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VITA DI T. STROCCHI
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Tito Strocchi garibaldino lucchese
fra Mazzini e Garibaldi
La stragrande maggioranza degli italiani
quando pensa a un eroe ha in mente proprio Lui,
Giuseppe Garibaldi, il Generale dei Mille, il Padre
della Patria, l’ Eroe dei Due Mondi con dentro al
cuore l’idea di un’Italia unita. A Garibaldi è toccato,
forse anche al di là delle sue intenzioni, quanto non è
riuscito a nessun altro personaggio nel corso di un
secolo e mezzo di storia nazionale unitaria: entrare in
profondità e in maniera duratura nell’immaginario
collettivo, quello borghese e quello popolare, quasi
circonfuso da una sorta di laica sacralità. Un fatto unico nella storia unitaria del nostro Paese, meritevole
di attenzione perché tanta parte della nostra mentalità, della nostra percezione delle vicende pubbliche, le
stesse idee di politica, repubblica, democrazia, solidarietà si sono plasmate in relazione all’operato e alla
figura di Giuseppe Garibaldi. Nel corso di un secolo,
dalle battaglie risorgimentali alla scelta di combattere
il fascismo e il nazismo nella Resistenza, migliaia di
italiani, di tutte le età e i ceti sociali, indossando, materialmente o idealmente la sua umile divisa, la camicia rossa, hanno, infatti, contribuito a rendere l’Italia
quale la conosciamo oggi: unita, democratica, repubblicana.
Tra gli innumerevoli giovani cresciuti alla luce intensa del mito garibaldino, spicca, per generosità, umanità, coraggio anche un figlio della nostra
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Lucca: il lucchese Tito Strocchi (1846 - 1879), giornalista, avvocato, poeta, volontario nelle terza guerra
d’indipendenza, a Mentana e nella guerra franco –
prussiana. Cospiratore mazziniano, proprio per la radicalità delle sue convinzioni risultò personaggio
controverso anche nella sua città, amato o avversato
in un tempo in cui ancora fervide si agitavano in Toscana e nel resto del Paese le passioni di un processo
nazionale unitario complesso e tormentato. Nondimeno Tito Strocchi fu una bella figura e una bella
persona, tanto appassionata e generosa quanto disinteressata e povera. La sua nobile, breve esistenza
rappresenta un esempio di coerenza con i valori e i
principi che hanno animato la gioventù’ di un secolo
e mezzo or sono: amor di patria, rifiuto di qualunque
forma di oppressione e dispotismo, ricerca appassionata di una risposta politica a una sempre più urgente
‘questione sociale’. Convinzioni semplici e grandi
insieme che dovrebbero tornare a ispirare anche le
giovani generazioni di oggi, che percepiamo spesso
disorientate e smarrite, di fronte a un presente dalle
difficili prospettive.
Noi ci auguriamo che le pagine della rinnovata pubblicazione della Vita di Tito Strocchi, scritta a
due anni di distanza dalla scomparsa del volontario di
Digione a opera del suo collega e amico Enrico Del
Carlo possano trovare occhi e cuori attenti e ci aiutino a capire più e meglio qual è l’eredità storica che ci
portiamo dietro come comunità nazionale. Cosa significhi, oggi, essere italiani. In quale misura la storia italiana può essere ancora considerata una preziosa miniera di identità. Quale idea di Italia vogliamo
avere per il futuro.
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Presentiamo pertanto la ristampa della Vita di
Tito Strocchi di Enrico Del Carlo, nel contesto delle
Celebrazioni del 150°Anniversario della Spedizione
dei Mille anche con un Convegno di studi sul mito
garibaldino in Toscana e nella prospettiva della riapertura, che auspichiamo imminente, del Museo del
Risorgimento di Lucca.
Dr. Stefano Baccelli,
Presidente della
Amministrazione Provinciale di Lucca
Lucca, Maggio 2010
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La camicia rossa di Tito Strocchi:
uniforme gloriosa e insegna di libertà
Questa inziativa della ripubblicazione de “La
Vita di Tito Strocchi” scritta dall’avvocato Enrico
Del Carlo, nel 1881, due anni dopo la morte immatura dell’amico, nasce da un progetto di cui l’Anpi,
Sezione Intercomunale di Lucca, si è fatta capofila
nel quadro delle celebrazioni per il 150esimo della
Impresa dei Mille, promosse dalla Provincia di Lucca.
L’ANPI, che si batte da sempre per la tutela della democrazia , la difesa della Costituzione repubblicana, e soprattutto la conservazione della memoria
storica., ha voluto valorizzare questo patrimonio locale di memorie del movimento repubblicano a Lucca di cui Tito Strocchi rappresenta la figura più significativa e originale.
Il garibaldino Tito Strocchi, poeta, avvocato, ma soprattutto patriota, come emerge dalle pagine di Enrico del Carlo, è ancora vivo e capace di coinvolgerci
per l’esempio che ci trasmette di esclusiva passione
politica e di partecipazione generosa e disinteressata
agli avvenimenti del nostro Risorgimento.
La sua vita fu brevissima e intensissima, soprattutto illuminata dalla fede repubblicana e dalla speranza di un'Italia migliore e più libera, affrancata dal
giogo della Monarchia e della Chiesa.
Nella liberazione dell'Italia dai vincoli che ancora la tenevano disunita e asservita, fu al fianco di Ga-
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ribaldi nell'impresa di Mentana e in Francia a Digione, per la risorta Repubblica francese, contro i Prussiani invasori.
Nel 1870, come capo dell’Unione Repubblicana Universale di Lucca, cospirò, con l'appoggio di
Mazzini , per la sollevazione del territorio tra Lucca e
Pescia, senza successo, ma con sincero spirito di libertà.
Tutti avvenimenti che, agevolmente riusciamo a leggere quasi in presa diretta, come se a narrarli fosse lo
stesso Tito, soprattutto per le copiose citazioni.Vorrei
anche sottolineare come nascono i miti e come la storia dimostri più continuità di quanta non ci aspetteremmo con le parole del nostro, lasciatemi dire , prode Tito:
« Qual grandiosa epopea è quella del volontario italiano in questi ultimi anni di rivendicazione!…La camicia rossa sarà sempre una insegna di
gloria e di libertà; i fortunati che hanno potuto indossarla la mostreranno ai loro figli, raccontando
loro le battaglie che essa ha vedute, lo sgomento
che ha ispirato a tanti nemici. Essa ha veduta la
fronte, spesso le spalle di tre eserciti. La camicia
rossa sarà una veste tradizionale di vittoria che i
nostri posteri ricorderanno; essa è la uniforme dei
liberi figli della patria che tutto hanno abbandonato
per volare a morire in sua difesa; essa è l’aureola
dei martiri di questa terra gloriosa, è l’insegna della
libertà.»1
1
Vita di Tito Strocchi, di Enrico Del Carlo, pg..XLIX, premessa all’opera postuma di Tito Strocchi, Lucrezia Buonvisi, Racconto storico lucchese del secolo XVI, Tipografia, Editrice del
Serchio 1882, Lucca,
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E’ per questo , e in sintonia, con il movimento
garibaldino, che durante la Resistenza numerose
formazioni partigiane scelsero di richiamarsi nel
nome alle Brigate Garibaldi, di cui condividevano lo
spirito e i valori.
Dott.ssa Paola Rossi
Vicepresidente dell’A.N.P.I.,
Sezione Intercomunale di Lucca
Lucca, Maggio 2010
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ENRICO DEL CARLO
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TITO STROCCHI
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I.
Parlare convenientemente d’un amico col quale
abbiamo trascorso gli anni migliori della nostra vita,
morto quando il suo ingegno stava per affermarsi con
opere degne di vivere ne’ ricordi non solo della sua
città natale, ma nel mondo universo del pensiero e
dell’arte, non è impresa da poco. Pure io mi pongo a farlo con quella fiducia che ne assicura l’amore
che mi unì a lui, e che sì cara ancora mi rende
la sua santa memoria. Pochi giovani ho conosciuto come lui sì pieni di fede e di ardimenti, sì
ricchi di studi e di opere nobilmente pensate e
compiute; e senza dubbio nessuno tanto sventurato
per vicende private e pubbliche a soli trentatre anni
di vita. La quale fu tutta un sacrifizio per la libertà, una lotta continua per l’esistenza; sicchè le più
belle speranze della giovinezza videsele svanire a
una a una, e la sua vita operosa venir meno e spengersi senz’altro compenso che la stima e l’affetto di
pochi. Povero amico! Che il tuo nome sia benedetto in eterno, e quel poco che io potrò scrivere di
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te, porga almeno esempio efficacissimo alla gioventù italiana, del come si deve amare la patria, per lei
combattere e per le sue libertà; e come soltanto una
fede viva, illimitata, costante nella verità di certi
principii possa render tetragoni contro la corruzione
de’ tempi e gl’infingimenti de’ più!
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II.
Nacque il nostro Tito in Lucca il 26 giugno 1846
da Stefano Strocchi e da Giovanna Consolini, ambedue di modestissima famiglia romagnola, essendo
Stefano di Forlì, Giovanna di Brisighella. Giovinetto
frequentò con profitto la scuola di disegno e di architettura nell’accademia lucchese di Belle Arti: studiò
grammatica latina e le umane lettere nelle scuole dette di santa Maria nera, dove per la povertà
dell’insegnamento che vi impartivano i Chierici della
Madre di Dio, e per la non molta sua assiduità alle
lezioni imparò poco: compì gli studi classici e apprese gli elementi di Filosofia e di Matematica nel
patrio Liceo.
Fino a que’ primi anni però dette prova di avere
un ingegno svegliato, pronto, e molta disposizione
alla poesia; ciò che lo indusse assai per tempo a scrivere versi con una facilità e varietà di metro sorprendente, con una vivezza di immagini e forza di sentimento poco comuni ne’ giovani della sua età; frutto
ricavato da’ nostri migliori poeti, che leggeva del
continuo e con molto piacere. « L’arte mi mancherà, scriveva egli di que’ giorni, mi mancherà tutto
ciò che può fare di me un poeta, sì che io non sarò al-
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tro che un ignorato scrittore, nè mai avrò fama fuor
che ne’ miei sogni: ma pure il genio che mi ha dato
la natura io mel riconosco: per me basta il trovarmi
nel silenzio della solitudine, perché tolga un foglio e
scriva; me la veduta di una campagna trasporta, me il
silenzio di una placida notte inebria(1)… ».
Ricco di cuore e di fantasia, ugualmente presto si svegliò in lui l’amor di patria; e se non gli
fosse stato d’impedimento la troppo giovane età,
si sarebbe certo trovato a combattere tra i volontari
garibaldini nel mezzogiorno d’Italia nel 1860. E nel
1862 fu la catastrofe d’Aspromonte che gli troncò a
mezzo i suoi più be’ sogni. « Verso la metà del mese d’agosto, egli scrive, anzi prima, i giornali, i
fogli pubblici incominciarono a parlare del generale
Giuseppe Garibaldi che fatto appello agl’italiani,
chiuso nel bosco di Ficuzza vicino a Palermo, ordinava i suoi volontari per marciare su Roma. Io
rammentavo sempre i miei sentimenti provati nel
1860, quando Garibaldi era in Sicilia, il mio dispiacere di non poterlo seguire a cagione della mia
poca età; io li rammentavo e troppo, perché non
pensassi alla prima occasione di correre sotto il
prode Generale e battermi io ancora per questa
mia patria, che ho imparato ad amare fin da i miei
primi anni. Per cui io unitamente a molti miei amici prefiggemmo partire appena Garibaldi uscito
di Sicilia (troppo lontana per noi) s’avvicinasse a
Roma. D’allora in poi quell’idea formò la natura
1
Sia detto una volta per sempre. Quel che si legge di
virgolato in queste pagine è tolto con esattezza scrupolosa, sia
pel concetto sia per la forma, da Memorie, Lettere, ed altri
scritti varii del caro Estinto, inediti la maggior parte e meritevoli di esser pubblicati.
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d’ogni mio pensiero; io anelava il momento della
partenza, e mi sognava la mia futura vita del
campo, gravato della mia carabina in sentinella
avanzata in una bella notte di autunno sui campi romani… Ohimè, la realtà troncò spietatamente tutti
que’ bei sogni!.»
S’iscrisse come studente di Giurisprudenza
nell’Università di Pisa il 1863, e co’ migliori intendimenti, deciso proprio, com’è diceva, di metter capo
a partito, di studiare e far bene. Ma non fu poi
così; chè pochi giovani io credo, si gettaron come lui con tanta voluttà nella vita spensierata dello
scolare: debiti, orgie, stravizi d’ogni sorta. Era
poi così vago di promuovere avventure e di figurarvi come protagonista che a malincuore mi trattengo dal riprodurre qui qualche episodio di questo
suo periodo di scapigliatura. Tanto più che ne lasciò descritti alcuni con tanta evidenza che ce lo
rappresentano tal quale egli era, con quel suo carattere franco e con quel suo spirito arrischiato che
in seguito poi lo resero sempre così pronto e
imperterrito dinanzi a qualsiasi pericolo. Ma oltre i
limiti segnati a questo mio scritto, mi impediscono di farlo anche certi riguardi personali che ogni
scrittore onesto deve avere.
Vivendo in mezzo a questo bailamme, nessuna meraviglia pertanto che il nostro amico sentisse avvicinarsi ogni anno il tempo degli esami con
rammarico e disperasse di vincerne la prova, che
poi sempre o quasi sempre vinceva, un po’ aiutato
dalla fortuna e più dal suo ingegno e da quel miracolo di memoria di cui era fornito. « Ho letto sopra
un giornale, sono sue parole, che una persona
piangeva se vedeva delle anguille, che un’altra
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restava confusa e distratta alla vista dell’insalata,
che un’altra se odorava delle patate versava sangue
dal naso, che un guerriero valorosissimo aveva
paura ad assalire un sorcio colla spada alla mano,
e tante altre strane e inesplicabili antipatie, per cui
quasi quasi mi persuaderei che fosse un mio difetto naturale questo di provare tanto orrore alla vista
dei temi per l’esame. Bisogna convenire però che
è un difetto che si riscontra in molti e specialmente
quando hanno assunto con isfacciata menzogna il
nome di studenti!».
Ma questa sua avversione allo studio delle
discipline legali, è da lui meglio colorita con queste parole che riproduco, vera fotografia dell’animo
suo in que’ giorni d’ incertezza intorno al proprio
avvenire. « Ah fortuna, esclama, perché mi desti tu
tanto odio per l’applicazione noiosa, se non volevi
poi darmi i mezzi per soddisfare queste tendenze
del mio animo irrequieto? Io doveva essere un artista, un comico o un musico, e allora lo studio non
mi avrebbe prostrato. Ma le applicazioni libere del
genio, cui l’anima simpatizza, dovevano solamente
conoscersi da me per desiderarsi e ardentemente desiderarsi; perché io devo procurarmi uno stato certo,
consentaneo ai bisogni del secolo, che mi dia
dell’oro; perché bisogna che giorno per giorno io mi
mantenga la vita, e non posso assicurare il mio avvenire sopra una voce del cuore che mi dice: ribellati,
vola, ma che non mi dà diplomi!... Io sento qui dentro di me dove non ci s’inganna, che io sarei un giorno più bravo comico o musico, di quello che non sarò
avvocato; che dovrei soffrire per questo meno privazioni e abnegazioni. Ma che fare? la necessità mi ha
condotto fin qui, posso io tornare in dietro?…Dunque
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studia, studia, gettati sulle Istituzioni Imperiali; sul
Codice di Commercio e prepara nella tua testa il
magazzino dei cavilli, delle chiacchiere che dovrai
aprire e vuotare fra qualche anno. Studia, l’esame è
vicino, queste pastoie che c’inceppano il volo! tuo
padre, pover uomo, aspetta il buon esito del tuo esame; gli amici ti guardano; i professori che non
hanno l’onore di conoscerti, quel giorno mettendosi
gli occhiali sul naso ti squadreranno e attenderanno da te la rivelazione di quello che hai imparato
alle loro lezioni, alle quali non sei mai stato; studia,
perché tu senza proporzione sai più cavatine, più
barcarole, più rondeaux, più côri che regole e principii di giurisprudenza; studia perché non potrai cantare a quei marmorei professori una melodia di Bellini, o recitare loro un brano di Shakespeare. Studierò,
studierò…»
E qui come trascinato dalla forza di que’ pensieri che ognora più lo allontanavano dalle fredde
carte di scuola appena aveva fatto proposito di
studiarle, con passione e verità ci rileva un altro
stato dell’animo suo, ci fa conoscere com’e’ sapesse poeticamente amare. Ascoltiamolo: « Che bella
notte! Il cielo è sereno e trasparente come la pura
onda d’un ruscello, le stelle brillano avvolte nelle loro zone di freddo aere, misteriose, inesplicabili come
colui che le ha create. La luna è la regina del cielo;
essa è là tacita, mesta, soave come un sospiro
dell’anima, e inonda la terra di una luce che ci avvolge in un’aura di pensiero, d’inesplicabile mestizia.
Un lieve venticello rapito dalle onde del mare spenge
gli ardori del giorno e passa, come la gioia che
cancella una ruga del volto e un dolore dall’anima e
fugge per non tornare mai più. Il Creatore volando
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di stella in stella si aggira per lo spazio immensurabile dei Cieli rimirando con compiacenza a bellezza dell’opera sua. Il silenzio interrotto costringe il pensiero. Io appoggiato sul davanzale della
mia finestra, attratto dalla bellezza del creato, penso alla creatura. Penso a colei che nella agitazione
della mente, nei palpiti del cuore, nel desio della vista, nell’ irrequieto sognare mi rivelò l’amore. Eros, dormirai tu adesso il tacito sonno della gioventù, o condotta dalla medesima simpatia che me
pure trascina, starai contemplando le stelle che brillano, la luna che attrae come avesse una misteriosa
corrispondenza colle anime il firmamento che attraverso la sua limpidezza lascia quasi vedere i misteri
dell’infinito?…Se tu poggiata la bella testa sul braccio candido dormirai come il fanciullo nel grembo
della madre, se confusi nella tua mente si aggireranno
i sogni della giovinezza, possa questo mio pensiero, questo mio sospiro giungere tacito fino a te, ed
aggirandosi intorno al tuo labbro, intorno alle tue
chiome, sussurranti l’amore che mi arde, se tu invece sul tuo balcone ascolterai il silenzio della notte,
aspettando che in lontananza si oda il gorgheggio
della mia voce e l’arpeggiare della mia chitarra, voli
l’anima mia presso di te, mio angelo, e colla tua si
trattenga in dolce colloquio d’amore, e bassamente ti mormori quello che fino ad ora non ho ardito
io stesso palesarti, l’amore che provo, l’amore che
mi agita e mi tormenta!…»
S’ingannerebbe peraltro chi credesse il nostro
Tito dimentico del suo dovere. No: anche fra mezzo
alla più chiassosa spensieratezza, al vorticoso cozzarsi delle passioni; anche quando è trasportato nel
mondo ideale de’ suoi sogni da poeta, d’artista,
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quando par che non viva se non che di canto e
d’amore come gli uccelli, che non pensi che alla
felicità di un giorno, di un’ora, di un momento, oh
anche allora egli sente nel fondo dell’anima sua una
voce che lo chiama alla realtà delle cose, che lo fa
pensare, e pensare seriamente a casi suoi. Così egli
che aveva si può dire trascorsa la vita senza grandi dolori, che lungo tutto il corso della sua fanciullezza non aveva mai incontrato ostacoli serii, anzi
ogni cosa gli si era presentata ridente, piacevole, lo
vediamo afflitto, mesto, sconsolato; lo vediamo che
piange e si dispera il giorno in cui gli è stato
detto che non potrà più continuare i suoi studii.
Allora, oh allora egli pensa al passato e rimpiange
i giorni sprecati, e comprende tutto il male che ha
fatto; vorrebbe avere studiato, essersi fatto onore,
vorrebbe poter giustificare i sacrifizi fatti fare a
suo padre e quelli che ancora dovrebbe fare. Perché è il vecchio Stefano che gli ha parlato, è suo
padre che gli ha dato la triste novella. Il pover’uomo non può più mantenerlo agli studii,
all’Università, a Pisa :ha fatto per il passato sforzi
superiori a’ suoi mezzi; ha tutto tentato per vedere
di continuare nel generoso e amoroso proposito, ma
invano.
Quale tristezza ! che sconforto ! « La vita, così
scrive il nostro Tito il 23 novembre 1865, la vita ha
finito di apparire un fiore dagli eterni profumi, un’
alba sempre rosea, sempre seguita da un sole puro ;
la vita non è più un inno continuo alla gioventù, alla spensieratezza ; il sentiero sparso di fiori è terminato, comincia l’aspra salita, ed è forza ascendere
Forse sull’erto e scosceso dirupo tratto un fiore
olezzerà , ma più sovente dopo un giorno di viag-
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gio, di stenti, non troverò che una roccia dove assidermi e riposare. Giorni di spensieratezza illimitata, di
gioia innocente, voi avete finito per me; io non mi alzerò più cantando come l’augelletto che sa che la
natura gli prepara il pasto nei campi, io non mi
addormenterò più senza pensieri. La vita dell’uomo
comincia colà dove per lui le necessità della vita
diventano un peso che egli deve sopportare. Mio padre
ha parlato, ed io ho sentito quelle parole, che per ma la
vita non era più un canto, una gioia, una corsa! … Ecco dunque terminati i miei studii. Adesso conosco
quanto perdo nel perdere la certezza di una professione
bella e lucrosa. Oh tempo perduto, o studii fatti ! speranze, gioie dell’avvenire come la fredda realtà del
presente vi annienta in un colpo. Ed io era già certo
d’essere un giorno avvocato, di farmi un nome e
una posizione, e di rendere largamente a mio padre
quello che per me aveva fatto. Non posso esprimere il
dolore, il disinganno che io provo. Dovere abbandonare
gli studii così inoltrati e tornare come se mai avessi studiato! »
La quasi certezza di dovere abbandonare gli
studii universitari, il dolore, la solitudine, cui s’era
abbandonato in que’ giorni di sconforto, fan rinascere
in lui l’amore della poesia, e in essa va cercando conforto e pace. L’amore gli aveva in altri tempi ispirato
de’ versi: ebbene, ora egli tutto si affatica intorno a
quelle pagine sparse, e cerca e studia come dar loro
unità di concetto per farne un unico componimento,
che intitola: Due poveri cuori! … Ma checché faccia
per distrarsi, per dimenticare la dura sorte toccatagli,
la sua mente torna sempre agli studii dovuti troncare
a metà; la sua idea fissa è quella, come potersi procacciare il denaro necessario per tornare a Pisa e com-
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piervi il corso universitario. Un’idea frattanto gli balena nella mente: stampare que’ suoi versi; raccorre
delle firme mediante note di soscrizione, e quindi
venderli ad una lira al copia. Ma quanto quest’ idea
dapprima gli sembra bella e di facile attuazione, altrettanto poi la crede indecorosa, difficile ad effettuarsi. Già troppo bene e’ conosceva il suo paese e i
suoi concittadini…e non poco era tormentato dal
pensiero di doversi confessare uom bisognoso di danaro e povero ! Pure il desiderio di tornare
all’Università e a’ suoi studii, vince in lui ogni ritegno, vola dallo stampatore, gli consegna il manoscritto, pattuisce il prezzo dell’edizione, dà fuori le note e
le raccomanda agli amici.
Ma ahimè!, odi tu esclamare di lì a poco il giovane nostro poeta. « Ahimè! … Lettore, la tua mente
supplisca a quello che taccio, e questa reticenza sia
più eloquente di tutte le orazioni passate e future; dà a quel lamentoso ahimè tutti i suoni di dolore,
di disinganno, di pentimento e rammarico. Io sperava
di guadagnare almeno cento cinquanta franchi sulla
mia poesia, e temo invece di dover pagare io qualche
franco per soddisfare lo stampatore. Sono nel caso del
Buffo nell’opera: Eran due e or son tre, che andando
alla ruota dei trovatelli per deporvi due fanciulli se ne
trova affibbiato un terzo ! M’ingegno per fare dei
quattrini e invece ne perdo dei nuovi. Le firme arrivarono a trenta, e lo stampatore voleva pel suo lavoro
sessanta franchi. La poesia fu stampata. Quanti la
lessero mi fecero molti complimenti e rallegramenti
…Ma lasciamo la questione della fama per quella
dell’economia. Vedute che le firme raccolte pagavano appena la metà della somma occorrente pel tipografo, io mi detti a girare insieme qualche amico
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XXIV
per cercare compratori del mio libretto. Ma dopo
tanti passi fatti, dopo tante umiliazioni patite, son
giunto a questo, che certamente non vi guadagno
un soldo, e forse dovrò rimettervi cinque o sei
franchi. Ecco l’utile che ho tratto da tanta fatica.»
