Nikolaj Kostomarov, Storie di Ucraina, Roma, Odradek, 2008) e
indicativo comunque già di una tensione interna al concetto di russkij (belorusskie, malorossy).
Tuttavia non tutto si risolve nella riaffermazione della fedeltà dinastica. Riasanovkij ha
sottolineato, a partire dalla dottrina della “nazionalità ufficiale”, la penetrazione in Russia di una
ideologia romantica del popolo (Volk) che esalta gli elementi comunitari rispetto a quelli della
persona del monarca e la tensione tra una componente legittimista e dinastica e una caratterizzata
nel senso della autocrazia popolare. E’ anche questa tensione che si riverbera nella opposizione tra
Pietroburgo e Mosca.
La intelligencija rivoluzionaria, un sottile strato ai margini della “società” (obščestvo), che si
percepiva come la voce di tutto il popolo e che si svilupperà in un grande movimento sociale, e il
populismo, la sua maggiore incarnazione politica, rappresenteranno la contrapposizione a una
visione dinastica della narodnost’ ma anche a quella romantica della identificazione tra popolo e
sovrano (che pure i rivoluzionari utilizzeranno strumentalmente in alcune forme di agitazione basate
sui proclami liberatori di uno zar buono circondato da una corte di malvagi, che lo isolano dal
popolo); al concetto di popolo sarà legato quello di samobytnost’ (più che autonomia, un proprio
modo di essere; il byt) e il populismo potrà così presentare una visione alternativa della nazione
russa, che scava un fossato incolmabile tra la nazione politica ufficiale e la nazione reale (le “due
Russie” di Herzen). Nella critica alla nazione dominante la intelligencija e la grande letteratura
russa sviluppano anche una importante riflessione tipologica e sul carattere nazionale (“nobili
pentiti”, “uomini superflui” e “uomini nuovi”, oblomovismo) e affrontano le “maledette questioni”
della società russa (“di chi è la colpa?”; “che fare?”, “quando verrà il vero giorno?”). Nella
formazione di due nazioni estranee l’una all’altra si scioglie anche l’ambiguità dell’aggettivo
narodnyj tra “nazionale” e “popolare (narodnye duchi e narodnye pesni); la nazione del popolo è
un’altra nazione.
Dopo la formazione di un movimento operaio in Russia e dopo la guerra russo-giapponese e la
rivoluzione del 1905, si svilupperanno due importanti progetti nazionali, con i quali - con tutta la
loro diversità e le più inquietanti caratteristiche russe del primo - anche nell’impero zarista il
nazionalismo comincia ad assumere la caratteristica di una risposta ai problemi di una società più
articolata e conflittuale: l’utopia di una monarchia sociale con il “socialismo poliziesco” del capo
della polizia di Mosca Sergej Zubatov, che popolarizzava l’immagine dello zar giusto e protettore di
un “ceto operaio” (rabočee soslovie) ancora legato alla Russia patriarcale e contadina, e l’idea della
sintesi imperial-nazionale del liberalismo russo e in particolare di Petr Struve, ovvero la
convinzione che l’espansione imperiale della grande Russia (velikaja Rossija) debba fondarsi su un
principio nazionale che esalti la tradizione e la vocazione slava e ortodossa (svjataja Rossija, un
fondamento nazionale russo e neo-slavo all’impero), ma sia anche in grado di superare la
separazione tra il popolo e lo Stato russo, di produrre la trasformazione del popolo (narod) in
nazione. Per Struve, autore di un famoso articolo Velikaja Rossija, la catastrofe contro il Giappone
significava la sconfitta della reakcionnaja Rossija e una nuova grande Russia presupponeva il
superamento sia del “rivoluzionarismo” della società che della separazione dal popolo da parte del
potere. Nell’ambito di questo e analoghi tentativi del liberalismo nazionale russo di dare una base di
consenso popolare a un “nazionalismo imperiale” (che Kappeler pone in alternativa al tradizionale
“patriottismo imperiale sovranazionale”, o anche “prenazionale” e “cetuale-dinastico) i termini di
calco occidentale di nacija, nacional’nyj, nacional’nost’, nacionalizm, si sovrappongono a quello
più tradizionale di narodnost’; dopo la rivoluzione e nella costruzione dell’Unione sovietica la
narodnost’ (nazionalità) verrà sempre più a indicare uno stadio preliminare della nacija (nazione,
cfr. A. Miller, Natsiia, Narod, Narodnost’ in Russia in the 19th Century, “Jahrbücher für
Geschichte Osteuropas”, 3, 2008, pp. 379-390). Se la rivoluzione del 1905, ma già le reazioni ad
alcuni grandi scioperi degli anni precedenti, avevano segnato l’eclisse del progetto di Zubatov,
definito dal ministro dell’interno Pleve un “nemico dell’ordine”, la prova della insostenibilità del
nazionalismo liberale imperiale nelle condizioni russe sarà data dalla guerra mondiale.
