rassegna stampa n.4-2014
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rassegna stampa n.4-2014
G RUPPO FOTOGRAFICO ANTENORE, BFi RASSEGNA STAMPA Anno 7 o , n.4 - Aprile 2014 Sommario: All’Ara Pacis retrospettiva di Henry Cartier-Bresson…………………….…...…......pag. 2 I grandi maestri della fotografia raccontano l’italia in una doppia mostra…....….pag. 2 David Seimour.........................................................................................pag. 5 Giù le mani dall’angolatura........................................................................pag. 7 Fotografia, la storia di Pecorino, il cane più fotografato che ci sia..….……..…….…pag. 10 Elliott Erwitt..……………...................................................................…..…….…pag. 15 Nasce Camera, il primo centro italiano per la fotografia....................……..….….pag. 16 Fotografia invasiva...….................................................................……..….….pag. 20 Rischiare la vita o la verità?.........................................................……..…..….pag. 21 Berengo Gardin boccia i selfie: non sono la vera fotografia.................….…......pag. 24 Douglas Beasley.........................................................................…….…......pag. 26 La forza di uno scudo di carta...................................................……....…...….pag. 29 Paolo Gioli.................................................................................…….…...….pag. 31 Una Italia Migliore......................................................................…….…...….pag. 33 Gianni Berengo Gardin Storie di un fotografo..................................………..….pag. 39 Fotografia Europea dalla lezione di Ghirri alla moderna società dell’immagine...pag. 40 Letizia Battaglia – Gli invincibili.....................................................…….…..….pag. 49 Wim Wenders............................................................................…….…...….pag. 53 E non ho trovato l’invasor (spiacente ragazzi)..................................………..….pag. 56 Philippe Halsman oltre i cliché. In mostra a Losanna.........................………..….pag. 59 Acido Dorado. Mostra di Mona Kuhn a Londra...................................……….....pag. 61 Ugo Mulas. La fotografia................................................................……….....pag. 63 La lotta ai ritocchi di Photoshop - (ma davvero serve una legge?)................….pag. 65 Cicche nel portacenere di platino....................................................………..….pag. 67 Ghirri, List e i grandi fotografi tra passato e futuro............................………..….pag. 69 O capitale, o umano?.....................................................................………....pag. 73 Lytro Illum: è una nuova era per la fotografia?..................................………....pag. 76 1 All'Ara Pacis retrospettiva di Henri Cartier Bresson da http://www.asca.it/ Sara' esposta a Roma dal 26 settembre 2014 al 6 gennaio 2015, presso il Museo dell'Ara Pacis, la mostra retrospettiva Henri Cartier-Bresson a cura di Cle'ment Che'roux, ora in corso al Centre Pompidou di Parigi. La grande esposizione, promossa da Roma Capitale Assessorato alla Cultura, Creativita' e Promozione Artistica - Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali e prodotta da Contrasto e Ze'tema Progetto Cultura, viene presentata a dieci anni esatti dalla morte di Henri Cartier-Bresson. Cle'ment Che'roux e' storico della fotografia e curatore presso il Centre Pompidou, Muse'e national d'art moderne. La mostra propone una nuova lettura dell'immenso corpus di immagini che CartierBresson ci ha lasciato: copre l'intero percorso professionale del grande fotografo ed e' il frutto di un lungo lavoro di ricerca svolto dal curatore nel corso di molti anni di studio nell'archivio di Cartier-Bresson. Saranno esposte oltre 500 tra fotografie, disegni, dipinti, film e documenti, riunendo le piu' importanti icone ma anche le immagini meno conosciute del grande maestro. Le mostre retrospettive dedicate a Henri Cartier-Bresson, fin'ora hanno sempre cercato di dimostrare il senso di unita' del suo lavoro sottolineando la sua abilita' nel cogliere i ''momenti decisivi''. Questa esposizione vuole mostrare invece come ci sia stato non uno ma diversi Cartier-Bresson: il fotografo, vicino al movimento Surrealista intorno agli anni Trenta, il militante documentarista della Guerra civile spagnola e della Seconda guerra mondiale, il reporter degli anni Cinquanta e Sessanta e infine, cominciando negli anni Settanta, l'artista piu' intimista. com-ram I grandi maestri della fotografia raccontano l'Italia in una doppia mostra d a h t t p : / / w w w .lib r e r ia m o .it / Il Centro Italiano della Fotografia d’Autore di Bibbiena fino al 2 giugno ospita la doppia mostra intitolata ''Incursioni fotografiche nella nostra terra'' 2 Rendere omaggio ai numerosi stranieri che hanno posato lo sguardo sul nostro Bel Paese, interpretando le sue bellezze e le sue numerose contraddizioni, con questo obiettivo ilCentro Italiano della Fotografia d’Autore di Bibbiena ha realizzato la mostra ''Incursioni fotografiche nella Nostra terra'', in esposizione fino al 2 giugno, a cura di Enrica Viganò in collaborazione con ADMIRA+. LA MOSTRA - La mostra presenta cento immagini del fotografo americano Leonard Freed (IO AMO L’ITALIA) e una settantina di immagini di autori che hanno fatto la storia della fotografia mondiale dalla collezione Bertero (SGUARDI STRANIERI). Per il soggetto, ma soprattutto per la straordinarietà dei fotografi che lo interpretano e per l’unicità dell’esposizione che vanta il maggior numero di stampe vintage di autori Magnum mai esposte in Italia, questa diventa un’occasione unica per riappropriarsi, attraverso l’occhio fotografico degli stranieri, della nostra terra. E’ un percorso storico, sociale e fotografico di grandissimo spessore. IO AMO L’ITALIA - L’esposizione presenterà cento immagini scattate in diverse località della Penisola, dalla metà del Novecento agli inizi del nuovo secolo. Cento immagini, tra vintage e modern print, ricostruiscono una sorta di diario degli oltre quarantacinque soggiorni compiuti dal fotografo in Italia, terra con la quale intrattenne un rapporto che lui stesso definì “una storia d’amore”. 3 La selezione di scatti di Leonard Freed - dal 1972 membro della Magnum, la celebre agenzia fotografica - spazierà dagli esordi fino alla maturità, abbracciando le numerose tappe della sua prestigiosa carriera. Il percorso espositivo, attraverso immagini analogiche rigorosamente in bianco e nero, consentirà di cogliere il lato più dolce e commovente di Freed, capace di ritrarre la nostra società senza usare stereotipi, con scenari che descrivono uno spaccato umano nel quale sono evidenti le influenze maturate grazie agli incontri che il fotoreportage ha reso possibili. RICERCA E SCOPERTA - La ricerca di Leonard Freed, sensibile all’antropologia culturale e all’indagine etnografica, scaturisce dalla necessità di ritrovare il senso delle proprie origini attraverso lo studio di comunità tradizionali, pur percependo una profonda distanza con la cultura ebraica della sua famiglia. Lo stesso artista sostenne: “Sono come uno studente curioso, che vuole imparare. Per poter fotografare devi prima avere un’opinione, devi prendere una decisione. Poi quando stai fotografando, sei immerso nell’esperienza, diventi parte di ciò che stai fotografando. Devi immedesimarti nella psicologia di chi stai per fotografare, pensare ciò che lui pensa, essere sempre molto amichevole e neutrale.” E ancora: “Voglio una fotografia che si possa estrapolare dal contesto e appendere in parete per essere letta come un poema.” SGUARDI STRANIERI - La collezione è divenuta, negli ultimi dieci anni, una delle più preziose in Italia. Il torinese Guido Bertero ha saputo riconoscere e apprezzare i valori estetici, storici, culturali e sociali dell’arte fotografica. Ha colto la necessità di costruire qualcosa che non fosse mera accumulazione di pezzi pregiati, ma rappresentasse un discorso lucido e utile ad un’Italia ancora fotograficamente incolta. Alla collezione appartengono opere sia di artisti internazionali sia dei più noti fotografi italiani. In particolare ci sono opere di maestri che hanno documentato l’evoluzione storica e culturale del nostro paese, ma che hanno portato anche sperimentazioni del linguaggio e ricerca di nuove espressioni, affiancando passato e presente. Al Centro Italiano della fotografia d’Autore pervengono per questa mostra immagini straordinarie di autori stranieri, realizzate in Italia. Sono stampe vintage di Bruno BARBEY, Robert CAPA, Henri CARTIER-BRESSON, Dimitri KESSEL, William KLEIN, Herbert LIST, Thomas D. McAVOY, Carl MYDANS, Walter SANDERS, Gotthard SCHUH, David SEYMOUR. Circa 70 immagini che costituiscono un momento unico sia nella storia nazionale sia per la fotografia internazionale. Tags: Incursioni fotografiche nella nostra terra, Centro Italiano della Fotografia d’Autore,Bibbiena, ADMIRA+ 4 David Seymour Comunicato Stampa da http://undo.net/it Davide Seymour: Un bambino di una famiglia numerosa con una bambola fatta in casa–Vienna 1948 “Voglio essere nel cuore dell’azione” Le immagini e la storia di uno dei fondatori dell’Agenzia Magnum Dal 3 aprile al 14 settembre 2014 Palazzo Reale di Torino ospita una nuova retrospettiva organizzata dalla Silvana Editoriale in collaborazione con Magnum Photos e la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Piemonte, dedicata a uno dei più 5 leggendari fotoreporter del XX secolo: David Seymour (1911-1956) co-fondatore nel 1947 dell’agenzia Magnum Photos insieme a Henri Cartier-Bresson e Robert Capa. Il percorso espositivo si compone di 127 fotografie in bianco e nero, suddivise in 9 sezioni (Francia, La Guerra Civile in Spagna, Germania, L'Europa dopo la Seconda guerra mondiale, I bambini della guerra, Israele, Egitto, Celebrità, Ritratti di Chim), che illustrano le tappe fondamentali dell'intensa carriera di Seymour. David Seymour, nome d'arte di David Szymin – in seguito abbreviato nello pseudonimo Chim –, è nato a Varsavia il 20 novembre 1911 da una famiglia benestante di ebrei polacchi. Dopo gli studi in arti grafiche a Lipsia, ha iniziato la carriera fotografica a Parigi nel 1933, dove è diventato amico di Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, con cui ha fondato nel 1947 l’agenzia Magnum Photos, alla quale si aggiunsero successivamente George Rodger e William Vandivert. Intellettuale umanista, appassionato di politica, conoscitore di sei lingue, David Seymour è uno dei primi fotoreporter di guerra: ama considerarsi un artigiano della fotografia, non un artista; utilizza una macchina fotografica all’avanguardia, una Leica 35mm, per riuscire a rendersi anonimo nel momento dello scatto e poter così immortalare persone e fatti nella maniera più autentica possibile, spingendosi fin nel cuore dell’azione. Segue i più significativi eventi politici dell’epoca per importanti riviste, tra cui “Life” e “Regards”, a cominciare dalla Guerra Civile in Spagna, durante la quale scatta la celebre foto della madre che allatta il suo bambino nel corso di una manifestazione contadina, diventata inconsapevolmente un simbolo e un’icona di quella rivolta. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, ripara a New York, ma riesce a tornare in Europa nel 1943 arruolandosi nella US Air Force, con il delicato compito di fotointerprete delle immagini aeree. Documenta il suo tempo senza riserve, nutrito da una forte coscienza sociale che lo porta a non sottrarsi mai, nemmeno di fronte alla difficoltà di raccontare l’infanzia rubata degli orfani di guerra: in questi scatti riversa tutta la sua sensibilità ed empatia. La sua serie più celebre è infatti I bambini della guerra, realizzata per l’Unicef negli anni del dopoguerra. Si tratta di immagini toccanti, che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica sull’incredibile numero di bambini orfani, mutilati fisicamente e spiritualmente. David Seymour è stato ucciso a Suez nel 1956, mentre stava preparando un servizio per "Newsweek” sul conflitto arabo-israeliano. La mostra è accompagnata da un volume edito Silvana Editoriale che comprende una selezione di fotografie e a un contributo critico di Francesco Zanot. Palazzo Reale, piazzetta Reale 1 - Torino da martedì a domenica ore 8.30-19.30; ultimo ingresso alle ore 18.00 Chiuso il lunedì - Ingresso: intero 8 euro, ridotto 5 euro. 6 Giù le mani dall’angolatura di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Sopra, la fotografia di Michael Kenna Sotto, quella utilizzata dalla Korean Air (dal Korea Herald) Fotografare è creare? Direi di sì, è creare un’immagine che prima non esisteva. Ma chi crea un’immagine, cosa possiede davvero? L’immagine materiale, la sua forma, la sua idea, o addirittura l’oggetto fotografato? O una particolare mistura delle quattro cose? Michael Kenna comunque ha perso. Almeno il primo round. Sosteneva di aver creato e quindi di possedere, in via esclusiva, non solo l’immagine materiale, ma anche la forma ideale di quell’isoletta pittoresca di pini che si specchiano sulle acque, in un angolo suggestivo della provincia di Guangwon, in Corea del Sud. Dell’isola di Solseom, minacciata dalla costruzione di un impianto industriale, e poi salvata, pare, proprio dall’impatto della bellezza delle sue foto, Kenna,fotografo dallo stile intenso ed emotivo, aveva tratto nel 2007 una serie di studi, che avrebbero dovuto essere esposti in una mostra coreana, mostra che però non si fece mai. 7 La galleria che gestisce i diritti di Kenna sostiene che Korean Air (promotrice proprio di quella mostra mai realizzata) doveva avere in mente le immagini del suo cliente quando quattro anni dopo, alla conclusione di un concorso tra fotoamatori, premiò una fotografia molto, molto simile e la utilizzò per le sue campagne promozionali. Così, la galleria ha chiamato in giudizio la compagnia aerea per plagio, o qualcosa del genere. Non so molto del codice civile coreano, in ogni caso Kenna ha rivendicato la violazione dei suoi diritti di primogenitura su qualcosa di quell’immagine. Che cosa? La compagnia ovviamente ha rigettato l’accusa, sostenendo che l’isola è lì per chiunque la voglia fotografare, e ha fatto anche notare – cosa abbastanza evidente – che la foto di Kenna è in bianco e nero mentre quella contestata è a colori, che in cielo ci sono nuvole disposte diversamente, eccetera. Insomma, che non c’è copia né plagio, semplicemente è lo stesso luogo geografico fotografato da due fotografi diversi. I legali di Kenna hanno ribattuto che il punto di vista è identico, così come la scelta del controluce, il riflesso ottenuto grazie una lunga esposizione, insomma ha sostenuto più o meno: è vero, si tratta di due fotografie tecnicamente diverse, ma l’idea crerativa è la stessa, si basa sulle stesse scelte tecnico-estetiche che la rendono unica e particolare, e che appartengonoal primo che ha dato loro corpo in una immagine. Dunque, pagate. Circa 300 milioni di Won , più o meno 200 mila euro. Comunque, Kenna ha perso. Stando al Korea Times, la corte gli ha ricordato che un autore può proteggere un oggetto artistico e non un’idea. E che l’isoletta è lì per tutti. Ricerca su Google Images Durante il processo sono state esibite, dopo una ricerca in Rete, parecchie altrefotografie dell’isoletta con i pini in controluce, prese dallo 8 stesso punto di vista. Del resto, “non ci sono molti punto da cui fotografare quell’isola”, hanno deposto testimoni fotoamatori. Ci sarà processo d’appello, quindi vedremo come andrà a finire. Di casi come questo però è fitta la cronaca giudiziaria in materia di diritto all’immagine, e in genere la giurisprudenza è sfavorevole ai fotografi “primi arrivati”: sulla base del principio per cui il diritto d’autore copre la concretizzazione materiale di un’idea, ma non l’idea in sé. Qui vorrei però sottolineare il particolare punto di attacco di Kenna. Fotografo che mi piace, proprio per la sua capacità di tingere in modo fortemente emotivo i suoi paesaggi, qualcuno ricorderà la sua importante serie su Auschwitz. Bene, i legali di Kenna non hanno puntato sulla violazione del copyright di una specifica immagine, ma sulla violazione della titolarità artistica e creativa sulla visione unica e speciale di quel particolare luogo della terra. State a sentire come la mettono, nelle loro stesse parole: “Un paesaggio non è sempre uguale a quel che appare. Un paesaggio diventa qualcosa di speciale quando viene visto sotto una certa angolatura scelta da un artista”. Il paesaaggio diventa. La fotografia trasforma il paesaggio, e lo rende un oggetto d’autore. Non la fotografia: proprio il paesaggio, capite? L’isoletta è lì per tutti, sembra di capire, ma chi primo arriva e la vede “sotto una certa angolatura”, secondo questa tesi, si accaparra e si porta via come esclusiva quell’angolatura. E nessuno può più riutilizzare quell’angolatura, neanche cambiando i colori, le nuvole in cielo, la pellicola, eccetera. Kenna non è il primo ad avere questa idea. Nella seconda metà dell’Ottocento, Platt D. Babbitt tentò di imporre la propria esclusiva commerciale su una certa prospettiva delle cascate del Niagara, impedendo fisicamente ai concorrenti di utilizzare il suo stesso punto di vista. Mi chiedo a chi avrebbero dovuto pagare i diritti migliaia di fotografi di cartoline e di turisti per la veduta del Vesuvio col pino di Posillipo. Kenna insomma sostiene di essere non solo il titolare dei diritti d’autore sulle sue fotografie dell’isoletta. Ma anche il propietario privato ed esclusivo dell’angolo visuale sotto cui fotografarla, un punto di vista rintracciabile sulla geografia dei luoghi, che però sarebbero stati in qualche modo plasmati dal suo sguardo, un po’ come se avesse costruita quell’isola come una natura morta da fotografare sul tavolo dello studio. Ma se ha ragione, come farà il fotografo in buona fede a sapere che il punto dello spazio in cui mette i piedi per scattare è già stato “appropriato” da un altro fotografo? Bisognerà forse adottare un sistema di segnaletica, che so, 9 piantare dei cartelli nei luoghi dove sono passati i grandi fotografi, cartelli che potrebbero essere così formulati: “La ripresa del panorama che avete sotto gli occhi, da questa angolatura e con i seguenti accorgimenti tecnici, è proprietà intellettuale privata ed esclusiva del signor XY e non può essere replicata con i vostri strumenti. Per l’acquisto dei diritti, rivolgersi alla galleria YX, grazie. Ogni abuso sarà denunciato”. Personalmente, sto con Yi Sang-il, direttore del Goeun Museum of Photography di Busan, che ha commentato maliconicamente: “Come fotografo professionista, non replicherei la stessa inquadratura già scelta da un altro. Credo che questa vicenda evidenzi qualche problema nella creatività dei fotografi coreani”. [Le fotografie oggetto di questo articolo, nel rispetto del diritto d'autore, vengono riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.] Tag: Copyright, Corea del Sud, fotografia di paesaggio, Korean Air, Niagara, Platt D. Babbitt, Seong, Michael kenna, Scritto in Copyright, creatività, dispute, Geografie, paesaggio | 44 Commenti » Fotografia, la storia di Pecorino, il cane più fotografico che ci sia di Leonello Bertolucci da http://www.ilfattoquotidiano.it/ foto © Toni Anzenberger Anche in fotografia, come in generale nella vita, la semplicità è il massimo punto d’arrivo della complessità. Un cane questo forse non lo sa, ma lo sente, lo fiuta. Cosa avrà dunque “fiutato” il cucciolo Pecorino quando ha visto per la prima volta Toni, affermato fotografo austriaco? 