Fallitagli e anche questa speranza dovè nuovamente rivolgersi al padre. Ancora un anno, gli dice, e potrò essere dottore! Ed era vero, dacchè il
Ministro della Pubblica Istruzione aveva or ora risposto favorevolmente alla supplica che gli era stata indirizzata dagli scolari di terz’anno, e aveva
loro concesso di poter fare insieme col corso di
quart’anno anche quello di quinto e così di potersi
laureare un anno prima. La qual cosa aveva sollevato non poco l’animo del nostro amico che vedeva di poter più facilmente indurre il padre suo a
fare ancora un ultimo sacrifizio per lui. Né
s’ingannava, perché il buono Stefano, l’amoroso
padre, vinto dalle sue preghiere secondavalo, pur
conoscendo di peggiorare la propria condizione e
quella di tutta la famiglia. Quanto gli era concesso
di poter fare, fece… E allora il sorriso tornò sulle
labbra del nostro Tito, allora la gioia nuovamente
brillò ne’ suoi occhi; e della contentezza del figlio
non fu meno lieto il padre.
Rassegnatosi nuovamente
all’ Università,
questa volta è assiduo alle lezioni, ci trova piacere,
n’è contento. Ma una grande circostanza vien purtroppo a distrarlo, e ad accorciar anche il tempo
per dar gli esami. S’era a’ primi di maggio, ed egli
così scriveva: « Tutti parlano di guerra, nessuno più
di studio, ognuno già si figura di essere sui campi
dell’onore e sentire il tuono del cannone e il sibilo
increscioso delle palle, nessuno pensa al giorno in
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cui dovrà temere non di assise bianche, ma sebbene di toghe nere, in cui le palle che lo uccideranno non saranno quelle di piombo uscite dalle canne dei cacciatori tirolesi, ma sebbene le palline nere
gettate con empia mano nell’urna dai professori tiranni. Le lezioni sono pochissimo frequentate, tutti
stanno a parlare di marcie e di battaglie future.
Tutte le mattine alle cinque e il giorno dopo desinare ci raduniamo in gran numero e usciamo fuori
di una porta ove ci esercitiamo per due o tre ore alle
manovre militari. Io sono ascritto alla compagnia dei
bersaglieri. E’ veramente una cosa che rallegra il
dovere un duegento giovani esercitarsi per essere
forti alle prossime battaglie col nemico, tutti risoluti appena scoppi il primo colpo, a lasciare la casa,
gli agi, l’ozio per andare alle fatiche del campo.
Noi teniamo dietro con ansia alle notizie politiche e
temiamo che la speranza non ci fugga dinanzi. Il
nostro desiderio sarebbe quello di formare il battaglione universitario, e giuro a Dio che colla nostra
bandiera, che portarono sì valorosamente i nostri
fratelli il 1848 a Curtatone, saremmo invincibili.
Se questo battaglione non potrà farsi, i più andranno
con Garibaldi, coll’apostolo della libertà, col salvatore dei popoli! Io anelo quel giorno, è tanto che lo
desidero. Mi abbrucìa il desio di una vita nuova, varia, piena di emozioni. Anelo trovarmi nel fuoco
della mischia e conoscere me stesso in mezzo ai pericoli. Questa vita che conduciamo è una vita da
oche; a noi che arde il sangue dei vent’anni abbisogna una vita di avventure, io anelo provare una
qualche emozione forte, sia pure quella della paura,
ma sono certo che al tuono del cannone, alla notte
del fumo, al correre del sangue, al suonar delle
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trombe io sentirò infuocarmisi il sangue e la rabbia corrermi per le vene santa, e allora io non
sarò l’ultimo a correre colla mia carabina sopra il
nemico e misurarmi con uno e stenderlo a terra
fra i cadaveri dei suoi compagni di catena, fra gli
avanzi laceri della sua bandiera. Io anelo poter dire
un giorno, se vivrò, anch’io ho fatto qualche cosa
per la patria mia, io non sono indegno dei miei
genitori. E se morrò? sarò morto onorato per una
causa santa; e dopo i miei fratelli e mio padre, che
pure nel suo dolore andrà contento di me, qualcheduno ancora mi piangerà, e piangerà sì presto
reciso il fiore della mia gioventù, e crederà forse
qualche speranza troncata! e lungo tempo durerà
la memoria di me nel mio paese. Di questo almeno
giova sperare per incontrare la morte col sorriso sul
labbro; il credo che morendo con questa speranza
abbia a sembrare di non morire intieramente e di lasciare sulla terra e nei luoghi a noi cari una parte
dell’anima che si aggiri ove si parla di noi, e goda
al suono di quei lamenti, e innocentemente si rallegri del pianto. »
Però una nota domina
su tutte le altre
nell’armonia de’ suoi pensieri: amor di patria, entusiasmo di patriota, desiderio di gloria, ma gli affetti di
famiglia sono in lui sopra ogni altro potentissimi.
Ecco una pagina stupenda, dettata colle lagrime agli
occhi; come conchiusione di quelle testé riportate,
preambolo alle future sue geste di soldato della libertà: « Povero mio padre ! qual dolore per te se
morissi, per te che con tante cura mi hai allevato,
che con tanti sudori hai provveduto ai miei studii,
che hai fatto di me più di quello che il tuo dovere
non chiedesse, e con tanta fatica e con tanti sacri-
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fici e tutto questo con amore leale e santo. Povero
babbo, il solo pensiero che mi affligga, il solo pensiero che mi amareggerebbe le ultime mie ore, sarebbe
il pensiero di te, sarebbe il vedere troncate le speranze
che io ho fatte e che dovrebbero essere certezza, sarebbe il non potere io averti rimeritato,e degnamente
rimeritato di tutto quello che ti devo. Ma io devo partire; innanzi a questo dovere, sacro, ed anche se tanto
il dovere disinteressato non potesse, innanzi
all’orgoglio, all’amor proprio che mi tingerebbe
il volto di vergogna nel mostrarmi ai conoscenti,
alle donne quando gli altri fossero al campo, io giovane, io amante della patria, che mi costringerebbe a
coprirmi colle mani nella faccia quando leggessi gli
italiani hanno vinto , nella viltà di non avervi avuto parte; innanzi a quel dovere, innanzi a questo
onore che così impera, io non posso arrestarmi
nemmeno se penso che morendo tu resterai desolato, vedendo svanire tutto quello che hai formato
con tanti sacrifici. Piuttosto io pregherò mia madre,
mia sorella, quelle due donne che sono lassù nel
cielo, le pregherò a difendermi per riguardo tuo,
perché io possa tornare in patria non indegno del
tuo nome, perché non andando io lo disonorerei, e
preparato a pormi sotto alla fatica per risparmiare
te, mio buon babbo, che tanto hai per me e per i
miei fratelli faticato, e far passare gli anni della
tua vecchiaia contento di te, contento del tuo figlio. »
Intanto i suoi studii, com’era naturale, procedevano lenti e interrotti dagli esercizi e delle passeggiate militari, alle quali non mancava mai . E in
che stato d’animo poi e come preparato, si presentasse agli esami può facilmente immaginarsi. « Il terre-
VITA DI T. STROCCHI
XXVIII
no, scriveva, mi abbrucia sotto i piedi vedendo partire i miei amici d’Università per Bari e per Barletta,
ove si radunano i volontari. Non vedo l’ora
d’essere sbrigato per poter partire anch’io. » Così dal
15 al 24 maggio dà e facilmente tutti gli esami
speciali, ma la disgrazia vuole che fallisca sulla tesi
scritta all’esame di laurea. La qual cosa gli fu di
grande dispiacere, e solo il forte desio di raggiungere presto i suoi amici, potè fargli dimenticare quel
brutto quarto d’ora. Si che subito corse a Lucca per
salutare i suoi, e il giorno dopo partiva pel campo; e
il 30 era a Barletta, soldato della quattordicesima
compagnia del decimo reggimento, animato da un
solo pensiero, quello di battersi; chè s’egli dovesse
tornare a casa senza aver fatto alle fucilate, ne sarebbe addoloratissimo. Il caldo soffocante, la fatica, la
fame gli stenti tutti del campo e’ sopporta con animo di vecchio soldato; e questo appunto perché sa,
che ogni giorno che passa, ogni fatica superata, ogni
marcia fatta lo avvicina al momento desiderato. E
quando il 6 luglio sente per la prima volta parlare
di possibile armistizio il nostro Tito è di cattivo
umore e maledice alla sua sorte avversa. No, non
può credere,non vuol credere all’infausta voce che
circola: no, « mi vedrei, scrive, rapita quella gioia
colla quale pensava ritornare a casa dopo essere
scampato al pericolo della morte. Io non sarei pago
di dire: l’onore è lo stesso, poiché io ho fatto quanto ho potuto, e senza mia colpa devo tornare senza
essermi battuto.» E attende con ansia nuove e più
precise notizie. Ma purtroppo viene e sorprenderlo
l’armistizio concluso per otto giorni, dal 26 luglio al
3 agosto.
VITA DI T. STROCCHI
XXIX
Del quale ecco quel ch’egli scriveva da Salò,
ed ahi! purtroppo con verità, il giorno 3 agosto, ultimo dell’armistizio:« Ormai ogni speranza è svanita
come un bel sogno rotto da un secchio d’acqua che
ti sia gettato sul volto da una persona che ti derida. I nostri prodi sono stati fermati dalla diplomazia, e il loro cuore ardente non ha potuto varcare
quei confini. La pace è quasi sicura, l’armistizio intanto è prolungato, e a quanto dicesi le condizioni
della pace non saranno tali come dovrebbero essere state per poter perdonare loro di aver fatto
cessare la guerra, poiché sembra che l’Austria
ceda solamente il Veneto, restando sempre padrona
del Tirolo e dell’Italia. Oh quanto entusiasmo
reso inutile, oh quanto valore incatenato di nuovo
dopo aver fatto un passo. In tutti i volontari si è
sparso lo scoramento, doloroso a vedersi , ma
purtroppo giusto. Ognuno di noi partendo sognava
battaglie piene di gloria e di pericoli, marcie
trionfali, libertà di tutta Italia, e lontano lontano
improbabile un lieto ritorno alla casa abbandonata. Adesso quei sogni si sono dileguati come una
nube di augelli al soffiare del vento della tempesta. Si dice che fra poco saremo congedati, ma sento che il ritorno non sarà lieto come avevo accennato…»
Né le sue previsioni erano esagerate, chè la
pace fu conclusa e pochi giorni dopo incominciarono le retro marcie; da Salò a Verbano, a Rocca
d’Anfo, a Bergamo, a Brescia, poi a Palazzuolo, dove il 7 settembre principiarono a darsi i congedi:
l’esercito garibaldino era disciolto. Al nostro Tito
per altro convenne rimanere sotto le armi per un
altro po’ di tempo; perchè creato ne’ primi giorni
VITA DI T. STROCCHI
XXX
d’armistizio caporal furiere dovette essere degli ultimi a lasciare la compagnia: non ebbe il suo congedo che il dì 16. E con che ansia, con che gioia salutasse di ritorno la sua patria lo dicono queste parole: « A mano a mano che il treno si avvicina sento battermi il cuore più rapido…Finalmente vedo
apparir le mura e le torri della mia città, bacio gli
ultimi miei compagni, e secondo nella stazione
coll’animo pieno di gioia. Sono a casa e rivedo mio
padre, mia sorella, i miei fratelli…Così ha termine
la mia prima campagna. « E non era un’ostentazione
la sua dicendo, la mia prima campagna, però che egli sentisse già come non sarebbe mai mancato
all’appello tra le file de’ volontari, ogni volta che ci
fosse stato da combattere per la patria e per la libertà.
Riavutosi dalle fatiche della campagna, egli ritorna agli studii interrotti, e il 28 novembre prende
all’Università di Pisa la laurea in iscienze giuridiche
e politico-amministrative. Il nostro Tito è dottore, e
il primo periodo della sua vita, quello del giovane
studente è finito, per incominciare quello
dell’uomo. « Ma che cosa ho io mai imparato in
quattro anni d’Università, egli si domanda? Ho
imparato, risponde, ho imparato assai di quella
scienza che forma veramente un uomo, e ciò molto a mie spese e molto sull’esempio degli altri, utile
che, non può mancare a chi viva in società. Ho
imparato che il giuoco è una perfida passione che
rovina ogni uomo, ho imparato che amici dei quali
uno veramente può far conto sono pochi, e che per
contrario non bisogna fidare sul primo sorriso e
sulla prima stretta
di
mano che qualcuno
t’indirizza; ho imparato che è molto imprudente
VITA DI T. STROCCHI
XXXI
fidare solamente sui propri pregi, ho imparato che
l’ ubriacarsi oltre essere segno di poca gentilezza è
anche uno sterile piacere che si risolve in nausea e
in dispiacere,e ho imparato finalmente che anche lo
studio delle severe discipline può allettare e può
far provare una vera soddisfazione a chi voglia sacrificargli qualche ora di vani passatempi. Ed aggiungendo a tutto questo quel colpo d’occhio con
cui si conosce l’indole di ciascuno che per la prima
volta ci si presenta, scienza impossibile a impararsi
se non in pratica, quell’astuzia colla quale si è sempre pronti a guardarci da qualunque tranello che
ci si tenda, quel facile modo di conversare proprio
di un studente, io sono contento di quello che ho
imparato, e dichiaro che mio padre non ha gettato
i suoi danari, né io il mio tempo.» E conclude: «Però - e vorrei che queste parole leggessero tutti i padri, i quali hanno un falso modo di educare i loro
figli, tenendoli segregati, - però tutte queste cose,
queste cognizioni che veramente formano l’uomo
non si possono imparare se non nella società, e
spesse volte in quella società dalla quale poi si impara ad evitarle e a guardarsene, quando si sia
bene conosciuta; e non si possono imparare se
non tutto provando, tutto assaggiando: il giuoco, i
debiti, le donne, l’orgia, il tradimento degli amici
e i disinganni penosi. »
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VITA DI T. STROCCHI
XXXIII
III.
Dopo la vita gaia e spensierata dello studente, dopo le fatiche del campo e i pericoli della
guerra, ecco il nostro amico tornato nel seno della
famiglia, alla quiete monotona del paese natio. Dottore, egli si è iscritto fra i giovani praticanti nello
studio del professor avvocato Leonardo Martini, valente giurista; ma non potrà essere avvocato che
fra quattro anni, non consentendo la legge, prima
di aver fatto questo tirocinio, l’esercito di sì nobile
professione. E dico nobile così per mo’ di dire, perché in che consista la tanto vantata sua nobiltà non
l’ho davvero mai saputo; l’avvocherìa è una professione come tutte le altre, e più delle altre, secondo quel ch’io vedo, scaduta. Quattro anni di pratiche poi son troppi, perché i più si stancano per le
lunghe promesse coll’attender corto. E il nostro Tito
più d’ogni altro dovè stancarsi, lui così ricco di fantasia, così appassionato per le arti belle, lui nato
poeta e non per nulla col bernoccolo dello avvocato. Sicchè quando lo senti giurare a se stesso di
voler divenire ad ogni costo un buon avvocato, però che da questa professione si ripromette un comodo avvenire, e allora appunto che noi lo vediamo
quasi dimenticarsi d’essere praticante nello studio
VITA DI T. STROCCHI
XXXIV
Martini, e finir poi col non frequentarlo più, per
ridarsi tutto a’ suoi studii prediletti e alle sue serenate, a’ suoi amori, dai quali chiede ispirazioni
pe’ futuri suoi poetici componimenti, pe’ suoi romanzi e
commedie.
Né si arresta qui; chè giovane dalle più
arrischiate avventure durante il pericolo universitario;
caldo di patrio amore e desideroso di combatter
contro lo straniero durante la campagna del 1866, ora
più che mai sente il bisogno di scegliere fra’ diversi partiti quello, cui sarà devoto, e di manifestare
un’opinione. E il suo ingegno, i suoi studii, la sua
educazione lo portano abbracciare spontaneamente
il partito repubblicano. « Però, egli dice; io non
voglio col pretesto d’esser tale osteggiare qualunque cosa alle mie opinioni contraria, quando anche
giovi alla patria mia. Per me la Repubblica è un santo
ideale che mi adoprerò con tutte le mie forze a realizzare, le mie opinioni saranno sempre le opinioni
libere, generose del repubblicano; io mi voterò anima e corpo al bene del popolo di cui faccio parte,
di quella onesta parte del popolo che soffre, lavora e
si batte per la patria. Sventuratamente i miei mezzi
saranno troppo insufficienti al grande scopo, ma io
non abbandonerò mai quella causa che io sento
esser quella verso cui si slancia l’anima mia.»
E fu appunto di questi giorni che costituitosi
anche in Lucca un comitato Italo-Ellenico per raccogliere soccorsi agl’insorti Candiotti, che lottavano eroicamente per liberarsi dalla schiavitù degli
Ottomani, si strinse fra noi amicizia; dacchè
entrambi se ne faceva parte come segretari; amicizia che nata non per mera combinazione di casi,
non per interesse personale, ma per corrispondenza
VITA DI T. STROCCHI
XXXV
d’idee e di sentimenti, per accordo di principii e di
fede in un comune ideale, non venne mai meno, quantunque poi non sempre ci trovassimo d’accordo nella
scelta de’ mezzi per conseguirlo.
Difatti da indi in poi, egli non fa più nulla
che io non ne sia messo a parte; non scrive un
verso, non una pagina di prosa, se prima non ne ha
parlato meco lungamente. Noi nutriamo lo stesso
amore per l’arte, come la stessa avversione per
l’avvocatura, quantunque datisi entrambi a questa
professione. Delle varie forme dell’arte, noi preferiamo la drammatica; il teatro è il nostro tema prediletto. Ma se uguale è l’amore, la passione che ci
governa e ci fa passare veri giorni di speranza e
d’illusioni, a lui solo però son concesse ale così
potenti da volare a certe l’altezze senza precipitare! Frattanto ha ideato di scrivere una Commedia,
con animo d’inviarla al concorso aperto in Firenze
dalla società d’incoraggiamento all’arte teatrale,
concorso che si sarebbe chiuso il 30 settembre
1867. Ma non ha ancora incominciato il suo lavoro
che già si parla di possibili avvenimenti politici, i
quali se si verificassero lo distrarrebbero certamente
per qualche tempo da suoi studii; però che s’egli
ama l’arte e confida di potere un giorno acquistar
nome per essa, più dell’arte, più di tutto ama la patria sua, e di lieto animo, festante, lui poeta, lascia
volentieri la penna per prendere il fucile. E potrebbe
egli rimanere indietro, quando si combatte per la
patria? No: è la sua coscienza che gli dice: sii
soldato e combatti finché vi sarà un palmo di terra
italiana in mano dello straniero, finché vi sarà
parte di popolo italiano senza libertà!
VITA DI T. STROCCHI
XXXVI
Il 22 giugno infatti la spedizione che il generale
Garibaldi pensava fare su Roma non era più un vago si dice. Già i giornali ne parlavano dando notizie
come questa: « Terni. Circa duecento giovani armati
hanno tentato di passare il confine. Quarantasette
di essi sono stati arrestati; gli altri sono sbandati.
La tranquillità è ristabilita al confine. » E il nostro
Tito che s’era fino dal 20 dichiarato pronto a partire, ne attendeva con ansia di giorno in giorno
l’ordine, dacchè doveva far parte della sesta spedizione, che secondo il piano che si diceva allora
stabilito, doveva comporsi co’ volontari delle città
di Milano, Bologna, Firenze, Livorno, Lucca. Le cose per altro andarono così in lungo, che egli non potè
poi partire prima del 3 settembre.
E in che stato d’animo il nostro Tito lasciasse anche questa seconda volta la sua famiglia,
e con quai mezzi s’avventurasse ad una impresa
tanto rischiosa, lasciamolo raccontare a lui stesso:
« Alle cinque e un quarto io doveva partire. Mio
padre dormiva , io lo svegliai perché mi aspettava
dei denari necessari al viaggio e al mio mantenimento per quindici o venti giorni, come ci avevano
detto, nel luogo ove saremmo stati condotti. Il
povero mio padre alzatosi dal letto mi pose in mano
una carta da cinque franchi, dicendomi che maggiore spesa non poteva fare. E purtroppo era vero. Io
sentii un sudor freddo colarmi sulla fronte nel vedere quell’umile pezzo di carta, e non ebbi coraggio
di far parola. Io doveva andare a Orvieto e vivere quindici giorni con cinque franchi! Uno scoramento terribile m’invase ed atterrò d’un colpo
tutto il mio entusiasmo. Mio fratello Pio, che doveva
accompagnarmi al Vapore, mi chiamava perché
VITA DI T. STROCCHI
XXXVII
mi affrettassi, io strinsi la mano a mio padre,
ma io era così disperato, così avvilito che il mio
saluto a quel padre che stava per lasciare col pericolo di non riveder più, fu poco affettuoso. Non
già che io questo facessi per rancore che gli serbassi pel poco danaro che mi aveva offerto, ma
l’anima mia atterrata da quell’inaspettato incidente
che veniva a distruggere la mia gioia con un soffio,
non poteva muoversi in quell’istante. Era rimasto
sbigottito, perché quei sogni che io vedeva prossimi a realizzarsi, sicuri ormai mi cadevano atterrati
dalla più piccola delle avversità, la mancanza di pochi franchi, come un castello di carte da giuoco. Ed
io non salutai mio padre come deve fare un figlio,
che il padre abbandona, e come il mio cuore avrebbe voluto. Oh quante volte in appresso mi sono
pentito, e mi sono duramente rimproverato di
questa mia sconoscenza, quand’io temeva di non
veder più quel povero vecchio. Allora io pensava
che egli certamente aveva dovuto avvertire quella
mia freddezza, che aveva dovuto attribuirla forse
al dispetto ingiusto in me che conoscevo le strette
finanze di mio padre in quei momenti, e doveva
rimproverarmi della mia sconoscenza. Uscii di casa
risoluto però di non tornarvi, di partire ad ogni costo. »
Così lasciava la sua famiglia. Ma poi come
partire con soli cinque franchi? « Volsi il passo,
continua il suo racconto, verso la stazione ove mi si
aspettava, e mio fratello mi veniva dietro dimandandomi ad ogni passo perché camminassi verso
il Vapore se non aveva in tasca nemmeno il quarto
del valore del biglietto di una misera terza classe.
Io non lo ascoltava e camminava quasi non cre-
VITA DI T. STROCCHI
XXXVIII
dessi alla triste realtà, e alla miseria della mia
condizione. Mi pareva non potesse esser vera. Per
fortuna che appena io giungeva alla porta della città, il Vapore partiva per Pisa e lasciava sulla strada i miei compagni che mi aspettavano, sdegnati
del mio ritardo. Stabilimmo allora di partire alle 8
1/2. In questo tempo mi proposi di trovare dei danari. Quanto più vedeva crescere il sole, aprirsi le
botteghe, io sentiva lo scoraggiamento invadermi,
poichè in tutto questo destarsi di uomini e di cose,
l’orologio inesorabile suonava le ore, e quella della
partenza si avvicinava. Pio era a casa a perorare
presso il Babbo la mia causa. Io ero fermo dinanzi al Caffè l’Italia e guardava, guardava se
apparisser persone cui potessi domandare qualche
franco.Oh la brutta ora che trascorsi! Io vedeva che
per la miseria di pochi franchi, io stava per perdere
la più bella giornata della mia vita, e quello fu un
istante in cui più che non avessi mai fatto, imprecai alla miseria. Passò A.G. Un’idea mi sorse e lo
raggiunsi. Io gli chiesi dieci franchi. Egli me li prestò senza fare una parola, ed io di cuore lo ringraziai. Poco dopo giunse Pio con altri dieci franchi.
Io mi trovava così possessore di venticinque lire.
Era quello che abbisognava per lanciarsi alla ventura
fidando al caso. Corsi alla Stazione con viso sereno; alla peggio il viaggio era assicurato. »
Giunto a Orvieto ivi stette fino alla sera del
dì 7 senza incontrare ostacoli, sebbene ad ogni istante temesse d’essere arrestato; perché egli di
fronte al governo italiano era anche colpevole
d’essersi allontanato da Lucca senza permesso, essendo come coscritto soldato di prima categoria.