La questione della coscienza nazionale russa e di un nazionalismo russo, come ideologia di una
particolare comunità nazionale, sarà caratterizzata comunque, nell’ultima fase del sistema zarista,
da due processi in parte anche contrastanti. Da una parte si manifestano le potenzialità antiautocratiche di tutti i movimenti nazionali dell’impero, compreso quello russo, e, in parallelo
agli sviluppi europei, i processi di arricchimento e qualificazione dell’idea di nazione con una serie
di connotazioni che vanno dalle richieste di partecipazione civile e politica a quelle di
emancipazione sociale alla formazione di una grande letteratura in lingua russa la cui risonanza
mondiale è in gran parte legata al suo rapporto con la vita russa e al fatto di affrontare quelle
questioni alle quali l’autocrazia e il santo sinodo non sono in grado di rispondere: si è parlato di
“nazionalismo culturale” (Jeffrey Brooks, Russian Nationalism and Russian Literature: The
Canonization of the Classics, in I. Banac – J. G. Ackerman – R. Szporluk, Eds., Nation and
Ideology, New York, Columbia UP, 1981) per indicare la formazione di una sensibilità, di un
approccio, di una “anima russa”, che rompe il quadro di una cultura e di una gerarchia ufficiale e
che spesso si definisce “patriottica” piuttosto che nazionalistica (la distinzione tra patriottismo e
nazionalismo è ricorrente, come dimostra anche la Russia di Putin, quando si vogliono prendere le
distanze da alcune forme di nazionalismo). Dall’altra parte l’inasprirsi di una serie di conflitti tra le
diverse componenti dell’impero accentuati dalla stessa politica di russificazione che dovrebbe
contrastarli (la russificazione come una serie di misure amministrative e culturali, ma anche un
processo spontaneo di reazione allo sviluppo di altri movimenti nazionali sulla base della capacità
espansiva e assimilativa della lingua e della cultura russa; Geoffrey Hosking: la politica di
russificazione e l’idea di una nazione etnica nei regni di Alessandro III e di di Nicola II, dopo il
fallimento delle prospettive di una nazione civica aperte dalle riforme di Alessandro II; Andreas
Kappeler: il nazionalismo russo in gran parte come una risposta, La Russia: storia di un impero
multietnico) e nei rapporti con l’esterno (dalle resistenze dei popoli che si sentono soggiogati alle
insurrezioni polacche alla Crimea e alla guerra russo-giapponese) che spingono alla formazione di
uno specifico nazionalismo russo, o all’idea di una grande nazione slava nel caso del panslavismo,
con caratteri di reazione, di aggressione, di rifiuto della molteplicità e del pluralismo sociale,
di messianismo, di sindrome della congiura. Antisemitismo anche come effetto dello sviluppo del
nazionalismo russo secondo Kappeler; ma anche una tradizione di “antisemitismo letterario”
come descrizione di diffusi atteggiamenti popolari e come costruzione di un’immagine dell’ebreo
che rappresenta il culto del denaro e dell’occidente; perfino un antisemitismo “protettivo”,
manifestazione dell’amore delle autorità per il povero mužik russo vessato dagli ebrei, o un
antisemitismo da complesso di inferiorità e “proiettivo”, raccontato da Nikolaj Leskov (L’ebreo
in Russia, Oscar Mondadori, 1999), come la tendenza a scaricare sugli ebrei la colpa dei mali che
affliggono i russi, dalla miseria alla predisposizione all’ubriachezza. Dopo il 1881 l’impero russo è
lo Stato che vede i maggiori esempi moderni di azioni violente di massa contro gli ebrei, tollerate o
in alcuni casi ispirate dal potere politico (la parola pogrom diventerà una delle più
internazionalmente note della lingua russa); si apre quella che Jonathan Frankel (Gli ebrei russi,
Einaudi 1990) ha chiamato la “crisi russo-ebraica”, sulla quale esistono alcune importanti, e
diverse, opere di bilancio storico (Aleksander Solženicyn, Dvesti let vmeste 1795 – 1995, Moskva, 2
voll., 2001 e 2009; Yuri Slezkine, Il secolo ebraico, Vicenza, Neri Pozza, 2011); va ricordato anche
che la Russia è il paese la cui polizia politica produrrà il testo sacro dell’antisemitismo
internazionale, i famosi Protocolli dei savi di Sion pubblicati per la prima volta in una rivista russa
nel 1903.