10 foto © Toni Anzenberger Ricapitoliamo: Toni Anzenberger è un fotografo di Vienna, gira il mondo e realizza servizi per molte riviste internazionali, soprattutto geografiche e di viaggi. Nel 1998 si trova in Italia, nel Polesine, quando gli viene chiesto caldamente di adottare il più piccolo e gracile della cucciolata di mamma Lady, per il quale non si riesce a trovare un padrone. Detto fatto, il traballante Pecorino – così è stato “battezzato” – ha trovato un papà, ma un papà fotografo. Che questo non è un dettaglio da poco, Pecorino avrà tutto il tempo per capirlo. E anche noi. Raggiunti i sei mesi d’età, Pecorino accompagna casualmente Toni durante un viaggio fotografico ancora in Italia, Toscana. E ancora più casualmente s’intrufola nell’inquadratura di uno scatto. È il cortocircuito che ti cambia la vita. Toni ha una folgorazione: Pecorino, in quella foto, non è un elemento di disturbo o un intruso, ma viceversa aggiunge vita, originalità e interesse alla foto e anche al luogo in essa rappresentato. 11 foto © Toni Anzenberger Bene, inutile farla lunga: da quel giorno Pecorino ha accompagnato, docile modello, Toni in tutti i suoi viaggi di fotografo, e in tutti i quattro angoli del pianeta ha posato per la modica cifra di… una carezza. Racconta Toni Anzenberger che Pecorino, senza alcuna indicazione, stava fermo in posa fino a quando non si rendeva conto che gli scatti erano finiti. Altro che bizze e capricci alla Naomi Campbell: col caldo e col freddo, passando senza un plissé da un vulcano attivo a un ghiacciaio, utilizzando qualsiasi mezzo di trasporto, il modello a quattro zampe diventava ogni giorno più “professionale”. E ogni giorno il già molto professionale Toni diventava sempre di più il fotografo esclusivo di Pecorino. foto © Toni Anzenberger Nata come grande gioco e atto d’amore, con la forza che solo i grandi giochi e gli atti d’amore possono avere, un po’ alla volta la strana coppia fotografica viene notata e… pubblicata. 12 Insomma, nel giro qualche anno sono usciti una quantità di libri che hanno Pecorino viaggiatore come unico protagonista; su di lui hanno pubblicato servizi decine di riviste in tutto il mondo (Amica, Bild Zeitung, El Pais, VSD, The Independent, Geo, National Geographic, solo per citarne alcune), altrettante TV hanno trasmesso la sua storia, per non parlare di mostre, calendari, premi. Un enorme successo trascinato dalla simpatia e dall’originalità. foto © Toni Anzenberger Ma poi c’è l’aspetto specificamente fotografico, visto che di questo ci occupiamo nel blog. E credo che l’operazione sia sapiente anche vista così. Toni Anzenberger è un fotografo “di razza” (contrariamente a Pecorino, senza nulla togliergli…) e si vede. Ma fosse solo per una composizione efficace, per la forza attrattiva di un’anomalia che scodinzola e per il luogo sempre interessante, avremmo al massimo un’ottima foto. Ma un’ottima foto, ancorché ottima, è “solo” un’ottima foto. Così come due ottime foto sono due ottime foto. 13 È quando diventano – per dire – cinquanta, che le ottime foto possono decollare (e dico possono, che mica è automatico) verso un ottimo racconto, ben altra cosa. La forza del lavoro di Toni e Pecorino sta nella costanza e sulla distanza. Messe in fila, queste foto sono la storia personale di un uomo e del suo fedele amico,eroi di un’avventura moderna. La faccenda prende una connotazione quasi epica, e in questo nostro immaginario, probabilmente, va a far breccia l’inesausto viaggio che dietro colori e armonie sottintende anche fatiche, chilometri, disagi, imprevisti. foto © Toni Anzenberger Ci appare come una storia d’altri tempi calata nella contemporaneità, che della contemporaneità utilizza i canali e le risorse (non manca nemmeno la fanpage dedicata a Pecorino su Facebook). Pecorino, il cane più fotografico che ci sia, dopo un’onorata carriera da modello e tante carezze, nel 2012 ha lasciato questo mondo non prima, però, di averlo girato in lungo e in largo. 14 Elliott Erwitt Rassegna stampa da http://undo.net/it Per iniziativa dell’Assessorato alla Cultura del Comune di San Gimignano, dal 6 aprile al 31 agosto 2014, sarà aperta al pubblico, presso la Galleria di Arte Moderna e Contemporanea “Raffaele De Grada”, la mostra Elliot Erwitt, un progetto di Civita e SudEst57, curato da Biba Giacchetti e organizzato da Opera Laboratori Fiorentini. La mostra ripercorre la carriera e i temi principali della poetica del grande fotografo e artista americano Elliott Erwitt (1928), attraverso 42 scatti da lui stesso selezionati come i più rappresentativi della sua produzione artistica. Sarà esposta inoltre una serie di 9 autoritratti, esclusivi di questa mostra, che costituiscono un “evento nell’evento”. Tra gli autoritratti esposti anche quelli a colori in cui l’artista veste i panni di André S. Solidor, alter ego inventato per ironizzare sul mondo dell’arte contemporanea e sui suoi stereotipi. Andrè S. Solidor (si noti 15 l'acronimo irriverente) ed Elliott Erwitt saranno anche protagonisti del film "I Bark At Dogs" che sarà proiettato in mostra. Grande autore Magnum, reclutato nel 1953 all’interno della celebre agenzia direttamente da Robert Capa, Elliott Erwitt ha firmato immagini diventate icone del Novecento. Tra queste, in mostra a San Gimignano alcune delle più celebri: il bacio dei due innamorati nello specchietto retrovisore di un’automobile, una splendida Grace Kelly al ballo del suo fidanzamento, un’affranta Jacqueline Kennedy al funerale del marito, i ritratti di Che Guevara e Marilyn Monroe, alcune foto appartenenti alla serie di incontri tra i cani e i loro padroni, iniziata nel 1946. E ancora, gli scatti che Erwitt, reporter sempre in viaggio, ha raccolto per il mondo, a contatto con i grandi del Novecento ma anche con la gente comune. E i paesaggi, le metropoli. Gli scatti di denuncia, in cui al suo sguardo di grande narratore, si mescola sempre ironia e leggerezza, e la sua capacità di trovare i lati surreali e buffi anche nelle situazioni più drammatiche. La mostra sarà corredata da una esclusiva pubblicazione curata da Erwitt stesso in collaborazione con Sudest57 e disegnata da Anders Weinar. Una collezione di stampe rilegate ed amovibili, ciascuna con testi inediti di backstage, scritti da Biba Giacchetti che collabora con Erwitt da circa 20 anni. Ufficio Stampa: Barbara Izzo - Arianna Diana Tel. 06 692050220-258 email: [email protected] Salvatore La Spina Tel. 055 290383-331 5354957 email: [email protected] Galleria di Arte Moderna e Contemporanea Raffaele De Grada - via Folgore da San Gimignano, 11 San Gimignano (SI) - Orario: Tutti i giorni 9:30 – 19:00 Biglietto: € 7,50 Intero; € 6,50 ridotto: minori dai 6 ai 17 anni, gruppi di almeno 20 persone (fino a due accompagnatori con ingresso gratuito), gruppi di alunni di scuole pubbliche in visita didattica (fino a due accompagnatori con ingresso gratuito) ,ultrasessantacinquenni. Ingresso gratuito: minori di 6 anni, residenti a San Gimignano, soggetti diversamente abili che necessitino di accompagnamento e relativi accompagnatori, guide turistiche, titolari tessere I.C.O.M. Agevolazione Gruppi: Sconto del 50% sul check in autobus per i gruppi che avranno prenotato il biglietto d'ingresso alla mostra ed ai Musei Civici di San Gimignano Tel: 0577.286300 E-mail: [email protected] Nasce Camera, il primo centro italiano per la fotografia da http://www.libreriamo.it/ 16 Sostenuto da un comitato rappresentativo delle più importanti realtà museali e di ricerca fotografica del mondo, sorgerà a Torino nella primavera 2015 un centro interamente dedicato alla fotografia MILANO - Creare in Italia un centro dedicato alla fotografia capace di valorizzare, preservare e promuovere la fotografia italiana a livello nazionale ed internazionale. Con questo obiettivo nasce a Torino, sostenuto da un comitato consultivo internazionale rappresentativo delle più importanti realtà museali e di ricerca fotografica del mondo, Camera, Centro Italiano per la Fotografia. L’iniziativa, patrocinata e sostenuta dalla Città di Torino, dota il nostro Paese di una struttura volta alla valorizzazione e alla promozione su scala nazionale e internazionale della fotografia italiana. Accompagneranno le attività espositive, didattiche, conservative e di ricerca Magnum Photos, che per vocazione da sempre promuove attività culturali volte a valorizzare la fotografia in ogni sua forma e Leica Camera Italia, lo storico produttore tedesco di fotocamere e obiettivi che festeggia nel 2014 i suoi cento anni. LUOGO DI INCONTRO - Pensato, voluto e organizzato dal direttore di Magnum Photos Lorenza Bravetta, lo spazio di via delle Rosine sarà aperto al pubblico, agli studiosi e agli estimatori a partire dalla primavera 2015. Il progetto nasce dal desiderio di dotare l’Italia di un Centro dedicato alla fotografia, in grado di interagire con i principali musei del mondo che di fotografia si occupano e di valorizzare e promuovere la fotografia italiana in un dialogo permanente e creativo con la fotografia internazionale.Un luogo di incontro per i cittadini, con un’offerta culturale diversificata per tutte le categorie di pubblico, di attrazione per appassionati e semplici amatori, di studio e di formazione. Camera sarà una “piattaforma” per esposizione, produzione, archiviazione, formazione, incontro e dibattito intorno alla fotografia. Al centro delle attività, la produzione fotografica italiana del XX e XXI secolo, la storia sociale e culturale delle immagini, le condizioni di produzione e le modalità di diffusione e ricezione delle stesse. I TRE FILONI - Lorenza Bravetta ci guida attraverso le iniziative principali di Camera. “Le attività saranno legate a tre filoni: il primo è rappresentato dal Centro Espositivo, di confronto e di dibattito sui molteplici ruoli dell’immagine nella vita come nell’arte. Nello specifico, ospiteremo 3 mostre istituzionali ogni anno di fotografia italiana e straniera, e diverse mostre legate a dei progetti sperimentali e di ricerca, aperti alla giovane generazione di 17 fotografi italiani; il secondo riguarda un filone Didattico dove, attraverso workshop e masterclass a cura di grandi fotografi, chiunque lo desideri potrà avvicinarsi o migliorare la pratica fotografica e dove saranno sviluppate una serie di attività pedagogiche, in collaborazione con prestigiose istituzioni nazionali e internazionali prevalentemente orientate ai giovani e agli studenti, e di iniziative e laboratori per formare “cittadini/osservatori”, con l’obiettivo di fornire gli strumenti per la lettura e la comprensione di un’immagine attraverso l’esercizio dello “sguardo”; il terzo filone è quello Conservativo, dove possano confluire, mediante acquisizioni, donazioni o comodati, importanti collezioni pubbliche e private, con l’obiettivo di costituire un patrimonio di riferimento, valorizzarlo, catalogarlo, archiviarlo, studiarlo, esporlo e salvaguardarlo”. DARE PRESTIGIO ALL’ARTE DELLA FOTOGRAFIA - Un Centro dedicato alla fotografia di cui si sentiva il bisogno. Sempre Lorenza Bravetta ci spiega come mai in Italia la fotografia non sia abbastanza valorizzata e conosciuta a carattere nazionale. “Ciò è dovuto alla nostra storia. L’Italia ha dato i natali a Michelangelo e Leonardo, è la culla del Rinascimento, è ricca di beni artistici. Probabilmente, la fotografia non è stata mai considerata in paese così ricco di patrimonio artistico e culturale alla stregua di altre espressioni artistiche, come invece è avvenuto in altri paesi come Francia, Inghilterra, Germania. Da un lato, credo ci sia una ragione storica legata al patrimonio artistico italiano, dall’altra credo che in Italia non ci sia mai stata una struttura capace di mettere a sistema le competenze. L’Italia ha un patrimonio fotografico importantissimo, ha grandi fotografi come Alex Majoli, Paolo Pellegrin, Davide Monteleone, Fabio Bucciarelli, che poi individualmente si affermano all’esterno vincendo premi e facendo parte di grandi realtà ed agenzie internazionali. Quello che non si riesce a fare è presentare la fotografia italiana in modo strutturale ed organico. Di solito ciò spetterebbe allo Stato, come avviene in Francia, ma in Italia ciò non avviene. Ecco perché forse attraverso la creazione di Camera si potrà colmare questa lacuna”. 18 19 Tags: Camera – Centro Italiano Bravetta, Magnum Photos, Leica per la Fotografia, Lorenza © RIPRODUZIONE RISERVATA Fotografia Invasiva di Mauro Villone da http:/www.lastampa.it Varanasi - mvillone Non si tratta di un nuovo genere di fotografia, o forse sì, ma purtroppo non ha niente a che vedere né con l’arte, né con la passione e nemmeno con la professionalità. Sempre più spesso, da anni ormai, mi capita di osservare fotografi, indifferentemente amatori o professionisti, che colonizzano fotograficamente un ambiente, interessati solo a carpire un’immagine. È senza dubbio fisiologico, ci mancherebbe, ma dovrebbe anche esistere un’etica della fotografia che impedisse il verificarsi di situazioni al limite del grottesco. Che frotte di turisti fotografino a migliaia gli stessi soggetti tutti i giorni, facendo tutti la stessa fotografia uguale, è uno spettacolo a cui siamo ormai abituati da decenni nelle meravigliose città italiane e di tutto il mondo. Ma con l’intensificarsi dell’attività fotografica tale fenomeno è diventato selvaggio, inarrestabile, senza regole e oltremodo invasivo. Lo si può osservare soprattutto in occasione di eventi speciali. Sette anni fa fui a Varanasi, in India, per qualche settimana. Era semideserta. Tornandoci lo scorso anno l’ho trovata letteralmente invasa dai turisti, che scorrevano come un fiume tra le tende dei sadhu e dei guru, i quali avrebbero dovuto essere tranquillamente in meditazione e invece si ritrovarono a dover gestire giganteschi obbiettivi puntati addosso da decine e decine di persone. Proprio l’atmosfera sacra e mistica di Varanasi, la più antica città del mondo ancora abitata, rendeva la situazione oltremodo triste e penosa. Persone abituate a vivere sulla riva del Gange, Gangamata, Madre Gange, come la chiamano loro, in meditazione costrette ad aver a che fare con persone presenti sul piano fisico, ma totalmente assenti su quello etico e umano. Più volte, come nella 20 foto pubblicata qui, ho visto i poveri monaci invitati, magari anche a pagamento, a posare come modelle per alcuni fotografetti di quarta categoria. I “professionisti” invece, con tripodi e monopedi puntati per decine di minuti a mucchi verso l’interno delle tende dove qualcuno stava facendo tranquillamente gli affari suoi. Ora io mi chiedo: hanno un valore, per belle che siano, queste fotografie? Rischiare la vita o la verità? di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Michele Smargiassi, Uscita di sicurezza, Modena 2014, licenza Creative Commons Rischiare la vita? Rischiare la verità? Rischiare entrambe? Non ci sono alternative? Quel che sta accadendo al fotogiornalismo nelle zone ad alto rischio è qualcosa di vecchio e di doloroso, ma anche di nuovo e di inquietante. Piangiamo un altro nostro occhio che si chiude: l’uccisione a Kabul di Anja Niedringhaus, fotografa della Ap, premio Pulitzer. Esperienza, prudenza, professionalità non sono un riparo sufficiente quando il mestiere e lo strumento che ti sei scelta ti obbliga a “essere abbastanza vicino” alle cose, al fuoco, al 21 pericolo, quando come straniero e come giornalista sei un bersaglio facile ed eclatante. E questa è la cosa vecchia e dolorosa. Quella nuova e preoccupante è che l’alternativa che molte agenzie di stampa sembrano preferire con sempre maggior frequenza, ovvero l’acquisto di immagini fornite da “contributori locali”, non diminuisce affatto il rischio per la vita dei fotografi; in compenso ci aggiunge un certo rischio per l’affidabilità dell’informazione. Sì, anche gli stringer locali (ingaggiati con contratti precari, scarsamente addestrati, raramente assicurati) muoiono fotografando i conflitti. Spesso sono giovanissimi, come Molhem Barakat, che lavorava per Reuters, ucciso non ancora diciottenne lo scorso dicembre ad Aleppo. Ma lo strazio della morte di un ragazzino fotografo ha sollevato il velo su qualcosa di molto inquietante. Molhem era fratello e figlio di ribelli siriani. Aveva un buon occhio, le sue fotografie erano decisamente buone, ma potevano esserlo anche perché, grazie ai suoi legami familiari, aveva accesso a ambienti ed eventi che difficilmente un reporter occidentale può raggiungere. E qui bisogna farci delle domande che non si fermino all’orrore e alla commozione. Abbiamo giustamente diffidato della pratica del fotogiornalismo embedded, la trovata con cui l’esercito più potente del mondo, dopo essersi accorto durante la prima Guerra del Golfo che la censura assoluta delle foto dal fronte non funzionava, ha pensato bene di combattere la guerra delle immagini producendo proprie immagini gestibili e addomesticabili. Ma la politica delle agenzie fotografiche sui teatri di guerra e di alto rischio non sta forse producendo un nuovo genere di embeddment? La pratica (consapevole e ammessa in certe situazioni) di reclutare fotografi locali, anche se sono attivisti politici e magari combattenti, oltre a una necessità (“Impossibile trovare una persona neutrale in Siria”) non doveva forse far parte anche di una strategia di “riduzione del rischio” per i reporter inviati, più esposti nelle situazioni estreme, dove sono meno protetti dall’ambiente? Non è stato così. In compenso, sta aumentando il rischio per la qualità dell’informazione. Hanno cominciato qualche settimana fa James Estrin e Karam Shoumali di Lens, l’ottimo blog fotografico del New York Times, a mettere il dito nella piaga, facendodomande giuste e senza diplomazia: quali immagini, quali informazioni, quale racconto, quale ideologia di una guerra abbiamo se chiediamo immagini a chi quella guerra la combatte, o fa comunque parte di uno degli schieramenti in campo? Come può questo potere che si attribuisce loro non alimentare la tentazione di costruire immagini “utili alla causa”? Quale è il confine tra informazione e propaganda? Come si può controllare che quel confine non venga varcato? 