Laonde l’ora della partenza per passare il confine,
VITA DI T. STROCCHI
XXXIX
fu da lui salutata con vera gioia: lo tormentava il
pericolo imminente, poco o nulla curando i pericoli
avvenire. Partì insieme cogli altri suoi compagni
lucchesi (1) ; erano in quattro e condotti da persona pratica de’ luoghi e sicura. E ci voleva proprio
tutto il fuoco, tutto l’entusiasmo di giovani ventenni
amanti di avventure tanto pericolose; come quella
cui volontariamente s’erano abbandonati, soldati
d’una guerra santa, per sopportare tutti i disagi di
una marcia a traverso monti e dirupi fino a Civita sulla via di Bagnorea, luogo destinato per loro
primo asilo nello stato pontificio: a Civita, dove rimasero fino al 10, abitando in un magazzino di legnami, proprietà di un giovane del luogo. Di lì avanzaronsi poi fino a Viterbo, affidati al patriottismo d’un popolano che attendeva anch’esso con
entusiasmo il giorno della riscossa: e da Viterbo
fino a Soriano. E « oggi è il 15, scriveva il nostro
amico, Garibaldi ha promesso che nella seconda
quindicina di settembre scoppierà la rivoluzione.
Da oggi dunque comincia a decorrere il tempo e
questo ci rincuora. Però, a vero dire, noi non vediamo nessun preparativo, e questo ci spaventa. A
quest’ora i fucili almeno dovrebbero essere introdotti, e il non veder cosa alcuna ci fa temere. La
parola di Garibaldi però è sacra, e speriamo che
non passeranno molti giorni che noi sentiremo le
fucilate. »
Ma intanto i giorni passavano; e sempre circondati dal mistero, i nostri ogni po’ erano costretti a cambiare di abitazione. E siffatta prigionia
principiava ad essere loro insopportabile; e più al no(1)
Erano Fabio Ragghianti, Pertinace Giannini, Enrico Giorgi.
VITA DI T. STROCCHI
XL
stro Tito, quantunque cercasse di ingannare le lunghe
ore d’ozio scrivendo versi che a suo tempo vedremo come non sieno del tutto indegni d’essere ricordati per testimoniare della sua facile vena di
poeta. Finalmente, il 23, par proprio che sia giunto il
momento di agire: qual che cosa si dice esser già
accaduto; ma purtroppo le notizie non danno
molto a sperare, difettando gl’insorti e di danaro
e di armi. L’arresto avvenuto in Viterbo di chi si
diceva avesse in mano tutte le fila della congiura
destò in molti un po’ di scoraggiamento, tanto che
si consigliava al nostro amico di tornare con tutti
gli altri ad Orvieto, nessuno essendo più sicuro a
Soriano ove si trovavano. Ma Tito non era uomo
d’abbandonare il territorio pontificio in quel momento. Sicchè, guadagnati gli amici al parer suo, è
soltanto per compiacenza verso i suoi ospiti timorosi d’esser compromessi che si allontana da Soriano per ridursi verso Bagnaia, dove si nasconde
approfittando di un convento disabitato e mezzo diroccato, deciso ormai di aspettar ivi il giorno della
rivoluzione.
«Arrivati al convento della Trinità, egli dice,
ci inoltrammo nei suoi sotterranei, sperando di
guadagnare una buca che erasi aperta nel solaio
del primo piano e per la quale avremmo potuto
introdurci e vivere sicuri. Ci arrampicammo l’uno
sull’altro per arrivarvi, ma tutta la nostra ginnastica non fu bastante a farci pervenire a quel luogo,
poiché il pavimento crollava e non poteva reggere
il peso del primo che vi si afferrava. Una voce
che non era umana ruppe il tetro silenzio di quelle
rovine. Perdio questo luogo è abitato, dissi io. Con
un lume ci aggirammo a cercare chi fosse il mi-
VITA DI T. STROCCHI
XLI
sterioso abitatore di quella solitudine. Ma quale
non fu il disinganno di noi che credevamo trovarvi una specie di Han d’Islanda o un essere qualunque che ci mettesse terrore, nel vedere agitarsi per la
terra due e tre maiali irritati del disturbo che loro
arrecavamo. Certamente i frati che anticamente abitavano quel convento non dovevano mostrarsi così
scortesi verso i poveri viaggiatori che avessero loro chiesto un asilo per la notte. Contuttociò noi non
volemmo disturbarli più lungamente, e dopo aver
tentato invano di rompere la porta del convento, alla
quale solamente riuscimmo a torcere il chiavistello,
ci rassegnammo a dormire sul prato, all’aria aperta.
Ci sdraiammo l’uno presso dell’altro al chiarore
delle stelle che scintillavano, carezzati un poco crudamente dall’aria fredda della notte che nel settembre comincia a non essere più adatta agli accampamenti. Disgraziatamente non fu possibile prender
sonno, perché il freddo si faceva sentir troppo sulle
nostre poveri carni, coperte dai leggeri vestiti da estate, che ci dovevano poi far soffrir tanto. »
La fame, come suol dirsi, caccia il lupo dal
bosco. E i nostri, dopo avere atteso invano per più
giorni chi era solito portar loro di che vivere, essendo
ormai ridotti a nutrirsi di castagne arrostite sulla
bragia, decisero di abbandonare il Convento della
Trinità per tornare a Orvieto, ed ivi attendere il
giorno in cui sarebbe scoppiata la rivoluzione. E’
vero che Garibaldi aveva detto che il 28 sarebbe
stato il giorno desiderato, ma il 28 era giunto e nulla
avevano veduto e saputo. Se non che fermatisi di
ritorno a Bagnaia per ivi pernottare presso persona
amica, l’animo loro si rinfrancò alla notizia, che una
colonna di circa ottanta garibaldini era entrata a
VITA DI T. STROCCHI
XLII
Bomarzo distante sette miglia, e che all’aprir di
quella i carabinieri avevano abbandonato il paese. Fu
per essi un momento di vera gioia; le loro speranze
stavano per realizzarsi; da indi innanzi non sarebbero
stati più costretti a nascondersi come lupi a vivere
nelle grotte, ne’ boschi, ad evitare così la presenza
di ognuno. E festanti entrarono nel paese, dove con
grande ardimento, fra mezzo ad una popolazione indifferente, abbatterono l’arma pontificia, partendo
poi per Bomarzo a raggiungere i garibaldini.
Ma quale disinganno! A Bomarzo i garibaldini
s’erano trattenuti poche ore, diretti per Soriano
distante altre otto o nove miglia. Sicchè colpiti da
questa nuova e inattesa sventura, stanchi, sfiniti,
riarsi dalla sete, cercan d’un’osteria, v’entrano e
chiedon da bere. Non avevan peraltro ancora ricolmi i bicchieri che si accorgono d’esser caduti in
bocca al lupo. Di faccia ad essi stanno seduti due sargenti di linea pontificia; vederli pagare l’oste e fuggire fu come un lampo, ma non avevan fatto ancora
dieci passi che il fermi,siete in arresto! E l’essere
uno di loro afferrato pel collo fu pure un momento
solo. Se non che quell’uno soltanto rimase preda dei
pontefici; chè il nostro Tito insiem con gli altri
tre suoi compagni potè fuggire, e dopo lunga e
precipitosa corsa per la campagna nascondersi entro folta macchia, ove stettero tutta la notte per riprendere il giorno di poi la strada che doveva
condurli alla meta desiderata, alla ricerca della colonna Corseri. Così i giorni e le notti si succedevano; e spossati dalla fatica, bisognosi di tutto, più e
più volte quasi disperando, son lì per rinunziare
all’impresa di trovare quella banda che sempre fuggiva loro dinanzi!
VITA DI T. STROCCHI
XLIII
Siamo al 30 settembre, e il nostro amico è
sempre disperso, ramingo co’ suoi compagni. Pure,
colla disperazione nel cuore, cerca d’incorare gli altri a nuove fatiche, ripetendo loro di tanto in tanto:
li troveremo! Avanti!… Sicchè riandando poi le
vicende di questa campagna, ecco come ne parla: «
Adesso che scrivo queste memorie, che quei giorni sono passati da molto tempo ed altre avventure
hanno cancellato l’impressione delle avventure di
quelle, non m’è dato che ristringere in poche parole
i dolori provati in quei giorni che correvamo dietro
alla colonna Corseri, le ansie continue, le speranze. i disinganni, lo scoraggiamento che ci assaliva,
e le nuove forze che trovavamo nel convincimento
della nostra causa; ma in quei giorni quelle sensazioni ripetute, alternate, ci facevano contare le ore,
l’una dopo l’altra, e sempre più lunghe, più penose,
e ci faceano sembrare sempre nuove le fatiche, i
dolori già provati che adesso la memoria sa distinguere, ma che la parola non può esprimere che
con una sola, con una stessa frase. Eppure il nostro
umore era sempre allegro, noi eravamo più forti di
tutte le avversità, e con lieto animo sopportavamo il
nostro destino, sacrificando tutto alla santa causa
per la quale c’eravamo mossi. Noi potremmo dire
che abbiamo sofferto più di tutti in questa campagna
di stenti, che più di tutti abbiamo sopportati i dolori lietamente, che partendo noi sapevamo di andare incontro a tutte queste fatiche, poiché adesso
saremmo pronti a cominciare un’altra volta la faticosa vita che ora volge al suo termine, senza che il
buon esito ci abbia soddisfatti. »
Così di paese in paese. da Campina a Carbognano, a Vignarello andarono errando ancora per
VITA DI T. STROCCHI
XLIV
due giorni, finché volle il caso che s’imbattessero
in una piccola squadra di sette garibaldini, vestiti e
armati di tutto punto, i quali andavano per viveri facendo parte d’una colonna composta di trenta e più,
che si trovava accampata a poca distanza, e che
andava anch’essa in cerca di quella Corseri, per
formare quel primo nucleo di forze che dovevano
iniziar la campagna contro i mercenari pontifici.
Esultarono i nostri a questo fortunato incontro,
chè se non era la colonna che da tanti giorni seguivano senza mai poterla raggiungere, erano garibaldini e tanto loro bastava. Sicchè poi marciando
uniti e con più sicure indicazioni poteron raggiungere Corseri a Bagnarea il 4 ottobre, il giorno dopo
ch’egli vi era arrivato in tempo per soccorrere i pochi garibaldini che ivi trovavansi alle prese co’ pontifici e di questi rimaner vincitore.
A Bagnarea frattanto s’andaron formando le
prime compagnie, e armati vi furon quelli che ancora non erano. I garibaldini quivi riuniti ammontavano a circa quattrocento cinquanta, e n’ebbe il
comando il maggiore Ravini. Né il momento di entrare in azione guerresca si fece loro attendere lungamente; e al nostro Tito non parve vero fosse
suonata l’ora di fare alle fucilate e porre così alla
prova, com’e’ diceva, il suo coraggio. Infatti il giorno 6 i papalini in numero di ben mille duecento, con
due cannoni, mossero all’attacco di Bagnorea. La
lotta fu accanita; valorosamente si difesero i nostri
combattendo dalle nove antimeridiane alle tre pomeridiane, e valorosissimo fu il nostro amico, però
che egli rimase de’ pochi che mentre i più s’erano
ritirati in disordine sopraffatti dal numero e dalla
superiorità delle armi, rientrati in Bagnorea tennero
VITA DI T. STROCCHI
XLV
indietro per oltre due ore il nemico, facendo fuoco
dalla porta del paese. Erano circa una cinquantina,
ma a mano a mano andarono scemando di numero,
così che rimasero soltanto in sette; nè questi lasciarono il posto prima che il cannone avesse fatto
breccia nelle muradi cinta e avessero bruciata
l’ultima cartatuccia(1)
« Ahi com’è dolorosa la fuga!, esclama il nostro
valoroso amico ricordando questo fiero cimento nelle sue memorie. Fu una giornata infame pel dolore
dell’ anima e per lo strapazzo del corpo. Ed io che il
giorno innanzi dopo avere con tanta fatica raggiunti
i garibaldini, credeva che fosse venuto il tempo di
riposarsi e faticare allegramente, io senza avere
avuto nemmeno il tempo di dormire abbastanza, era
spinto a lanciarmi in balìa di una nuova marcia avventurosa e più rapida, poiché alle nostre spalle si
avanzavano trionfanti i papalini. I papalini avevano
vinto! Qual dolore per noi poveri disgraziati che avevamo resistito fino all’ultimo momento!I papalini
entravano gridando voci di trionfo nel paese, passando sopra i nostri morti e i nostri feriti, che noi eravamo costretti ad abbandonare, e il suono insolente
delle campane ripercotendosi di monte in monte
giungeva al nostro orecchio doloroso come un insulto ai poveri fuggitivi. I papalini erano entrati
per quella porta sulla quale noi saremmo morti volentieri, se la nostra morte avesse potuto giovare alla
causa. E frattanto noi dovevamo fuggire e senza riposo, poiché i vincitori non erano distanti un miglio da noi, e avrebbero ben voluto inseguire colo(1)
Fra questi valorosi era un altro nostro concittadino, Fabio Ragghianti.
VITA DI T. STROCCHI
XLVI
ro che li avevano tenuti tanto tempo lontani dal
paese, con sette fucili; e i paesani che suonavano
le campane a celebrare la loro vittoria, avrebbero
ben loro insegnato il cammino dei pochi valorosi.
Bisognava correre, abbandonarsi sulla rapida scena
delle colline, passare i fossi, i fiumi, risalire gli alti
monti faticosi, sotto i raggi del sole ardente, assetati e morenti di stanchezza, poiché dall’alba eravamo in piedi e dalle nove era cominciato il combattimento. »
Avanti poveri fuggitivi; correte!… E correndo
affamati, co’ piedi laceri, la sera giunsero a Castiglione dove trovarono poco più di cento compagni,
fra’ quali era il maggiore Ravini, fuggiti prima di
loro. Ma non erano appena arrivati, non avevano
appena potuto mangiare qualche cosa che fu loro
forza ripartire per non rimaner soli e andare nuovamente raminghi per quelle campagne. Pur troppo
però di lì a poco dovettero rimaner soli e dispersi,
non avendo potuto per stanchezza seguitare gli altri tutti. Sicchè riprendendo poi il cammino a caso
fra mezzo alle tenebre della notte e sotto una pioggia dirotta, si accorsero che senza saperlo avevano
ripassato il confine; e fu fortuna, chè pernottarono così in una casa ospitale di contadini. Il giorno
di poi all’alba rientrarono sul territorio pontificio, e
riuscì loro facile raggiungere i compagni che trovarono assai scemati di numero; non erano appena
sessanta! E da capo in marcia; e ad ogni tappa
sempre nuove defezioni. Una mattina poi svegliarsi
dopo aver dormito a Bomarzo si contarono e non
erano più di trentasette: anche molti ufficiali erano spariti. Dimodochè il 7 ottobre ridotti in esiguo
numero, senza munizioni e senza danari, fu una-
VITA DI T. STROCCHI
XLVII
nime il parere di disciogliersi e rimpatriare. Deposti
e nascosti i fucili, provvisti delle barche necessarie
per passare il Tevere, sbarcano presso Giovo, dove
un picchetto di linea del trentanovesimo reggimento
italiano pareva che si trovasse lì apposta per riceverli e per condurli tutti in carcere ad Amelia.
Era la prima volta che il nostro Tito metteva
il piede in una carcere. Da Amelia furono condotti a
Terni ove stettero carcerati fino al dì 11, giorno in
cui fu loro rilasciato il foglio di via e data
l’indennità di viaggio, perché ciascuno tornasse alle proprie case. Ma il nostro amico si trovava in così misero stato, tutto lacero e sporco che, vergognando
di tornare a Lucca, si diresse a Firenze, poi a Cipollatico da certi suoi parenti, sicuro di trovar presso
lor buona accoglienza, e se non denari, certo il necessario per rivestirsi e ritornare fra’ volontari,
quando gli si fosse presentata un’occasione favorevole e avesse rimediato qualche soldo scrivendo a
Casa. Stette difatti contento e accarezzato presso i
suoi zii materni a Cipollatico fino a tutto il 14; due
altri giorni passò poi in Firenze, dove in cambio di
trovare incoraggiamento ed esser secondato nel suo
ardente e disinteressato amore di ritornare alla dura,
faticosa e pericolosa vita del campo, rinvenne tale
freddezza e nel Comitato di soccorso per
l’insurrezione romana che ivi s’era costituito, e in
que’ patrioti che pure andavano per la maggiore allora in Firenze, che altri meno caldi di lui, non
come lui educato alla dura scuola del disinganno, e
deciso ormai di sacrificare tutto anche la vita per la
santa causa cui s’era dato, altri dico, sarebbe senza
pensarvi su molto tornato a casa, alla vita comoda
di famiglia, pago di aver fatto quello che aveva
VITA DI T. STROCCHI
XLVIII
fatto e che non era poco. Ma il nostro Tito non
ha pensava così, anzi quanti più erano gli ostacoli
che incontrava, più in lui s’accresceva la brama
di superali. « Ho fatto il viaggio una prima volta,
senza denari e senza speranze, ho lottato contro le
più dure avversità della fortuna, ho resistito, ho vinto;
ebbene, e’ diceva,lo farò una seconda volta»; e
senz’indugiar più, ricevute da Lucca venti lire, partiva la sera del 17 per Terni.
Le cose erano un po’ cambiate; non erano
più come a’ primi di settembre. A Terni i volontari
si trovavano in gran numero; il governo s’era fatto
più tollerante, vedeva e non vedeva. Ivi si trovava
il generale Fabrizi che organizzava i battaglioni, e
a mano a mano si facevano partire pel confine.
Partì il nostro amico da Terni il 19 ottobre e il
20 per via ebbe il suo fucile. Le marcie, le fatiche
tutte d’una campagna eccezionale erano incominciate e soprappiù mancavano i viveri. Il 22 da
Cutigliano partono per Poggio San Lorenzo, dove
hanno la notizia che Garibaldi è riuscito a fuggire da
Caprera, ov’ era guardato a vista dalle navi italiane e
che si trova a poca distanza, a Scandiglia. Passarono il confine e si fermarono a Monte Libretti il
24 con ordine di proseguire per Monte Rotondo,
avendo Garibaldi deciso l’assalto di quel paese pel
giorno dopo, come difatti avvenne, e con vittoria
pei bravi nostri volontari. I quali dal fortunato successo di quella giornata si ripromettevano vicino il
giorno che sarebbero entrati trionfanti in Roma,
unico asilo rimasto alle truppe papaline.
Ecco come il valoroso nostro amico ci descrive questa gloriosa giornata pe’ volontari italiani: «
Era il 25 ottobre, il giorno dell’assalto di Monte
VITA DI T. STROCCHI
XLIX
Rotondo. Egli non poteva più lietamente spuntare;
la natura sembrava esultasse con noi. Eravamo in una
macchia folta di alberi ove mille uccelli cantavano. Il
sole ne indorava le cime e ci riscaldava le membra
assiderate pel freddo terribile della notte. Cominciammo a marciare verso Monte Rotondo. Garibaldi
allo spuntare del giorno aveva già attaccato i papalini. Dopo una lunga marcia cominciammo a sentire
le cannonate. Com’è solenne la voce del cannone
per chi gli muove incontro e sente ognora più farsi
vicino quel tuono, e sa che presto sarà sotto il tiro
della sua mitraglia. Affrettammo la marcia varcando fosse e colline. A ogni momento ci pareva di essere in prossimità di Monte Rotondo, ma sempre si
presentava invece una nuova collina da varcare.
Finalmente vedemmo in lontananza Monte Rotondo
e udimmo il fuoco delle fucilate e quello più lento,
ma più terribile delle cannonate…I papalini chiusi
in Monte Rotondo potevano esser forse cinquecento
zuavi, armati di eccellenti carabine con due cannoni. Quel numero e quelle armi erano una forza
imponente per le bande garibaldine male armate e
sprovviste di cannoni, in quella posizione sì forte. I
volontari che dovevano combattere a Monte Rotondo potevano essere quattromila o pochi più. La
mattina di quel giorno erano cominciati i primi colpi.
Quando noi giungemmo in vista di Monte Rotondo ci
arrestammo un momento per riposarci, poi fu ordinata la marcia forzata e ci avvicinammo di gran
passo. Sarà stato mezzogiorno; il sole splendeva purissimo e la giornata era calda sì, che noi sudavamo sotto quella sferza affaticati per quella marcia.
Feci la comparazione fra stato dell’animo mio in
quel giorno e quello che aveva sentito a Bagno-
VITA DI T. STROCCHI
L
rea. E’ forza confessare che quel giorno io era un
poco più commosso, ma la ragione è in questo, che
a Bagnorea fummo assaliti ad un tratto, sicchè non
avemmo tempo di pensare al pericolo, mentre a
Monte Rotondo assalivamo e ad ogni passo sentivamo accrescersi il rumore delle fucilate e del cannone. Però io rammento con gioia quelle forti emozioni, però che in quei momenti ci sentiamo
battere il cuore di un palpito generoso. L’uomo è
grande nel momento della battaglia, egli sfida la morte ad ogni passo che muove e il suo volto è sorridente, è fermo il suo braccio che stringe l’arma. Io
volsi un pensiero al mio paese, alla mia famiglia,
a’ miei amici. La memoria me li presentò tutti
quasi fossero stati veramente essi, ed io li salutai,
detti loro un addio che poteva esser quello della
morte, e fui più tranquillo. Io aveva tutto il tempo
per prepararmi a quel combattimento, poiché esso era
già in tutto il suo fuoco mentre noi ci avvicinavamo, e ad ogni passo sentivamo farsi più forte il rumore dei colpi. Giungemmo sotto il colle dove ci fermammo un poco per riposare della marcia forzata.
Eravamo terribilmente stanchi. Il sole bruciava, noi
cercavamo un poco di acqua per bagnare le labbra
arse. Mentre eravamo fermi in quel luogo fummo
certo scoperti dai papalini, poiché ad un tratto una
bomba cadde poco distante da noi e scoppiò. Quando noi fummo a poca distanza dalla città il fuoco
era cessato. Un timore che vivamente mi agitava
era la incertezza sovra il mio fratello Pio. Io credeva che egli si trovasse a quel combattimento ed
ogni fucilata poteva esser quella che lo colpisse. Io
aveva tanto timore che avendo trovato un morto al
quale avevano coperto il volto con un abito mentre
VITA DI T. STROCCHI
LI
alcuno lo discopriva per vederlo, volgeva la faccia
temendo quasi di dovervi riconoscere mio fratello. »
« Cessato il fuoco ci fecero riposare. Eravamo
quasi a tiro di fucile sotto Monte Rotondo. Colsero
l’occasione per dispensarci del pane, del formaggio e del vino. Dopo il pasto ci avevano promesso di
condurci all’assalto, sicchè mangiammo allegramente. Dopo poco ci condussero ad una casa ove era in
quel momento il generale Garibaldi, pochissimo
distante dalla città. Quella casa era la villa di un
Monsignore, nella quale avevano resistito i papalini alla mattina e dalla quale erano stati respinti. I
papalini si erano ritirati nel paese. Le colonne che
avevano preso parte al combattimento erano la colonna Menotti, la colonna Frigeysi, e la colonna
Valzanìa. I papalini dopo qualche resistenza fuori
della città si erano ritirati dentro di essa, e facevano fuoco sicuri, inoffesi. I garibaldini erano costretti
ad esporsi ai loro colpi sicuri, dovendo ascendere il
colle. Il palazzo del Principe che da una parte, da
quella di dietro, chiude il paese, ha una porta che si
apre precisamente sulla strada della campagna che
sale fino a quel punto. Ad ogni tratto quella porta
si apriva e si presentavano due cannoni caricati a
mitraglia che distruggevano le file dei valorosi che
si avanzavano. Ecco qual era diventata la pugna. I
papalini riparati dalle mura del palazzo e da quelle
della città mostravano solamente la bocca delle loro
armi e prendevano sicuramente la mira su coloro
che erano forzati ad avanzarsi a passo a passo sotto
quel fuoco micidiale. Però ognora più il cerchio
si stringeva e le truppe del Papa si trovavano rinserrate entro quelle mura. La casa ove noi giungemmo era circondata da molte compagnie di gari-
VITA DI T. STROCCHI
LII
baldini. In essa era Garibaldi. Le compagnie avevano fatto i fasci d’arme intorno, e tutti si riposavano dalle fatiche della giornata. Era una bellissima
vista quell’amena villa circondata da tante armi e
da tanti uomini. Il sole stava per tramontare. In
quella casa ove era nascosto l’Eroe delle patrie
battaglie che stava per segnare un nuovo trionfo
sulla pagina delle sue vittorie, ed aggiungere
un’altra stella alla sua corona, si agitava uno straordinario movimento. Cento messaggeri giungevano,
quali a piede, quali a cavallo, cento persone uscivano apportatrici di notizie, mille uomini passeggiavano rimirando la città assediata, o giacevano accanto ai fasci delle armi, sulle quali il sole scintillava cogli ultimi suoi raggi. E quei raggi illuminavano pure lietamente la cima delle case di Monte
Rotondo, circondate da una selva di viti e
l’estremità del palazzo del Principe e della torre
entro la quale i papalini inquieti rimiravano quello
assedio che sempre più li stringeva. Intanto la notte scendeva, ma quel palazzo cupo, marmoreo si
disegnava sempre nel cielo sull’altezza della sua
collina, e intorno intorno si vedevano accendersi
dei fuochi e si udivano delle grida e dei canti. Che
bel giorno! Come io mi sentiva felice in quella posizione avventurosa, innanzi a quella magnifica
scena. Giammai città è stata assediata in modo così
vario, così pittoresco, giammai città assediata, in
procinto di essere teatro di una strage orribile, è stata
così lieta, quasi sorridente. Come erano leggiadre a
vedersi quelle casette incerte fra il raggio ultimo
del giorno e l’ombra della notte, quella collina coperta di alberi e di viti, quei drappelli di uomini
armati, tutta quella gente che si muoveva lieta e
VITA DI T. STROCCHI
LIII
baldanzosa, incerta di vedere il sole della dimane.