Una versione modernizzante del nazionalismo in questa fase storica è quella di ideologia
sostitutiva per uno sviluppo economico in condizioni di arretratezza (A. Gerschenkron, Il problema
storico dell’arretratezza economica, Einaudi, 1965).
Un insieme di motivi e di esperienze che in modi diversi formeranno sia il patrimonio della destra
russa e di gruppi nazionalisti accentuatamente reazionari (impulsi che i due ultimi zar cercheranno
di cavalcare con le politiche di russificazione), sia delle correnti liberali e neo-slave a cui si è fatto
cenno e dello stesso progetto di modernizzazione di Stolypin. In tutte queste correnti è importante il
ruolo attribuito alla Chiesa ortodossa: contro le altre componenti religiose e nazionali all’interno
dell’impero o con una più forte accentuazione dell’elemento imperiale-esterno, in particolare per il
ruolo balcanico-mediterraneo e antiturco della Russia.
In quest’epoca complicata e confusa di compresenza, successione, contrasto, tra pulsioni
nazionali e pulsioni imperiali, la Russia è un concentrato di questioni che hanno attraversato
la storia dei movimenti nazionali e dei nazionalismi europei, un campionario in cui c’è solo da
scegliere:
- dalla elaborazione di concetti forti e identificanti come russkaja duša e russkaja ideja, che
si prestano a ogni sorta di suggestioni e variazioni semantiche ma che sicuramente indicano
un senso profondo della specificità nazionale, tale da investire appunto le prerogative più
alte della natura umana (l’anima e le idee) alla percezione del territorio (počva) come base di
sicurezza e di forza, che caratterizza anche il territorialismo staliniano e sovietico;
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dall’ossessione sul carattere nazionale (fino a Stalin e oltre) alle varianti dei nazionalismi
in base ai campi in cui si sviluppano (politico, culturale, sociale) e ai diversi ruoli che
svolgono nei destini della compagine imperiale;
dai topoi ricorrenti delle cospirazioni interne ed esterne contro un potere che non è
contestabile apertamente (i pretendenti e gli impostori, gli “intrighi polacchi”, le “congiure
ebraiche”, le ingerenze occidentali) al trionfo sulla minaccia e sull’invasione esterna grazie
alla unione di tutte le forze vive del paese;
dal nazionalismo del risentimento, dopo la guerra di Crimea e dopo l’insurrezione polacca
del 1863, di cui Dostoevskij è un illustre rappresentate, al nazionalismo di compensazione
che ispira la politica verso l’Asia centrale del secondo Ottocento (ancora Dostoevskij: “In
Europa siamo stati tatari, ma in Asia saremo anche noi europei”);
dalla ritardata “primavera dei popoli” del 1905 al rapporto variabile tra religione, lingua
e nazionalismo e all’alternativa tra nazionalismo religioso e linguistico (le discussioni sul
“metodo Il’minskij” di assimilazione delle popolazioni musulmane attraverso la conversione
religiosa facilitata dal rispetto e dalla promozione dell’autonomia linguistica, secondo una
formula che con linguaggio volutamente pre-sovietico Kappeler definisce “nazionale nella
forma, ortodossa nella sostanza”);
dallo sviluppo di nazionalismi senza nazioni (manifestazioni, senza bisogno di presupporre
l’esistenza di una nazione, di ideologie, di culture, di atteggiamenti dotati di forza coesiva,
di capacità sia di assimilazione che di esclusione, di una vocazione combinatoria che attinge
sia alla modernità che alla tradizione, di una predisposizione a contrapporsi a realtà esterne
anche quando assumono atteggiamenti imitativi; R. Brubaker: “Per comprendere la forza del
nazionalismo non abbiamo bisogno di ricorrere alle nazioni”, I nazionalismi nell’Europa
contemporanea, Editori Riuniti, 1998, p. 27) all’alternativa tra il carattere dinasticoterritoriale o nazionale dell’impero sulla base degli sviluppi del nazionalismo russo e alla
distinzione ma compresenza di progetto imperiale di potenza e progetto nazionale di
modernizzazione nella costruzione della ferrovia manciuriana (B. A. Elleman – S. Kotkin,
Eds., Manchurian Railways and the Opening of China, Armonk, Sharpe, 2009, individuano
in tal senso un “imperialismo della ferrovia” e un “nazionalismo della ferrovia”);
dal rapporto tra le due capitali come conflitto irrisolto tra vocazione nazionale e
multinazionale alle diverse valenze politiche (liberal-nazionali o reazionarie e autocratiche,
moderate o estremistiche, inclusive o esclusive) dei nazionalismi.