22 Purtroppo, in mancanza di risposte certe, domande come queste si stanno accumulando. In un articolo severissimo, il British Journal of Photography chiama apertamente e vigorosamente in causa Reuters (che non gli risponde, limitandosi a una conferma ufficiale sulla correttezza e la veridicità dei propri fotoservizi) per alcuni casi di fotografie provenienti da freelancer locali che hanno lasciato perplessi diversi osservatori, inducendo anche la National Press Photographers Association a rilanciare gli interrogativi del Nyt. Screenshot dal sito Reuters Il piccolo Issa che ripara un’arma da guerra: è una storia drammatica, o inventata, o solo un po’ “dopata”? Giornalisti mandati a verificare non hanno trovato traccia del bambino. E la strana insistenza con cui la stessachitarra compare fra le mani di diversi ribelli che sembrano suonarla festosamente (anche se ha solo due corde), e poi fra quelle del fotografo stesso, Hamid Khatib, è davvero il riposo musicale del guerrireo, oppure solo un prop, un accessorio di scena fornito dal fotografo per fabbricare belle storie di euforia combattente? E soprattutto, si chiede la Nppa, chi decifra per i lettori il contesto di senso di quelle immagini? Chi scrive le didascalie che “raccontano” le foto fornite dai “corrispondenti locali”? Loro stessi o lo staff dell’agenzia? Quelle didascalie vengono sottoposte a una riscrittura editoriale? E in che misura questa può forzare il significato di una foto fornita dallo stringer locale? Reuters, come altre agenzie, com’è inevitabile per tutti i media, ha affrontato altri incidenti fotografici in passato: è rimasto alle cronache il licenziamento di Adnan Hajj che aveva “rinforzato” a colpi piuttosto maldestri di timbro-clone Photoshop il fumo degli incendi sul cielo di Beirut. Si parlò allora di “Reutersgate”. Le manipolazioni del testo di una foto sono un classico del rischio d’agenzia, non solo con i freelance e gli stringer (dal collage di profughi che costò il posto 23 a Brian Walski delLos Angeles Times alla videocamera cancellata da Narciso Contreras di Ap da una scena di guerriglia, anche qui è stato rotto il contratto). Ma le manipolazioni dei contesti in cui certe immagini vengono prese sono ben più difficili da individuare e verificare. Il fatto che le agenzie spesso non rendano noto il nome del fotografo, per la giusta preoccupazione di tutelarlo da ritorsioni, non aiuta comunque la trasparenza. E questo è un dilemma drammatico. Le agenzie hanno bisogno di immagini da diffondere. Ogni giorno il mondo mediatico ne reclama di nuove. I fotoreporter inviati costano, rischiano molto, possono garantire alta qualità e affidabilità ma non continuità e accesso ai luoghi più caldi. I freelance attivisti invece costano poco, hanno accesso ai luoghi caldi, garantiscono un fusso costante di immagini, possono anche essere bravi, ma i messaggi delle loro fotografie vengono inevitabilmente sospettati. Il dramma è che gli uni e gli altri muoiono. Tag: Adnan Hajj, agenzie, Anja Niedringhaus, Brian Walski, embedded British Journal of Photography, ,fotogiornalismo, Hamid Khatib, James Estrin, Karam Shoumali, Lens blog, Molhem Barakat, Narciso Contreras, Nppa, Reuters, Siria, The New York Times Scritto in fotogiornalismo, manipolazioni, Testo e immagine | 8 Commenti » Berengo Gardin boccia i selfie: non sono la vera fotografia di Cristina Marconi da http://www.ilmessaggero.it/ LONDRA - Se c’è una cosa che non riesce proprio a capire, Gianni Berengo Gardin, è perché la gente passi il proprio tempo ad «autofotografarsi» o a fare scatti a «cose che non interessano nessuno». Il grande fotografo italiano, il cui lavoro verrà celebrato dall’11 aprile al 23 maggio in una mostra a Londra alla 24 galleria Prahlad Bubbar, ripercorre con il Messaggero la sua carriera e la sua idea di foto perfetta, che nasce da un lavoro intellettuale prima ancora che da un istinto: documentarsi, pensare prima di scattare e non, come spesso accade, procedere al contrario. Di questo lavoro è la pellicola ad essere complice ideale, mentre del digitale Berengo Gardin riconosce a fatica i vantaggi: «Dà un un risultato freddo, metallico, piatto. E si scatta a mitraglia». L’unica eccezione la concede ai fotografi di guerra, come la tedesca Anja Niederhaus uccisa a Kabul, a cui manifesta la sua ammirazione. «Ci vuole un gran coraggio per fare le foto di guerra. Io sono un fifone terribile, ho una sola vita e ci tengo», spiega ironico e sincero. La mostra londinese, intitolata “The sense of a moment”, il senso di un attimo, raccoglie circa una ventina di scatti dell’India risalenti al 1977, quando Berengo Gardin andò più volte nel subcontinente per preparare il suo libro, “L’India dei Villaggi”. Accanto a queste, nello spazio londinese verranno esposte anche una decina di sue foto classiche dell’Italia. Che impressione le lasciò l’India di quegli anni? Perché si concentrò sui villaggi? «Naturalmente andai anche nelle grandi città - Calcutta, Bombay - ma quando avevo 25 anni lessi un libro su Gandhi in cui diceva che gli occidentali cercano l’India nelle grandi città, ma che l’India vera è in realtà quella dei villaggi. Quello che trovai lì fu una grande civiltà contadina, molto simile alle nostre. Le civiltà contadine, in fondo, si somigliano tutte. Certo lì c’erano pochi trattori e molta manodopera, ma gli indiani erano molto simili ai contadini italiani. Tranne ovviamente che per le regole dovute alla loro religione». Sono quasi quarant’anni che lei non espone nel Regno Unito, è felice di questo ritorno? «Feci una mostra a Londra negli anni ’60 all’istituto di architettura, su Venezia, voluta da Bruno Zevi. Con Massimo Vignelli, che poi è diventato uno dei maggiori grafici a New York, avevamo preparato il menabò per un libro su Venezia, che era stato rifiutato da otto editori. A Londra passò un editore svizzero, Clairefontaine, lo vide e in 20 giorni fece il libro, Venise des saisons. Per l’epoca era un record, visto che di solito ci volevano mesi e mesi». Ma qual è il suo rapporto con il Regno Unito. La interessa come soggetto fotografico? «Dell’Inghilterra ho fotografato molto, ho fatto molti viaggi lì. Del Paese sono un fanatico, mi piace il rapporto tra le persone, veramente democratico, mi piacciono i tessuti, mi piacciono le auto, ho avuto una Austin e una MG, mi piace fumare la pipa, mi piace tutto». Mi scusi, ma come si fotografa il rapporto democratico tra le persone? «Al pub, il signorotto di campagna che beve con l’imbianchino o con il muratore. Non ce lo vedo in Italia l’industriale al bar con l’operaio. Forse allo stadio…» Del digitale lei pensa tutto il male possibile? «Io sono rigorosamente a pellicola. Le uniche due possibilità in più del digitale sono il fatto di poter mandare subito le foto a New York o a Nuova Delhi, ma a me non serve, posso aspettare un giorno o due. L’altra è quella di cambiare la velocità degli Iso se sei in un posto chiaro o scuro. Ma il digitale non mi interessa, il Dna della fotografia è nella pellicola». 25 E l’India? Cosa le ha lasciato? Per molti andare lí ha un impatto molto forte. «È stata sicuramente un’esperienza importante, ma ogni volta per me è un argomento diverso, è un’esperienza importante. Ho lavorato per il Touring Club italiano e per l’Istituto Geografico De Agostini per tanti anni, ho girato il Paese». Chi sta raccontando bene l’Italia in questo momento? «Ma ci sono Ferdinando Scianna, Ivo Saglietti, Francesco Cito… Certo, sono per lo più non giovanissimi». Cosa c’è nei giovani fotografi che non la convince? «Ai giovani direi di non fare il mestiere del fotografo, ma di fare il fotografo. Sono tutti lì con il telefonino che si dicono fotografi, e quindi hanno una concorrenza enorme. Quasi tutti ad un certo punto si buttano sulla pubblicità o sulla moda per pagarsi il panino. Io direi di non dimenticare di interessarsi di più alla cultura fotografica». Tra selfies e digitale, lei deve vedere in continuazione immagini che ritiene bruttissime. «Purtroppo è una rovina, ma le garantisco, ci sono tante storie interessanti ancora da raccontare». Douglas Beasley Ambiguous Relationships: Sacred body / Sacred ground. Beasley parla della necessita' di una sintonia con il soggetto: "Fotografo per scoprire il mio sentimento in relazione al soggetto". Comunicato stampa da http://www.undo.net/it Sempre, prima di iniziare a scrivere un testo per un artista, voglio incontrarlo e parlare a lungo con lui del suo lavoro: solitamente ho domande che nascono dall’osservazione delle opere e so con certezza che nessuno mi potrà dire più di quanto l’artista stesso mi dica. Anche se l’opera d’arte, quando è tale, parla di se e del suo autore, la voce che l’accompagna mi aiuta ad approfondire la lettura, mi da conferme o smentite (talora necessarie), in ogni caso arricchisce la mia conoscenza. Ma oggi Douglas Beasley è lontano. L’ho conosciuto e ho parlato brevemente con lui durante la sua prima mostra alla VisionQuest Gallery, ma non ho avuto la possibilità di approfondire con lui il tema del suo nudo in fotografia, tema che resta per me del tutto nuovo. Quando Clelia Belgrado mi ha fatto la gradita richiesta di uno scritto per la sua prossima presentazione, ho letto ciò che altri hanno già pubblicato su di lui e mi sono soffermata soprattutto sulle sue dichiarazioni. Cercando di immaginare che fosse proprio la sua voce ad accompagnarmi, ho iniziato a indagare le sue fotografie. 26 Beasley parla della necessità di un’intensa connessione e sintonia con se stesso e quindi con il soggetto, di osservazione profonda, di lentezza nel farsi del processo creativo, di ricerca spirituale che esclude qualsiasi forma di intellettualismo. Per lui la fotografia è un messaggio e non soltanto un mezzo, un messaggio per comunicare “…la compassione assoluta che è l’espressione più totale dell’amore”. Guardando ora i corpi nudi, quasi esclusivamente femminili, che emergono purissimi, si fondono ma non scompaiono nel paesaggio altrettanto puro che li ospita, lo esaltano e ne vengono esaltati, penso alla rappresentazione del nudo in arte. Essa inizia con l’arte stessa, all’alba dell’uomo, dai grafiti rupestri fino appunto alla fotografia, al cinema, all’immagine digitale, non si interrompe mai. Gli esempi che mi vengono alla mente sono assolutamente infiniti e qualsiasi citazione sarebbe assurda e arbitraria. Ma, fingendo di partecipare al gioco “… quale opera di nudo porteresti con te su un’isola deserta?”, scelgo senza pentimenti “Amor sacro e profano” di Tiziano perché “… nella visione neoplatonica la contemplazione della bellezza del creato 27 era finalizzata cosmo…”. a percepire la perfezione divina dell'ordine del Ecco, penso che questo stesso intento sia assolutamente evidente nel lavoro di Beasley, e ne ho conferma da questa sua dichiarazione: “Amo pensare le mie fotografie come metafore visuali. Fotografo per scoprire il mio sentimento in relazione al soggetto, sentimento che esprimo poi attraverso la stampa dell’immagine. Spero che le mie immagini si offrano allo spettatore come poemi visuali o come preghiere, e siano accolti come una spinta verso il punto di vista personale di colui che guarda o come invito ad un viaggio spirituale.” Caterina Gualco Biografia Douglas Beasley dopo la laurea (BFA) presso la University of Michigan, Ann Arbor, dove studia anche religioni orientali e la cultura dei nativi americani, lavora per diversi anni per alcuni importanti studi fotografici commerciali come assistente fotografo ed in camera oscura. Questo lo aiuta a sviluppare una attenzione per il dettaglio e la competenza tecnica, ma non colma il suo desiderio di esplorare l’espressione artistica. Si trasferisce così a Minneapolis dove apre uno studio fotografico che lo porta negli anni a lavorare su progetti commerciali per la pubblica istruzione ed il servizio pubblico, e per associazioni non a scopo di lucro in giro per gli Stati Uniti. Attualmente lavora su progetti commerciali fine-art in tutto il mondo. Molti dei suoi progetti personali, compreso Sacred Sites of the Lakota, Dissapearing Green Space, Silent Witness: Genocide of the Landscape, Earth Meets Spirit sono supportati da fondi privati e pubblici e da borse di studio come il Minnesota Center for Photography, il McKnight Fellowship e la Jerome Foundation Artists Grants. Le sue fotografie sono state ampiamente esposte, collezionate, pubblicate a livello internazionale e sono presenti in numerose riviste come Zoom, The Sun, B&W, PDN e PhotoVision. Il suo primo libro: "Japan; A Nisei's First Encounter", ci permette di comprendere il suo primo viaggio nella patria di sua madre, il Giappone. Il suo secondo libro uscito nel 2011 “Earth meets Spirit” basato sulla sua personale visione del paesaggio sacro. Come fondatore e direttore di Vision Quest Photo Workshops, Beasley sottolinea l'espressione personale e la visione creativa attraverso l’uso della fotocamera. I suoi workshop sono tenuti in luoghi come Santa Fe (New Mexico), nel Maine, New York, Hawaii, Guatemala, Perù, Giappone, Cina, Italia, Kenya, Bali ed al Trade River Retreat Center nel nord-ovest del Wisconsin. fino al 17 maggio 2014, VisionQuesT gallery-piazza Invrea, 4r Genova mercoledì - sabato. 15.30 - 19.30 e su appuntamento - ingresso libero 28 La forza di uno scudo di carta di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it “Dormo bene la notte”, assicurò nel 1975 Paul Tibbets, il pilota del B29 che sganciò l’atomica su Hiroshima, deludendo gli intervistatori che, trent’anni dopo, speravano di fare un bel titolo sul bombardiere pentito. I droni, gli aerei senza pilota, dormono ancora meglio. Danno l’impressione di essere spietati, cinici e meccanicamente indifferenti, più dei velivoli da guerra pilotati da esseri umani. Ma è solo, credo, un relitto di mitologia dei robot. Un drone è una macchina costruita e (tele)guidata da esseri umani come il brigadiere generale Tibbets. Non credo che ci sia una qualche differenza etica tra un massacro eseguito volando sul posto e un massacro eseguito stando seduti davanti a uno schermo. In entrambi i casi, il guerriero aeromontato manovra apparati tecnici e vede il suo bersaglio solo attraverso il filtro di apparati tecnici. Impartisce una morte che per lui non è immediata, ma solo l’esito di una procedura. Per quanto sappia che il prodotto di questa procedura è la morte di esseri umani, quello schermo tecnologico lo protegge. Il cosiddetto senso del dovere, il patriottismo e altre ideologie fanno il resto. La domanda vera non è dunque se i droni siano più spietati dei bombardieri abitati, ma questa: un pilota che imvece di guardare manometri e schermi vedesse in faccia, uno per uno, gli esseri umani che sta per uccidere premendo un pulsante, lo premerebbe? 29 C’è un gruppo internazionale di attivisti e artisti che scommette sul no. E utilizza la fotografia per fare la prova. Hanno preso il nome collettivo di NotABugSplat (“non è come schiacciare un insetto”), li aiuta un artista che ha fatto una poetica personale di questo modo di invadere i paesaggi con le immagini, il francese JR. Hanno trovato il ritratto di una bambina che, affermano, è rimasta orfana dopo un bombardamento di droni nella provincia di Khyber Pakhtunkhwa, al nord-ovest del Pakistan, lungo il confine afghano, dove l’esercito Usa va a caccia di basi guerrigliere con i suoi aeroplanini radiocomandati. Ne hanno ricavato un ingrandimento di enormi proporzioni, alcune decine di metri di lato. Lo hanno steso in un campo di fianco ad un villaggio a rischio, con la collaborazione dei suoi abitanti. Senza scritte, senza altro. Il monito dovrebbe essere chiaro: ehi tu che guardi da lontano, attraverso l’occhio di una videocamera: ecco cosa, ecco chi stai per bombardare. Non è un puntino grigio sul tuo computer. Non è un “danno collaterale”. È un bambino. Non so se funzionerà, non credo sia molto di più di un grido di protesta, di un gesto, di una testimonianza. Di fatto, si tratta di un’installazione artistica. Ma istintivamente sto dalla loro parte. Non dobbiamo mai stancarci di cercare, di inventare forme di lotta, anche simbolica, contro la violenza e la ferocia, che non siano altra violenza e altra ferocia. Questo detto, l’esperimento ci dice anche qualcosa sul potere della fotografia? Un potere specifico della fotografia deve essere in gioco, è ovvio che stendere su un campo un’enorme scritta tipo “don’t kill the children” sarebbe un’altra cosa: un monito morale La fotografia viene invece qui mobilitata per la sua (abusiva, ma efficace) virtù di veridizione. Ti mostro il vero volto del bambino che potresti uccidere. Si salta il passaggio razionale attraverso la coscienza, il super-io morale, e si punta all’istinto primario di protezione di specie. Guarda, è un bambino, e non si uccidono i bambini: è iscritto nel nostro codice umano. E questo anche se la fotografia è in bianco e nero, ovvero afferma nel modo più inequivocabile “io sono una fotografia”, sono solo un’immagine. Ma una foto a colori non sarebbe stata più realistica, quindi più efficace? Credo di no. La fotografia, per la nostra cultura, implica una presenza. Una fotografia che si mostri proprio come fotografia, afferma che quel che sta mostrando esiste nel mondo reale. Proprio perché è una fotografia, dunque, questo messaggio può sperare di arrivare al cuore e all’istinto di chi la guarda. 30 Può sperare, naturalmente, solo sperare. Perché non funziona per tutti, l’interdetto di non nuocere ai cuccioli. Come è noto, per molti esseri umani, più di quanti siamo disposti ad ammettere e a tollerare, è stato possibile uccidere un bambino guardandolo in faccia. E la fotografia non fa miracoli, anzi la fotografia può essere complice: nel Ghetto di Varsavia i solerti fotografi del criminale nazista Stroop seppero fotografare senza far tremare l’obiettivo un bambino che verosimilmente era destinato, anche grazie al loro lavoro, al macello dei lager. “Scudi umani” si diceva, ricordate?, dello stratagemma di chi, come arma di difesa contro la potenza schiacciante di un avversario, si riparava dietro altri esseri umani: prigionieri, ostaggi, ma anche, a volte, i propri stessi figli. E in questo caso lo si diceva con un certo disprezzo: guardate che vigliacchi, non si lasciano bombardare. Mettono in mezzo i figli. Che scudo è una fotografia? Debole, di carta. Ma anche la nonviolenza lo è, eppure non sempre è sconfitta. L’unico punto di forza dell’azione nonviolenta, che è anche il suo punto debole, è che funziona solo se il destinatario ha ancora qualcosa di umano dentro di sé. Ma non si può forse dire la stessa cosa, proprio la stessa cosa, di una buona fotografia? Tag: Afghanistan, droni, Hiroshima, JR, Khyber Pakhtunkhwa, Notabugsplat, Pakistan, Paul Tibbets Scritto in Autori, etica, fotografia e società | 7 Commenti » Paolo Gioli di Giuliano Sergio da http://undo.net/it/ Paolo Gioli (Sarzano-RV 1942) è uno degli artisti italiani più apprezzati della seconda metà del XX° secolo; pittore, filmmaker, fotografo, le sue opere sono conservate nelle collezioni di musei internazionali come il MoMA di New York, il Centre Georges Pompidou di Parigi e l'Art Institute of Chicago. Il suo lavoro è attualmente al centro di un particolare interesse scientifico e critico internazionale per le innovazioni linguistiche che l’autore ha introdotto nel campo della fotografia e del cinema. Nel 2015 la GNAM di Roma presenterà una grande antologica dedicata ai molteplici aspetti della sua ricerca. La mostra “Paolo Gioli- Abuses. Il corpo delle immagini” a cura di Giuliano Sergio, vuole offrire una lettura inedita della sua opera fotografica, attraverso una selezione di oltre un centinaio di immagini che affrontano un tema centrale nella ricerca dell'artista veneto: l’indagine sul corpo e sulla natura morta. 