Come è grande e poetico il volontario nei momenti
della battaglia. Qual grandiosa epopea è quella del
volontario italiano in questi ultimi anni di rivendicazione!… La camicia rossa sarà sempre una insegna
di gloria e di libertà; i fortunati che hanno potuto
indossarla la mostreranno ai loro figli, raccontando
loro le battaglie che essa ha vedute, lo sgomento
che ha ispirato a tanti nemici. Essa ha veduta la
fronte, spesso le spalle di tre eserciti. La camicia
rossa sarà una veste tradizionale di vittoria che i
nostri posteri ricorderanno; essa è la uniforme dei
liberi figli della patria che tutto hanno abbandonato
per volare a morire in sua difesa; essa è l’aureola
dei martiri di questa terra gloriosa, è l’insegna della
libertà.»
«Intanto che si faceva notte era ricominciato
il suono di qualche fucilata, e più tardi si fece più
spesso; i papalini non volevano stare in ozio; e dovere di cortesia comandava che loro si rispondesse. E’
ben vero che per i papalini era un divertimento lo
sparare in quel luogo sicuro, certi di offendere e non
essere offesi. In quella casa di cui parlo, intorno
alla quale eravamo radunati, era una magnifica
cantina, piena di grandi botti colme di vino eccellente ; una cantina degna di un monsignore. Già
nella mattina i soldati più fortunati avevano penetrato nel sacro orrore di quel luogo ed erano restati
ammirati innanzi a quella schiera di botti. Sulla sera si fece una generosa dispensa di quel vino. Un
gran tino colmo di vino era stato recato e un ufficiale lo dispensava ai soldati.Però, guarda destino!
Non ci fu caso che io potessi assaggiarne. Dopo
poco mettendomi dietro a due o tre dei più audaci,
VITA DI T. STROCCHI
LIV
giungo a penetrare nella cantina. Credetti di aver
trovato il paese della cuccagna e di non uscire se
non brillo. Ahimè! Mida moriva di fame fra i monti
d’oro. Coloro che erano già nella cantina e quelli
che meco vi erano entrati si accavalcavano intorno
a quelle botti che potevano aprire mediante un coltello, un ferro qualunque. Uno per aprire uno zampillo lasciò andare nella botte una fucilata. Secondo
il solito io mi restava a guardare quella gente colla
bocca serrata allo zampillo, ma non riusciva a mettermi nel loro posto. La confusione si fece così
grande che furono costretti a fare uscire tutti dalla
cantina, ed io me ne dovetti partire senza avere assaggiato un bicchiere di vino, dopo essere stato in
mezzo a quell’abbondanza.»
« Ma quella era la terra promessa; era impossibile dover conservare il desiderio di ciò che
tanto abbondava. Altri vasi ancora di vino eccellente
furono collocati sul prato. Io mi procurai un vaso e
più volte tornai a empirlo. Aveva accesa la mia pipa caricata di scorze di vite; mi sedeva sull’erba al
chiarore delle stelle brillanti e vuotava la mia tazza
di vino al suono delle fucilate che partivano dal palazzo di Monte Rotondo. Oh ch’io mi ricordi sempre di quei lieti momenti!. Quando ebbi bevuto
tanto da spengere la mia sete di vino, cercai di
dormire un poco, essendochè fossi molto stanco, e
mi rincantucciai sotto una porta per ripararmi un
poco dal freddo. Ma non mi era ancora adagiato che
la mia compagnia fu chiamata sotto le armi. Essa
doveva andare sotto Monte Rotondo… Entrammo
nel piccolo borgo che precede la porta della città.
I papalini avevano serrata quella porta e barricatala,
difendendone poi il passo colle fucilate. Ma sul co-
VITA DI T. STROCCHI
LV
minciare della notte furono portati dei sacchi di
zolfo, della legna sotto quella porta cui si attaccò
il fuoco. Le fiamme si appiccarono a quella porta
ferrata investendola tortuosamente e crepitando sordamente. Quand’io giunsi, la porta cadeva lasciando libero il passaggio e gli avanzi ardevano sulla
soglia dando una luce fantastica a quella scena. Le
prime compagnie del mio battaglione entrarono
nella città a baionetta spianata, i papalini si erano
ritirati e chiusi nel palazzo dal quale seguitavano
il fuoco. Noi eravamo sempre fermi nel borgo dove
faceva un freddo terribile. Verso le tre del mattino
anche la mia compagnia si mosse verso il paese e
allora cominciai a sentire il sibilo delle palle intorno
agli orecchi. Si parlò subito di fare una barricata
presso quella porta per guardarci in caso che i papalini facessero una sortita dal palazzo. Tutti si adoprarono a trovar materiali. Vorrei qui dipingere
l’aspetto della città in questa notte, aspetto così pittoresco, così fantastico, ma sono certo di non poterlo
fare che imperfettamente. Entrando in Monte Rotondo per quella porta incendiata, che non rammento come si chiami, si trova una strada che
conduce sopra una piazza dov’è inalzata una colonna che regge la statua non so se di un Papa o di
un Cardinale. La piazza è chiusa tutta all’intorno
dalle case, tranne che in faccia si apre un arco
che conduce ad altre contrade e a sinistra ove è
una strada larga in fondo alla quale si vede una
chiesa. Descrivere qual fosse l’aspetto di queste
contrade è impossibile. Esse formicolavano di persone vestite in diverse foggie, in diversi costumi.
Pareva un Carnevale. I più erano a borghese,
ma colla differenza che quell’abito aveva qualche co-
VITA DI T. STROCCHI
LVI
sa di militare, di pittoresco. Chi un cappello a
bandito colle penne, chi gli stivali alla cavalleresca.
Moltissimi indossavano la uniforme completa garibaldina, la camicia e il berretto, chi non aveva che
l’una, chi non aveva che l’altro. Alcuni avevano
l’abito delle guide di Garibaldi, altri quello dei
bersaglieri, altri berretti di nuova foggia, nei quali il
colore che predominava era il rosso. Tutti armati
di fucile, di carabina, molti di sciabola e di pugnali. Era una varietà che stancava l’occhio. I mille lumi sparsi per le contrade rompevano le tenebre come in una pubblica illuminazione. Sulla porta ardevano gli avanzi dell’uscio e intorno a quello alcuno si
scaldava. A tutte le finestre delle case si vedeva
una torcia, un lume, più lumi. I paesani sembravano tutti fuggiti, niuno si vedeva di essi, e i garibaldini battevano a tutte le porte, tutti le aprivano per
trarne dei materiali per formare la barricata. E si
vedevano discendere quali portando una trave, quali
una tavola, quali un utensile, un mobile qualunque, quali trascinavano un birroccio e tutti radunavano quegli oggetti fuori della porta, sicchè in
poco d’ora la barricata fu formata. Le grida poi, gli
urli, i diversi dialetti d’Italia tutti adunati in quel
luogo formavano una torre di Babele.»
« Io mi aggirava fra quella folla col mio fucile
in ispalla, ammirando quella scena di gioia. Spuntò
il giorno e allora il fuoco si attaccò vivo. I papalini
raddoppiarono le loro fucilate micidiali, e noi rispondevamo vivamente. Li serrammo entro un cerchio di fuoco che sempre più si stringeva. I nostri
colpi andavano perduti, poiché essi erano racchiusi
nel palazzo e non facevano fuoco che dalle aperture
delle finestre, ma sempre più ci avanzavamo sotto
VITA DI T. STROCCHI
LVII
quella fortezza. Se fossimo pervenuti a raggiungere la porta del palazzo e ad incendiarla, essi erano perduti. E nuovi garibaldini intanto cadevano,
ma gli altri sempre più si avanzavano, la vittoria era
imminente. Saranno state le dieci della mattina. La
colonna Menotti, da lui stesso guidata, fu quella
che prima toccò la porta del palazzo. Era il momento fatale. I Papalini erano vinti, snidati dalla loro posizione. Invano aveva seguitato a tuonare il loro cannone. Allora essi si videro perduti e alzando bandiera
bianca si arresero. La bandiera sventolò sulla torre
del palazzo. L’allegro squillo della tromba suonò:
cessate il fuoco. E allora fu un correre, un affollarsi tutti verso quel palazzo a disarmare i prigionieri. La scena che ho già dipinto prese allora
una tinta più viva. La gioia del trionfo, della vittoria sparsa su tutti i volti animava quella folla. I
prigionieri furono tosto disarmati e guardati. Più
tardi posti in mezzo ad una scorta furono condotti al
confine e consegnati nelle mani dei bersaglieri italiani… Appena suonato, cessate il fuoco, Garibaldi
andò a prendere la consegna del palazzo. Che momento! Una banda lo precedeva suonando l’inno,
quell’inno diventato il canto della battaglia e della libertà, egli, il Generale, era a cavallo, sorridente, felice, circondato da Canzio e da suo figlio Menotti. Aveva in capo un cappello alla calabrese, addosso aveva una specie di giacchetta di colore cenerino e al collo un fazzoletto a varii colori. Non aveva
armi. Io sentii nel vederlo quella emozione che già
aveva provato vedendolo a Salò e a Nozza, e che ho
sempre provato quando l’ho veduto in seguito. Mi
sentiva gonfiare il cuore dalla gioia, quasi spuntare
le lagrime agli occhi…Il 26 ottobre sarà un giorno
VITA DI T. STROCCHI
LVIII
che io sempre nella mia vita rammenterò, un giorno
di gioia generosa, di esultanza vera.»
A Roma! Questo era il grido, o per meglio
dire il voto che i garibaldini emettevano dopo la vittoria riportata a Monte Rotondo. Infatti il giorno 28
fu dato l’ordine di partire e prender la via che
conduce all’ eterna città. Garibaldi, secondo la sua
tattica, non perdeva tempo. E col cuore caldo
d’entusiasmo e la mente piena delle antiche memorie
il valoroso soldato, il bravo nostro poeta marciava su
quella via e « mi sembrava, egli dice, una marcia trionfale.» Il 28 i garibaldini si son già di molto avanzati, quali si trovano, e tra questi il nostro Tito,
a Castel Giubileo, quali fino a Villa Spada, tutti più
o meno accampati su que’ colli in buone posizione strategiche; e Garibaldi è con loro. Vi rimangono il 29 e il 30; quando alla sera di questo
giorno con meraviglia di tutti, poiché erano ignari
affatto di quel che accadeva per manco di notizie,
s’ebbero l’ordine di dovere abbandonare que’ luoghi per tornare a Monte Rotondo, dove restaron poi
fino al 3 novembre, giorno memorabile in cui
l’impero napoleonico doveva macchiarsi con una
nuova infamia, e il governo italiano, suo schiavo,
rendergli quasi gli onori di casa. Tanto può esser vile
un governo che non ha la coscienza del suo dovere, e quindi non sente l’orgoglio della sua nazionalità! La mattina del 3 novembre però chi fosse
passato dalla strada che da Monte Rotondo prosegue
per Mentana, avrebbe veduto tutto il piccolo esercito
garibaldino schierato lungo quella via; non più di
quattro mila cinquecento uomini, con due soli cannoni,
pe’ quali non si avevano che settanta colpi! Messosi
in marcia verso le undici e arrivato presso Menta-
VITA DI T. STROCCHI
LIX
na, una guida rimasta ferita dà l’allarme. Nessuno
de’ garibaldini però crede imminente una battaglia.
Sicché , che cosa è, che cosa non è? e intanto
s’odono le prime fucilate. Ma lasciamo ancora che
parli il nostro amico:
« Dopo queste prime fucilate fu comandato di
abbandonare la strada e di distendersi a destra di essa
sul colle. Non erano dieci minuti che il fuoco era cominciato, che già erano passati sorretti moltissimi feriti avviandosi verso Mentana. Perdio, si disse, se sono sì pochi mirano giusto. Corremmo avanti e ci
stendemmo sul colle. Allora si vide l’esercito che ci
aveva assaltati. L’occhio non arrivava a scorgere tutta la linea che occupavano e si perdeva in una lunghissima schiera di calzoni rossi, fra i quali si vedeva
anche il mantello bianco della cavalleria pontificia. I
papalini erano seimila, i francesi novemila, provvisti
di quattordici cannoni. Noi non pensavamo però
minimamente ai francesi, li scambiammo coi legionarii d’Antibo che hanno la stessa uniforme. Sul
principio della battaglia però erano i soli papalini
che ci avevano assaliti. Inoltrandoci sempre sulla
linea di quel colle sul quale fischiavano le palle,
trovammo un altro colle coperto di qualche albero.
In quel punto trovammo il generale Fabrizi che ci
comandò di seguitare quella linea, raggiungerne il
culmine e fare fuoco da quel luogo. Noi seguimmo
l’ordine e restammo in quel punto molto tempo seguitando una viva fucilata. La battaglia era cominciata fortunatamente. Le nostre fucilate e le nostre
cariche facevano indietreggiare i papalini. I volontari occuparono la posizione che essi occupavano al
momento dell’attacco. I nostri due cannoni tiravano
meravigliosamente. Dei soli settanta colpi che a-
VITA DI T. STROCCHI
LX
vevamo, non uno andò perduto. Fu detto perfino
dal nemico che i cannonieri erano della nostra armata regolare, tanto li maravigliò l’aggiustatezza
dei loro tiri. I papalini erano vinti. Ormai noi non
avremmo fatto che inseguirli fin sotto le mura di
Roma. Ma coloro su cui veramente si contasse per
quella giornata si avanzavano intanto. I francesi si
inoltrarono sul terreno della mischia stendendosi sulle due ale, armati dei loro fucili Chassepot.»
« Sarà stato forse l’una dopo mezzogiorno
quando sentimmo le prime scariche francesi. Noi non
avevamo cognizione delle armi nuove. Quel fucile
scarica cinque colpi al minuto. Nell’udire quelle scariche così rapide, continuate, spesse che rassomigliano perfettamente al rullo di un tamburo, ci meravigliammo che i papalini le potessero fare col fucile ordinario. Le palle piovevano come la grandine,
e i feriti cadevano numerosi. E in mezzo a quella
fitta scarica che assordava si udiva il colpo lento,
cupo, rimbombante del cannone nemico. I nostri
fucili erano ormai inutili. Ad un tratto io mi sentii
portar via il fucile dalla mano, come urtato da una
scossa violenta. Lo raccolsi; una palla aveva colpito
il calcio, portandone via un scheggia. Quella era la
palla destinatami. Da quel momento la battaglia
era perduta. Senza un fucile che risponda degnamente è impossibile resistere al fucile Chassepot;
non si regge alla tempesta di quelle palle. Noi eravamo sempre su quel colle sparso di alberi. Le palle
rompevano i rami e passavano fischiando, o si cacciavano in terra sollevando la polvere. Quanti infelici cadevano gridando: viva Garibaldi. Aiutatemi!
Io avrò sempre nell’anima il grido di uno che cadde
gridando l’ultimo evviva e l’ultima parola di soc-
VITA DI T. STROCCHI
LXI
corso. Nessuno l’alzò. Quando tutti hanno bisogno
di guardare la propria vita, nessuno si ferma a raccorre il misero che non può muoversi, ed egli
chiama invano, e fa appello alla pietà di coloro
che gli si sono detti amici per un istante. Un fratello però, un vero amico non abbandonerebbe il ferito,
morirebbe con lui.»
«Sotto quella tempesta però fu lento lo indietreggiare dei volontari. Noi ci ritiravamo sopra Mentana, ma le schiere papaline e francesi avanzavano passo per passo. E intanto il giorno cominciava a declinare; il fuoco però era sempre vivissimo; i volontari resistettero finchè non fu persa l’ultima casa di
Mentana. La nostra ritirata era imminente. La mia
compagnia sempre guidata dal capitano Battista si
trovò all’altezza del colle che avevamo occupato, e che
cominciammo a discendere dalla parte opposta per
ritirarci sopra il paese. Un infelice, era un genovese, ferito da una palla ad una gamba, gridava chiamando soccorso; nessuno si fermava per soccorrerlo. Tutti passavano e lo lasciavano steso sul suolo.
Due genovesi suoi amici, e un lombardo, si fermarono e mi richiesero del mio aiuto per trasportarlo.
Le compagnie intanto si allontanavano. Per un poco noi le seguitammo, ma poi fummo costretti a
lasciarle allontanare, poiché il ferito voleva ad ogni tratto riposarsi, e noi pure non eravamo in grado di portarlo continuamente. Io avrei potuto fuggire
con tutti, ma non volli; quel povero infelice colla
sua gamba fracassata mi faceva pietà. Restai con
lui. Intanto a poco a poco rimanemmo soli. Eravamo cinque compreso il ferito. Contavamo di riposarci un poco e riprendere poi la via seguita
dagli altri. Frattanto più non si udivano che poche
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LXII
scariche. La battaglia era vinta. I volontari si erano ritirati in Mentana e contrastavano al nemico la
barricata che avevano formata sull’entrare del paese.
Ma essa non tardò ad esser presa.»
« Restammo forse venti minuti riposandoci.
Ad un tratto, mentre pensavamo di riprendere il nostro ferito e partire, sentimmo delle voci. Ascoltammo. Erano parole francesi. Ci sdraiammo per la
terra, sperando di non esser veduti, senza fare una
parola. Dopo poco si vide una compagnia di soldati
dai calzoni rossi avanzarsi lentamente distesa in
quadriglia. Noi non potevamo più fuggire. Che momento d’ansia fu quello! Noi non respiravamo nemmeno! Frattanto il suono di quelle voci straniere si
avvicinava, e noi li vedemmo sempre più inoltrarsi. Ancora qualche passo e ci avrebbero scoperto.
Oh qual dolore mi tormentava in quell’istante. Io
non pensava più a me, pensava a Garibaldi, pensava alla battaglia perduta, a Roma tornata in tutto il
potere dei pontefici. Pensava a tutti i sogni che io
aveva fatti, ai desideri di tutta Italia recisi
dall’evento di un giorno. Chi avrebbe creduto che
quel giorno dovesse essere così funesto all’Italia?
Noi eravamo vinti, ecco la conoscenza che io solamente sentiva. Garibaldi era stato vinto; aveva già
conosciuta la preponderanza delle forze che ci avevano vinto; ignorava però ancora che era stata la
Francia quella che aveva avuto l’onore di vincere
Garibaldi. Intanto che in me si agitavano questi
dolorosi pensieri, i francesi avanzavano. Noi udivamo distintamente i comandi degli ufficiali. Ci
guardammo in faccia per dimandarci che cosa avessimo dovuto fare. Noi non avevamo da scegliere.
Passare inosservati era ormai impossibile, noi era-
VITA DI T. STROCCHI
LXIII
vamo prigionieri. Però non ci muovemmo. Il povero
ferito tratteneva i suoi lamenti. I francesi ci scopersero e gridarono; les garibaldiens! Appena gettato
questo grido si avanzarono a baionetta spianata e
ci circondarono. Era una compagnia del 29° di linea. Noi non ci muovemmo. Eravamo sdraiati in terra; non facemmo altro che lasciare andare dalle mani
il fucile. Dopo poco ci posero in mezzo a loro e ci
portarono dove accampava il loro reggimento. Nessuno mi vanti la gentilezza francese…Sapete di che
cosa furono capaci i francesi? non già di circondarci
di baionette, cosa che non mancarono di fare, ma
sebbene di legarci le mani con una fune. Era già notte inoltrata. La strada tutta offriva l’aspetto di un
paese conquistato da un esercito straniero. Ovunque si sentivano delle voci, dei comandi, dei suoni
di tromba, e fra tutte quelle voci non una italiana.
Era l’invasione straniera sotto le mura di Roma.»
Così era terminata quella pugna; così il nostro amico aveva veduto volgere le sorti di quella
campagna che doveva aprire alla rivoluzione, al
genio della libertà le porte di quella Roma, meta e
sospiro da secoli di tutte le anime grandi, libro
eterno in cui a lettere di monumenti sta scritta la
storia di due civiltà. Ma fu vera gloria per gli
eserciti alleati, per l’esercito Francese? La storia
ha già risposto: no; e gli eventi hanno dato ragione a’ vinti. Pure è giustizia il dire che anche
di que’ giorni la Francia liberale arrossì di quel
simulacro di vittoria riportata dall’intrigo di Corte,
dal dispotismo imperiale mascherato, sulla libertà,
dalla forza contro il diritto, dal tornaconto d’una
dinastia pericolante contro le aspirazioni di tutta
una nazione che vuole la sua capitale. Ed Engard
VITA DI T. STROCCHI
LXIV
Quinet, il grande patriota francese così scriveva da
Veytaux il 12 novembre, nove giorni dopo la battaglia di Mentana, a Garibaldi: « Quando ebbi l’onore
di scrivervi al Varignano ultimamente, ignorava il
rapporto (telegrafico) del generale francese comandante le truppe papaline e francesi a Mentana. Quale confessione gloriosa per voi la verità strappa ai
vostri avversari! essi confessano che la loro presenza a Roma era urgente per salvarla. Così eglino riconoscono, e il mondo lo saprà, che senza
l’invasione straniera voi avreste dato Roma
all’Italia. E dal punto di vista militare quali confessioni terribili! L’esercito francese ed il pontificio
avevano tutti i vantaggi: quelli del numero e
dell’ organizzazione. Essi avevano numerosa artiglieria (14 pezzi), delle armi di precisione portate
alla perfezione, i fucili ad ago, i fucili Chassepot.
Contro simili forze che potevate voi opporre? Quattromila giovani senza istruzione militare, giunti di
recente sul campo di battaglia, senza viveri, senza
provvigioni, appena armati di vecchi fucili di scarto
e quasi rotti, senza calzatura, e avendo le comunicazioni interrotte dal governo italiano. Veracemente
parlando Voi avevate sulle braccia tre eserciti. E
con questi elementi che cosa avete voi fatto? Una
cosa senza esempio. Voi avete opposta ferma resistenza durante tutta la giornata del tre novembre alle
truppe alleate. Per loro propria confessione, malgrado tutta la superiorità schiacciante, non hanno
potuto rompervi sopra alcun punto. I vostri hanno
dormito sul campo di battaglia a Mentana, essi
non sono stati affatto inquietati la notte. Le truppe alleate non hanno nemmeno attaccati gli avamposti. Voi avete avuto così tutta la notte per conti-
VITA DI T. STROCCHI
LXV
nuare senza esser molestati, col grosso del vostro
piccolo esercito la ritirata che avevano principalmente cercato d’impedirvi. I vostri avversari non
sono dunque riusciti in nulla di ciò che volevano.
La retroguardia che voi avete lasciato in Mentana,
non è stata affatto sforzata, essa si è mantenuta
nella sua posizione fino all’indomani. Vedendo allora che la pugna aveva perduto il suo significato sotto i colpi di tre eserciti, non si è malgrado ciò perduta
d’animo un istante, ma ha fatto una grande capitolazione regolare, onorevole. Ecco, caro e grande Garibaldi, ciò che tutti diranno in Europa della
giornata di Mentana. Essa sarà ritenuta come una
delle più gloriose per voi e per i vostri eroici
compagni d’arme. Si vedrà l’immensa disparità
di forze, e nonostante questo, la vittoria contrastata
fino all’ultimo momento . Un nucleo d’uomini,
quasi senz’armi, ha tenuto in iscacco, nella rasa
campagna degli alleati che avevano per sè ogni
sorta di vantaggi, e dietro di sè due e tre potenze. Che i nostri amici siano fieri di tale giornata.