La guerra sempre, e la prima guerra mondiale in particolare, come un’occasione forte di
costruzione della nazione e come “nuova fase del nazionalismo” (Mosse). In Russia anche l’ultima
occasione di un rinnovamento o di una stabilizzazione del regime zarista attraverso il nazionalismo
e insieme la prova decisiva e catastrofica per i diversi tipi di nazionalismi sviluppatisi nel quadro
imperiale russo.
Quello che produce la prima guerra mondiale:
- incoraggiamento alla sintesi nazionale-imperiale del liberalismo russo (un altro importante
articolo di Struve degli anni della guerra, Velikaja Rossija i Svjataja Rus’: Rossija come
forza, sila, e Rus’ come russkaja pravda, la verità e la legge russa), o la possibilità di
giocare la carta nazionale per un rinnovamento interno;
- rovesciamento del complesso di inferiorità verso i tedeschi e denuncia del loro ruolo
reazionario nel sistema di governo russo, all’interno di un più generale processo di
costruzione e definizione di immagini dei popoli, dentro e fuori l’impero;
- mobilitazione delle risorse materiali e umane e loro direzione centralizzata;
- costruzione di immagini del nemico e per contrasto di rappresentazione della propria
nazione attraverso i veicoli della cultura popolare come il lubok, una illustrazione-manifesto
stampata su legno, stilizzata e facilmente comprensibile (Stephen Norris, A War of Images:
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Russian Popular Prints, Wartime Culture, and National Identity 1812 - 1945, De Kalb,
2006); invenzione di tradizioni e di un particolare strumentario immaginifico nazionale;
esaltazione dell’esercito come fattore di socializzazione e di nazionalizzazione (J. Sanborn,
Drafting the Russian Nation, De Kalb, Northern Illinois UP, 2003: “arruolare” e “disegnare”
la nazione);
l’importanza assunta dalle categorie nazionali nella lettura e mappatura della società e
dell’impero e nelle pratiche di controllo della popolazione (Peter Gatrell, A Whole Empire
Walking. Refugees in Russia during World War I, Bloomington, 1999);
la perdita di credibilità della corte zarista che precipita dopo la decisione di Nicola II di
assumere il comando supremo dell’esercito (l’influenza di Rasputin, le voci di pace separata,
il clima di Pietrogrado durante la guerra);
lo sviluppo di un “nazionalismo pratico” e di pratiche nazionaliste del tempo di guerra che
acquisteranno un carattere permanente negli anni della guerra civile; le misure del tempo di
guerra come strumenti per uno scopo interno di riorganizzazione del sistema politico e della
società (Peter Holquist, Making War, Forging Revolution: Russia’s Continuum of Crisis,
1914 – 1921, Cambridge Mass., 2002), che sarà teorizzata dal nuovo potere bolscevico in
termini di lotta di classe, ma recepito da molte personalità “pubbliche” indipendenti come
salvezza della nazione russa (e dell’impero) e costruzione di una nuova nazione.
Il potere dei bolscevichi si configurerà anche come risposta a una catastrofe nazionale (e la
guerra con la Polonia nel 1920 anche come il farsi carico di una lunga eredità storica) e le vicende
del nazionalismo russo danno una chiave di lettura per la costruzione delle nazioni nell’Urss e per
il nazional-comunismo. L’esperienza della catastrofe nazionale e il modo in cui era stata vissuta
nella società russa non potevano non segnare il nuovo potere e il suo confronto con la nazione
Le contaminazioni già rivelate dalla guerra tra il discorso della classe e quello della nazione,
concetti coesivi e non solo denotativi (anche per la comune possibilità di individuare un nemico per
mobilitarsi o semplicemente per spiegare quello che non funziona), non necessariamente
contraddittori, collocabili in diverse successioni storiche e interdipendenze, si sarebbero riprodotte
nella eredità e nella continuità con la guerra del nuovo potere bolscevico: come trasmissione di
strumenti e metodi per costruire la nazione (o lo “impero di nazioni”); come progressivo
accantonamento della tradizione cosmopolita del movimento rivoluzionario nella costruzione della
nazione e delle nazioni e come formazione di comunismi e comunisti nazionali (anche in molti altri
paesi entrati nella sfera d’influenza e di dominio dell’Urss dopo la seconda guerra mondiale la
questione sarebbe stata la risposta a una catastrofe nazionale); come riproposizione in nuove forme
di dilemmi di lunga durata, a cominciare da quello tra l’elemento russo e sovietico.