31 Per Gioli la fotografia non è documento ma emanazione del corpo, l'artista forza i limiti strutturali dell'immagine, le sue aberrazioni e gli effetti ottici, per utilizzarli come elementi drammatici. La tecnica del foro stenopeico –principio originario della camera oscura che rinuncia all’uso dell’ottica- il montaggio di fotografie e di pellicole trouvée, gli interventi di luce in sede di sviluppo, i trasferimenti della polaroid, gli inserti di stoffa e gli interventi con la pittura, costituiscono una narrazione visiva che trasforma il medium fotografico nell'icona che incarna la seduzione, il desiderio, la sofferenza del corpo. Nelle sale di Villa Pignatelli il pubblico si accosterà alla ricerca dell'autore partendo da una serie di autoritratti che introducono una 32 riflessione sul motivo del volto e della maschera, come opposizione tra identità e simulacro. Il ciclo delle nature morte (1986-1997), presentate in dialogo con le “Autoanatomie” (1986-1987), sviluppano il tema dell’erotismo che sarà ripreso dalla più recente serie delle “Naturae”(2007-2010). Lo studio anatomico e di genere permette all’artista di misurarsi con la carnalità della superficie polaroid trasferita su carta, seta e pittura. I soggetti sono riferimenti di un corpo intimo che aderisce alla fotografia stessa. Nei “Torsi” (1997-2007) Gioli affronta l’iconografia classica del corpo “martirizzato”, sublimato nel celebre autoritratto “Omaggio a Hyppolite Bayard” (1981), fino alle ultime ricerche delle “Vessazioni” (2009-2010) dove ritorna il tema della maschera. Simboli del passaggio inesorabile del tempo sono, infine, i due cicli che chiudono la mostra: gli “Sconosciuti” (1994) e i “Luminescenti” (2006-2010), che riprendono rispettivamente foto di identità degli anni Cinquanta e resti di antiche sculture greco –romane, frammenti visivi dove quel che resta del corpo è la corruzione della materia. In occasione della mostra sarà pubblicato un catalogo a cura di Giuliano Sergio edito da Peliti Associati. La mostra è promossa e organizzata dalla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Napoli e della Reggia di Caserta con Incontri Internazionali d’Arte. E’ realizzata con la collaborazione di Civita Cultura; con il sostegno della Provincia di Napoli e con il patrocinio della Regione Campania; grazie al supporto di MN Metropolitana Napoli, Clemart Srl e la collaborazione tecnica di MAG-JLT. A Napoli fino al 1 giugno 2014 al Museo di Villa Pignatelli - via Riviera di Chiaia, 200. Orario: tutti i giorni 10-14; la biglietteria chiude un'ora prima - intero Euro 2, ridotto Euro 1. Un’Italia Migliore di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it «Ma sei tu!», gli disse Luigina, la sua compagna, un paio d’anni fa. «Eh sì, sono io», riconobbe Mario Carnicelli. La faccia per metà coperta dalla Hasselblad che il pennello di Renato Guttuso ha un po’ idealizzato, circondato dai volti austeri di Ingrao, Breznev, Iotti, Pajetta, Visconti, Alicata, Pasolini, quasi al centro di quell’epica nazionalpopolare di bandiere rosse, eccolo, il fotografo dei funerali di Togliatti. Di quelli dipinti, nel capolavoro real-socialista all’italiana che oggi sta a Bologna, e di quelli veri, colossali, di cinquant’anni fa, a Roma. 33 Anche dopo tutto quel tempo, però, per Mario non è stata una sorpresa. Semmai, una cascata proustiana di ricordi. «Sono io, anche perché Guttuso mi avrà fissato bene nella mente. Fui il primo fotografo a entrare nella camera ardente. Gli feci un ritratto mentre era sull’attenti, di fianco alla bara, nel primo picchetto d’onore. Mi sbirciava con curiosità mentre mi muovevo piano, in quella sala di assoluto silenzio». Cose che non si scordano. Ma si possono chiudere in un cassetto della memoria, o dello studio. «Son rimaste lì rimpiattate per tanti anni», un po’ rimpiange Mario, sfogliando le stampe nella sua luminosa casa-giardino a due passi dal Duomo, «ogni decennale mi dicevo: adesso le tiro fuori, poi non lo facevo. Per pudore, credo. Per rispetto. Non mi sembrava mai il momento giusto». Ma questa volta no, ora o mai più, «mezzo secolo è abbastanza», e quel reportage straordinario e quasi del tutto inedito è andato finalmente in mostra (a Palazzo Fabroni di Pistoia, a cura di Marco Signorini e Bärbel Reinhard), e in stampa (in un cofanetto di legno, quasi fosse ancora quel cassetto della memoria privata, pubblicato con grande cura dall’editore ravennate Danilo Montanari) e fa rimpiangere che non sia successo prima. Perché in queste immagini c’è il racconto di un’altra Italia, non solo politica, ma anche umana, etica, sociale. 34 E il giovane Mario, ventisette anni, era la persona giusta per raccontarla. Fotografo figlio di fotografi, comunista figlio di comunisti, quando da Yalta arrivò la notizia peggiore sul Migliore, lui cominciò a fare la borsa degli apparecchi, prima ancora che la valigia di biancheria. Era un fotografo “sul territorio”, aveva una bottega (più tardi rilevò e gestì a lungo un negozio in piazza Duomo a Firenze), vendeva macchine, stampava, faceva i matrimoni, ma aveva anche un occhio. Dai suoi viaggi in Usa tornava con borsoni pieni di rullini di inconsapevole street photography, tutti immersi nel mood che correva in quegli anni sulla pelle della nuova fotografia americana, anche quelli ancora chiusi nei cassetti. La sua carriera non è stata quella dei fotografi d’arte, dei reporter, ma neppure quella dei magnifici outsider: dentro il mondo della fotografia, come profesisonista del mercato, ma con la voglia di scattare. Avrebbe voluto andare anche in Vietnam, ma naturalmente in quello del Nord, andò fino a Parigi con Piero Calamandrei per impetrare un invito alla delegazione Vietcong, allora al tavolo della conferenza di pace, ma lo delusero: non se ne fa niente, non potremmo garantire la tua sicurezza. Intanto andava foto ai concorsi, e uno dei critici più autorevoli dell’epoca, Giuseppe Turroni, l’aveva avvistato, e la 3M, industria di pellicole, gli aveva messo a disposizione la sua galleria al Pirellone di Milano per esporre un suo lavoro curioso su “individuo e massa”: ritratti di donne e uomini mentre assistono a comizi politici, assorti nella loro doppia dimensione, appunto, singolare e collettiva. Quando arrivò la notizia, dunque, e si profilò l’evento di un funeralemanifestazione di proporzioni quali l’Italia non aveva mai visto, non fu solo la 35 molla della militanza che scattò dentro il cuore di Mario, ma anche quella dell’antropologo visuale. Coi dirigenti del Pci di Pistoia si mise in macchina e all’alba arrivò a Botteghe Oscure dove si allestiva l’ultimo saluto al segretario del Pci. «Ero l’unico fotografo nella camera ardente. Mi presentarono Sandro Curzi, dell’ufficio stampa. Mi disse: va bene compagno, eccoti un passi, mettiti lì e non disturbare troppo». Gli chiese anche il ritratto ufficiale, a colori, di Luigi Longo, il nuovo segretario, «mai più rivista, quella diapositiva…». Ma fu solo quando si aprirono le porte che Mario capì che quel che stava accadendo non aveva paragoni con le cose che aveva fotografato fino ad allora. «Non era un lutto. Non era un funerale. Era partecipazione a qualcosa, una dichiarazione politica collettiva, muta, fatta con i volti, i vestiti, i gesti». Due giorni di processione davanti al feretro, pugni chiusi e segni della croce, ma l’evento doveva ancora venire. Il 25 agosto del 1964, quando il carro funebre solcò un mare di corpi fino a piazza San Giovanni, Mario si sentì per un momento sopraffatto. C’erano le cineprese della Incom e quelle dei grandi registi, c’erano le fotocamere di decine di reporter, che fare? 36 Mario fece, senza saperlo, la scelta di Cartier-Bresson all’incoronazione di re Giorgio VI: girò l’obiettivo sull’altro lato dell’evento, lo puntò su chi guardava. Raccontò quei funerali riflessi nei volti e nei corpi assorti di chi credeva di assistere, e invece partecipava. «E io ero come loro, ero loro. Il mio soggetto è sempre stato l’uomo, ma in quei giorni anche io ero quell’uomo. Non cercavo, le foto mi venivano incontro. Erano tutti bellissimi. Fotografarne uno solo era fotografarli tutti, uno solo era già la massa». Erano venuti tutti, tutta la famiglia, come quando ai matrimoni, ai funerali dei parenti. Con il vestito migliore. Giacche di fustagno e flanella, era un agosto caldo, ma erano le uniche giacche dei loro armadi. Le donne, con la borsetta. La spilla sul bavero, un rosario fra le dita. Gli uomini, la penna nel taschino. La cravatta storta, il cappello in mano. Le bimbe col cerchietto per i capelli, i bambini con la cartella della scuola, forse dentro c’era il panino, perché la giornata era lunga, tanti erano partiti di notte, in treno, per tornare in treno la notte dopo». Più che i pugni chiusi («eccoli qui, ma è la foto che mi piace di meno, è retorica»), i dettagli che non erano lì per essere esibiti. Un fiasco. Una permanente. Le scarpe lucidate. «Rispetto: per il capo? Per se stessi». E il silenzio, «quel che ricordo è il silenzio, assoluto, si sentiva lo scalpiccìo». Non era ancora l’Italia televisiva che applaude anche i morti. 37 Silenzio del rispetto, silenzio dell’ascolto. Nelle fotografie quadrate di Carnicelli «nessuno guarda nessun altro, neanche me che li fotografo, ero invisibile, guardano come si guarda chi ti sta parlando». Ma se non si guardano, si toccano: ci si tiene per mano, braccia sottobraccio, braccia sulle spalle, i corpi si cercano, si stringono, ognuno è legato all’altro in un corpo enorme legato da mani braccia dita. Poi, passato il feretro, qua e là, un sorriso, uno sguardo scambiato, «il senso era: non è finito nulla, domani si ricomincia. C’era la speranza». Esaurì i rullini 6×6. Tornò a Pistoia e stampò tutto. Per farne cosa? «Qualche federazione mi chiese una foto incorniciata, mandai le più ufficiali». Il resto, «rimpiattato». Erano immagini, allora forse incomprensibili, degli italiani come erano. Oggi, a distanza, capiamo meglio quel che gli italiani non sono più. Tag: Botteghe Pajetta, Oscure, Danilo Hasselblad, Leonid Montanari, fotografo, funerali, Giancarlo Breznev, Luchino Visconti, Mario Alicata, Mario Carnicelli, Nilde Iotti, Palmiro Togliatti, Pier Paolo Pasolini, Piero Calamandrei, Renato Guttuso, SandroCurzi Scritto in Autori, politica, storia | 5 Commenti » 38 Gianni Berengo Gardin Storie di un Fotografo di Martina Brusin da http://news.leonardo.it/ «Un consiglio per i giovani aspiranti fotografi? Fatevi una cultura, guardate le immagini dei grandi del passato, imparate da loro. Dalle scuole di fotografia non si impara niente. Quello che dovete fare è pensare, prima di scattare. Poi fare la foto, forse. Oggi le macchine fotografiche fanno tutto da sole. Ma non possiamo far sì che ragionino anche al posto nostro». A dirlo non è un fotografo qualunque, ma uno dei più grandi: Gianni Berengo Gardin che, a 83 anni, ha ancora voglia di imparare: «Continuo a studiare le foto di Ugo Mulas, Gabriele Basilico, Henri Cartier-Bresson. Per me loro sono sempre stati amici, colleghi e maestri». 200 immagini tratte dall’immenso archivio di Berengo Gardin (più di 1 milione e 500 mila negativi), considerato da molti il più rappresentativo fra i fotografi italiani, fino all’8 giugno resteranno esposte nel Sottoporticato di Palazzo Ducale nell’ambito della rassegna “Gianni Berengo Gardin – Storie di un fotografo“. Dopo le tappe di Milano, Venezia e Verona, la mostra approda infatti a Palazzo Ducale in versione rinnovata e arricchita di un intero capitolo dedicato a Genova: fotografie, in buona parte inedite, che coprono un ampio periodo, dal 1969 al 2002, appositamente selezionate per questa edizione della mostra. Conosciuto in Italia e all’estero come il profeta della fotografia, Gianni Berengo Gardin più di ogni altro ha saputo restituire e rinnovare il linguaggio visivo del nostro paese: Venezia, Milano, i manicomi e la legge Basaglia, la Liguria, l’entusiasmante esperienza con Renzo Piano, il grande reportage “dentro le case”, la Biennale d’arte di Venezia, ma anche New York, Vienna, la Gran Bretagna e la straordinaria esperienza con il Touring Club, fino alle fotografie finora rimaste inedite e qui presentate per la prima volta. Con occhio sempre vigile, attento a cogliere le svolte della storia, così come i passaggi minimi, più discreti del reale, Gianni Berengo Gardin ha narrato, e continua a farlo (basti pensare al suo lavoro su L’Aquila, prima e dopo le 39 devastazioni del terremoto) gli avvenimenti che hanno segnato la storia del nostro paese, oltre ai momenti di vita quotidiana nelle strade, agli incontri casuali con le persone, ai gesti spontanei. Le sue immagini sono uno spaccato della vita politica, sociale, economica e culturale dell’Italia dagli anni del boom a oggi, sia nei suoi risvolti felici, sia nelle sue pieghe drammatiche e a volte tragiche, ponendo sempre al centro dell’attenzione l’uomo e la sua dignità. Instancabile testimone del nostro tempo, nei suoi scatti in bianco e nero traspare la capacità di raccontare le storie senza pregiudizi e una ricchezza di sentimenti che si scioglie in narrazione sempre lineare e coerente: la sua grandezza è la semplicità, o meglio, la capacità di rendere leggibile la complessità del mondo. « La mostra inizia con gli scatti realizzati a Milano, dove è iniziata la carriera di Berengo Gardin » spiega Denis Curti, curatore della rassegna. Poi ci sono i reportage: da “Morire di classe”, realizzato su richiesta di Franco Basaglia, a “Dentro le case”, «lavoro fondamentale, che ha riscritto il linguaggio del reportage contemporaneo» spiega Curti. E ancora, il reportage sulla vita dei Rom in Italia, e le foto dedicate al lavoro e alla sua importanza sociale: «Ho collaborato per 15 anni con grandi aziende come Olivetti, Alfa Romeo, Italsider, Ansaldo. Ero e sono comunista, e passando del tempo con gli operai ho capito l’importanza di esserlo» ha dichiarato il fotografo. In mostra, poi, lasezione dedicata ai baci: «Nel 1954 in Italia era proibito baciarsi in pubblico. Si rischiava di essere arrestati per oltraggio al pudore», ricorda Berengo Gardin, «Quando sono arrivato a Parigi, ho scoperto che lì tutti si baciavano per strada. Così li ho fotografati, soprattutto per denunciare la situazione italiana. Ogni fotografo, però, è un po’ guardone , deve esserlo per far bene il suo lavoro, così, anche quando in Italia le cose sono cambiate, ho continuato a immortalare le coppie innamorate». Cuore della mostra, infine, la sala dedicata a Genova, una città che assomiglia alle sue idee e ai suoi ricordi: «Renzo Piano mi ha spesso chiesto di fotografare il porto e chi ci lavora. Adoro poi i caruggi e i loro negozietti. Genova è il luogo dove vorrei venire a vivere» ha dichiarato il fotografo. "Fotografia Europea": dalla lezione di Ghirri alla moderna società dell'immagine da http://www.affaritaliani.it/ Con le giornate inaugurali, dal 2 al 4 maggio 2014, prende il via la nona edizione di Fotografia Europea. Promosso dal Comune di Reggio Emilia e ormai punto di riferimento nel panorama nazionale e internazionale delle manifestazioni dedicate alla fotografia, quest'anno il festival propone come filo conduttore la riflessione sullo sguardo, prendendo spunto dalla lezione del maestro Luigi Ghirri e sviluppandosi attraverso un articolato programma di mostre e installazioni. Le immagini di Ghirri hanno fatto scuola: suddivise in icone, Paesaggi ed Architetture ora raccolte e presentate in una eccezionale retrospettiva ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia. Trecento scatti che testimoniano la forza e l'attualità del suo Pensare per immagini(titolo della mostra) e una ricca selezione di cartoline, libri, riviste e dischi che ne ricordano il ruolo di illuminato animatore culturale degli anni Settanta e Ottanta del Novecento. 40 Luigi Ghirri, Alpe di Siusi, 1979, da “Topografia-Iconografia” (1980-81) Courtesy Istituto Nazionale per la Grafica, Roma L'esposizione dedicata all'artista emiliano, scomparso nel 1992, è il faro della nona edizione del festival: la luce che accende e guida un percorso di ricerca nel quale le immagini non si limitano a provocare dei pensieri, ma li evidenziano in tutta la loro autonomia. Al pubblico di Fotografia Europea viene offerta la possibilità di affrontare questo cammino seguendo un ventaglio di possibili focus tematici: dall'approfondimento sul ruolo del libro fotografico (le mostre Senza meta. Il libro come pensiero fotografico e Divine Violence di Adam Broomberg e Oliver Chanarin) al dipanarsi dell'elemento surrealista nella fotografia (Illusionismo surreale sulle cartoline fotografiche del primo Novecento, la personale dedicata alla fotografa di moda francese Sarah Moon, gli sguardi alternativi di Silvia Camporesi, Paolo Simonazzi e Andrea Ferrari), dalle esposizioni focalizzate sulla visione del presente e nel presente (Simone Bergantini e Massimiliano Tommaso Rezza) per arrivare al tema della perdita del progetto Speciale Diciottoventicinque. Quest’anno la manifestazione si caratterizza per la partecipazione diMagnum Photos, la famosa agenzia fotografica internazionale, protagonista di una serie di iniziative come la grande retrospettiva, presentata per la prima volta a Reggio Emilia in occasione di Fotografia Europea, di Herbert List, comprendente un centinaio di opere provenienti da Herbert List Estate e la mostra collettiva No Place Like Home, in cui otto fotografi contemporanei della Magnum si confrontano con il tema dell’abitare. Alcuni dei fotografi presenti in mostra saranno protagonisti dei workshop che si terranno durante le giornate inaugurali. Arricchiscono la proposta espositiva del festival l'affascinante ritratto – tra immagine e musica – del percorso artistico dei CCCP Fedeli alla linea e della loro “soubrette” Annarella, la personale dedicata a Erich Lessing su fotografia e industria (a cura del MAST di Bologna) e una selezione di opere dei 41 fotografi che dal 2006 hanno partecipato a Fotografia Europea dando vita alla Collezione, conservata nella Fototeca della Biblioteca Panizzi. Come sempre, le giornate inaugurali accompagnano il vernissage delle mostre con una serie di incontri, conferenze, workshop, visite guidate alle esposizioni, book signing e spettacoli, in cui gli artisti, i curatori e altri protagonisti del mondo della fotografia, della cultura e dell'arte si confrontano con il pubblico. Ad animare Piazza San Prospero venerdì 2 maggio sarà la Giovane Fotografia Italiana#03 con una proiezione di immagini dagli archivi GAI accompagnate dal dj set di Daniele Baldelli, il precursore dei dj italiani. La mattina di sabato 3 maggio sarà invece caratterizzata dalla tavola rotonda “Come si inquadrano le immagini. Riflessioni sulla cornice”, protagonisti i filosofi Armando Massarenti e Maurizio Ferraris, in dialogo con il curatore Riccardo Panattoni (ore 11, Musei Civici Palazzo San Francesco). Nel pomeriggio (ore 16, Musei Civici Palazzo San Francesco) l’incontro “Alchimie. Il mondo parallelo di Sarah Moon” con la fotografa Sarah Moon e la curatrice Laura Serani coinvolgerà la giornalista e photo editor Giovanna Calvenzi e Olga Sviblova direttrice MAMM – Multimedia Art Museum Moscow. Alle ore 18 invece in occasione della conferenza “Una divina violenza” il curatore Walter Guadagnini e Oliver Chanarin dialogheranno della mostra di Adam Broomberg & Oliver Chanarin legata al tema del conflitto. Alle ore 22, nell'area del Parcheggio ACI di via Secchi, concerto dei Marta sui Tubi, band storica dell'underground rock italiano, applaudita nel 2013 sul palco del Festival di Sanremo. Le conferenze proseguono domenica 4 maggio, a partire dalle ore 10 con l’appuntamento “Sfogliare. Il libro fotografico” con il curatore Elio Grazioli e i fotografi Valeria Accili, Carlos Cancela Pinto, Piergiorgio Casotti, Amaury Da Cunha, Stefano Graziani, Edward Newton e Eva Vermandel. Alle ore 12 si prosegue con “Collezionare fotografie nell’età post-fotografica”: Walter Guadagnini storico della fotografia e curatore della Collezione Unicredit di arte contemporanea dialoga con Urs Stahel, direttore della Collezione MAST di Bologna e con Margit Zuckriegl direttrice della Collezione Nazionale di Fotografia Museum der Moderne Rupertinum di Salisburgo e Collezione Fotografis di Bank Austria. Alle 16, ai Musei Civici Palazzo San Francesco, in occasione della conferenza “La fotografia per la memoria. Gli archivi fotografici patrimonio della contemporaneità” la giornalista e photo editor Giovanna Calvenzi dialogherà con la responsabile della Fototeca Biblioteca Panizzi Laura Gasparini e la storica della fotografia Maria Antonella Pelizzari coordinate dalla giornalista e photo editor Renata Ferri (in collaborazione con Premio Tempo Ritrovato. Fotografie da non perdere che propone a Reggio Emilia la mostra Archivio Federico Garolla vincitore della prima edizione del premio). Il libro Annarella Benemerita Soubrette CCCP Fedeli alla Linea (Quodlibet, 2014) sarà al centro dell’incontro con gli autori Annarella Giudici, Giovanni Lindo Ferretti e Rossana Tagliati, lo scrittore e critico letterario Marco Belpoliti e lo psichiatra e scrittore Benedetto Valdesalici (ore 18, Spazio Gerra). Alle ore 20 ai Musei Civici è in programma la presentazione del libro Cose ritrovate (Marsilio, 2014) con il fotografo Paolo Simonazzi, lo scrittore Ermanno Cavazzoni, lo storico e critico della fotografia Denis Curti e l’attore Ivano Marescotti, coordinati dal direttore dell’Agenzia informazione e comunicazione della Regione Emilia Romagna Roberto Franchini. 