Essi ne hanno il diritto. Quanto a me, la mia sola
consolazione, il mio solo orgoglio è di dirmi vostro amico. »
Il nostro amico e tutti gli altri prigionieri
fatti nella giornata son condotti alla villa Cantucci;
ed ivi rinchiusi, pigiati come greggie di pecore,
in poche stanze stettero fino all’alba del 4,
quando posti fra mezzo a due file di soldati francesi e preceduti dalla cavalleria furon condotti a
Roma: Oh, come diverso da quello che il nostro Tito
aveva immaginato fu il suo ingresso nell’eterna città! Egli v’entrava non trionfante dopo la vittoria,
ma prigioniero dopo la sconfitta, con l’anima lace-
VITA DI T. STROCCHI
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rata dal dolore e il cuore gonfio d’ira pel sorriso
schernitore de’ vili sgherri di quel potere condannato dalla civiltà, riavutosi per poco ancora coll’ aiuto di armi straniere. Pure entrando da Porta Pia,
da quella porta che pareva ormai destinata a dar
passo alla rivoluzione, percorrendo la lunga via
che conduce al Quirinale, poi traversando la piazza
del Collegio Romano e giù giù fino al ponte
Sant’Angelo, non potè fare a meno di ammirare
con occhio d’artista, e d’interrogare con mente
d’erudito e appassionato cultore delle memorie patrie quei vetusti palazzi e que’ grandiosi momenti
che vi s’incontrano. Vide ed ammirò l’antica mole
Adriana che sovrasta il Tevere; ma là entro trovò
la sua carcere. Nel castello infatti furono introdotti
tutti que’ valorosi e ivi tenuti chiusi e guardati per
tre giorni, fino a che non furono condotti a Civitavecchia per esser poi rinchiusi nel nuovo Bagno
che era appena finito di costruire; sicchè per
l’umidità della calce e pel fetore delle poche latrine e della paglia che serviva di giaciglio a centinaia di persone, presto quel carcere divenne insopportabile e dannoso alla salute di molti. Ma il
Vicario di Cristo, una volta fatto Re, non poteva,
non doveva aver pietà di coloro che avevano cercato di rapirgli il regno, fosse pure per completare
l’unità d’Italia e riconquistarle la sua capitale.« Era
una continua agitazione, narra il nostro prigioniero, invano io cercava di persuadermi a soffrire di
buon animo, argomentando che presto doveva necessariamente terminare quella situazione sognandomi il compenso delle gioie del ritorno, ma non
poteva più resistere. Oh quante volte pensava a
tutto quello che amava! Quante volte mi dipingeva
VITA DI T. STROCCHI
LXVII
innanzi quelle liete, tenere scene di famiglia, di cui
non poteva godere.»
Come Dio volle però spuntò l’alba del 24, e i
prigionieri garibaldini che si trovavano nelle prigioni
di Civitavecchia furono messi in libertà, e accompagnati cioè al confine dai soldati francesi e consegnati
alla Nunziatella ad alcuni ufficiali italiani che erano lì a riceverli, per poi, fatta anche quest’ultima
comparsa, tosto rilasciarli. Così il nostro amico
potè nuovamente godere della tanto desiderata sua
libertà e correre a Lucca in compagnia degli altri
garibaldini lucchesi per riabbracciare i suoi. « Oh
qual momento, esclama, io lo rammenterò sempre; fu uno dei più belli della mia vita. Era il tramonto del 26 novembre. Non volli muovermi dal
mio posto se non dentro alla stazione. Eravamo
tutti ebbri di gioia. Una folla di amici ci aspettava.
Fummo circondati, abbracciati, baciati, portati quasi
in trionfo. Da quel luogo fino a casa non fu per
me che un continuo saluto di amici, lieti di rivedermi, dopo avermi creduto morto. E giunsi a casa.
Rividi mio padre, povero vecchio! com’era lieto,
mia sorella, tutti i miei fratelli….»
Dirà forse taluno che ci siamo diffusi troppo
a narrare questo periodo della vita di Tito Strocchi;
ma, checchè si dica, non ce ne pentiamo, anzi diciamo che lo facemmo di proposito. Perché ad ogni passo che muovevamo in compagnia di lui, sulla via
che doveva condurlo a Mentana, poi prigioniero a
Roma, la sua figura ingigantiva e sempre più si
andava delineando e colorendo il suo carattere di
uomo generoso e forte. E fin qui possiam dire
ch’egli non si è mai smentito, mai è caduto in contradizione, è stato sempre eguale a sé stesso. E per
VITA DI T. STROCCHI
LXVIII
verità noi l’abbiamo spesso sorpreso nel segreto
della sua anima, solo co’ suoi pensieri; abbiamo
cercato di udire la sua voce, di trascrivere le sue
parole, quando era sicuro di non essere udito da
chicchessia, altro che dalla sua coscienza. E’ anzi
in questi colloqui intimi con la sua coscienza che
noi lo abbiam potuto indovinare e rappresentare
al lettore quale egli era veramente, e tale si fu
fino alla morte, come vedremo continuando nella sua
vita, che d’altre geste non meno gloriose e di più
tremendi dolori e sacrifici essa s’intesse. Poi, Mentana!… Oh, ma parli per noi oggi il momento che
alla memoria de’ caduti in quella memorabile giornata è stato inalzato tredici anni dopo in Milano sulla
piazza di santa Marta, e ci sia solo concesso di ripetere con Felice Cavallotti che ne dettò la bellissima
epigrafe: quante vittorie immortali questa disfatta
oscura!
VITA DI T. STROCCHI
LXIX
IV.
Dissi già nel corso di questo che il
nostro amico fino da quando partì da Lucca per la
campagna di Roma, era soldato di leva e di prima
categoria. Difatti dopo pochi giorni che egli era
tornato in patria, ebbe la dolorosa notizia che il
primo dell’anno la classe del 1846, cui apparteneva, sarebbe stata chiamata sotto le armi. E il 4
gennaio 1868 eccolo arruolato con destinazione
Mantova, dove si trovava il settimo reggimento di
fanteria. Partì da Lucca il 6; né la sua partenza da
casa fu lieta come tutte le altre volte: anzi quale differenza dalle altre due volte! Allora abbandonava gli
agi della vita per le fatiche, gli stenti del campo, allora andava incontro alla morte volontario, coll’ entusiasmo nel cuore, ora invece partiva, ma forzatamente e a malincuore. Volontario garibaldino Tito
Strocchi era pur sempre Tito Strocchi soldato
nell’esercito regolare non sarebbe stato certamente nulla più di un numero, di una macchina, di un
automa. Addio studii, addio speranze dell’ avvenire!… Eppure vi sono degli scrittori così ingenui
che hanno tentato di fare l’apologia di questa tiran-
VITA DI T. STROCCHI
LXX
nica istituzione degli eserciti permanenti in pieno
secolo decimonono, secolo di civiltà e di libertà!
No, il nostro amico non era nato per una vita siffatta. Sicchè dopo aver pensato lungamente a’ casi
suoi finì col rinvenire un fil di speranza: era miope e
poteva essere riformato, sebbene di questo suo difetto non avesse mai fatto parola. Con cotesta speranza nel cuore frattanto chiese ed ottenne una nuova
visita, e le ripetute prove lo allietano, ora lo rattristano. Ma i giorni passano e si annoia mortalmente e si ammala, tanto che è costretto di recarsi
allo Spedale: nuovo e inaudito dolore per lui, chè
fra le molte traversìe della sua vita non gli era accaduto mai di provar lo Spedale. Vi stette sedici
giorni e sempre coll’ incertezza nell’anima pel suo
avvenire. Il 21 febbraio finalmente ottenne il desiderato congedo, e fu giorno di vera esultanza per
lui. Sicchè riandando dopo del tempo questo periodo della sua vita scriveva:« chi può adesso descrivere la gioia piena, ineffabile che sentii dentro di
me? Oh certamente io proverò poche gioie come
questa. Io era congedato, libero di quella schiavitù
che doveva pesare su me per bene undici anni!»
Così ritornava a’ suoi studii, e volendo esser
sincero dirò anche a’ suoi amori. Per altro per
quanto facesse proposito di dedicarsi all’avvocatura,
a quella professione che doveva procurargli il necessario alla vita, la letteratura è quella che lo vince, e ad
essa consacra la maggior parte del tempo. Sente di
dover esser poeta, e tutto si abbandona alle sue fantasie: rivede la sua novella Berto e Lisa, e con amore tien dentro ad altri poetici componimenti. Ma
non vuol essere soltanto un letterato, uno scrittore:
desidera, vuol essere anche un uomo politico, un uo-
VITA DI T. STROCCHI
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mo d’azione. E poiché già in molte città d’Italia dopo la infelice campagna di Roma, erano state istituite
associazioni fra’ volontari, apparentemente con lo
scopo del mutuo soccorso, ma in realtà pel fine di
non disperdere, anzi di meglio organizzare la gioventù democratica in vista di altri possibili avvenimenti per le presenti e per le future condizioni politiche della patria nostra, anch’ egli si dà attorno
per costituirne una in Lucca, e vi riuscì per modo,
che ne tenne poi sempre o quasi sempre la presidenza, e con quell’autorità che i suoi studii e il suo valore gli avevan procurata.
Oltre all’istituzione della società fra’ volontari, che prese poi il nome di associazione fra’ Reduci dalle patrie battaglie, egli insiem con me e
con pochi altri amici divisò di fondare in Lucca un
giornale, cosa desiderata da molti e da molti incoraggiata. Non occorre dire che il nuovo giornale
doveva essere di colore e carattere democratico. Si
discusse il programma, e sulle prime non tutti ci
trovammo concordi; se tutti eravamo democratici,
non tutti eravamo egualmente repubblicani. Laonde
invece di un programma ne furono scritti due, e
per non mandare a vuoto un’idea che tutti più o
meno solleticava, convenimmo di accogliere e
pubblicare dei due il meno accentuato. E di cotesto
avviso prima d’ogni altro, ad eccezione di chi lo aveva scritto, fu il nostro Tito, ricordando forse il
proverbio: cosa fatta capo ha. Il 6 di gennaio 1869
uscì il primo numero del Serchio, chè così fu intitolato il nuovo giornale lucchese. Il programma era
quello che era, un programma di conciliazione fra
opinioni diverse, vale a dire una cosa assai moderata. A rinforzare la quale però pensò subito il nostro
VITA DI T. STROCCHI
LXXII
amico, scrivendo un articolo, Luce e Libertà; ispirato
al più aperto razionalismo; articolo che non solo
provocò una risposta anonima assai violenta dal titolo: omaggio al nuovo Messia, ma, com’era naturale
urtò anche le credenze religiose di molti, e ruppe
subito quell’accordo che per un momento pareva si
fosse trovato fra’ componenti la redazione del Serchio, fino a farne ritirare alcuni protestando. Ciò
nonostante, avendo la direzione dichiarato ne’ numeri successivi di non essere stato mai suo intendimento di impegnare lunghe discussioni filosofiche e
molto meno religiose, pur lasciando piena libertà a’
suoi collaboratori, se attaccati in qualche loro
scritto, di tornare sull’argomento, e in ispecial modo
quando col firmare l’articolo ne rimanevano essi soli
moralmente responsabili, il giornale continuò nelle
sue pubblicazioni per ben cinque anni, e riuscì uno
dei migliori periodici lucchesi e fors’anche d’Italia,
interprete fedele e sincero delle dottrine morali, politiche e sociali di quel sommo intelletto che fu Giuseppe Mazzini. « Lettore costante del Serchio, scriveva il venerando Maurizio Quadrio alla direzione il
24 febbraio 1873, lo considero come uno dei migliori diari settimanali d’Italia, interprete savio e sincero delle dottrine del santo Maestro. E ho non di rado
occasione di rallegrarmi, di trovarmi col Serchio in
pieno accordo sopra le importanti questioni e sugli
avvenimenti che vengono mano mano discussi.»
L’impianto dell’associazione de’ Reduci in
Lucca e la nomina fatta da questa di Giuseppe
Mazzini a suo presidente onorario, aveva messo il
nostro amico in più stretta relazione col grande patriota, tanto che fu invitato di recarsi presso lui a
Lugano ne’ giorni 21 e 22 febbraio. Ma purtroppo
VITA DI T. STROCCHI
LXXIII
non potè rispondere all’invito e soddisfare al desiderio ardentissimo che da lungo tempo aveva di vedere l’Esule illustre e dalla sua viva voce avere istruzioni per la causa, cui sentiva ormai di doversi
consacrar tutto. Non potè andare per mancanza di danari: centocinquanta o duecento lire al più. E quanto
soffrì pensando alla perduta occasione!« Io rammenterò sempre, egli dice, questi due o tre giorni passati in agitazione continua, in orgasmo, tormentato
sempre da un’idea fissa, quella del mio viaggio, addolorato sempre da un disinganno, quello della povertà delle mie finanze, ed il momento in cui ho dovuto rassegnarmi a dire. pazienza!…Eppure ciò non
mi sembrava possibile. Come, diceva io, quando mi
si presenta l’occasione che da tanto tempo desiderava
ardentemente, quando io possa essere superbo di parlare al più grande cittadino d’Italia, di presentarmi a
lui, di strigere la sua mano, di tornare portatore dei
suoi consigli, dei suoi ammaestramenti per adoperarmi in pro della causa di cui sarò non ultimo campione, dovrò io privarmi di tanta soddisfazione, di
tanto onore forse danneggiare l’utilità della causa per
questo paese per la somma di centocinquanta franchi? Mi sembrava una cosa mostruosamente impossibile, un ostacolo ridicolo. Ahimè! Era e fu una barriera insormontabile. Io fui vinto da pochi grammi
di oro. Se io avessi la decima parte di ciò che spendete, o giovani eleganti del bel mondo, in un’ ora
dei vostri geniali ritrovi, delle vostre feste da ballo,
nelle vostre tavole d’ecartè; se io potessi rubarvi
una parte delle somme che pagate al vostro
tailleur, una frazione di ciò che scommettete ad
una corsa di cavalli, io sarei felice, come non lo sarete giammai voi in mezzo al vostro oro, alle vostre
VITA DI T. STROCCHI
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scommesse, alle vostre feste. E frattanto, voi mi passate daccanto sorridenti sul vostro cavallo, mentre io
guardo con rammarico il pomo d’oro del vostro
fouet. Con quello io potrei veder Mazzini, essere utile alla libertà della patria mia, soddisfare al desiderio
del mio cuore, mentre che a voi non giova che a mostrare la vostra opulenza e la vostra inettezza.»
L’ invito fatto da Giuseppe Mazzini al nostro
amico di recarsi a Lugano doveva senz’altro riferirsi
alla costituzione dell’Alleanza repubblicana universale, perchè fu di questo tempo che anche in Lucca s’istituiva un Comitato di detta associazione, dal
quale poi sorgeva il futuro Circolo repubblicano, di
cui il nostro Tito fu uno de’ membri più attivi o per
meglio dire, l’anima. Tra il giornale, la società de’
Reduci e il Circolo egli aveva così occupato il suo
tempo. E l’attività sua aumentava coll’ aumentare
degli ostacoli che gli si paravano dinanzi: chè se i
moderati gli fanno guerra a parole, i clericali, i paolotti glie la fanno co’ fatti, e così insistente da far
pietà. La sua audacia aveva spinto questi a sfidarlo
non già palesemente e a viso aperto, ma in segreto.
Sicchè non potendolo ferire direttamente, si studiano
di ferirlo indirettamente e tanto si sussurra e si fa,
che il povero padre suo vede ogni giorno venirgli
meno quella clientela che con tanti sudori s’era acquistata coll’ esercizio della sua industria di locandiere. A poco a poco i frequentatori della sua locanda
si allontanano, e quando maravigliato, sorpreso di
questo abbandono il pover’uomo volle indagarne la
causa si sentì rispondere: e come potrebbe essere
diversamente con un figlio che osa attaccare così arditamente le cose più sante, e offendere la coscienza
de’ più? E Tito pure lo seppe, e con dolore dovè
VITA DI T. STROCCHI
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convincersi di sì triste verità; sicchè consigliato poi
dagli amici di allontanarsi per un po’ di tempo la
Lucca per vedere di migliorare le condizioni del
traffico di suo padre, non titubò un istante e rispose: io mi allontanerò! Temeva per l’avvenire de’ suoi,
non già del suo;e ne sia prova che incitato maggiormente a combattere, dalla guerra sleale che gli si faceva, volle e seppe ancora scoccare un darlo infocato
dal suo arco di libero pensatore contro il clericalismo
e il paolottismo invadente! In tutte le città d’Italia era
stata fondata da poco una associazione vastissima
detta delle Figlie di Maria. Era un fittissima tela ordita dalle mani del paolottismo allo scopo di meglio
padroneggiare la presente società per mezzo della
donna, centro della famiglia. Or bene, ogni terreno
era buono per combattere, e il nostro amico scese in
lizza armato di tutto punto, e con quel fuoco, con
quell’ardimento che egli era proprio quando si trovava a fronte di avversari potenti. La sua penna è
ben temperata e resistente, la sua mano è veloce
quanto il suo pensiero, e in pochi giorni riesce a
scrivere, a improntare un libro che è una schiacciante
requisitoria contro la nuova sétta clericale femminile. La Figlia di Maria di Tito Strocchi fu letta con
avidità da amici e da nemici, fu commentata pro e
contro, e finì coll’ esser posta all’Indice dalla Santa
Romana Chiesa. Certo in altri tempi all’ardito nostro
scrittore sarebbe toccato di peggio!
Un certo risveglio nella vita politica s’ andava
frattanto manifestando in alcune parti d’Italia; la
Democrazia principiava ad agitarsi e più che altrove
in Milano. Il governo avuto sentore di un prossimo
movimento repubblicano, ordina arresti di patrioti in
gran numero, e non contento fa rimostranze alla
VITA DI T. STROCCHI
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Svizzera, dove si trova Giuseppe Mazzini, creduto a
ragione l’iniziatore della minacciata rivoluzione, e il
grande patriota esule, è cacciato da Lugano. Né si
fu sazi; la paura è quella ormai che consiglia il
governo italiano caduto nelle mani del più reazionario de’ Ministri; lo presiede un Menabrea, si trova
all’ Interno un Cantelli alla Giustizia un Pironti!
Agli arresti, tengon dietro le perquisizioni a domicilio e i sequestri de’ giornali; si vuole porre il bavaglio alla stampa liberale democratica, si vuol rinchiudere nelle carceri quanti repubblicani sono in Italia. Una circolare del Pironti ai Procuratori generali,
gli mette tutti in moto; e il meglio ch’ essi posson
fare per avere il plauso del Ministero imperante, è
di battere lo scudiscio a destra e a sinistra. Chi
non è notoriamente un moderato, un consorte o un
clericale, dev’ essere un repubblicano, un demagogo:
si perquisisca, s’ imprigioni, si processi. Furono
giorni ben tristi questi del ministro Menabrea per la
libertà; e le geste del Pironti rimarranno pagine nere nella storia d’ Italia!
Né da questo furore monarchico reazionario poteva andare esente il nostro amico, lui così apertamente repubblicano, né il giornale il Serchio nel
quale scriveva. Quindi il 16 di luglio egli è passivo d’una perquisizione a domicilio e all’associazione
de’ Reduci della quale era presidente, perquisizione
che, com’era naturale, non poteva essere che un
preludio di più gravi persecuzioni, perché il 28 era
arrestato in pubblico caffè per mandato del Procuratore generale di Genova, sotto l’imputazione di aver cospirato contro lo Stato, e tradotto nelle carceri di san Giorgio ed ivi rinchiuso…« V’ entrai,
egli dice, ebbi paura nel vedere che il carceriere si
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apprestava a chiudere la porta, a dividermi col girar di quella chiave da tutto il mondo; temetti di restar solo, credei che ivi sarei morto di fame, di noia. Ebbi per un attimo il pensiero di raccomandarmi a lui, perché mi lasciasse ancora dieci minuti
all’aria, e perché mi tenesse compagnia; ebbi nel medesimo momento l’ idea di afferrarlo pel collo,
strangolarlo e fuggire, fuggire a costo di uccidere
cento persone, mille persone. Ma fu una vertigine
rapida come il giro di una stella che cade. Durò tutto
il tempo che il carceriere mise a muovere la porta ed
accostarla allo stipite, quando toccò la chiave io era
libero e tranquillo. Mi passai la mano sulla fronte, e
quell’assalto di pazzia si dileguò rapidamente, come
il sonno dalle palpebre di una magnetizzata al tocco
delle mani del magnetizzatore. Quando il carceriere tirò
il chiavistello, io guardava già le pareti della carcere con animo sicuro. L’ avvenimento era stato troppo
inaspettato, perché io non mi maravigliassi un poco
della mia nuova posizione. Mezz’ ora prima era libero, allora prigioniero, senza averlo temuto. Mi parve
strana e sorrisi. Per un istante mi venne in pensiero
questa domanda: quando escirò? Mi tolsi la giacchetta, perché faceva caldo, mi assisi pensando come dovesse esser terribile la noia in carcere. Sempre senza
far cosa alcuna, sempre disoccupati, sempre soli! E’
una cosa terribile!.. Per passare il tempo mi detti
a esaminare le pareti della prigione.
Qual libro eloquente è la parete di una carcere! In essa ciascun prigioniero scrive una parola, un
motto, con un lapis, spesso con una pietra, colle unghie, impiegandovi la pazienza di un’ anacoreta, e
quella parola è una lezione, è una rivelazione, è parola di un’anima per cui è caduto il velo delle finzio-
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ni, e che parla ammaestrata dalla triste scuola della
esperienza. Ahimè quanti disinganni! Vidi una figura; era rozzamente disegnata, ma esprimeva meravigliosamente un forte concetto. Era la figura di un
uomo inginocchiato; il capo teneva rivolto al cielo,
la vita piegava in atto doloroso, le mani sollevava
supplichevoli, stringendovi un rosario. Sembrava
che chiedesse a Dio l’oblio di un doloroso pensiero,
la morte di un rimorso terribile. Dietro alle sue spalle si vedeva un cielo nuvoloso, nero, come una
notte tempestosa; su quelle nubi aleggiava una civetta, poi due, dieci, innumerevoli civette che
sembravano urlare fra le tenebre il loro canto sinistro. Forse quell’infelice sentiva sempre il grido di
quei notturni augelli, e quel grido gli rammentava
forse una scena tetra, paurosa, terribile, ed egli cercava dimenticarlo, ed al cielo chiedeva la misericordia dell’oblio, del sonno, della morte; ma sempre
davanti agli occhi gli stava quella notte profonda, e
nell’orecchio quel suono, e forse sulle mani quel
sangue. Ahime come deve essere infelice colui che
chiuso in una carcere abbia il tormento del rimorso!…»
Intanto che il nostro carcerato faceva queste
considerazioni, si disponeva di lui. Il tenerlo a
Lucca lungamente si reputava pericoloso per le sue
molte aderenze, e più per l’amore della Società de’
Reduci, che saputo del suo arresto s’era convocata
d’urgenza per deliberare cosa dovesse farsi. Sicchè
trascorsi appena due giorni, all’insaputa di tutti, per
fino della sua famiglia, senza danari, senza biancheria, ma bene ammanettato fu condotto a Pisa, poi a
Livorno, poi a Genova nelle carceri della Torre,
dove stette quasi un mese senza mai poter prendere
VITA DI T. STROCCHI
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una boccata d’aria, mancando ivi i cortili necessari.
Da queste carceri fu fatto passare poi in quelle di
sant’Andrea, lungo molto più decente e dove già si
trovavano altri molti prigionieri politici, tra’ quali Antonio Mosto, Stefano Canzio, Luigi Stallo, Ernesto
Pozzi, noti repubblicani, nella cui compagnia egli
potè trascorrere meno peggio i lunghi giorni di prigionia, prima che fossero decise le sue sorti; le quali
secondo che potevasi argomentare dalla partigiana e
cavillosa requisitoria del Procuratore Morello, non
potevano essere molto lusinghiere. Ma poi, checchè
pensasse de’ prigionieri di Sant’Andrea quel magistrato inquirente, se in buona fede o no poco giova
indagare, la Sezione di accusa nella sua saviezza e
severità d’animo, pensò bene il sentenziare con un
non farsi luogo a procedere, e chiudere il dramma
col por tutti in libertà. La qual cosa accadde il dì 27
settembre col plauso generale di tutto il partito liberale democratico d’Italia, e particolarmente di Genova, che giubilante sì recava ad attendere quegli
onesti e prodi cittadini fuori della porta di
Sant’Andrea. La folla v’era stivata, racconta Tito
Strocchi, i lumi erano alle finestre, la banda popolare
del Borgo a Pila suonava l’inno di Garibaldi; un
grido di applauso universale scoppiò come un uragano poi fummo travolti nella marea popolare, abbracciati, baciati, festeggiati, stretti, pestati, confusi. Il più confuso era io che non conosceva nessuno
fra quel numero immenso di popolo, e camminava
sospinto, barcollante e pensava qualche volta al mio
cappello che correva rischio da cascare e scomparire
sotto i mille piedi del popolo. Genova! Io non ti dimenticherò mai; io ti amo come il cuore della patria
mia; quel momento mi ti legò eternamente, come un
VITA DI T. STROCCHI
LXXX
immenso benefizio lega il cuore d’un uomo al suo
benefattore. Genova, io amo il tuo mare e le tue
colline, i tuoi superbi palazzi e le tue fortezze; il dialetto de’ figli tuoi m’incanta così che io sono costretto a guardare con simpatia tutti coloro che un suono,
un accento, una inflessione di voce mi riveli genovesi!»
Tornato in patria la sua propaganda repubblicana continuò. Nulla per quanto fosse terribile poteva
piegare quell’animo d’acciaio del nostro amico, né
affievolire quella fede ardentissima che lo rendeva
così entusiasta per quell’ideale che infallantemente
dovrà essere la meta di tutti i popoli civili. Sì, quel
giorno verrà; né giova saper quando: la vita de’ popoli non è vita di giorni, di mesi, di anni, ma è vita
di secoli. L’avvenire non è in mano di nessun potente, ma di Dio che lo prepara per mezzo
dell’Umanità. E all’avvenire guardava con ansia Tito
Strocchi; e ogni occasione che gli si presenta per
maggiormente affermarsi col suo apostolato, non la
sfuggiva, anzi se ne impossessava, se la faceva sua,
sempre fermo, immutabile, deciso di perdere anche
per poco quella popolarità alla quale molto teneva,
se convinto di giovare alla causa, cui s’era tutto dedicato. Così noi lo vediamo nella Loggia Balilla fare
il possibile per indurre i suoi fratelli a staccarsi del
Grande Oriente di Firenze e a mettersi sotto quello
di Palermo, apertamente repubblicano, sperando di
poter ancora infondere un po’ di nuova vita in quella
vecchia e logora istituzione della Massoneria: poi
ritirarsi da quella, quando i suoi consigli e la sua
calda parola non ne han potuto convincere la maggioranza per portare tutta l’opera sua in un campo
più vasto, nel campo della Democrazia militante. La
VITA DI T. STROCCHI
LXXXI
quale ogni giorno più dava segni di vita rigogliosa
e s’agitava e si preparava all’azione; chè fino dal
marzo 1870 sapevasi da chi era un po’ addentro a
siffatte cose che nella primavera o nell’estate doveva tentarsi un movimento repubblicano; movimento
che iniziato poi, come vedremo, non riuscì a nessun
pratico risultato, se ne eccettui quello di dimostrare anche una volta che nelle attuali circostanze
d’Italia e dell’Europa siffatte rivoluzioni, se possono dar agio ad anime generose di sacrificarsi per
una idea, sia pur santa, però non riescono a fondare
governi stabili. Dacchè nessuna idea, nessun principio può imporsi a mano armata, e molto meno
quando trova viva resistenza in un governo costituito
a larga base come le attuali monarchie. Se feconde
di libertà sono le armi che un popolo rivolge contro
lo straniero oppressore, fatali spesso tornano alla libertà, se si fanno provocatrici di guerra civile. E’
nel campo dell’idee e de’ principii che i cittadini
della stessa patria devono combattere fidando in
quella evoluzione storica che può farsi attendere,
ma che non può mancare. La repubblica, checchè
si dica e si creda da certuni, è e dev’ essere necessariamente la conclusione logica della Democrazia, vita, anima, dell’epoca nostra. Ma il nostro amico purtroppo nulla o ben poco fidava nell’evoluzione, e
molto invece, anzi tutto nella rivoluzione. E con
quanto ardore predicasse questa sua fede, non
può crederlo se non chi ebbe agio di moderarne
qualche volta gl’ impeti generosi.
Intanto l’Alleanza repubblicana aveva messo
profonde radici anche in Lucca, per opera sua principalmente. E se ne compiaceva così che ogni dì
più scaldavasi a’ propositi di quel movimento repub-
VITA DI T. STROCCHI
LXXXII
blicano, che come dissi fino dal marzo s’andava
preparando. Laonde quando nel maggio le prime
bande d’ insorti mossero da Catanzaro e da Como,
sicchè parsegli giunta l’ora di secondare l’iniziato
movimento, non titubò un istante. Allora dette la sua
parola e da quel giorno consacrò tutto se stesso ad
organizzare anche in Lucca una banda pronta ad insorgere appena ne avesse avuto l’ordine, e alla quale
poi avrebbero tenuto dietro altre bande e di Pisa e di
Livorno e di Carrara e di Spezia, che a traverso vie
diverse e difficili avrebbero dovuto far capo sugli
appennini pistoiesi, per muovere verso Firenze appena l’insurrezione si fosse generalizzata in Toscana
e nella Liguria e da queste alla Lombardia ;
dall’Italia peninsulare, alla Sicilia. Cosa così arrischiata e di così difficile attuazione da far dubitare
dell’esito anche i più ardimentosi e pronti ad ogni
sommossa. Ma era tanta e così viva la fede che
scaldava di santo entusiasmo per la repubblica il nostro amico, che non soltanto non curava le difficoltà
che da’ più cauti gli venivano enumerate, ma nemmeno volle tener conto di tutti quegli indizi che purtroppo facevano prevedere l’impossibilità di riuscire a far cosa utile e profittevole alla causa per la
quale egli tanto s’era adoperato. E l’ora della prova venne, e grande e doloroso fu il disinganno che
ne soffrì. La notte dal 4 al 5 era stata fissata pel
movimento: più bande armate riunite sugli appennini pistoiesi dovevano ivi attrarre le guarnigioni
delle principali città della Toscana, perché queste
potessero alla lor volta insorgere. Ma se da Lucca
settanta e più giovani, tutti armati di fucili, che con
grande accortezza e ardimento erano riusciti a sottrarre dal R. Liceo, ove erano custoditi, avendo ser-
VITA DI T. STROCCHI
LXXXIII
vito qualche mese prima agli esercizi militari di
quella scolaresca; se settanta e più giovani, dico,
erano potuti uscire di città senza che nessuno li disturbasse, e avevan preso la campagna e presto
guadagnato i monti delle Pizzorne, non così poteron
fare i repubblicani delle altre città, vuoi pel tradimento di un tal Buglio da Livorno, o meglio perché
fossero avvisati in tempo di desistere, essendo eguale avviso giunto anche a Lucca, ma troppo tardi.
Dimodochè la festa dello Statuto che ricorreva appunto in quel giorno 5 giugno, venne in
Lucca disturbata dall’inaspettato avvenimento. Ogni
sollazzo pubblico andò a vuoto, e cittadini ignari di
tutto furono arrestati e condotti in carcere con
grande strazio delle loro famiglie e maraviglia generale. Dapertutto sodati, guardie, spie, curiosi; alla
sera il libero passaggio delle mura interdetto. Mille
discorsi, quante notizie inventate, supposizioni fatte,
calcoli sbagliati! chi giudica la cosa una ragazzata,
chi invece crede giunto il finimondo! Intanto uno
squadrone di Lancieri e tre compagnie del cinquantottesimo reggimento di linea inseguono gl’insorti; e
le arti più indegne son messe in opra per eccitare
l’odio delle popolazioni limitrofe contro quella
schiera di giovani, i quali, se si potevano dire illusi
da un roseo avvenire, erano però tutti onesti e molti
avanzo delle patrie battaglie. Furono tre giorni di
trepidazione per gli amici, per i conoscenti, di paura pe’ meticolosi, di curiosità per gl’indifferenti; tre
giorni, chè tanti rimase il nostro Tito co’ suoi su’
monti inseguito e circondato da numerosa truppa, e
sotto una pioggia continua, insistente quale raramente cade nella stagione estiva. La qual pioggia poi
doveva tornare tanto benefica, chè si dee forse ad
VITA DI T. STROCCHI
LXXXIV
essa, se non s’ebbero a lamentare guai maggiori; se
non fu sparsa una goccia di sangue fu proprio perché
ogni resistenza da parte degl’insorti era divenuta
impossibile; le munizioni fracide, avevano resi inutili i fucili! Per la verità storica debbo per altro dire che la truppa appena s’imbattè ne’ rivoltosi, scaricò loro contro una cinquantina di colpi, e fu fortuna se nessuno rimase ferito, poiché due ebbero
forato il cappello. La qual cosa si cercò poi giustificare come provocata da un colpo di fucile lasciato
fuggire da uno degl’inseguiti, e per mero caso, perché era l’unico fucile, dice il nostro amico, che si
fosse conservato in buono stato.
Ma ecco com’egli ci racconta l’arresto avvenuto di tutti i componenti la Banda il giorno 7 giugno in prossimità di Prunetta sul pistoiese. « Eravamo alla metà del colle,quando alla sommità del medesimo vedemmo spuntare distesi in catena i soldati
del cinquantottesimo reggimento di fanteria. Essi
avevano girato dalla parte opposta, lasciando sulla
strada un battaglione e la cavalleria, ed ascendendo
a rinchiuderci. Eravamo circondati strettamente; né
al comandante tornò difficile il farlo con tanta truppa, contro un gruppo così piccolo, e colla conoscenza del luogo e coll’ aiuto di guide che a lui certamente non mancavano. Appena i soldati ci videro
cominciarono a far fuoco e scaricarono una cinquantina di colpi. Fu ventura che la presa deliberazione
di non resistere, la mancanza delle polveri e la infelicità della posizione ci trattenessero dal resistere,poiché quel momento se mi fossi trovato in altra
posizione, cioè nel luogo in cui erano i soldati, se
avessi avuti i fucili asciutti ad onta della conoscenza
che avevo di fare cosa inutile rispondendo e di pro-
VITA DI T. STROCCHI
LXXXV
vocare una strage generale, poichè i soldati ci avrebbero uccisi tutti, io preso dalla rabbia, dalla disperazione, avrei fatto scaricare il primo colpo, e dopo
quello chi ci poteva trattenere? Se ci avessero trovato il giorno innanzi a Pontito, meno stanchi, meno
scoraggiati, la scena sarebbe stata terribile; incominciata la resistenza non sarebbe terminata che colla
morte di quasi tutti noi. I miei erano pieni di coraggio e deliberati a tutto, ma non eravamo più
nel caso di far resistenza; eravamo sorpresi in posizione troppo sfavorevole, senz’armi, senza certezza
di condotta. E fu meglio. Chi sa quanto sangue si sarebbe sparso, del quale certamente si sarebbe fatto
colpa a me…La vita!…Chi dirige le vicende umane? Chi è il regolatore della Società, del destino, degli uomini? Se non avesse piovuto in quei giorni,
ed era facile essendo d’estate, chi sa quanti uomini
erano morti. Ed io vivo perché nei primi giorni di
giugno piovve. Bizzarrie del caso!… »
Arrestati, disarmati, perquisiti, son tutti condotti a Piteglio, paese che si trovava distante cinque
o sei miglia, ed ivi rinchiusi in una piccola chiesa.
La mattina seguente fatti uscir fuori e circondati da
un battaglione del cinquantottesimo si mettono in
marcia per Pistoia, ove saliti in treno vengon portati a
Lucca e rinchiusi nelle carceri di san Giorgio. Dalle
quali trascorsi pochi giorni, o sia perché soverchiamente piene di prigionieri politici, o sia per
qualsivoglia altra ragione di sicurezza pubblica, furono mandati, spartiti in più gruppi, chi a Pistoia,
chi a Firenze e il nostro Tito con pochi altri a
Rocca san Casciano. E il più colossale processo
politico che la Procura Generale presso la Corte
d’Appello di Lucca avesse mai avuto, era iniziato e
VITA DI T. STROCCHI
LXXXVI
condotto con quello zelo che spesso tradisce il magistrato e lo fa essere più che il diligente scopritore del vero e il severo esecutore della legge, lo
strumento cieco di un potere che s’impone alla giustizia all’ombra dell’opportunità e della ragion di
Stato. Molti furono gl’interrogativi cui fu sottoposto
il nostro amico, ai quali rispose sempre con la
massima franchezza, chè mai una parola a discolpa
fu pronunziata da lui. Disse aperto lo scopo cui mirava coll’ iniziato movimento, negò di avere intelligenza con altri d’altre città e si mostrò generoso
verso gli amici. Della sottrazione delle armi al R. Liceo egli solo si chiamò responsabile. E come lui, uguali esplicite dichiarazioni furon fatte da tutti gli
altri come ne fa fede l’ atto d’accusa stampato e
notificato loro il 14 settembre 1870. in conformità
del quale il Procuratore generale Cesarini chiedeva
fossero rinviati all’Assise ben cento tre imputati,
primo tra questi Giuseppe Mazzini « per attentato
contro la sicurezza interna dello Stato, commessa
mediante cospirazione, per aver costituito una Società politica occulta con vincolo di giuramento fra i
Soci, e partecipato alla medesima preordinata e diretta a rovesciare il Governo e mutarne la forma; ed
avere con direzioni, eccitamenti ed atti di esecuzione nel maggio e giugno ultimi decorsi in Livorno,
nelle Maremme, nella provincia di Lucca e presso
Pisa tentato di porre in atto e posto effettivamente
in atto,con animo ostile, un moto insurrezionale, avendo a tale oggetto tenuto segreti concerti e convegni, preparato armi e munizioni da guerra e formate bande armate, le quali scese poi nella pubblica
via con insegne ed emblemi repubblicani, si sarebbero impadronite con minacce, ed anche per via di sot-
VITA DI T. STROCCHI
LXXXVII
trazione seguita con scasso e scalamento di altre
armi, avrebbero in vari punti tolto le verghe alla
ferrovia e rotto i fili del telegrafo, dato opera a manifestazioni sediziose, tentato di uccidere un cantoniere ed assunta un’attitudine di resistenza di fronte alla pubblica forza.»
Due cose per altro facevano prevedere fino
dal suo nascere che questo processo non avrebbe
avuto seguito: il grande numero degli imputati, e il
figurare tra questi Giuseppe Mazzini. Il quale se si
era potuto imprigionare, sarebbe però stato troppo
pericoloso il trarre dinanzi all’Assise, e più il condannare all’ergastolo. Checchè si dica e si pensi un
Governo costituzionale e in ispecial modo quello
d’Italia non avrebbe potuto non tener conto delle
qualità di una si alta personalità storica; Mazzini
comunque si volesse giudicare di fronte ai fatti accaduti, non cessava per questo di essere sempre il
primo iniziatore, il grande apostolo dell’unità e
dell’indipendenza italiana. Quindi può dirsi senza
tema di errare, che Mazzini liberò dal carcere tutti
gli altri. E fu per me anche prudenza politica il tirar
tanto in lungo colla procedura, attendendo un evento qualsiasi cui appigliarsi per dare un’amnistia generale. Né l’evento si fece attendere lungamente, e
fu de’ più avventurosi. Caduto Napoleone III a Sedan, proclamata in Francia la Repubblica, denunziata
la Convenzione del settembre 1864, in forza della
quale il governo italiano aveva volontariamente rinunziato a Roma capitale, il 20 settembre 1870 per
consiglio della Prussia vittoriosa e per espressa volontà popolare, l’esercito italiano entrava in Roma
per la breccia di porta Pia, sostituendo ai burleschi
mezzi morali, tante volte esaltati, i cannoni e le
VITA DI T. STROCCHI
LXXXVIII
bombe. Sicchè il 9 ottobre, giorno in cui veniva presentato il plebiscito de’ Romani al Re in Firenze,
questi concedeva amnistia a tutti gl’imputati politici. Così il nostro Tito il giorno 10, insieme co’
suoi compagni, usciva per la terza volta di carcere,
da quella carcere, ove quattro mesi prima era entrato con un ben triste presentimento.
Frattanto mentre il nostro amico era in carcere le cose di Francia andavano di male in peggio.
Guglielmo di Prussia che aveva detto di far guerra
non al popolo francese; ma a Napoleone III, imbaldanzito dalle vittorie riportate e fiducioso nell’aiuto
del cielo, solita ipocrisia di tutti i potenti, continuava nella guerra ed accennava a volere invadere tutto
il territorio francese, fino ad entrare, come poi fece,
da conquistatore in Parigi: Garibaldi sempre generoso, dimentico del passato, già era corso in aiuto
della giovane repubblica sorta or ora sulle rovine del
secondo impero. La qual cosa rendeva anche più
triste il carcere al nostro amico, smanioso com’era di
prender parte a sì nobile impresa. Tanto che messo
in libertà, tornato in famiglia, subito pensa a partire;
e quando considerando le non liete condizioni della
sua famiglia trova buone ragioni per non allontanarsi
da casa, allora per non esser vinto esclama: « Si
combatterà dunque per la Repubblica in Europa senza che io vi concorra col mio braccio, quando da tanto tempo desidero farlo, quando pure ieri per la Repubblica soffrii la carcere?.. L’aurora spunta, la
Repubblica in Francia è speranza di Repubblica in
Italia. Combattendo per la Repubblica, combattiamo
sempre per la nostra fede, poiché la libertà non abbia
patria e sia d’ogni popolo, e sostenendola in Francia indirettamente giovasi all’Italia… Combattere
VITA DI T. STROCCHI
LXXXIX
per la libertà, per la Repubblica che santa e lieta cosa!…»
Ma il recarsi in Francia non era cosa facile,
chè il governo italiano si adoperava con ogni mezzo
ad impedirlo. I Porti erano guardarti, sorvegliati; non
si lasciava imbarcare alcuno che non fosse provveduto di passaporto, il quale non era rilasciato, cui
dava sospetto di andare a combattere per la Repubblica. Guardate del pari erano le vie di terra, e
molti giovani erano già stati arrestati. Con tutto ciò
il nostro amico, sempre eguale a se stesso, il 27 ottobre, appena trascorsi diciassette giorni da che
era uscito di carcere, partiva da Lucca pensando
d’imbarcarsi a Livorno per Genova, da dove più facilmente, aiutato da molti amici che vi aveva, sarebbegli riuscito sfuggire agli occhi della polizia e
passar presto su terra francese. Ma s’ingannò; perché se gli riuscì a notte inoltrata di recarsi a bordo
del Var, bastimento francese che alle quattro del
mattino doveva partire per Marsiglia, e sul quale già
trovavansi molti altri giovani garibaldini, mentre
questo stava per levar l’ àncora fu circondato da
numerose barche, piene di carabinieri e di guardie, in
una delle quali era il Procuratore del Re e il Console francese per dargli l’autorizzazione di poterlo
far perquisire. Né valsero le proteste del capitano: i
carabinieri saliron su, frugaron dappertutto, e quanti
giovani vi rinvennero trassero in arresto compreso
il nostro Tito. Il quale fu condotto prima alla caserma de’ carabinieri, poi alle carceri de’ Domenicani: Bisogna proprio dire che la carcere per il nostro
amico fosse ormai diventata la meta d’ogni sua aspirazione. Era uscito or ora dalle carceri di Rocca san
Casciano e me lo ricacciano in quelle di Livorno!
VITA DI T. STROCCHI
XC
Questa volta però fu una prigionia di soli cinque
giorni, chè il 3 novembre veniva messo in libertà e
tornavasene a Lucca, non già per rimanervi, ma ripartire appena si fosse provveduto di danaro avendo
spesso il poco che aveva.
E difatti il 5 novembre raccolte una sessantina di lire da pochi amici, ripartiva prendendo questa volta la via di terra. E da Viareggio e da Spezia
giungeva a Genova la sera del dì 7 senza avere incontrato ostacolo. Se non che un po’ di scoraggiamento dovè assalirlo quando seppe che i migliori
suoi amici, quelli su cui più contava, erano già partiti. Pure tanto cercò, tanto fece che il giorno 8 guidato da due facchini del porto e quasi travestito da
marinaio della marina mercantile, potè prender posto in una barca e con molta cautela, necessaria
ad eludere la vigilanza continua che quivi pure si
faceva dalle guardie a da’ carabinieri, esser condotto
a bordo della Principessa Clotilde che partiva per
Marsiglia. Credeva di aver vinto; ma un’altra sorpresa, un nuovo imbarazzo gli si preparava. Il capitano
voleva pel suo trasporto centocinquanta lire! « Che
fare?, egli dice. Io non le aveva; scrissi un biglietto
a Mosto pregandolo a prestarmi cento lire. Egli me
le mandò subito. Io allora detti centoventi lire al Capitano, così accordandoci quasi che egli mi facesse
un gran favore, qualcosa detti a coloro che mi avevano accompagnato, sicchè rimasi con tredici lire!…» Nonostante egli era lieto e contento; era riuscito fedelmente a vincere tutti gli ostacoli che avevano così tanto ritardata la sua partenza! Pure,
quando il battello principia a muoversi e, salito sul
ponte, dietro invito del Capitano che gli annunzia
essere ormai sicuro vede Genova che si allontana e
VITA DI T. STROCCHI
XCI
a poco a poco si perde nella oscurità della notte, e
in lei guarda l’Italia, l’Italia che forse non rivedrà
più, egli è mesto e dal suo cuore prorompono parole commoventi come queste:
« Oh patria mia, profondo come questo mare è
l’amore che io ti porto, è quanta tristezza mi scende
nel cuore nel vedere le tue coste allontanarsi e perdersi a poco a poco, come una cara immagine, come
memoria gradita dietro il velo del tempo. Mi sembra
che lontano da te, io nemmeno debba più vedere le
stelle che scintillano nel sereno delle tue notti. Io ho
baciato la mia ultima orma impressa sulla rena; la
marea copre già quell’orma e quel bacio. Pure questa tristezza, ombra dell’anima, è dolce e quieta,
come l’ombra di questa terra; io sono triste e felice,
come il buio di questa notte è scintillante per la
lontana luce degli astri. Triste nell’allontanarmi, felice su questa via che mi avvicina alla battaglia della libertà, della libertà che per te prima vorrei e che
ancora non hai. Io avrei voluto morir per te e salutarti morendo con ultima parola italiana, poiché tu
mi hai dato il cuore - solamente quello ed è assai
- degno di te!.. E mi sembra che tu a questa nostra
partenza pei campi di un popolo fratello che combatte ormai per la sua libertà, scosso il giogo del suo
despota, tu benedica o madre alma, come contenta
dei figli che uscirono dal tuo seno, dolente, pure
orgogliosa del sangue che uscirà dal nostro.
« Quante volte accompagnasti ai lidi delle tue
marine i tuoi figli che correvano la terra a gridare il tuo nome alle genti? Tu li vedesti salpare
sotto le ali delle aquile romane, di cui con passi poderosi seguivano il volo poderoso per le contrade
che l’antichità conobbe; e l’esterno Oriente e i de-
VITA DI T. STROCCHI
XCII
serti della Numidia e della Libia e la Clyde e il mare Iperboreo e le brune Selve degli Sciti e l’Eufrate
e il Ponto ascoltarono il suono della tua favella in
un canto di vittoria. E li vedesti poi dai tuoi porti
di Genova e di Pisa , di Napoli e di Venezia ricercare le orme dei padri e ritrovarle, ricoprire le onde dei
tuoi mari di galee, di bandiere repubblicane che
giungevano ai lidi più lontani a portarvi i tuoi drappi
e le tue armi, i tuoi marmi e le tue dovizie e le creazioni e le invenzioni del tuo genio; e da Amalfi vedesti partire la prima bussola, guida dei mari, e dietro a Colombo i tuoi marinai scopritori di mondi.