42 La scelta della location per molte conferenze ha un significato particolare. Uno dei momenti speciali di Fotografia Europea 2014 sarà infatti l’inaugurazione del Palazzo dei Musei, oggetto di un intervento di ristrutturazione firmato dall’architetto Italo Rota, che mette in dialogo le collezioni storiche con i nuovi linguaggi e temi della contemporaneità. In occasione dell’inaugurazione dei nuovi allestimenti della sede museale verrà esposta l’opera “Alfabeto” di Claudio Parmigiani, creata dall’artista nel 1973 con la collaborazione di Luigi Ghirri che scattò le 21 diapositive che ne costituiscono il corpus fotografico. L’opera trae spunto proprio dalle collezioni dei Musei Civici di Reggio Emilia per creare un cosmo-museo, un alfabeto visivo per gli occhi. Nei suoi lavori sono presenti immagini della storia dell’arte ben lontane dal concetto di citazione; perché a Parmiggiani interessa “il frammento inteso come reliquia, come emblema, come lettera di alfabeti perduti e parola sottratte alla distruzione.” Il weekend delle giornate inaugurali coinvolgerà comunque l'intero territorio di Reggio Emilia e della provincia, anche attraverso gli appuntamenti del circuito Off, il programma alternativo di mostre, progetti e installazioni. Tra le tante iniziative ormai consolidate del festival, si rinnovano nel 2014 il progetto Giovane Fotografia Italiana#03 (curato da Daniele De Luigi in collaborazione con GAI – Associazione Circuito Giovani Artisti Italiani e Circulation(s) Festival de la Jeune Photographie Européenne al Teatro Valli), le letture internazionali di Portfolio Europa (curate da Gigliola Foschi alla Biblioteca Panizzi). Sono confermate anche tutte le storiche location cittadine del Festival: Chiostri di San Pietro, Chiostri di San Domenico, Palazzo Casotti, Galleria Parmeggiani, Spazio Gerra, Sinagoga, Musei Civici, Biblioteca Panizzi. Fotografia Europea è organizzata dal Comune di Reggio Emilia con l’apporto di numerosi curatori. Oltre alle partecipazioni di Elio Grazioli, Walter Guadagnini, Marinella Paderni, Laura Serani, quest’anno si aggiungono Denis Curti, PeerOlaf Richter, Harri Kalha, Laura Gasparini, Francesca Fabiani, Giuliano Sergio, Daniele De Luigi, Urs Stahel, 3/3 (Chiara Capodici e Fiorenza Pinna) Francesco Zanot. LUIGI GHIRRI. PENSARE PER IMMAGINI Trecento scatti, menabò, libri, cartoline, copertine di dischi, riviste.Pensare per immagini offre il ritratto a 360 gradi di una delle figure fondamentali della fotografia internazionale del secondo Novecento: Luigi Ghirri. Nata in collaborazione con il Comune di Reggio Emilia e la Biblioteca Panizzi, presentata nel 2013 al Maxxi di Roma e curata da Francesca Fabiani, Laura Gasparini e Giuliano Sergio, la mostra approda a Fotografia Europea nella cornice dei Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia. È suddivisa in tre sezioni tematiche (Icone, Paesaggi, Architetture) che permettono di ripercorrere le fasi della ricerca artistica di Ghirri, i luoghi e le storie da lui immortalate, spesso lungo l'amata via Emilia (l'artista nacque a Scandiano nel 1943 e morì a Reggio Emilia nel 1992). Basata sui due nuclei più importanti dell'archivio Ghirri, quello della Biblioteca Panizzi (che per volontà dello stesso artista conserva il patrimonio fotografico di oltre 150.000 tra negativi e diapositive) e quello dei vintage prints conservati nella casa di Roncocesi, Pensare per immagini non solo proietta la forza di uno sguardo che riuscì ad anticipare e affrontare temi cari alla contemporaneità, come il rapporto con la società dell'immagine o la dialettica tra visione e percezione, ma testimonia la complessità, la ricchezza e la statura artistica della figura di Ghirri: il suo 43 lavoro di editore e curatore, la sua passione di critico e collezionista, la missione di animatore culturale condotta – a partire dagli anni Settanta – attraverso il costante dialogo con artisti concettuali, architetti, scrittori e musicisti (in particolare, CCCP e Lucio Dalla). In un'epoca in cui la società sembra essere quasi sopraffatta dalla tecnologia e dall'abbondanza di contenuti informativi dal basso significato, Pensare per immagini aiuta a recuperare il valore di un'attività unica, in grado di lasciare segni tangibili ancora evidenti e influenti oltre vent'anni dopo la scomparsa dell'artista. IL LIBRO FOTOGRAFICO: DALLA BIBBIA AI GIORNI NOSTRI Strumento simbolico del pensare per immagini e mezzo democratico caro all'editoria indipendente e al self publishing, il libro fotografico è il tema attorno cui si muovono due importanti mostre di Fotografia Europea 2014. Allestita nei Chiostri di San Pietro e curata da Elio Grazioli, Senza meta. Il libro come pensiero fotografico propone sessanta volumi d'autore in cui fotografi come Wolfgang Tillmans e Juergen Teller, Annelies Štrba e Ola Rindal, Joan Fontcuberta e Armin Linke, Mark Borthwick e Cristina de Middel utilizzano la forma del libro per indagare e mettere in atto il pensiero visivo. Non cataloghi o raccolte, ma “collezioni” che si costruiscono di mano in mano – per accostamenti e salti, spostamenti e intervalli, dinamiche e attenzioni – riproponendo l'idea del libro come luogo ideale di deposito del pensiero fotografico (come è stato nella storia, quando i più grandi fotografi non “esponevano” le loro opere ma ambivano a pubblicarle in volumi). Curata da Walter Guadagnini e presentata in anteprima mondiale nei Chiostri di San Domenico, anche Divine Violence di Adam Broomberg & Oliver Chanarin prende spunto da un libro: The Holy Bible, ultimo progetto della coppia di artisti, innovativo incontro tra il testo sacro cardine della cultura occidentale e immagini sul tema del conflitto. Seguendo le annotazioni ritrovate su una Bibbia appartenuta a Bertolt Brecht, i due autori hanno setacciato le immagini dell'immenso Archive of Modern Conflict, componendo un libro che è al tempo stesso esplorazione della violenza, della calamità e dell'assurdità della guerra attraverso i cliché della sua rappresentazione visiva; riproposizione del principio del filosofo Adi Ophir secondo cui Dio si rivela prevalentemente attraverso la catastrofe; attualizzazione delle tematiche che, partendo da Luigi Ghirri, fanno da filo conduttore dell'edizione 2014 di Fotografia Europea: la riflessione sulla natura dell'immagine, sulla sua nascita e interpretazione e sull'importante ruolo del curatore (che – come Broomberg, Chanarin e lo stesso Ghirri – a volte non scatta le fotografie ma le sceglie). FOTOGRAFIA E SURREALISMO Un corpus importante delle mostre di Fotografia Europea lambisce trasversalmente l'idea, i temi e i linguaggi del surrealismo. Illusionismo Surreale. Fantasie fotografiche del primo Novecento in Europa(Palazzo Casotti) è un'esposizione curata da Harri Kalha e presentata in collaborazione con The Finnish Museum of Photography e Laura Serani in cui trecento cartoline trasportano il visitatore nel mondo della fotografia di inizio XX secolo: tra fantasie impossibili, sogni misteriosi e dive glamour. Un percorso visivo che da un lato anticipa nel rapporto con il sogno la lezione surrealista degli anni Venti e dall'altro permette la riscoperta delle tecniche fotografiche di un'epoca lontana: la quasi totalità delle cartoline in esposizione sono stampe al bromuro d'argento, con interventi di colore realizzati a mano. È invece negli ultimi decenni del Novecento che inizia a brillare la stella di Sarah Moon, 44 protagonista a Reggio Emilia di due appuntamenti (curati da Laura Serani): Alchimies, una grande esposizione nei chiostri di San Pietro e Journal de Voyageuna nuova produzione dedicata ai musei cittadini, esposta nelle sale dei Musei Civici San Francesco. Nella mostra Alchimies sono ben visibili le caratteristiche della scrittura visiva di Sarah Moon, una scrittura unica e inconfondibile: l’esposizione, una piccola antologia di riferimento al lavoro di questa grande artista, è un viaggio tra i soggetti a lei più cari, dove nature morte, paesaggi, ritratti di animali e vegetali perdono la loro connotazione e offrono una nuova percezione della realtà. Fotografie in bianco e nero di piccolo formato che ricordano stampe antiche si alternano ad altre di grandi dimensioni e a colori, e i processi tecnici utilizzati, spesso limitati all’uso di polaroid, accentuano l’evanescenza delle immagini e partecipano al mistero che avvolge l’universo di Sarah Moon.Journal de Voyage è invece una produzione realizzata in esclusiva per Fotografia Europea 2014 che ha invitato la fotografa, da sempre affascinata dai musei di storia naturale e dai Cabinet de Curiosités, a lavorare sulle collezioni dei Musei Civici cittadini. Tra le maggiori fotografe di moda contemporanee (nel 1972 fu la prima donna a scattare le foto per il calendario Pirelli), dal 1985 l'artista francese ha ampliato gli orizzonti del suo sguardo e dell'attività artistica, soffermandosi in particolare su tre temi – l'evanescenza della bellezza, l'incerto e lo scorrere del tempo – in un percorso declinato anche attraverso il video e oggetto di numerosi riconoscimenti, tra cui il Grand Prix National de la Photographie nel 1995 e il Prix Nadar nel 2008. Dotata di uno stile personale e ricco di fantasia, Sarah Moon propone a Reggio Emilia due percorsi a sfondo naturalistico, in cui gli scatti di animali, vegetali, paesaggi e delle fantastiche collezioni di reperti dei Musei Civici perdono la loro connotazione e offrono una nuova percezione della realtà. Racconti magici che traggono spunto dal mito e dalla vita reale: è il terreno su cui si muove Silvia Camporesi, l'artista forlivese che il festival ha invitato a riflettere sulla prospettiva dei luoghi-fantasma. Cosa trattiene della sua storia un luogo abbandonato? Quali depositi riesce a conservare, quali frammenti di passato? La risposta è in quella sorta di atlante visivo che Silvia Camporesi sta componendo da molti anni e di cui a Reggio Emilia si vedrà – nella mostra Planasia allestita nella Sinagoga e curata da Marinella Paderni – il capitolo dedicato a Pianosa, isola dell'Arcipelago Toscano adibita a colonia penale nel 1856 e restituita al dominio della natura dopo la chiusura del carcere nel 2011. A completare questa sezione “surrealista” di Fotografia Europea sono i lavori di due giovani e apprezzati artisti italiani: Paolo Simonazzi e Andrea Ferrari. In Cose ritrovate (Galleria Parmeggiani, a cura di Denis Curti), Paolo Simonazzi conduce il visitatore nel cuore della pianura emiliana, presentando quei personaggi – burattinai, clown, pittori, musicisti – che sostengono di “sentire le voci del plenilunio”, catturando parole portate dal vento e recitandole sul palco della vita. “Coloro che non vedono le cose come gli altri, matti in senso buono”, li amava definire Federico Fellini ai tempi del film La voce della luna. Nel progetto Wild Window (Galleria Parmeggiani, a cura di Walter Guadagnini), Andrea Ferrari passa dal surreale al visionario, costruendo attraverso il linguaggio della natura un instabile gioco di sguardi tra colui che osserva e colui che viene osservato. Senza una vera linearità, la mostra si sviluppa su una griglia che riflette la complessità della natura ed è accompagnata da un libro d'artista, con un testo tratto dalla Guida 45 agli animali fantastici di Ermanno Cavazzoni e un saggio critico di Laura Gasparini. FOTOGRAFIA E VISIONE Due possibili declinazioni dello sguardo – in particolare in rapporto con la visione del presente e nel presente – sono quelle proposte nelle mostre di Simone Bergantini e Massimiliano Tommaso Rezza. In Addiction (Chiostri di San Pietro, a cura di Daniele De Luigi), Simone Bergantini offre una meditazione sulla natura dell'immagine e sul suo status attuale, in una società contemporanea e digitale che spinge verso direzioni sempre più distanti dall'età dell'oro della tradizione fotografica. Produrre immagini oggi è un processo reso ormai quasi istantaneo e naturale dall'onnipresenza di dispositivi in grado di fotografare, come telefonini, tablet e smartphone. Tutti fotografano tutto e l'atto stesso della fotografia diventa parte integrante dell'evento che viene immortalato. La natura sempre più incerta e prolifica della fotografia è anche al centro di The Narrow Door, un'installazione di Massimiliano Tommaso Rezza (Sinagoga, a cura di 3/3) in cui le immagini si ritrovano rinchiuse in buste sottovuoto e da lì prendono forme diverse, nuove, effimere, sfuggendo al controllo (e all'intento originario) di chi le ha create. PERDITA: SPECIALE DICIOTTOVENTICINQUE Per il terzo anno consecutivo torna Speciale Diciottoventicinque, il progetto di Fotografia Europea dedicato ai ragazzi tra i 18 e i 25 anni. Con la supervisione dei quattro tutor Alessandro Bartoli, Fabio Boni, Fabrizio Cicconi e Laura Sassi, sessanta giovani fotografi sono protagonisti della mostra Vedere le cose perdute (Chiostri di San Pietro): al centro del loro obiettivo c'è il racconto della perdita, il ritrovamento di qualcosa di nuovo, la possibilità di considerare questo passaggio come una ripartenza. In omaggio ai cinquecentoquaranta anni dalla nascita del grande autore reggiano Ludovico Ariosto (il cui personaggio più famoso, il paladino Orlando, perse addirittura il senno) e lungo un percorso di workshop e laboratori che condurrà all'installazione finale presentata nelle giornate inaugurali di Fotografia Europea 2014. MAGNUM PHOTOS Retrospettiva di Herbert List / Magnum Photos Ospite speciale dell'edizione 2014 di Fotografia Europea è Magnum Photos. La storica agenzia fondata nel 1947 da giganti della fotografia mondiale tra cui Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, oggi operativa attraverso quattro uffici a New York, Londra, Parigi e Tokyo, è protagonista di diversi appuntamenti il primo dei quali consiste nella retrospettiva dedicata a Herbert List The Magical in Passing che sarà allestita nei Chiostri di San Domenico. Curata da Peer-Olaf Richter, la mostra comprende un centinaio di opere provenienti da Herbert List Estate. Intento della retrospettiva è restituire l’intera ricerca dell’artista tedesco, presentando i capolavori accanto ad opere meno note. Il risultato è un viaggio visivo che accompagna il visitatore dagli enigmatici scatti notturni, attraverso composizioni surreali e cupe, alla abbagliante luce del Mediterraneo che si riflette sui corpi di giovani uomini e sulle rovine dell’antica Grecia. Proseguendo attraverso i ritratti di celebri artisti del ventesimo secolo si giunge alla dichiarazione d’amore di List per l’Italia e alla celebrazione dell’eterna bellezza della vita. The magical in passing è una produzione di The Herbert List Estate e Magnum Photos realizzata in coproduzione con Fotografia Europea e Silvana Editoriale. La mostra viene presentata per la prima volta a Reggio Emilia in occasione di Fotografia Europe 46 HOST Magnum Photos è protagonista, inoltre, della nuova edizione di HOST, la sezione del festival in cui un'agenzia fotografica internazionale cura – durante le giornate inaugurali – una serie di incontri, proiezioni, workshop ed esposizioni. Per questa edizione di Fotografia Europea è in programma la collettiva No Place Like Home (Via Secchi, 11) a cura di Francesco Zanot. La mostra raccoglie una selezione da opere di otto fotografi contemporanei che indagano sul modo in cui negli ultimi vent'anni è stato occupato, trasformato e sfruttato a fini urbanistici il territorio. Lo sguardo della mostra non conosce confini di stile architettonico, respiro sociale o latitudine geografica: ci sono le ville borghesi di Martin Parr, i prefabbricati americani di Bruce Gilden, gli slum metropolitani di Jonas Bendiksen, l'umanità sorpresa da Mikhael Subotzky intorno al grattacielo Ponte City a Johannesburg, le famiglie australiane riprese da Trent Parke, gli scenari della Groenlandia nell'obiettivo di Jacob Aue Sobol, gli orizzonti di Brooklyn catturati da Christopher Anderson, la precarietà dei migranti del Mediterraneo raccolta da Patrick Zachmann nella serie Mare Mater. La mostra è una collaborazione tra Magnum Photos, il Fotofestival Mannheim Ludwigshafen Heidelberg, e il MUCEM e il Musée Nicéphore Niépce per la sezione Mare Mater di Patrick Zachmann. Inoltre i fotografi Abbas, Jonas Bendiksen, David Alan Harvey, Patrick Zachmann saranno a Reggio per le giornate inaugurali e condurranno una masterclass, il cui esito sarà presentato sabato 3 maggio (ore 21) al Teatro Valli. Durante questa serata verrà presentata la mostra/video Community e seguirà un dibattito con i fotografi di Magnum e François Hebel (Direttore Les Rencontres d’Arles). Non è tutto: i fotografi Magnum Olivia Arthur, Alex Majoli, Peter Marlow, Moises Saman, daranno vita ad un informale seminario su un tema specifico suggerito dall’artista nel corso di un pranzo d’autore che si svolgerà sabato 3 maggio (ore 12.30-15.30) presso il Caffè Arti e Mestieri e sarà firmato dallo chef Gianni D’Amato. Novità di questa edizione, Host Books con la partecipazione della libreria MiCamera e un bookshop d’eccezione comprendente libri fotografici da tutto il mondo, ultime pubblicazioni, edizioni rare, ma anche attività dedicate come book signing e presentazioni. Le mostre, i workshop e i pranzi d'autore dedicati a Magnum Photos e ai suoi autori, ma anche Host Books e tutte le attività collegate fanno parte del nuovo programma di HOST, la sezione di Fotografia Europea curata e coordinata da aBcM. Il programma dettagliato, le informazioni e le modalità di iscrizione suhttp://www.fotografiaeuropea.it/fe2014/host/. LE ALTRE MOSTRE Un evento speciale che impreziosisce la nona edizione del festival è la mostra Annarella Benemerita Soubrette CCCP Fedeli alla Linea Senz’altro l’abito…. Allestita presso lo Spazio Gerra (e curata dal medesimo in collaborazione con Annarella Giudici e Rossana Tagliati), l'esibizione prende spunto da libro fotografico Annarella Benemerita Soubrette CCCP Fedeli alla Linea, edito da Quodlibet (2014), nel quale si ripercorre l'inedito cammino punk/emiliano/filosovietico del gruppo musicale dei CCCP attraverso il ruolo e la presenza della sua anima femminile: Annarella Giudici. La storica formazione rock di Reggio Emilia e la sua “benemerita soubrette” vengono raccontate attraverso gli scatti di Vittorio Catti, Roberto Serra, Gianni Ingrosso, Diego Cuoghi, Toni Contiero e di Luigi Ghirri, che fu autore della copertina di Epica Etica Etnica Pathos, ultimo album pubblicato dalla band nel 1990. 