«E tu benedicesti agli Italiani che esulando
dal tuo seno contristato dagli stranieri combattevano
in Spagna, a Santorre Santarosa che partiva per la
Grecia combattente, a Garibaldi e a’ suoi prodi che
pugnavano in America per la libertà, a Nullo a Bechi che cadevano per la Polonia, a tutti dicendo: mostrate di esser degni di libertà combattendo per lei;
nel suo nome spargete il vostro sangue sulle terre
straniere, suscitate ovunque il fuoco dei vostri vulcani, il fuoco dei vostri cuori. Ed ora, o patria, tu ci saluti su questo lido donde noi salpiamo per una terra
grande più di quello che essa degnamente non si senta, per una terra in cui il popolo combatte
l’invasore.Noi porteremo alla Francia l’amore
d’Italia, a un popolo il braccio della rappresentanza
di un popolo. Alcuni fra noi sopravvissero alla difesa
Repubblica Romana, moltissimi alla funesta giornata
di Mentana, e sono gli avanzi di quelle stragi che
Italia invia al soccorso di Francia. Oh patria mia sei
grande!.. Rivedrò io la primavera delle tue verdi colline, la gloria delle tue città, l’occhio nero delle tue
donne? L’onda scorre sotto la chiglia del battello,
VITA DI T. STROCCHI
XCIII
Genova scomparve nella notte che cresce. Domani
quando il giorno sorgerà ove sarò io? Quanto da te
lungi? Tu però mi sarai sempre nel cuore. Addio
mia patria, belle coste della Liguria addio, addio Italia.»
Così alle tre pomeridiane del 9 la nave Clotilde
entrava nel porto di Marsiglia, e dopo poco il nostro
amico si trovava solo in quella grande e popolosa
città. Né sapendo a quell’ora cui rivolgersi, va in un
modesto restaurant, chè i suoi tredici franchi non gli
permettevano certo di far del lusso! Mangia
qualche cosa e poi, vinto dalla sua curiosità
d’artista, si mette a percorrere le larghe e numerose
vie di questa superba città della Francia, ove i suoi
palazzi immensi se non sono quelli di Roma, di Firenze, di Venezia e di molte città d’Italia dalle severe linee architettoniche, pure son belli e ti piacciono.
L’architettura francese ha una fisionomia tutta propria, e a me pare che corrisponda perfettamente
all’indole, al carattere di quel popolo. Con ogni cosa
in Francia più che ad educare la mente,si vuol colpire la fantasia; là tutto dev’ essere piacevole, sorridente. Il che dovette certo osservare anche il nostro
Tito, ma più lo sorprese il vedere tutte quelle variate
uniformi, indossate da una quantità immensa di soldati e di guardie nazionali e di cittadini armati, non
che tutti que’ cartelloni giganteschi affissi su per i
muri, portante iscrizioni ciarlatanesche come a mo’
d’esempio: Halte là, Prousiens, on n’avance plus !
Chè ancora in siffatto modo si continuava in Francia
ad ingannare l’opinione pubblica,sebbene il nemico
s’avanzasse di giorno in giorno, dilagando le sue
provincie e i suoi dipartimenti come fiumana irrompente, e ovunque regnasse il massimo disordine.
VITA DI T. STROCCHI
XCIV
Chiunque si fosse trovato in Francia di que’ giorni
facilmente si sarebbe potuto accorgere d’esser caduto
in mezzo ad un popolo smarrito, quasi perduto, incerto dell’oggi, e più del domani. Alla tremenda sconfitta di Sedan, era succeduta la vile capitolazione di
Metz; e a queste due vergogne dell’Impero avevano
tenuto dietro le facili recriminazioni, le pazze gelosie,
ed una grande sfiducia era entrata nell’animo di tutti.
Il governo della difesa nazionale sorto il 4 settembre,
lo vedi costretto a uscire da Parigi ormai investito dai
nemici per ritirarsi a Tour: Garibaldi invitato a portare il suo vigoroso braccio in difesa della giovane Repubblica, dapprima applaudito, poi poco men che abbandonato per un male inteso orgoglio nazionale.
Uomini ambiziosi, falsi patrioti, vili speculatori ivi
accorsi da ogni luogo, da ogni paese e nazione, tutti
in moto sempre pronti ad ogni comoda occasione per
far fortuna; e così poi, misti ad atti di abnegazione ed
eroismo, le maggiori vigliaccherie!
Purtroppo lo stato morale e politico della Francia era questo quando vi arrivò il nostro amico, lui
deciso a morire per Lei e per la sua libertà!« Ma ogni
causa buona, egli dice e con ragione, ha i bugiardi
apostoli, ha i furbi che se ne approfittano per isfruttarla, che la disonorano per riempirsi le tasche. Nella
democrazia, più che in qualunque altra società vi sono gl’ impostori, i furbi, i disonesti che piena la bocca di grandi parole commettono le più turpi azioni ed
ingannano il prossimo. Ma sarà questa una colpa della democrazia? La colpa è degli infami, dei codardi,
della canaglia che prende a sfruttare quel campo piuttosto che un altro. Non è democratico chi disonora la
democrazia. Costoro sono imbroglioni senza arte né
parte, che corrono sempre colà dov’è un poco di con-
VITA DI T. STROCCHI
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fusione per immischiarvisi ed accrescerla, per trovarvi sempre qualche cosa da guadagnare, danneggiando
sempre e disonorando gli onesti e i veramente buoni
che si ritirano, tacciono mortificati di fronte a tanta
improntitudine e a tanta sfacciata temerità. Corrono
tutti alla caccia d’impieghi, di gradi, di guadagno, ed
ottengono sempre coloro che meno ne hanno il diritto. L’onesto sdegna di cacciarsi entro quell’intrigo, in
quell’affaccendarsi e brigare di ambizioni, di invidie,
di calcoli e di appetiti, scende l’ultimo gradino, si
confonde fra la moltitudine e cerca un premio nella
propria coscienza.»
Così pensava e così faceva Tito Strocchi. Difatti
il giorno dopo il suo arrivo a Lione, ove maggiore
trovò l’armeggio degli scaltri affaristi, degli ambiziosi ricercatori di gradi, egli si reca al Comitato di arruolamento, cui dà il suo nome, non d’altro sollecito
che d’esser mandato presto al campo. E fu ben contento di poter partire la sera stessa con altri quaranta
volontari per Autun, sebbene poi dovesse esser dolente di giungervi quando, affranti dalle fatiche e con
lo scoraggiamento nell’animo, vi tornavano quei battaglioni italiani e francesi, che avevano preso parte la
notte del 26 all’assalto di Digione. Fatto d’arme glorioso pe’ i volontari italiani, ma che purtroppo non
poté esser coronato dalla vittoria, un po’ per esser
pochi i combattenti, ma più per mancanza di coraggio nelle guardie mobili francesi, che fuggirono dinanzi al nemico. «Garibaldi, scrive nel suo
libro Da Firenze a Digione Ettore Socci, che prese parte a questo combattimento, Garibaldi voleva
sorprendere Digione, ed era sicuro d'impadronirsene con uno dei suoi colpi di mano; e vi garantisco che sarebbe riuscito: mille valorosi di più,
VITA DI T. STROCCHI
XCVI
duemila vigliacchi di meno!» Laonde non solo il
piccolo esercito garibaldino dové poi ritirarsi ad
Autun, ma il 30 dové tornarvi anche Garibaldi col
suo quartier generale; però con animo di prendersi
presto la rivincita. La quale non si fece attendere
lungamente, poiché ì Prussiani che erano in Digione, incoraggiati dal successo del 26 e sperando
di poter sorprendere Garibaldi e di cacciarlo d'Autun, il primo novembre s' avanzarono fin sotto la
città, avendo lasciato loro libero il passo un battaglione di Guerriglie d' Oriente, che si trovava agli
avamposti e che al primo apparir del nemico fuggiva (1).
Erano circa le due pomeridiane quando i
primi colpi di cannone dettero l'allarme. Fu una
sorpresa: nessuno davvero pensava di dover combattere in quel giorno. Senza Garibaldi tutto sarebbe stato perduto, con Garibaldi invece tutto fu
vinto. Non era trascorsa mezz' ora che già tutti i
battaglioni si trovavano
sotto le armi e in posizione dinanzi al nemico. E
prima sono le artiglierie collocate in prossimità della
Stazione che tengono indietro i Prussiani, poi le
brillanti e ripetute cariche alla baionetta de' volontari
italiani, che li costringono a ritirarsi e a ritornare in
Digione; da dove poi dovettero presto allontanarsi,
visto che Garibaldi s’ avanzava per dar loro battaglia
più decisiva. Ed è appunto in questa occasione che il
nostro amico per la prima volta in Francia prende
parte ad un combattimento; ma in un modo quasi
(1)
Comandava questo battaglione il luogotenente colonnello Edoardo Chenet,
che condannato da un Consiglio di guerra alla fucilazione, venne da Garibaldi
graziato. Fu però degradato pubblicamente dinanzi a tutti' le truppe schierate e
messo disposizione del Governo.
VITA DI T. STROCCHI
XCVII
comico, certo ben diverso da quello che avrebbe
desiderato. Ecco com' egli ci racconta questa sua prima fazione dinanzi al nemico. « Si sentiva, egli dice,
il cannone tuonare alla distanza di mezzo chilometro.
Noi... il nostro battaglione era senz'armi. Io corsi al
mio quartiere sentendo ì primi colpi di cannone in
questa campagna. Ordinarono il battaglione,
schierandolo per bene, poi lo condussero fuori della
città, in prossimità della battaglia, per quanto però ci
tenessero sempre al coperto. Bella posizione era la
nostra! Sentivamo il rombo vicino del cannone e lo
schioppettio rapido delle fucilate e ci trovavamo
senz' armi. Se il nemico si avanzava che dovevamo
far noi?... Mi ricordo che furono due o tre ore di serio
imbarazzo per noi tutti; la nostra posizione era assai
critica ; ognuno sì guardava in faccia coll'altro c ci
auguravamo che i Prussiani ne toccassero bene. II
fuoco seguitò fin quasi alle cinque..... Fu un
combattimento breve, ma serio e decisivo. Così
Garibaldi aveva salvato Autun e con essa tutto il sud
della Francia.»
Autun intanto acquistava di giorno in giorno
importanza di città militare. L'esercito garibaldino
s'andava a mano a mano aumentando, e come
potevasi si organizzava. Ricciotti Garibaldi che già
s'era fatto molto distinguere nel combattimento di
Chatillon era tutto occupato a formare un piccolo
squadrone di guide, cui dette poi il nome di Francs
Chavaliers de Châtillon appunto in commemorazione
di quel fatto d'arme, per lui tanto onorevole. Lo
squadrone delle guide si componeva quasi tutto di
italiani. N'era capitano uno de` Mille Antonio
Radovich, dalmata, e luogotenente Antonio Orlandi
Cardini di Pescia in Toscana. Il quale amico intimo
VITA DI T. STROCCHI
XCVIII
del nostro Tito e desideroso di far la campagna
insiem con lui, facevalo entrare nelle guide. Sicchè
quando meno se lo aspettava fu, come diceva poi
scherzando, inalzato così per la prima volta alla
dignità di cavaliere! e potè far parte della quarta
Brigata sotto il comando del prode Ricciotti
Garibaldi che tanta parte ebbe in quella campagna.
Partiva la quarta Brigata da Autun il 23
dicembre, e per una lunga escursione allo scopo di
meglio conoscere le posizioni dei nemico. Furono
ventidue giorni di marcie faticose quanto pericolose a
travero quattro Dipartimenti di Saone et Loire, della
Nievre, della Côte d'Or e della Yonne. Se non che
giunta la Brigata a Chateau Chiron, da dove non
ripartì che il 26, metà delle guide ivi si trattennero
fino al 2 gennaio, chè non tutte erano provvedute di
cavallo e fra queste trovavasi il nostro amico, il quale
anzi può dirsi che non possedesse mai un cavallo,
dacchè essendo stata a lui affidata la cassa del
reggimento, dovè seguir questo nelle lunghe marcie
in una carrozza che apparteneva al suo capitano. «
Non avevo anche un cavallo, egli dice, ed avendolo
non mi sarei sentito in grado di marciare con esso
tutto il giorno. Ero un soldato di cavalleria, ma senza
cavallo; avevo la sciabola di cavalleria, gli stivali, gli
sproni, non potevo quindi marciare nemmeno a piedi.
Ero un soldato misto un pò cavaliere un pò
fantaccino, e infatti feci così la campagna, marciavo
qualche volta da cavaliere e mi battei sempre da
soldato di fanteria.»
II nostro amico dunque partiva da Chateau
Chiron il 2 gennaio, nè potè riunirsi all' intiero
squadrone prima del 7 e a Semiur, abbandonata due o
tre ore prima dai Prussiani per l'avanzarsi della
VITA DI T. STROCCHI
XCIX
Brigata Ricciotti, la quale aveva poi proseguita la sua
marcia per Bontbard e per Flavigny, dov'ebbe una
scaramuccia col nemico e fortunata. Però il 12
gennaio tutta la Brigata era costretta nuovamente a
mettersi in marcia per sottrarsi a seimila Prussiani
che si avanzavano; e per Aignay-Le-Duc, Ir-Sur-Tille
il 15 sì riuniva col resto dell'esercito a Digione. Chè
ivi appena ritiratisi i Prussiani credendosi poco sicuri
dopo il tentativo del 26 dicembre, tutto l'esercito dei
Vosgi s' era riconcentrato, e Garibaldi vi aveva posto
il suo quartier generale e fatto aveva di Digione, il
centro dello sue operazioni.
Le vicende della guerra frattanto incalzavano, il
giorno della battaglia decisiva anche per Garibaldi si
avvicinava. I Prussiani sicuri ormai dell'ultima vittoria, dopo aver circondata Parigi, inviavano altri
uomini, e delle loro truppe migliori, nella Borgogna.
E il generalo badese Werder con tutto il grosso del
suo esercito muoveva lento e poderoso per
ischiacciare l'esercito de' Vosgi e proseguir poi
sicuro la sua marcia d' invasione. E Garibaldi,
collocate le sue cinque Brigate in campo e in buone
posizioni, si teneva pronto alla difesa di Digione fino
dal 19. Sicchè il 21 conosciuto come l’esercito nemico diviso in due corpi, si fosse steso sopra una lunga
linea dalla parte di Fontaine e di Talant, le cui alture
erano già state occupate dai generali garibaldini Bossak e Menotti Garibaldi, stendendosi con la sua ala
sinistra fino a Mesigny, per la via di Poully a nord est
di Digione, e poi per quella di Angres e Ir-sur-Tille
faceva fin là marciare la quarta Brigata comandata da
Ricciotti Garibaldi allo scopo di tentare il nemico alla
sua sinistra e di costringerlo a ripiegare sul suo centro, di fronte appunto alle colline di Fontaine e di Ta-
VITA DI T. STROCCHI
C
lant, dov’erano pure state collocate le artiglierie più
potenti di cui potesse disporre l’esercito de’ Vosgi.
E il nostro amico come sempre, cavaliere e soldato di fanteria ad un tempo, salito sulla sua carrozza,
seguiva la Brigata, sicuro ormai che il giorno della
battaglia era giunto, che l’ora delle grandi emozioni
era vicina.«Era un bel giorno, così egli, e marciavamo al solito senza sapere niente di sicuro, ma prevedendo però che qualche cosa stava per succedere. Ci
parve di udire un lontano rombo. Era il cannone che
tuonava sotto Digione. La Brigata si fermò sulla strada al punto in cui lasciava quella di Ir-sur-Tille per
prendere l’altra a sinistra di Messigny. Noi giravamo
per coprire Digione dal suo lato destro. Allora io scesi dalla carrozza e facendomi vedere consegnai
all’ordinanza la borsa che aveva i denari. Lo faceva
per due ragioni, perché i denari non andassero perduti s’io moriva, e perchè, non si può mai sapere – e
pensando sempre al peggio si fa cosa prudente –
quella borsa piena d’oro addosso a me, poteva far sì
che qualche soldato dietro di me sbagliasse il tiro e
invece di colpire un Prussiano colpisse me nella
schiena. Non so qual diavolo fosse che mi mettesse
in testa questo pensiero e mi consigliasse di adottare
ogni volta che andavo al fuoco questa regola di prudenza, certo doveva essere un diavolo, ma diavolo o
no, mi parve che la sapesse lunga ed accettai il consiglio. Presi la mia carabina e il povero Paredi
(l’ordinanza del Capitano che conduceva la carrozza
) mi guardò che mi allontanava e mi guardò con affetto; egli mi amava.
Andai subito presso la compagnia dell’Isere ….
«Capitaine me voilà avec vous. A jordui il fera bien
chaud» – « Certainement: dans peu nous serons au
VITA DI T. STROCCHI
CI
face de l’annemy.- «Voilà le petit italian qui vient
avec nous, dicevano fra di loro i franchi tiratori, e tutti mi avevano preso ad amare e vedevano con piacere
che io avessi scelta a preferenza la loro compagnia.»
Intanto la Brigata si avanzava sulla via di Messigny, e già alcune guide s’erano spinte innanzi ad
esplorare…. E il nostro Tito…Oh lo dica egli, chè
nessuno non potrebbe mai avere tanta efficacia di parola per descriverci con verità lo stato dell’animo suo
in questo momento solenne ! « Io, senza farmi vedere, egli dice, trassi i due ritratti di Livia e di …. E li
baciai. Era l’ultimo ch’io dava ai miei cari…. Dopo
aver dato quel bacio a quelle due donne – e la situazione ed il pericolo in cui mi trovava di non più vederle, mi cresceva la dolorosa voluttà di quella contemplazione e me le faceva apparire più care – caricai
la mia carabina, facendo proposito di farmi onore al
fuoco e meritare la stima dei francesi fra cui mi trovava. Poco dopo sentimmo lo schioppettio delle fucilate rapido come su può fare colle armi a retrocarica e vicinissimo. Nello stesso tempo a gran trotto
tornavano indietro gli esploratori, col capo chino sul
collo del cavallo. Eravamo presso a Messigny. Alcuni contadini esterrefatti dalla paura ci guardavano inoltrarci dalle loro finestre, e quasi piangendo ci dicevano: curage, voilà les Prussiens! Erano ottomila e
attaccavano con proposito di prendere il paese e respingerci sopra Digione. Camminiamo ancora un poco ed eccoci al momento solenne!....Nello scrivere
queste pagine la mia memoria torna a quei momenti,
ed io sento la emozione che inevitabilmente sente
l’uomo cui pende sopra inevitabilmente la morte.
Non avevo paura, ma quei sibili mi dicevano, fra un
secondo tu sarai morto. Io ripeto non tremava e vo-
VITA DI T. STROCCHI
CII
leva esser là dove sarebbero stati i primi, e vi fui….
Ogni colpo mi pareva che dovesse trapassarmi, non
credeva a me stesso nel sentirmi sempre sano, e nonostante, aveva piacere dir restare per fare un altro
colpo, un altro, poi un altro come avviene a due amanti che si baciano nel lasciarsi e non sanno risolversi a darsi l’ultimo bacio. Strana similitudine, perché i nostri erano veramente terribili baci.»
La Brigata Ricciotti entrò in paese, e il fuoco
continuò sempre per un’ora e più. Finalmente i Prussiani dovettero ritirarsi e riconcentrarsi in faccia a
Digione, come era desiderio di Garibaldi. E il nostro
amico sapendo di avere fatto il suo dovere e confortato in questa opinione dalla stima che dimostravano
aver per lui tutti gli ufficiali, era contento di sè e acquistava nuova lena e nuovo coraggio. La battaglia
frattanto infieriva in vicinanza di Digione. Ma là era
Garibaldi che dalla collina di Talant dirigeva il combattimento; e colla sua presenza, salito a cavallo,
sebbene vecchio e storpio pe’ dolori, infiammava i
suoi e portavali alla vittoria. Il 21 gennaio fu la prima
di quelle tre memorabili giornate di Digione che ricoprirono di gloria il giovane esercito dei Vosgi, e
tanto splendore accrebbero al nome già immortale del
suo duce supremo. Ma ahimè! quante vite preziose vi
perirono. Fu un’ecatombe, dice il valoroso nostro Tito; e quanto son piene di dolore, di tristezza queste
sue parole: « Rientrato in Digione (dopo il combattimento), tornai al mio albergo, stanco, affamato da
non dirsi. Ero digiuno dal giorno innanzi e dopo aver
fatta quella vita !..Era corsa notizia tra i miei amici
che io fossi morto ed alcuni erano andati alle ambulanze per cercarmi…Nella stanza ov’io mangiava, allo stesso tavolo pranzavano nelle altre sere tre italiani
VITA DI T. STROCCHI
CIII
ufficiali della legione Tanara. Essi mancavano tutti e
tre, erano morti! Tutto ciò era triste e conteneva in
noi la gioia per la vittoria conseguita …».
Eppure al combattimento del 21 ne dovevano
tener dietro altri e se non più aspri, più decisivi. Il
nemico quantunque fosse stato battuto, s’era ritirato
poco lontano e il giorno dipoi fino dalle prime ore del
mattino riattaccava le stesse posizioni. Ma come il
giorno innanzi falliva nell’impresa, così dovette
nuovamente ritirarsi. Gli onori della giornata toccarono alla brigata Menotti Garibaldi, chè le altre brigate erano rimaste in seconda linea; e tra queste quella
Ricciotti Garibaldi della quale egli il nostro Tito,
come
sappiamo,
faceva
parte.
Peraltro
s’ingannerebbe chi credesse di vedere là in Digione il
nostro amico seduto a desco in un caffè o in un
Restaurant contento di riposarsi delle fatiche passate
in attesa degli eventi della giornata.Ove fosse il 22 le
petit italien, come lo chiamavano ormai i Franchi tiratori, ce lo dice Ettore Socci nel suo Da Firenze a
Digione: «Arriviamo, egli narra parlando di questa
seconda battaglia, arriviamo alle nostre batterie, un
ronzio impertinente di palle ci avvertiva che il nemico era poco lontano; Garibaldi, Menotti, Bizzoni,
Sant’Ambrogio in quel momento erano là. Troviamo
lo Strocchi che ci avevano dato per ferito, lo abbracciamo e si unisce a noi.» Nè poteva essere altrimenti:
egli era sempre là dove si combatteva, anzi dove
maggiore era la mischia e il pericolo. Ma ecco come
egli ci racconta questa circostanza. «Dopo mezzogiorno, dice, io vedendo che per noi non v’era ordine
alcuno, presi la mia carabina sulle spalle e en
amateur mi avviai verso il luogo della battaglia, dicendo al Capitano: «Capitaine la brigade Strocchi,
VITA DI T. STROCCHI
CIV
composèe de moi, part pour renforser les autres brigades!» e me ne salii sulla collina di Talant. » E la
sera anch’egli rientrava nuovamente in Digione fra
gli evviva di quelle popolazioni festanti, pazze di
gioia per la vittoria riportata da Garibaldi su’ Prussiani, meno contrastata di quella del 21, ma più decisiva. « Io, esclama egli pieno di entusiasmo, io mi
sentivo venire una lagrima negli occhi ed avrei voluto raccoglierla per farne un diamante da far impallidire tutti i ricchi gioielli di cui i felici si adornano nelle
loro feste da ballo. »
Ma i Prussiani non sono ancora soddisfatti, e il
23 tornano all’assalto più che mai incaponiti di impadronirsi della città di Digione. Ammaestrati però
dalle sconfitte del 21 e del 22 questa volta non osano
attaccare di fronte le forti posizioni di Talant e di
Fontaine e le girano invece dalla parte di Langres o
d’Ir-sur-Tille. Muovono ad incontrarli la Brigata
Canzio e la Brigata Ricciotti dall’altra. E il nostro
amico si trovava come sempre al suo posto, lui cavaliere …a piedi, anche questa volta è la fra i suoi franchi tiratori dell’Isére, i quali lo considerano ormai
come un loro concittadino. E il nostro amico si trova
come sempre al suo posto, lui cavaliere… a piedi,
anche questa volta è là fra i suoi franchi tiratori
dell’Isére, i quali lo considerano ormai come un loro
concittadino. E se la giornata del 23 fu per l’esercito
dei Vosgi non meno gloriosa delle altre due precedenti, chè i prussiani dopo ott’ ore di combattimento
dovettero battere in precipitosa ritirata, fu un vero
trionfo pel valoroso nostro amico. « La brigata Ricciotti, dice Luigi Stallo nel suo libro Verità e calunnia dinanzi al generale Garibaldi, ebbe l’onore di
prendere la bandiera del sessantunesimo reggimento
VITA DI T. STROCCHI
CV
prussiano che porta il nome del Re Gugliemo, la
quale fu raccolta sopra un mucchio di cadaveri dal
bravo amico nostro Tito Strocchi di Lucca, soldato
delle guide e che per questo fatto è stato subito
promosso al grado di sottotenente»
E poiché questo fatto della bandiera dette
luogo a tanti discorsi, né mancò perfino chi volle
porne in dubbio la verità, sento il dolore di riprodur
qui per intiero la descrizione che il nostro amico lasciò nei suoi scritti inediti Ricordi di Francia
1870-71. del glorioso combattimento del 23 gennaio, e della parte ch’ei v’ebbe; descrizione non pubblicata mai per quella ripugnanza ch’egli sentì sempre a parlare di sé e delle cose sue: Tito Strocchi
era modesto quanto valoroso. Ascoltiamolo: « I
prussiani avvedutisi dell’errore commesso assaltando
le posizioni di Talant e di Fontane giravano ora dalla
strada di Langres e d’Ir-Sur-Tille. Garibaldi aveva
ordinato alla brigata Canzio di muovergli incontro da
una parte e alla brigata Ricciotti dall’altra. Al primo incontro i mobilizzati di Canzio erano fuggiti
disordinatamente ed erano entrati
in
città
senz’armi, spargendo per tutto la paura, lo sgomento. Intanto i prussiani liberi, sbaragliato quel debole nemico, s’erano inoltrati fino al castello di
Poully e stavano per piombar tutti sovra di noi, sovra di noi povera brigata di millecinquecento uomini. A due chilometri da Digione trovammo sul lato
sinistro della strada maestra e proprio sorgente al
suo limite una fabbrica di nero animale, appartenente
al signor Bargy. Entrammo nella fabbrica; il locale
era stato abbandonato e in un’ attimo fu invaso, si
sfondaron porte,si rinvennero delle pale, dei picconi
ed altri utensili, e tutti con un attività febbrile, con
VITA DI T. STROCCHI
CVI
energia tremenda pari a quella di un naufrago che si
costruisca una zattera vedendo affondare il bastimento, tutti si dettero ad aprire nei due muri del cortile
delle feritoie, dei buchi da cui si potesse far fuoco sul
nemico, difesi. Ricciotti Garibaldi correva in su e
in giù animando tutti, dando ordini rapidi, tutto disponendo per una terribile difesa. Prima di un quarto d’ora il piombo cominciava a fischiare su quel
baluardo. I nemici erano giunti: cominciarono a tirar granate sulla strada per smontare i nostri due
cannoni che ivi erano stati piazzati e che aprirono
energicamente il loro fuoco. Le giornate cadevano
ora più vicine, ora più discoste e sempre più si vedeva che colui che mirava perfezionava il suo tiro.