47 La Fototeca della Bibloteca Panizzi in occasione della nona edizione del festival presenta la mostra collettiva La collezione di Fotografia Europea. Sguardi contemporanei, che vede una selezione di opere tratte dalla Collezione Fotografia Europea. Conservata nella Fototeca, la collezione custodisce i lavori di quasi duecento fotografi che dal 2006 hanno liberamente interpretato l’argomento individuato dagli organizzatori per ogni edizione. La collezione è quindi un insieme di opere legate ai temi del paesaggio urbano, della figura umana e dello sguardo, affrontati con una particolare attenzione alla ricerca e alla sperimentazione. La mostra, ospitata nella sala espositiva della Biblioteca Panizzi, è articolata in quattro sezioni: lo sguardo, gli oggetti, il paesaggio urbano e il paesaggio soggettivo. Raccoglie opere di Luigi Ghirri, Benedetta Alfieri, Giorgio Barrera, Gabriele Basilico, Jean Baudrillard, Cristina de Middel, Paola De Pietri, Vittore Fossati, Paolo Gioli, François Halard, Jitka Hanzlovà, Valery Jouve, Esko Mannikko, Walter Niedermayr, Bernard Plossu, Martin Parr, Pentti Sammallahti, Ferdinando Scianna, Klavdij Sluban e Marco Zanta. La mostra e il catalogo sono a cura di Laura Gasparini, con testi di Elio Grazioli, Francesca Fabiani, Ilaria Campioli, Ilaria Ghirri e Francesco Zanot. Gli apparati sono di Laura Gasparini, Giulia Lambertini e Monica Leoni. Dalla collezione sull’industria della Fondazione MAST di Bologna provengono invece le immagini della mostra Il lavoro e i lavoratori dopo la guerra del viennese Erich Lessing, uno dei più attenti testimoni di quella straordinaria fase di ricostruzione sociale, umana e industriale che furono in Europa i primi decenni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Gli scatti di Lessing sono il cuore della mostra sul tema dell'industria curata da Urs Stahel e presentata ai Chiostri di San Pietro in collaborazione con GD4 PhotoArt. EVENTI Nell'ambito delle giornate inaugurali si rinnovano molti altri appuntamenti ormai consolidati. Anche quest'anno il circuito Off accompagna il festival con il suo ricco programma alternativo che quest’anno conta complessivamente 255 progetti, mostre e installazioni organizzate nei bar, nei ristoranti, nelle librerie, nelle gallerie e in altri spazi di Reggio Emilia e provincia. Confermata è anche l'esperienza di Portfolio Europa – International Portfolio Review, il progetto di letture portfolio a cura di Gigliola Foschi e in collaborazione con FIAF Federazione Italiana Associazioni Fotografiche e InSide Professional Training. Quest'anno i protagonisti delle letture saranno Xavier Canonne (direttore del Musée de la Photographie di Charleroi, Belgio), Deirdre MacKenna (curatore della galleria STILLS – Scotland's Centre for Photography di Edimburgo, Gran Bretagna), Marc Prust (responsabile relazioni esterne del Photofestival di Noorderlicht, Olanda), Margit Zuckriegl (curatrice dell'Austrian Photographic Gallery presso il Museum der Moderne Rupertinum di Salisburgo, Austria), Fulvio Merlak (presidente d'onore di FIAF) e Carine Dolek curatrice di Circulation(s) Festival de la Jeune Photographie européenne di Parigi. L'appuntamento è per sabato 3 maggio (10-13, 15-18) e domenica 4 maggio (10-13) nel cortile della Biblioteca Panizzi (le iscrizioni e la presentazione dei propri progetti sono aperte suwww.fotografiaeuropea.it). I tre portfolio migliori verranno premiati il pomeriggio di domenica 4 maggio (presidente di giuria la curatrice Laura Serani) e il programma di Portfolio Europa prevede anche la conferenza Fotografie in dialogo. A confronto le nuove tendenze artistiche della fotografia europea (venerdì 2 maggio, ore 21.30) in cui gli esperti stranieri 48 invitati a Portfolio Europa presenteranno una selezione di significativi fotografi contemporanei dei rispettivi paesi – Belgio, Gran Bretagna, Olanda e Austria – con lavori attinenti al tema dell’edizione 2014 di Fotografia Europea. Giunge alla terza edizione il progetto Giovane Fotografia Italiana #03, curato da Daniele De Luigi e nato dalla Collaborazione tra Comune di Reggio Emilia, GAI Associazione Circuito Giovani Artisti Italiani e Circulation(s) Festival de la Jeune Photographie Européenne di Parigi. La terza edizione del progetto prevede la realizzazione di una produzione originale, presentata in anteprima nell'ambito del Festival durante una serata-evento a base di fotografia e musica in Piazza San Prospero. Lo spettacolo comprenderà la proiezione delle immagini dei giovani artisti selezionati. Tra le altre iniziative confermate e in programma durante le giornate inaugurali, non mancano i workshop e seminari rivolti a fotografi, grafici, operatori della comunicazione e a tutti coloro che desiderano perfezionare le proprie abilità nell'approccio fotografico. IL CATALOGO Le opere in mostra, i saggi dei curatori e i contributi dei critici e dei protagonisti della nona edizione di Fotografia Europea sono raccolti nel catalogo, a cura di Silvana Editoriale. Letizia Battaglia – Gli invincibili da [email protected] Gli invincibili. Un'ampia produzione d'immagini legate a personaggi e situazioni problematiche secondo il sentire comune. La sua ricerca fotografica è di un esasperato realismo, ma sempre raccoglie la sfida della bellezza. da Comunicato stampa a cura di Francesca Alfano Miglietti “Considero valore ogni forma di vita, la neve, la fragola, la mosca. Considero valore il regno minerale, l'assemblea delle stelle. Considero valore il vino finché dura il pasto, un sorriso involontario, la stanchezza di chi non si è risparmiato, due vecchi che si amano.” (Erri De Luca) Oggi è giorno di letizia. Come ogni giorno d'altronde. Oggi è il giorno in cui una gioia silenziosa appare tra le maglie di una serie di opere che intessono, scegliendole, infinite esistenze. Storie, miti, simboli e un'umanità visionaria e incosciente che nel gioco del mondo gioca la sua parte. Letizia Battaglia sembra ‘spingere dentro’ chi guarda le sue foto, e una volta dentro ci si accorge che esistono, nelle sue immagini, molti strati: la narrazione, il linguaggio dei simboli, la denuncia, la pietà, l’ammirazione, e poi la filosofia. Bisogna saper guardare. Letizia Battaglia sempre raccoglie la sfida della bellezza e torna ancora ed ancora con sguardo poetico a rivelare i molteplici paradossi dell’esistenza. La maestria visiva della fotografa palermitana è indiscutibile in questa rievocazione che mostra una fotografia sontuosa che incontra volti e gesti e passioni, le chiavi di volta che sorreggono l'intera struttura di una visione intensa, di immagini ricche 49 di significato in ogni singolo frammento. Un completo silenzio circonda queste immagini dense di rimandi e richiami, e di nomi e cognomi, nomi e cognomi carichi di fatti, eventi, rivolte, storie e leggende. In mostra una nuova serie di opere, realizzate tra il 2013 e il 2014, esposte per la prima volta, Gli Invincibili: Gabriele Basilico, Paolo Borsellino, Che Guevara, Giovanni Falcone, Sigmund Freud, James Joyce, Rosa Louise Parks, Pier Paolo Pasolini, Ezra Pound, Luisa Senzani, Il Crocifisso di Santo Spirito, la Venere di Urbino. 50 Scrive Erri De Luca: "Invincibile non è chi sempre vince, ma chi mai si fasbaragliare dalle sconfitte. Invincibile è chi da nessuna disfatta, da nessuna batosta si fa togliere la spinta a battersi di nuovo. Chisciotte che risorge ammaccato dai colpi e dalla polvere è invincibile". Un’ampia produzione d’immagini, quelle di Letizia Battaglia, legate a personaggi e situazioni problematiche per il sentire comune, un allontanarsi da ogni schema omertoso, un modo di vedere la realtà che ha rappresentato un momento di profondo cambiamento tanto nei codici linguistici della fotografia, quanto nella percezione comune della realtà. Soprattutto la sua straordinaria capacità di mostrare quello che abitualmente si nega. Quello che non si vuol vedere. Certo, se Letizia Battaglia avesse potuto scegliere, non avrebbe certo scelto di fotografare morti, sangue, violenza, paura, disperazione. Ma ha scelto di avvicinare e riprendere la scabrosità d’argomenti che abitualmente e per anni si sono voluti negare. La ricerca di Letizia Battaglia è di un esasperato realismo, agli antipodi della falsificazione cosmetica del reale, riprendendo sistematicamente, e per anni, ciò di cui si ha paura. Contro ogni rassicurante e noiosa convenzione borghese Letizia Battaglia sceglie di schierarsi più scopertamente ed attivamente contro ogni moralismo. Fotografa colta e raffinata, rivoluziona il modo di ‘riprendere’ gli accadimenti: composizioni classiche nelle quali le persone ritratte sembrano avere la consapevolezza di non essere più persone ma uno strumento d’investigazione. Letizia Battaglia è interessata a uno scambio d’emozioni fra la fotografia e il pubblico, tra lei e il pubblico, e nel suo lavoro questo emerge come dato potente, colpisce proprio la ricerca di un’empatia sentimentale: il suo stile classico conferisce solennità alle sue immagini, Letizia sembra saper intercettare gli sguardi carichi di sentimenti, di passioni, di vita. E poi dopo anni e anni di cronaca, ‘decide’ cosa vedere quando guarda: “Ho sognato spesso di bruciare i miei negativi della cronaca degli anni 70, 80 e un po’ dei 90. Per disgusto, forse per disperazione. Per annullare dalla mia vista lo schifo che aveva vissuto Palermo. Un giorno del 2004 mentre stavo guardando con rabbia e tristezza una grande foto di una madre e tre figli poveri, coricati a letto perennemente per il freddo e per la fame, mi venne come un guizzo. Io queste foto, quelle che girano per il mondo, potevo distruggerle. Cioè potevo farle diventare altro: una vita, un corpo nudo, un sorriso mescolato alla foto di cronaca. Così dal 2004 sono nate le Rielaborazioni. Rielaborando le mie foto di cronaca nera in modo diverso. Ancora oggi le uso come fondali di altre foto, non più protagoniste.’ Gli Invincibili, invece, sono stati realizzati nel 2013, mai esposti e visti: Pier Paolo Pasolini, Rosa Parks, Il Crocifisso di Santo Spirito di Michelangelo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Questi nomi non necessitano ulteriore spiegazione, parlano da sè.” Per Letizia Battaglia, a questo punto, etica ed estetica sono tutt’uno, nelle sue immagini si evidenzia che l’unità di etica ed estetica è in un modo di vedere il mondo per cui esso non appare come fonte di 51 limitazione. L’etica è un’estensione al mondo, dunque alla vita, della capacità di conferire significato, l’attenzione è posta sul fatto che la radice dell’etica è in un certo modo di vedere le cose, in un atteggiamento verso la vita. Si tratta della prospettiva di un valore non connesso a come il mondo è e che è evocato dalla meraviglia per l’esistenza del mondo. Francesca Alfano Miglietti Letizia Battaglia Letizia Battaglia è nata a Palermo, e inizia la sua carriera di giornalista nel 1969 lavorando per il giornale palermitano L'Ora. Nel 1970 si trasferisce a Milano dove collabora come fotografa con varie testate. Nel 1974 ritorna a Palermo e crea, con Franco Zecchin, l'agenzia Informazione fotografica. Ha esposto in Italia, nei Paesi dell'Est, Francia, Gran Bretagna, America, Brasile, Svizzera, Canada. Premi: 1985 a New York l’ Eugene Smith Grant; 1986 New York Times Award; 1999 a San Francisco il Mother Johnson Achievement for Life; 2007, in Germania, il Dr. Erich Salomon Preis; 2009, a New York, il Cornell Capa Infinity Award Pubblicazioni: Siciliana, Belvedere Electa, 2006; Passione, Giustizia. Libertà, Federico Motta Editore, 1999; Dovere di cronaca (con Franco Zecchin), Peliti, 2006. Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, Bruno Mondadori, 2010 Alcune mostre 1986 - Palermo amore amaro, Palermo. 2002 - Fotografie dalla Sicilia, Cantieri Culturali della Zisa, Palermo. 2003 - Sorelle, Passione, giustizia e libertà, Amsterdam, Olanda. Omaggio a Letizia Metis-nl, Amsterdam, Olanda. Expo Fotografe Italiane, Hasseblad center, Germania. 2006 - Passione, giustizia e libertà, Torino. 2006 - Siciliana, Galleria Belvedere, Milano,. Dovere di cronaca, Festival Internazionale di Roma. 2011 - Letizia Battaglia 1974 – 2011, palazzo Chiaramonte, Palermo pride 2010 -Attraverso le tenebre: Goya, Battaglia, Samorì - Raccolta Lercaro, Bologna Galleria d’Arte Paola Meliga 2012 - Letizia Battaglia / Francesca Woodman- Galleria Massimo Minini, Brescia 2014 - Letizia Battaglia: Breaking The Code of Silence, Open Gallery Eye, Liverpool 'Invictus', ovvero 'non vinto'. E' questa la forza che Nelson Mandela ha tratto da questi versi, per sua stessa ammissione fonte di sostegno 52 nei 26 anni di prigionia. E' la consapevolezza di essere 'invitto', mai sconfitto. Arrestato per tradimento, il futuro premio Nobel in prigione legge e studia, impara a padroneggiare la lingua afrikaner e fa sue queste parole: Dal profondo della notte che mi avvolge, Buia come un pozzo che va da un polo all'altro, Ringrazio qualunque dio esista Per l'indomabile anima mia. Nella feroce stretta delle circostanze Non mi sono tirato indietro né ho gridato. Sotto i colpi d’ascia della sorte Il mio capo è sanguinante, ma indomito. Oltre questo luogo d'ira e di lacrime Si profila il solo Orrore delle ombre, E ancora la minaccia degli anni Mi trova e mi troverà senza paura. Non importa quanto stretto sia il passaggio, Quanto piena di castighi la vita, Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima. fino al 18 Maggio 2014 al Circolo Marras, via Cola di Rienzo, 8 (cortile interno) , Milano - Orari: 10-19,Ingresso libero Wim Wenders, le fotografie di Alessia Carlino da http://www.insideart.eu/ A Roma, palazzo Incontro, gli scatti del regista tedesco, esplicito il suo amore per Hopper e Ghirri «La fotografia rappresenta sempre meno un processo di tipo cognitivo che offre delle risposte, ma rimane un linguaggio per porre delle domande sul mondo. E io, con la mia storia, ho percorso esattamente questo itinerario, relazionandomi continuamente con il mondo esterno, con la convinzione di non trovare mai una soluzione alle domande, ma con l’intenzione di continuare a porne. Perché questa mi sembra già una forma di risposta». Luigi Ghirri, Dimenticare se stessi, 1989. Non vi è presenza umana nelle fotografie di Wim Wenders, le architetture urbane si stagliano magniloquenti senza dare forma a una narrazione diretta e univoca, lo sguardo si intreccia tra le rughe di un edificio, negli anfratti di un caseggiato, nel silenzio del paesaggio. 53 Wenders incontra Ghirri all’inizio della sua carriera cinematografica. Ghirri incita il regista tedesco a proseguire la sua ricerca visiva, Wenders raccoglie le parole del fotografo emiliano e continua il suo percorso professionale anche attraverso i lavori del maestro di Scandiano, quel pensare per immagini che è divenuto il dogma di una nuova generazione di fotografi. Esiste un senso di smarrimento negli scatti di Wenders, un’attesa di matrice Beckettiana, dove l’uomo è sospeso in un interstizio temporale senza soluzione di continuità. Mosca, Berlino, Tokyo, divengono luoghi immaginifici, contesti anonimi dove spazi e forme divengono storie e significati. Le immagini, rigorosamente a colori, fissano un concetto, delimitano lo spazio di uno sguardo, laddove la frammentarietà della superficie rappresenta la scelta linguistica del fotografo che lascia allo spettatore il compito di proseguire il racconto, di raccogliere una testimonianza, di essere il narratore inconsapevole di una storia trascritta a metà. Wenders scopre il tessuto urbano anche attraverso i retaggi storico artistici che ha immagazzinato nel suo percorso formativo, il primo importante influsso deriva dalla pittura di Hopper, quella volontà di sospendere, di filtrare lo spazio circostante in attesa di un evento, di un cambiamento che rivoluzioni l’esistenza ma che inevitabilmente non avrà mai luogo. La sospensione del tempo scaturisce un processo cognitivo dove svanisce ogni punto di riferimento, come fosse all’interno di un’opera di Hopper, Wenders dilata lo scenario, rende inaccessibile le prospettive incomplete dei palazzi, estremizza la sua ricerca espressiva fino a mettere in discussione l’approccio estetico e concettuale dell’inquadratura fotografica. «Per me vedere significa sempre immergersi nel mondo, pensare, invece, prenderne le distanze», nelle parole del cineasta si percepisce il dogma fondante del suo lavoro, il rapporto elettivo che ha costruito con la narrazione del paesaggio frutto di una rappresentazione mai scontata della realtà, che permette di rallentare lo sguardo e di cercare immagini immerse nel contemporaneo. Urban solitude diviene un monito esistenziale, uno status intellettivo che innesca il dialogo consegnando allo 54 spettatore un repertorio iconografico del quotidiano dove è possibile costruire le identità espressive di anonime geografie metropolitane. Fino al 6 luglio; palazzo info: www.fandangoincontro.it Incontro, via dei Prefetti 22, Roma; Foto Micaela Lattanzio 55 E non ho trovato l’invasor (spiacente, ragazzi) di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Uno più uno fa tre, e scatta lo sdegno contro gli “inesperti eccellenti”. Nel giro di un paio di settimaneLa Repubblica ha ospitato unlungo articolo di Alessandro Baricco su Vivien Maier, la bambinaia fotografa, e un altrettanto lungo reportage di Roberto Saviano sulla mostra newyorkese delle foto a colori di Bob Capa. E i bottoncini rossi delle notifiche hanno cominciato a spuntare frenetici sulla mia bacheca Facebook, e rimandavano a grida di allarme, alcune garbate e argomentate, altre più sentenziose e insofferenti. Tutte comunque più o meno su questa linea: basta con questi outsider che si permettono di scrivere di fotografia senza saperne nulla, senza avere una solida cultura fotografica alle spalle, senza maneggiare un linguaggio appropriato, basta con questi media che danno spazio alle firme famose e non ai veri esperti. 56 Mi è dispiaciuto polemizzare, in privato e in pubblico, con questi critici, alcuni dei quali sono veri amici, oltre che stimabili esperti di fotografia. Ma non sono d’accordo neanche con i loro dubbi più garbati. Anche se penso di capire le motivazioni dell’irritazione di tutti. Quasi nessuno, per fortuna, metteva in discussione il diritto di chiunque abbia facile accesso ai media, come i due noti scrittori-giornalisti in questione, a scrivere dell’argomento che crede. La domanda un po’ più sottile era invece: queste “incursioni” nel campo del fotografico da parte di scrittori e giornalisti sono utili o dannose alla cultura fotografica? È una polemica ricorrente, molto vicina a quella dei “fotologi” contro l’”interdisciplinarità” degli studi antropologici, sociologici, politologici sulla fotografia. E ha qualche somiglianza anche con le intemperanze di alcuni fotografi contro chi scrive di fotografia senza essere lui stesso un fotografo. È una polemica che a mio parere mette a nudo una debolezza, che è la vera questione di cui bisognerebbe discutere. Personalmente non sopporto le privative culturali, i recinti accademici sacri, i monopoli specialistici, le diffide esoteriche. Anche perché nessuno è stato ancora in grado di dirmi come si ottiene la patente di esperto fotologo, e chi siede nella commissione d’esame. Chi scrive su un giornale generalista scrive per tutti, e tutti possono a loro volta leggerlo, non leggerlo e magari scrivere cosa pensano di quel che ha scritto e, se riescono, scrivere qualcosa di meglio: ci guadagnano tutti. Non conosco altra dialettica culturale. Il protezionismo sicuramente non è tale. In Francia questo genere di interazione si esercita ad esempio su una piattaforma di blog coordinati di studiosi diversi, ma che hanno fatto rete. Da noi? In un numero recente di Aperture, rivista imprescindibile per chi si occupa di fotografia, il critico indiano Aveek Sen rileggeL’avventura di un fotografo di Italo Calvino, un racconto scritto vent’anni prima della Camera chiara di Barthes e di Sulla fotografia di Sontag, e lo definisce “una parabola molto più contemporanea dei testi della trinità fotografica Barthes-Sontag-Benjamin”. Mi domando come reagirebbero tanti, oggi, se Calvino scrivesse di fotografia sul paginone di Repubblica. Forse trattandolo con irritazione come “il solito scrittore famoso che viene messo in pagina per vendere qualche copia”, e che “pensa di avere capito tutto sulla fotografia”. 57 Queste reazioni, ripeto e spiego, sono indice di profonda insicurezza e debolezza. E capisco perché. La fotografia come campo di studio, come oggetto culturale, in Italia, per quanto non siano mancati studiosi seri e originali, non ha fondato alcuna vera comunità, neppure fatta di scuole o tendenze contrapposte, alcun sapere condiviso o conflittuale che sia, ma messo in comune. Solo isolati, per quanto validi, contributi individuali. E dove non c’è una “disciplina” non c’è interdisciplinarità, dove non c’è un side non può neppure esistere un outsider, c’è solo un territorio vago dove le incursioni dei non addetti ai lavori, invece di essere, come ovunque sono, preziosi sguardi dall’esterno, sani stimoli e magari provocazioni, vengono percepiti, da volonterose spaventate sentinelle che si accorgono di dover presidiare un paese spopolato, come intromissioni pericolosissime, invasioni di campo, minacce mortali. Si può certo dire che non tutto quel che si legge sui giornali a proposito della fotografia ha la profondità e l’intuizione di quello splendido testo di Calvino, che ci svelò in anticipo più cose sulla bulimia delle immagini in Rete (della cui futura esistenza lui neppure sospettava) di tutto quello che scrivono, almeno da noi, gli “esperti”. 58 Ma anche quel che si scrive semplicemente per raccontare la fotografia a lettori non specializzati, semplicemente traducendo in parole il sentire diffuso su un autore, di un’opera fotografica, insomma interpretando il “pensiero sociale” sulle fotografie, io credo sia utile. È anche questa una cosa che fanno gli scrittori, gli “outsider”, e che spesso non riescono a fare gli “esperti”. Quindi: più che scacciare gli invasori, i custodi del recinto sacro pensino un po’ a riempirlo meglio, a organizzare reti, scambi, spazi, linguaggi condivisi. I vuoti, qualcuno li riempie sempre. Tag: Alessandro Baricco, Aperture, Aveek Sen, Critica fotografica, Italo Calvino, Robert Capa, Roberto Saviano, Vivian Maier Scritto in critica, dispute, fotografia | 38 Commenti » Philippe Halsman oltre i cliché. In mostra a Losanna Musée de l'Elysée, Losanna - fino all'11 maggio 2014. Una mostra dal taglio scientifico riassume la carriera del grande fotografo. Riunendone le icone, ma soprattutto esplorandone motivazioni e rapporti col contesto artistico e culturale. di Stefano Castelli da http://www.artribune.com/ Philippe Halsman 59 Tra i musei europei più importanti nel campo della fotografia, l’Elysée di Losanna svolge un lavoro di ricerca fondamentale quanto quello espositivo. Ogni mostra è il frutto di anni di catalogazione, riscoperta e archiviazione di provini e scatti d’epoca (la collezione conta 100mila pezzi). E questo approccio scientifico si riflette anche nelle mostre temporanee. Tanto più quando si tratta di autori di scatti notissimi come Philippe Halsman (Riga, 1906 – New York, 1979), protagonista di una retrospettiva aperta fino all’11 maggio. Nonostante non manchino le icone dell’artista (ad esempio l’immagine dei corpi nudi che formano un teschio o la serie della Jumpology) la mostra non riduce la poetica di Halsman a una sequela d’immagini celebri, ma analizza cronologicamente e tematicamente i passaggi della sua carriera, mostrandone ragioni profonde e rapporti col contesto. A partire dagli Anni Trenta a Parigi, segnati da un’adesione al Surrealismo mai scontata, allo stesso tempo ortodossa ed eccentrica. Con una poetica sempre raffinatissima, tanto che le sue foto del periodo colpiscono ancora oggi per sobrietà e freschezza. Per passare poi al periodo in cui definisce il suo stile, dando vita a una personalissima fusione dei canoni della fotografia soggettiva con le reminiscenze del Surrealismo. Philippe Halsman Il percorso successivo è segnato da incontri con star e artisti – sempre interpretati con ritratti originali e in parte dissacranti, dalla lunga serie di copertine per la rivista Life, dai lavori per il cinema, in particolare con Hitchcock, e dalla serie dei Jump – in cui l’artista inventa un espediente oggi diffusissimo, quello di riprendere le celebrità nell’atto di saltare. E alcuni degli scatti più curiosi della mostra sono proprio tra quelli dellaJumpology: non solo le star ma anche insospettabili come i duchi di Windsor si prestarono al gioco. La conclusione della mostra, poi, analizza con dovizia di particolari l’intensa collaborazione di Halsman con Salvador Dalí. Nel complesso, la carriera di Halsman è una lunga esplorazione della società di massa, mai puramente celebrativa ma condotta con spirito e ironia. Come a 60 voler scovare ciò che di esteticamente valido c’è anche in soggetti abusati e universali, e proprio per questo estremamente rappresentativi. A patto di strapparli ai luoghi comuni. Losanna // fino all’11 maggio 2014, Philippe Halsman – Etonnez-moi! a cura di Sam Stourdzé e Anne Lacoste- MUSEE DE L’ELYSEE18, avenue de l’Elysée - [email protected] - www.elysee.ch Acido Dorado. Mostra di Mona Kuhn a Londra di Claudia Colia da CultFrame - Arti Visive [email protected] Da oltre 40 anni la Flowers Gallery di Londra ha contribuito a promuovere le carriere di artisti come Anish Kapoor, Anthony Gormley e Anthony Caro, mettendo in scena mostre di fotografia, performance e installazioni d’avanguardia. Oggi, la galleria opera a livello internazionale, unendo a due sedi londinesi, uno spazio a New York. 61 La Flowers di Shoreditch ospita la mostra di Mona Kuhn, dal titolo Acido Dorado. Il titolo della serie fotografica dell’artista di origini brasiliane, nota per aver rielaborato in chiave contemporanea e intimista il nudo d’arte, deriva dalla struttura modernista realizzata dall’architetto Robert Stone nel deserto del Joshua Tree National Park. L’edificio è un padiglione minimalista, i cui ambienti, per la maggior parte rivolti verso l’esterno, tramite ante scorrevoli, cambiano d’aspetto nel corso della giornata, mimetizzandosi con il paesaggio oppure risaltando di iridescenze nella luce del deserto. © Mona Kuhn. AD6046, 2013/14. Chromogenic print, 114 x 152 cm. La nudità fa parte integrante dell’ambiente in cui si situa e le forme si dissolvono in esso, ma in questa serie la reinterpretazione del corpo umano viene approfondita, mediante l’uso di tecniche ed espedienti che propendono verso l’astratto e il surreale. La luce e la natura arida e minimalista del deserto, unite ai riflessi delle vetrate dell’Acido Dorado, creano un gioco di ripetizioni e frammentazioni. Il corpo è sempre la sede delle emozioni, involucro senza tempo e senza inibizioni, che in questo lavoro si tramuta in un miraggio, espressione astratta, pregna di libertà e solitudine. La meditazione sulla figura umana e l’ambiente che la contiene, si focalizza più su aspetti cromatici e sensoriali: la ruvidezza della sabbia, la coriaceità delle sparute piante grasse, la luce dorata che accarezza le forme, i piani multidimensionali delle strutture moderniste, in cui il corpo si riflette. La Kuhn ottiene ulteriori effetti mediante interventi personali, come fogli di carta argentata per rifrangere le luci oppure tagli casuali, che includono la vegetazione e le ombre delle varie ore del giorno. I confini tra esterno e interno si fanno labili. Aleggia sempre una sensazione di disorientamento allucinato, propria del deserto, che con i suoi miraggi, le rifrazioni, e le ombre allungate, vanifica i profili, immergendo lo spettatore in un sogno frammentato e senza tempo. 62 © Mona Kuhn. AD7272, 2013/2014. Chromogenic print, 152 x 114 cm. Acido Dorado è forse il lavoro più astratto di Mona Kuhn, e deve le sue qualità oniriche alla fortuita combinazione di elementi naturali ed artificiali (la luce, la sabbia, il vetro, gli specchi) nonché alla collaborazione di vecchia data con la modella olandese, che appare nelle foto. Ispirazione, osservazione, mutuo rispetto e la capacità di catturare il nudo come astrazione, conferiscono a questa serie delle qualità accattivanti e misteriose. Elementi naturali ed astratti finiscono per fondersi in una narrativa inimitabile, dove il nudo è il punto di partenza per l’esplorazione concettuale della forma umana. INFORMAZIONI Mona Kuhn – Acido Dorado - Dal 4 aprile al 10 maggio 2015 - Flowers Gallery / 82 Kingsland Road, Londra / Tel.: +44(0)2079207777 - Orario: martedì – sabato 10.00 – 18.00 / Ingresso libero LINK : Il sito di Mona Kuhn - Flowers Gallery, Londra Ugo Mulas. La fotografia Comunicato stampa da http://www.exibart.com/ A poco più di 40 anni dalla sua morte, Brescia dedica al grande fotografo Ugo Mulas, nato Pozzolengo nel 1928, un importante tributo, che è anche una riflessione sul suo imprescindibile lavoro di sintesi, La fotografia (Einaudi 1973). Promossa da Comune di Brescia e organizzata da Fondazione Brescia Musei, la mostra che si apre il 16 aprile ( e che rimarrà aperta sino al 15 luglio) nello splendido complesso del Museo di Santa Giulia, patrimonio Unesco, è il frutto 63 di una condivisione di intenti con l’Archivio Ugo Mulas - nelle persone di Valentina e Melina Mulas - che con la courtesy di Galleria Lia Rumma ha accolto l’invito della città e del fotografo Renato Corsini a partecipare a questo progetto. Ugo Mulas - Jasper Johns, New York, 1967 Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano - Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli [Vedi la foto Valore aggiunto di questa occasione bresciana, la curatela critica e attenta di JeanFrançois Chevrier, storico dell’arte e della fotografia, docente all’Ecole nationale superieure des Beaux-Arts di Parigi, autore di numerose pubblicazioni e curatore di importanti rassegne. Il percorso costruito da Chevrier attraverso una ricca selezione di fotografie tra quelle che lo stesso Mulas aveva scelto di riprodurre nel 1973, mette in relazione i tre principali filoni in cui si è espressa la sua opera: i reportages sull’arte e sugli artisti, le indagini documentarie sul contesto urbano e, infine, l’analisi degli elementi costitutivi del procedimento fotografico. Le fotografie che si riferiscono al primo ambito evidenziano come Ugo Mulas sia stato un grande osservatore e interprete delle novità apparse nel mondo dell’arte in Italia e negli Stati Uniti durante gli anni ’60. Il suo libro sulla “nuova scena artistica newyorkese” (New York: The New Art Scene, 1967), comprova che un reportage artistico può essere anche il risultato del lavoro di un critico d’arte. I suoi ritratti di artisti, spesso intenti nel loro lavoro, e gli interni d’atelier mostrano personaggi e opere, certo, ma documentano anche atteggiamenti e comportamenti. Bresciano di nascita ma milanese di adozione, Mulas concepiva la sua attività di fotografo come un processo di apprendimento - applicato in particolare al territorio vissuto e al contesto urbano - nel corso del quale ha sempre tenuto legate arte e conoscenza, sperimentazione ed esperienza. Questo approccio è riconoscibile in tutto il corpus della sua opera, e in modo quanto mai evidente nello studio metodico – in cui si combinano immagini e testi – che egli riservò all’operazione fotografica. Museo di Santa Giulia - Via Musei, 81/b, 25121 Brescia - fino al 15.07.2014 orario: fino al 15 giugno: da martedì a domenica ore 9.30-17.30 (chiusura biglietteria ore 16.30) - dal 16 giugno al 15 luglio: da martedì a domenica ore 10.30-19.00 (chiusura biglietteria ore 18.00) Chiuso tutti i lunedì non festivi (possono variare, verificare sempre via telefono 64 La lotta ai ritocchi di Photoshop (ma davvero serve una legge?) di Maria Luisa Agnese da http://27esimaora.corriere.it/ –>> clicca sulla foto ed entra nella gallery La mania dei ritocchi Photoshop –>> Una Beyoncé quasi emaciata, riconoscibile solo dai capelli, che gioca a golf con le celebri gambotte ridotte a due stecchini, ma con l’agognato buchetto fra le cosce, quel thigh gap tanto inseguito dai codici di magrezza contemporanea: è l’ultimissima diavoleria firmata Photoshop che ha acceso la Rete e provocato le urticate proteste dei fan della cantante/attrice. La famosa matitina che cancella imperfezioni e infelicità psicologico-estetiche è ormai inarrestabile, corre e modifica le immagini, creando cortocircuiti nel sistema della comunicazione. E danni irreversibili nelle menti di chi vuole emulare modelli troppo perfetti. Non resta che fermarla per legge? Se lo sono chieste due politiche americane (Ileana Ros-Lehtinen, repubblicana, e Lois Capps, democratica) che ora ci stanno provando con un manifesto bipartisan che invoca più attenzione e vigilanza, almeno in campo pubblicitario. Ma non è esagerato pensare di fermare quel mouse fissando un limite perregolamento? Non sarebbe più ragionevole ipotizzare che il limite possa scaturire da una regola interna? «Molto meglio la seconda, se ci si riesce» sostiene il fotografo Bob Krieger, autore di indelebili ritratti della società italiana e internazionale, avversario del Photoshop al suo apparire, e adesso pentito della sua iniziale severità: «All’inizio ho reagito male, sfido io, anni di sudore per cercare di cancellare un brufolo o una rughetta solo con le luci e le inquadrature. Poi ho capito che quest’arma nuova uccideva il mestiere di fotografo, ma ti dava grandi possibilità come artista. E ora mi diverto anch’io». In fin dei conti il Photoshop non è peccato molto più veniale di un lifting, che cambia i connotati per sempre? Almeno Photoshop non è irreversibile. Anche se indubitabili, ça va sans dire, sono i danni che il photoshop sta producendo nel suo dilagare: poco prima del caso Beyoncé c’era stato quello di Lady Gaga. Alcune sue foto, fatte per la campagna Versace, erano sfuggite 65 al controllo interno e pubblicate sul web prima del ritocco. E chissà se davvero siano sfuggite o se lei stessa, nella sua ansia di creare enfasi mediatica, non le abbia lasciate scappare. Ma anche i maschietti ormai cercano di coprire le borse sotto gli occhi e le incipienti calvizie con ritocchi malandrini: piccole vanità a cui non si sottraggono neppure i politici e la nobiltà, l’ormai stempiato principeWilliam d’Inghilterra per esempio è apparso sulla copertina della rivistaHello con capigliatura rinfoltita e ben composta. E chissà quante tartarughe (quegli addominali sempre più esibiti) sono frutto, anche loro, di sapienti ritocchini. Ma in fin dei conti la fotografia è stata sempre tentata dalla deriva estetica, a meno che fosse documento del dramma, avverte Krieger: «Io stesso ho visto Avedon che nel suo studio sostituiva le mani a una modella. E quante lamette di rasoio han levigato, nel passato, le zampe di gallina? E poi mi chiedo, la schiena perfetta vista da dietro del Violon d’Ingres di Man Rayera solo dono di madre natura?». Quella che era nata come nobile arte del ritocco, poi transitata dalle parti della storia per riscriverne i brani meno edificanti (ricordate i nemici cancellati da Hitler, Stalin, Mao nelle immagini ufficiali?) ora rischia di ridursi schiava di quello che ci appare come il nuovo codice unico di bellezza. «E non pensiamo che sia facile liberarsene tanto facilmente, io sono malato di estetica… ma sicuri che ormai non lo siamo tutti?». Tutti immersi nella melassa superpatinata senza possibilità di scampo? Basta pensare all’imprevisto capitato persino a Lena Dunham, autrice della serie di culto americana «Girls» e paladina del corpo rappresentato nella sua genuinità, inciampata anche lei nel Photoshop, per paradosso, sulla copertina di Vogue america. «Io resto io con il mio corpo irregolare e fuori dai codici, e una rivista come Vogue resta una fantasia della bellezza di un attimo» si è difesa un po’ imbarazzata Lena. Come dire: per un giorno il sogno non si nega a nessuna. E il ritocco è meno invasivo, impegnativo e costoso di un lifting. Tanto più che, se non piace, si può sempre dire: «Domani è un altro giorno». 66 Cicche nel posacenere di platino di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Irving Penn, Black and White Vogue Cover (Jean Patchett), New York, 1950. Copyright © by Condé Nast Publications, Inc. , g.c. Erano ritratti perfetti e costosissimi, come tutti i suoi. Grandi fotografie stampate al platino-palladio su carta Rives Arches, la migliore. Cinque giorni di set, poi quasi un anno in camera oscura per raffinare la perfezione. Ritratti di chi? Di cicche. Sì, cicche, butts,mozziconi di sigarette Camel e Chesterfield, cicche raccolte da terra, masticate e sporche, però messe in posa come modelle di haute couture. Quando nel 1975 Irving Penn espose al MoMa il suo pattume d’alta classe, molti si chiesero cosa volesse mai dimostrare, dopo trent’anni di successo sulle pagine patinate diVogue. Di essere un artista e non solo un grande tecnico, un artista capace di esercitare il suo stile anche su un posacenere? Oppure il suo era sarcasmo feroce sulla vuota supponenza del mondo della moda, dell’eleganza, del glamour? Che era poi il suo stesso mondo, e lo sarebbe stato per oltre mezzo secolo, quel mondo che ora riecheggia inResonance, la grande retrospettiva che Palazzo Grassi dedica a Irving Penn, a cinque anni dalla morte. Forse le cicche glamour erano solo un piccolo sberleffo alla vita. Neanche il primo. Due fratellini dotati, erano i figli dei signori Penn, papà orologiaio e mamma infermiera di Plainfield, New Jersey. Arthur sarebbe diventato un famoso regista. 67 Irving studiò grafica e design, e trovò lavoro subito, nel 1940, come art director della pubblicità di Saks, celebre boutique di accessori della moda di lusso sulla Quinta Strada: mica male come debutto, e tuttavia da lì si licenziò appena un anno dopo, per andare a dipingere in Messico. Occhio ai dettagli: l’art-director che gli aveva lasciato quel posto di lavoro era Alexander Brodovich, che sarebbe poi diventato il dio-in-terra di Harper’s Bazaar; mentre Penn lo lasciò a sua volta ad Alexander Liberman, che sarebbe diventato il plenipotenziario diVogue. Curiosa questa staffetta. Un destino succulento stretto come tra due fette di unsandwich. Infatti, di ritorno dal suo sabbatico messicano, trovò Liberman già insediato sulla tolda dell’impero patinato della moda, ben disposto a ricambiargli il favore assumendolo come progettista e supervisore delle copertine della rivista. Penn, tipo taciturno e perfezionista, le trovò di basso livello. “Vi faccio vedere io come si fa”, prese in mano la fotocamera di persona, e in pochi giorni realizzò una elegante natura morta di cinture borse e guanti. La prima delle sue 156 cover. Il battesimo di una carriera. Pochi anni dopo, in coppia con Richard Avedon, che Liberman intanto aveva strappato ad Harper’s, era già uno dei dioscuri, invidiatissimi, intoccabili, della fotografia di moda internazionale. Non si pestarono mai i piedi: erano troppo simili e troppo diversi. Irving Penn, Cuzco Children, 1948, Copyright © by Condé Nast Publications, Inc., g.c. Penn era il divo anti-divo dell’epoca in cui Michelangelo Antonioni celebrava il mito del fotografo dandy nel suo Blow-Up, genere “scarpe da ginnastica e niente cravatta”. Lui era così, ma con in più un rispettosacrale per il bello classico e una dissimulata conoscenza della storia dell’arte. Di un suo ritratto di gruppo degli 68 Hell’s Angels, teppisti motomontati, si disse a ragione che somigliava a un fregio di centauri di Fidia. Nel ’44, in servizio come autista di un’ambulanza militare in Italia, riconobbe Giorgio De Chirico a passeggio per le vie di Roma, e prima ancora di presentarsi lo abbracciò di slancio, “per me lui era un eroe, io per lui probabilmente un deficiente”, però il pittore lo prese in simpatia e per un paio di giorni gli fece da cicerone nella “città aperta”, esperienza incancellabile. Un rivoluzionario sommesso, ma senza esitazioni: con lui, e dopo di lui, le fotografie di moda non furono più obbligate a descrivere nei dettagli le pieghe dei vestiti, né a fornire precise informazioni su borsette e cappellini. Certe sue copertine, in un contrasto bianco e nero tirato quasi al tratto, pattern di scacchi e righe, sono sfide alla comprensione dello spazio, sono pastiche in sile pop. Uomo fedelissimo a se stesso: il tono dei suoi monocromi è inconfondibile, come una firma. Uomo fedelissimo ai propri affetti: conobbe la sua futura moglie, la modella e poi artista Lisa Fossangrives, su un set, nel 1942, e rimase con lei fino alla sua morte, cinquant’anni dopo. Con Avedon, prima rivali poi colleghi di testata, fu un curioso rispettosissimo duello a distanza, “Richard mi terrorizza, è preciso come un sismografo”. Soprattutto sui ritratti di celebrità. Avedon sbatteva i suoi soggetti contro un fondale bianco che sospendeva il loro ego in un vuoto imbarazzante. Penn invece li costringeva letteralmente nell’angolo: ecco Strawinskij, ecco Duchamp mentre tentano di darsi un contegno con le spalle incastrate nel cuneo strettissimo fra due pareti bianche che Penn si era fatto appositamente costruire in studio. Dietrich, Picasso, Auden, Capote, il medagliere di grandi che non mise a loro agio davanti al suo obiettivo è infinito. Ma abbandonò più volte il jet set per fuggire, come da ragazzo, nei paesi assolati e desolati, Perù, Dahomey, Marocco, Nuova Guinea, a far ritratti di indigeni, gente comune e bimbi e donne di villaggio, messi in posa davanti al suo celebre fondale grigio perla, anche quello un suo brand. Bagni di alterità per dimostrare a se stesso di essere un fotografo e non un cliché meccanico. Convinto com’era che la fotocamera fosse un difficile strumento da maneggiare, “a volte uno Stradivari, a volte uno scalpello”. Tag: Alexander Liberman, Alexej Brodovitch, Arthur Penn, fotografia di moda, Giorgio De Chirico,Harper's Bazaar, Igor Strawinskij, Irving Penn, Lisa Fossangrives, Marcel Duchamp, Marlene Dietrich,Michelangelo Antonioni, MoMa, Pablo Picasso, Richard Avedon, Truman Capote, Vogue, W.H. Auuden Scritto in moda, ritratto, riviste, Venerati maestri Ghirri, List e i grandi fotografi tra passato e futuro di Giulio Mandara da http://www.fotozona.it/Torna per la nona edizione la kermesse fotografica di Reggio Emilia: tra i protagonisti l'agenzia Mngnum, con le mostre su 69 Luigi Ghirri ed Herbert List; e poi i fotografi contemporanei e i giovani, e tanti eventi nelle giornate inaugurali del 2-4 maggio, compresa una European Portfolio Review GHIRRI PROTAGONISTA A FOTOGRAFIA EUROPEA 2014 - Il nome di Luigi Ghirri, uno dei protagonisti della fotografia internazionale del Novecento (vissuto solo 49 anni, dal 1943 al 1992), è solo quello di punta e di maggior richiamo tra gli autori delle mostre in programma a Fotografia Europea 2014, nona edizione della rassegna di mostre ed eventi centrati sulla fotografia a Reggio Emilia. Sono confermate le location delle scorse edizioni: Chiostri di San Pietro, Chiostri di San Domenico, Palazzo Casotti, Galleria Parmeggiani, Spazio Gerra, Sinagoga, Musei Civici, Biblioteca Panizzi. La mostra dedicata a Ghirri è una grande retrospettiva dal titolo “Pensare per immagini” che raccoglie, insieme a 300 scatti, anche materiale d'altro genere, come menabò, libri, cartoline, copertine di dischi, riviste, a comporre un ritratto a 360 gradi dell'artista, che fu anche editore e curatore, critico e collezionista, oltre che fotografo. La mostra sarà aperta nelle giornate inaugurali di Fotografia Europea 2014, dal 2 al 4 maggio, in cui si concentrano anche gli eventi correlati per poi proseguire, come le altre, fino al 15 giugno. Divisa in tre aree tematiche, Icone, Paesaggi e Architetture, la mostra permette di ripercorrere più agevolmente le fasi della ricerca artistica di Ghirri, i luoghi e le storie che ha raccontato con le sue foto, spesso nella sua terra natale e nei dintorni, lungo la via Emilia). La mostra proviene per la maggior parte dai due principali arichivi dell'opera di Ghirri: negativi e diapositive dalla Biblioteca Panizzi, da una parte, vintage prints (stampe d'epoca) dalla casa di Roncocesi. L'autore risulta ancora attuale “per la forza di uno sguardo che riuscì ad anticipare e affrontare temi cari alla contemporaneità, come il rapporto con la società dell'immagine o la dialettica tra visione e percezione”, spiegano i curatori nella presentazione. “Pensare per immagini” aiuta a recuperare il valore di un'attività unica, in grado di lasciare segni ancora evidenti e influenti oltre vent'anni dopo la scomparsa dell'artista. Collegata alla figura di Ghirri nell'ambito di Fotografia Europea 2014 è infine la presentazione della nuova edizione dei suoi scritti da parte di Francesco Zanot, nell'ambito degli eventi durante le giornate inaugurali della manifestazione. Luigi Ghirri, Parigi, 1972, da Fotografie del periodo iniziale (1969-1972) Courtesy Fototeca Biblioteca Panizzi, Reggio Emilia, Courtesy © Eredi Ghirri 70 Luigi Ghirri, Alpe di Siusi, 1979, da Topografia-Iconografia (1980-1981), Courtesy Istituto Nazionale per la Grafica, Roma HERBERT LIST E MAGNUM PHOTOS - Tra le altre mostre ospitate da Fotografia Europea 2014 spicca la retrospettiva su Herbert List curata da Magnum Photos, storica agenzia fotografica che ebbe tra i fondatori Henri Cartier-Bresson e Robert Capa, e che è l'ospite d'onore di questa edizione della rassegna. Anche qui, come per Luigi Ghirri, lo scopo è “restituire l'intera ricerca dell'artista tedesco, figura di riferimento per la fotografia metafisica del Novecento e maestro del sottile gioco tra classico e glamour, tra nostalgia per un mondo perduto e possibile ritorno del medesimo attraverso l'immagine colta e curata”. Tra le sue opere, anche i nudi maschili e i ritratti di italiani celebri dell'epoca, come l'attrice Anna Magnani o gli artisti Giorgio De Chirico e Giorgio Morandi, e moltre altre opere ancora, che definiscono uno stile detto “classicismo visionario”. I PROTAGONISTI DEGLI SCORSI ANNI E I GIOVANI - E ancora, tra l'altro, ci sarà una selezione di autori che sono stati protagonisti delle precedenti edizioni di Fotografia Europea (una selezione di opere tratte dalla Collezione Fotografia Europea, con le opere di quasi 200 fotografi che hanno interpretato liberamente il tema scelto per ogni edizione, che sono stati, tra l'altro, il paesaggio urbano, la figura umana e lo sguardo, riletti secondo una particolare prospettiva di ricerca e sperimentazione. E poi, tra le altre, Fotografia Europea 2014 ospita una mostra dedicata ai giovani fotografi, attraverso il progetto Speciale Diciottoventicinque, dedicato quest'anno al tema “Ciò che è perduto”, a 150 anni dalla nascita di Ludovico Ariosto (il cui personaggio Orlando perse il senno). Un'altra serie di mostre di Fotografia Europea 2014 è accomunata dal tema del surrealismo, altre due possono andare sotto il titolo comune “fotografia e visione”. 71 Silvia Camporesi, Planasia #7 (Forte Teglia), Isola di Pianosa, 2014, Stampa bn su carta fotografica archival matte colorata a mano, Courtesy Silvia Camporesi LE MOSTRE “ALTERNATIVE” E GLI EVENTI INAUGURALI - Ancora, è in programma come gli scorsi anni un circuito “Off” di Fotografia Europea: una serie di mostre, installazioni, progetti e incontri in location solitamente non dedicate alle esposizioni, quali bar, ristoranti, librerie e altri spazi a Reggio Emilia e in provincia. Infine ricordiamo, in una manifestazione dal titolo “Vedere - uno sguardo infinito”, gli eventi che si terranno nelle giornate inaugurali: incontri, proiezioni, workshop ed esposizioni. La collettiva “No Place like Home” raccoglie la ricerca svolta da otto fotografi contemporanei su come il territorio è cambiato, è stato occupato e anche sfruttato a fini urbanistici. Sarah Moon, Calao Trompette, Paris, août 2013, © Sarah Moon dalla serie "Alchimies" 72 Ci sarà anche un pranzo d'autore con alcuni fotografi di Magnum che daranno vita a un seminario informale su un tema specifico suggerito da Francesco Zanot, curatore della mostra, presso il Caffé Arti e Mestieri. In programma nelle giornate inaugurali ci sono anche una lettura di portfolio da parte di professionisti della fotografia italiani e internazionali (il 3 e il 4 maggio, su prenotazione, alla Biblioteca Panizzi); l'International Portfolio Review è realizzato in collaborazione con la FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche), InSide Professional Training, e vedrà tra i lettori la curatrice della kermesse di Reggio Emilia, Laura Serani. Da ultimo una conferenza: “Fotografie in dialogo. A confronto le nuove tendenze artistiche della fotografia europea” (la sera di sabato 3 maggio, ore 21. O capitale, o umano? di Michele Smargiassi da smargiassi-michele.blogautore.repubblica.it Sebastião Salgado, Brest, France, 1990 © Sebastião Salgado/Amazonas Images/Contrasto, g.c. 73 Eroi o vittime. Automi o creatori. No, non c’è un’immagine univoca dell’uomo al lavoro, nella storia della fotografia. Ce ne sono molte. Spesso incompatibili. Perché è qui, quando l’obiettivo del fotografo fruga dentro la fabbrica, dietro le mura dell’azienda, nei detriti del cantiere, che è più difficile, direi impossibile fare a meno di un punto di vista, di una posizione ideale, politica, morale, spesso di un’ideologia. E alla terza tappa del suo percorsoattraverso la storia dell’immagine industriale, con l’esposizione Capitale umano, il museodella fotografia industriale italiana, il Mast di Bologna, affronta ora proprio questo territorio di contraddizioni e di contrasti. Quando si occupa solo di edifici, di macchinari, il fotografo può aggirare il problema corteggiando il mito: la monumentalità degli impianti, l’imponenza della tecnologia quando è priva di uomini, rendono più semplice mettere in forma epica e simbolica il cuore produttivo della società. Ma l’uomo, l’uomo al lavoro non è mai solo una forma. Cos’è allora? Molte cose. Maestranze. Personale. Dipendenti. Salariati. Proletari. Risorse. Collaboratori. Ogni parola che puoi scegliere dal vocabolario ha la sua sfumatura, la sua posizione nel piano cartesiano delle visioni del mondo. E c’è anche, appunto, “capitale umano”: scegliendo questa definizione forse il curatore Urs Stahel ha voluto affrontare di petto il suo implicito ossimoro: il lavoratore è un fattore materiale del processo di produzione, un valore quantificabile, monetizzabile; ma è anche carne viva, impagabili sangue e anima. Bisogna non ignorare il fatto che le due cose raramente nella storia dell’industrialismo sono state in equilibrio. Fra le 254 immagini di 41 autori diversi selezionate per questa tappa del percorso, alcune sono anonime. Sono le fotografie “dall’alto”, le foto commissionate dai dirigenti aziendali, a volte documentarie, altre volte paternaliste (le foto di gruppo ottocentesche con le maestranze schierate in file sovrapposte nel cortile davanti allo stabilimento, con il padrepadrone all’angolo, pastore soddisfatto del suo gregge così numeroso), altre volte propagandiste: “Vedrai com’è bello / lavorare con piacere / in una fabbrica di sogno / tutta luce e libertà” si cantava nel ’68, con sarcasmo, ma c’erano opuscoli aziendali illustrati che la raffiguravano davvero così. E qualche imprenditore provò persino a farlo veramente. Ma sul lavoro umano gettarono sguardi consapevoli anche fotografi-autori che si presero la responsabilità di quel che raccontavano. Invitati, tollerati o abusivi, embedded o intrusi, molti sguardi d’autore sono riusciti a superare il muro della fabbrica, fra i più invalicabili dei tanti che segmentano la società. Cosa trovarono al di là? Quel che c’era, quel che non si vedeva, a volte quel che loro stessi volevano vederci. 74 Max Alpert , Worker, 1930 © Max Alpert, Courtesy of Nailya Alexander Gallery, New York Dopo aver denunciato l’ignominia dei lavoratori-bambini nelle cotton mills, ottanta anni fa Lewis Hine esaltò la danza aerea dei costruttori di grattacieli sospesi fra le impalcature dell’Empire State Building. Con lui, la figura del lavoratore-eroe prometeico scavalca le cortine di ferro e mostra i muscoli anche nel mondo capitalista, non solo nelle coeve fotografie sovietiche. La selezione di Stahel ci offre la visione di alcuni di questi indagatori visuali, da Ansel Adams, August Sander e Robert Doisneau fino a Sebastião Salgado, David Goldblatt, Larry Sultan, Ugo Mulas… Ognuno si aggancia a un momento diverso all’evoluzione del rapporto fra l’uomo e i mezzi di produzione. Lavoro come condanna biblica, nella fangosa miniera di Salgado. Lavoro come liberazione delle energie umane, per Hine. Lavoro che definisce l’identità e la dignità privata: lo pensava Sander. Colletti blu, colletti bianchi, il declino del ruolo e del peso di una classe si riflette visivamente nelle immagini. I ritratti eroicizzanti ripresi da sotto in su di Max Alpert diventano man mano i racconti solodali presi ad altezza di sguardo da Tano D’Amico. 75 Il passaggio dalla fucina all’ufficio, dalla produzione materiale alle reti immateriali: ecco infine la cosa più facile da far vedere e più difficile da spiegare con la fotografia, che non riesce a mostrare le cause, ma solo gli effetti, delle molte rivoluzioni industriali dall’era paleotecnica a quella del Web. Ma mostrando chiede a noi di capire cosa, in questi passaggi, è successo all’uomo dentro la tuta da lavoro. Tag: August Sander, Bologna, David Goldblatt, fotografia industriale, Larry Sultan, Lewis Hine, Mast,Max Alpert, Sebastião Salgado, Tano D'Amico, Ugo Mulas, Urs Stahel Scritto in Autori, fotografia e società, storia | Nessun Commento » Lytro Illum: è una nuova era per la fotografia? da http://www.creabiz.it/ Ricordate Lytro? Qualche anno fa sembrava che che con la sua Field Camera stesse per ribaltare il mondo della fotografia, tanto che il furbissimo Steve Jobs incontrò Ren Ng, il ceo della piccola azienda, per capire come integrare ai suoi device mobili la fotocamera che metteva a fuoco le immagini dopo averle scattate. Poi non se ne fece più niente, Jobs morì e la Lytro sparì dai radar senza rivoluzionare il mondo dellʼimaging: la tecnologia era forse ancora immatura, la risoluzione troppo bassa (1,2 Mpixel), il formato limitatissimo, lʼottica troppo ridotta e non girava i video. In ogni caso Apple nel novembre scorso ha depositato un brevetto per un sistema di refocus molto simile a quello di Lytro, da implementare sui suoi dispositivi.In realtà gli ingegneri della casa con sede a Mountain View hanno lavorato duramente per arrivare allʼannuncio di ieri: dal 15 luglio sarà in vendita la Lytro Illum, ovvero lʼevoluzione della specie, la seconda generazione. Si tratta di una vera fotocamera, pensata per i professionisti, dal look simile alle dslr e dalla tecnologia Light Field molto più potente. La Illum, il cui corpo in magnesio ricorda un poʼ la Samsung Nx30 e la Blackmagic Cinema Camera, ha un obiettivo in alluminio anodizzato con zoom da 30-250 mm molto veloce e con apertura fissa di f/2.0lungo tutta lʼescursione. Il sensore, completamente nuovo, cattura 40 milioni di raggi luce, contro gli 11 del modello precedente; quanto ai megapixel non è molto chiaro quanti siano, nel senso che la Lytro ragiona in termini diversi dagli altri 76 produttori rispetto alla risoluzione. La Illum registra dentro il frame la direzione, il colore e la brillantezza dei raggi di luce (ovvero lʼintero ʻcampo di luceʼ), immortalando, come recita il sito, “non solo una sezione della realtà, ma una finestra interattiva sul mondo”. Tradotto dal linguaggio pubblicitario, significa che, se scatti unʼimmagine, il potente processore (un Qualcomm Snapdragon 800, roba da tablet) che lavora nel corpo macchina non produce un file bidimensionale come siamo abituati a vedere, ma crea unʼimmagine in cui possiamo muoverci (grazie a un software apposito) modificando prospettiva, dimensioni e punti di messa a fuoco. Per ora ci limitiamo a riportare le caratteristiche della Illum, in attesa di metterci le mani sopra. A prima vista notiamo un corpo semplice e piuttosto massiccio per la presenza di molti elementi in vetro che devono catturare e correggere il campo di luce (pesa circa 1,5 kg). Pochi i tasti, uno per scattare e uno ʻLytroʼ per modificare la profondità di campo: in sostanza la camera fa quasi tutto da sé. Manca il mirino, si fa tutto attraverso un display lcd orientato verso il basso. Si può scattare in modalità marco. Si registra su schede sd, per poi condividere tutto tramite wi-fi. Uscirà al prezzo di 1599 dollari, con la possibilità di preordinarla a 100 dollari in meno. Lʼera della post-fotografia è cominciata? guarda il video Rassegna Stampa del Gruppo Fotografico Antenore www.fotoantenore.org [email protected] a cura di G.Millozzi www.gustavomillozzi.it [email protected] 77