Cadevano a pochi passi da noi sollevando un nuvolo
di terra e di polvere e scoppiando tremendamente..
Io ero nel cortile e stavo a guardare quei proiettili
rispettabili, immaginandomi di vederne di momento
in momento scoppiare qualcuno entro al cortile ed in
mezzo a noi. Era frattanto incominciato il fuoco della
moschetteria. Nulla di più terribile, nulla di più accanito di quelle tre ore di combattimento. I prussiani si
spingevano innanzi in grandi masse, decisi di togliere
quel lieve imbarazzo e marciare sulla città. Sul
primo la loro fanteria era disposta e nascosta dietro
ad una specie di foresta che è sulla strada di
Poully, in faccia a noi. I cannoni nostri tiravano incessantemente e quel loro colpi ci rassicuravano poiché il soldato di fanteria ha una grande fiducia sul
cannone che lo protegge. Ma le granate tedesche
piovevano una dopo l’altra e già i nostri artiglieri
avevano qualche ferito, come pure qualche cavallo
era
stato
colpito
e
staccatosi
fuggiva
all’impazzata, ove lo conduceva la paura…
VITA DI T. STROCCHI
CVII
« Cessato il fuoco dei nostri cannoni, i prussiani si avanzarono terribili, fulminando il nostro riparo con scariche tremende. Ma i franchi tiratori rispondevano fieramente. I loro colpi erano però più
fortunati perchè miravano con istudio e ad ogni
scarica atterravano un nemico. Quella casa pareva
che vomitasse fuoco, sembrava una immensa mitragliatrice con millecinquecento bocche che incessantemente sputassero piombo e fiamme; da ogni finestra partirono colpi, il muro aperto in tanti luoghi da
tutte le parti faceva scaturir fuoco e per quanto ne
riceveva, tanto ne rendeva agli assalitori. Impossibile
il dire qual fosse il rumore infernale di quel luogo
ristretto in cui era tanta vita, contro cui si dirigevano tanti colpi e dal quale tanti ne partivano: era un
inferno… Eravamo circondati da due parti e il nemico minacciava girare a sinistra e chiuderci ogni
paso. I reggimenti non più trattenuti dai nostri
cannoni si erano avanzati fino a cinquanta passi dal
muro del cortile. Si vedevano come a tal distanza
si può vedere un amico avanzarsi, far fuoco ed incalzare, sospinti da altri. Noi credevamo che in poco
saremmo stati se no sterminati, fatti tutti prigionieri. E Ricciotti pure si avvide della critica posizione
e incoraggiava tutti alla più disperata resistenza; ma
non credeva di uscirne libero. Egli era però calmo
e freddo come sempre, dimostrava il più imperturbabile coraggio: aveva fatto proponimento di difendersi fino all’estremo e di morire poi combattendo a
corpo a corpo coi primi che fossero penetrati nel recinto, Sarebbe stata una lotta terribile; egli avrebbe
mantenuto quel proponimento che così freddamente
e così seriamente faceva; gli altri avrebbero fatto
come lui, io era deliberatissimo a farlo e fu anzi
VITA DI T. STROCCHI
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da quel momento che io, mentre prima mi era limitato a tirare qualche fucilata cominciai a darmi
attorno con tutta la possibile energia. Un buon comandante che dimostri coraggio e grandi propositi
comunica agli altri la propria virtù. Nessuno o pochi si sarebbero arresi in quel momento. Il sessantunesimo reggimento Guglielmo era il più avanzato;
era sotto il muro del cortile e vi fu quasi distrutto,
poiché si trovarono l’uno sopra dell’altro a cinquanta o pochi passi di distanza ottanta morti di
quel reggimento, il che fa immaginare quanti dovessero essere i feriti.
«Ricciotti Garibaldi osservava ora da destra
ora da sinistra per vedere di quanto avanzasse il
nemico; di fronte era ben tenuto in iscacco dal
fuoco mirabile e dai tiri aggiustatissimi dei franchi
tiratori appostati sui tetti e dietro alle finestre.
« - Bisognerebbe fare una piccola sortita
sulla strada, disse Ricciotti accostandosi all’apertura
d’ ingresso.
« - Ci vado io.
« - No voi, mi rispose trattenendomi, quasi gli
dispiacesse di vedermi incontrare così una morte
certa.
« Nessuno si presentava. Io guardai la mia
carabina e mi accinsi a uscire. Allora egli si volse a
qualche francese che era nel cortile e disse:
«- Allons qui va- il donc avec Strocchi?
« Sembrava che ne avessero poca voglia. E infatti bisognava compatirli: sulla strada fischiava come spinto dal vento un nembo di piombo; i tronchi degli alberi volavano via spezzati e troncati
come pagliuzze.
VITA DI T. STROCCHI
CIX
Eravi presso Augusto Rostaing, il capitano
dei franchi tiratori dell’Isére, uomo alto, serio, che
avrà avuto quarantatre anni e che aveva fatto altre campagne, del quale io era amico; com’egli lo
era di me, di quell’amicizia stretta sul campo di
battaglia, fra i disagi e i pericoli.
« - Allons nous, disse risolutamente.
« – Allons, gli risposi.
«- Tutti e due avevano la carabina spencer. Uscimmo e d’un salto ci spingemmo sulla strada
dietro un albero, uno di quelli che la fiancheggiavano. Le palle urlavano intorno e battevano nei tronchi
sopra di noi… Io aveva, me lo rammento bene,
un sangue freddo che credo di non avere mai avuto simile. Conosceva il pericolo, ma un dolce entusiasmo mi riempiva l’anima, ed era ubriaco di bella ambizione; non pensava alla morte niente più di
quello che io pensassi a prendere un reuma, e nonostante ad ogni passo mi aspettavo di sentirmi
spezzare qualche cosa…
« Da quell’albero tirammo due colpi, quindi
uscendo rapidamente e girandogli intorno ci mettemmo, senza far parola e istintivamente d’accordo,
dietro al riparo dell’albero precedente e in due
salti fummo dietro a quello. Ivi pure facemmo fuoco.
I prussiani erano sparsi in qua e in là. Allora ci azzardammo a traversare la strada e ci portammo
dietro agli alberi del filare opposto, tirammo diversi
colpi. Cominciava a cader la sera. Non distinguevamo, almeno io, molto chiaramente dinanzi a noi,
ma assai bene però per vedere i nemici. Vedemmo
a tre passi da noi due prussiani, i quali nel vederci
cosi prossimi non fecero il menomo atto di resistenza.
VITA DI T. STROCCHI
CX
«- Voilà deux proussiens, gridò Rostaing, alzando su loro la carabina.
«Essi lasciarono cadere il fucile. Fummo loro
addosso. Egli ne agguantò uno, io presi l’altro per
un braccio, raccolsi il suo fucile e me lo spinsi innanzi per tornare entro il cortile. Era un giovinotto alto più di un palmo di me; se mi avesse dato un
pugno mi gettava dieci passi lontano.Ma egli tremava come un bambino, si lasciava condurre, sicchè
io non pensava neppure a guardarmi da una sua
resistenza e mi prendeva pietà di lui nel vederlo così
sfatto dalla paura… Pover uomo,se potessi sapere
chi eri tu, vorrei ben rider teco!… Rientrammo nel
cortile, presentai il prigioniero e gettai a terra il
suo fucile. Così pure faceva Rostaing. Ricciotti era
più tranquillo. Infatti era già al fuoco a sinistra sui
campi la brigata Canzio coi cacciatori di Marsala
ed altri.
«Ricciotti aveva preso gusto alle sortite e noi
più di lui, cosicché appena rientrati sortimmo e questa volta dalla parte sinistra sui campi. E fu in quel
momento che noi due vedemmo un gruppo di
Prussiani i quali tenendo la bandiera del 61° Reggimento tentavano salvarla e salvarsi. Furono subito presi di mira.Confesso che l’entusiasmo cominciava allora a farmi ragionar poco, perché adesso non
rammento le sensazioni che provai né ciò che feci
veramente. Ciò che noi facevamo però era bello.
Dei franchi tiratori erano alle finestre della casa, al
disopra di noi, ci gridavano bravi. Avevamo le otto
cartatuccie di riserva per le nostre carabine. Facemmo fuoco ciecamente, precipitosamente su quel
mucchio di gente, i nostri sedici colpi furono scaricati a bruciapelo in pochi secondi a caddero tutti. Il
VITA DI T. STROCCHI
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61° Reggimento era caduto fieramente. Tutti quei
cadaveri colpiti dalle palle dei franchi tiratori erano
uno sovra l’altro, stesi sconciamente, quasi cadendo
avessero voluto allungare il braccio per toccare quelle mura sotto cui si erano spinti. E così fu presa la
bandiera del 61° Reggimento. Era una bandiera di
seta nera traversata da due striscie bianche inclinate,
incrociatesi trasversalmente: nel mezzo eravi ricamata in oro l’aquila prussiana e il nome del Reggimento.»
Questa la narrazione vera, genuina del glorioso
fatto, cui tanta parte ebbe il nostro amico, e pel
quale più splendida riuscì la vittoria riportata su’
prussiani dal piccolo esercito garibaldino dopo tre
giorni di fiero combattimento in difesa di Digione.
Eppure, che non si disse per travisare i fatti? quante
calunnie non si addensarono sul capo de’ nostri valorosi e del valorosissimo Ricciotti Garibaldi?
…«Avrei volentieri, dice il nostro Tito, avrei volentieri fatto a meno della parte di gloria che mi venne
per quel fatto!… I francesi gelosi della gloria nostra,
gelosi perché la sola, l’unica bandiera prussiana che
fosse stata conquistata in quella lunga guerra, la fu
per opera de’ garibaldini, trassero fuori mille calunnie, mille discorsi diretti a travisare il fatto, per menomarne il merito. Un giornale clericale di Macon
giunse perfino a dire che Ricciotti Garibaldi l’aveva
fatta fare da un tappezziere, dando ad intendere di
averla conquistata!… Io ed il capitano Augusto Rostaing di Grenoble, usciti soli dal recinto, sotto gli
occhi del colonnello Ricciotti, dopo aver fatto ciò
che ho raccontato, di cui tutti furono testimoni, uccidemmo i difensori di quella bandiera. Io non la raccolsi, intendo materialmente, e lasciai che la racco-
VITA DI T. STROCCHI
CXII
gliesse Rostaing, per quel sentimento di deferenza
che io doveva alla sua età, al suo grado e al suo coraggio; egli la portò a Ricciotti, ed egli primo disse
che l’avevamo conquistata insieme lui ed io, e questo seppero e videro tutti i franchi tiratori della quarta brigata… Io lo ripeto non l’ho presa colle mani,quando chi la teneva cadde, ma col Rostaing ho
affrontato l’immenso pericolo che presentava lo esporsi all’aperto, con lui e forse qualche passo avanti a lui, specialmente nell’ultima sortita quand’io era
più che mai entusiasmato, ho tirato sui soldati che
tentavano salvarsi colla loro bandiera, ne ho uccisi
la mia parte, per cui mi tengo in buona coscienza anche la mia partesi gloria, senza curarmi di ciò che
hanno detto altri.»
Dopo la vittoria del 23 riportata dall’esercito dei
Vosgi, i Prussiani abbandonano ogni idea di riguadagnare le importanti posizioni di Digione e la loro
ritirata è completa. Tra le file de’ Garibaldini per altro ciò non par vero, non si vuol credere che gli agguerriti soldati di Guglielmo siensi dovuti ritirare
fuggendo dinanzi a pochi volontari italiani e francesi,
tanto che da un momento all’altro se li aspettano
nuovamente contro. Pure ciò non accadde..i Prussiani
non solo si sono ritirati sconfitti da Garibaldi dopo
tre giorni di fiero combattimento, ma non si arresteranno sicuri che a venticinque chilometri da Digione;
sicchè il 24 il generale Garibaldi indirizzava: «Aux
grave de l’armée des Vosges» un ordine del giorno
che incominciava con queste calde parole: Eh bien!
vous les avez revus les talons des terribles sodata de
Guillaume jeunes fils de la liberté. Dans trois juors
de combats a charnés, vous avez ecrit ine page ben
glorieuse pour les annales de la Repubblique, et les
VITA DI T. STROCCHI
CXIII
opprimés de la grande famille humaine salueront
en vous ancore une fois les nobles champions du
droit e de la justice…» E fu in questo stesso giorno
che il nostro amico seppe d’essere stato dal colonnello Ricciotti nominato sottotenente, come era stato
nominato maggiore il capitano Rostaing; e se ne
compiacque, sentendo di essersi ben meritato tale
distinzione. « L’ebbi caro, egli dice; un grado in una
milizia buona piace, specialmente se guadagnato.
Io nulla brigai prima per avere un grado e mi era
facile averlo anche superiore a quello che mi ebbi
poi, ma lo sdegnai. Nominato ufficiale dopo la giornata del 23 fui orgoglioso del mio avanzamento,
poiché me lo era acquistato sul campo di battaglia
vorrei certamente cominciarla con quel grado che
nessuno può contestarmi.»(1)
Ma gli effetti delle vittorie riportate da Garibaldi su’ prussiani, sono purtroppo paralizzati dalle
sconfitte toccate a’ generali francesi. Mentre Garibaldi vince a Digione. Burbacki fallisce nel suo movimento su Belfort, e, costretto, non avendo altro
scampo, si rifugia co’ suoi novantamila uomini nella Svizzera. Sicchè volgendo ormai le cose di Francia a certa rovina il governo della difesa nazionale è
forzato a domandar prima un armistizio di ventun
giorno, poi ad accettare la pace, dura e umiliante
quale poteva essere offerta e consentita da un nemico vittorioso e trionfante. Tanto che Favre dovette
acconsentire
al Bismark, di non
includere
(1)
Il nostro amico non ebbe il suo Brevetto regolare di nomina che l’ 4 marzo
1871.Eccolo: Répubblique francaise, Commandement général. – En vertu des
pleins pouvoirs qui lui sont conférés par le Gouvernement de la Défense Nazionale, le Commandant de l’Armée des Vosges, Decrete :M. Strocchi Tito est
nommé sous lieutenant de cavalérie à dater du 1Mars 1871. – Pour le Général et
par sou ordre : Bordone. Pour copie conforme, Les Chef d’Etat Major : Jos.
VITA DI T. STROCCHI
CXIV
nell’armistizio i tre dipartimenti, di Doubs, del Iura
e della Cote d’Or, anzi convenire che vi dovessero
continuare le operazioni militari fino a tanto che non
fossero con ulteriori combinazioni diplomatiche convenuti e sottoscritti i patti della resa e della pace. Di
modo che l’esercito dei Vosgi eccolo il solo esposto
all’irrompere del nemico che triplicato marcia contro
Garibaldi, sicuro di sorprenderlo con la spada discinta dal fianco e di trarlo prigione con tutti i suoi valorosi. E al generale Manteufel sarebbe forse riuscito,
se invece dell’Eroe italiano avesse dovuto provarsi
con qualche altro generale;chè Garibaldi, sebbene il
31 ignorasse ancora e intieramente ch’egli e il suo
esercito non erano stati compresi nell’armistizio
concluso il 28 – e si disse poi che ignoravalo perfino
il Governo a Bordeaux, per una dimenticanza del Favre che di quella clausula non l’aveva reso consapevole! – Garibaldi seppe per tutto il giorno 31 tener
così bene a bada co’ suoi cannoni il nemico, e nella
notte così bene mascherare la sua ritirata dalla capitale della Borgogna, che riparò con somma destrezza e
grande perizia di capitano all’inqualificabile abbandono in cui lo avevan lasciato.
E il nostro Tito che con la quarta brigata è
degli ultimi a partire da Digione, dalla città costata
tanti sacrifici, ahime! come lo troviamo mesto in
quest’ ora d’addio; il suo cuore è triste, e pieno di
lagrime esclama: «Oh Giorgio Imbriani, o Carlo
Anzilotti, o Perla, o Pastoris, o Cavallotti, o Rossi, o
Bossack, o Squaglia, o Scali, o voi tutti, generosi italiani, quaggiù accorsi fidenti e caduti fieramente su
queste colline che ne circondano, gridando: viva la
Repubblica! avanti! addio a voi tutti. Noi abbandoniamo le vostre sepolture su cui cavalcherà l’ulano
VITA DI T. STROCCHI
CXV
nemico, noi lasciamo notturni un baluardo che alla
luca del sole abbiamo strenuamente difeso. O Talant
o Fontaine, o Messigny, addio. Con voi resta il nostro cuore; ricordatevi degli italiani: che tutto perdonando, che dimenticando Roma e Mentana, lasciarono famiglia ed agi per correre a voi, quando di popolo supplicava. Ricordatevi che la prima parola del
patto di alleanza fra i popoli è detta e noi l’abbiamo
col nostro sangue suggellata. Addio Borgogna, reame
del superbo Carlo il Temerario che i repubblicani
svizzeri sconfissero, addio liete colline e ubertose,
addio o popolo accorso sì spesso ad acclamarci sul
nostro passaggio.» E un altro addio egli avrebbe dovuto dare, chè a Digione e in quel momento il nostro amico abbandonava una cosa a lui non meno
cara di tante altre…la sua Chitarra!
Sì, vo’ chiudere questo capitolo con un ricordo lieto, con la narrazione di uno di que’ fatti che
bastano a dipingerci al vero e con la massima efficacia tanta parte del carattere di un uomo; anzi vo’
che lo narri egli stesso, il nostro Tito, con quel brio
e con quel colore proprio di chi ritrae se e le cose sue. Ricorderà il lettore che all’amico nostro appena
entrò a far parte delle guide, fu affidata la cassa dello
squadrone. Ebbene l’amministrazione, egli dice, fu
tenuta sulla fiducia, perché non aveva altro che il
mio taccuino su cui segnare ciò che riceveva e ciò
che consegnava o al furiere per le paghe, o per altre
spese. E per quanto nessuno me ne abbia poi chiesto
conto, avrei potuto fare i conti precisi di ciò che aveva ricevuto e di ciò che aveva speso. Non negherò
che un bicchier di vino o due non c’incastrasse anche
per me, ma ciò poteva fare senza scrupolo, perché
danari ve n’erano assai. Il fatto è che io non portai
VITA DI T. STROCCHI
CXVI
via un centesimo che non mi fosse dovuto. Del resto
poi su quel resoconto, ossia sui miei appunti figuravano certe spese che io non so come l’Intendenza militare avrebbe inteso. Trovo per esempio notato: desinare pel capitano a Lormes L. 3,50;una bottiglia vino pel capitano alla Place L. 1,50; pagato per tabacco L. 14,60, e…per una chitarra L.8,00! La
Chitarra poi segnata fra le spese occorse per
l’amministrazione di uno squadrone di cavalleria è
cosa amena e mi fa ridere pensando che cosa avrebbe detto Monsieur l’Intendant, se gli avessi detto:
« - Monsieur, voilà huit francs pour une guitarre.
« - Pour?
« - Une guitarre
« - Ce que c’est ça?
« - Une guitarre? Ce tant fait. C’est un instrument à peu comme un violon, qui a des
cordes et si ‘l est bien joué, il donne un son tres
gentile et melancolique. Il use bien en Espagne et
en Italie.
« - Mais vous etez fau. Est qu’ une guitarre
doit paraître parmi le frais d’ un esquadron de cavalerie?
« - Mais, je ne sais pas.
« Infatti a Digione il capitano mi aveva ordinato di comprarla in un bel magazzino di strumenti, sapendo che io la suonava, per divertirci
un poco la sera. Io la presi e la pagai; secondo
l’ordine, colla cassa dello squadrone. Povera Chitarra! Quando ci ritirammo con tanta fretta da Digione la lasciai nell’ albergo ove dormiva. I Prussiani,
se vi andarono l’avranno trovata e avranno detto: saran sempre italiani; anche in faccia alla morte, nella
VITA DI T. STROCCHI
CXVII
battaglia, essi hanno la musica nel cuore e sulle
labbra!»
VITA DI T. STROCCHI
CXVIII
VITA DI T. STROCCHI
CXIX
V
Conchiusa definitivamente la pace fra la Prussia e la Francia, e che pace!, disciolto l’esercito de’
Vosgi, dal quale il generale Garibaldi s’era licenziato
con quelle sue memorabili parole, « a rivederci a
tempi migliori!» il nostro amico giungeva a Lucca
quasi d’improvviso il 19 marzo, accolto con giubilo
immenso e dalla famiglia e dagli amici. Lo vidi e lo
abbracciai che vestiva ancora l’uniforme da ufficiale
di cavalleria; e sotto quella divisa mi parve ingigantito della persona, pieno di vita e lieto di buone speranze: lo avresti detto proprio contento di sé, e forse
lo era. Povero amico!.. Ma non precorriamo i fatti di
quest’ultimo periodo della sua vita, periodo non meno operoso degli altri, anzi il più fecondo di ricordi
durevoli per opere di caldo ingegno. Perché s’egli fu
valoroso con le armi da guerra, non meno valoroso si
mostrò poi e colla penne e colla parola, e come scrittore e come avvocato; lo stesso fuoco, la stessa fede,
la stessa costanza; diversi i mezzi, ma uno sempre il
fine: il vero e il bello ravvivati al sole della libertà.
Dissi già ch’egli aveva ideato fino dal 1867 di
scrivere una commedia per inviarla al concorso
drammatico di Firenze, e che poi ne aveva dovuto
abbandonare il pensiero distratto dagli avvenimenti
VITA DI T. STROCCHI
CXX
politici di quell’anno memorabile. Però il desiderio di
poter scrivere un giorno per il Teatro s’era manifestato in lui così vivo fin da bambino, quando almanaccava da mane a sera per recitare insieme co’ suoi fratellini, commedie, drammi, tragedie, quando un armadio parevagli più che sufficiente a indicare il
Campidoglio, e una tenda gettata su gli omeri e raccolta intorno ai fianchi, il manto di un personaggio
greco o romano, che quel che non ebbe agio di fare
nel 1867, fece nella primavera del 1870 co’ suoi Volti
e Maschere, soggetto pieno di passione e condotto
con bell’intreccio e con un dialogo sempre vivace,
spigliato, corretto. Ma scritta la commedia, come e da
chi farla rappresentare? Cercò in vano; ché davvero
non fu mai cosa facile per un autore novellino il poter
vincere la durezza e la diffidenza di un capocomico
qualunque! Intanto ecco gli avvenimenti politici che
lo allontanano di nuovo dal Teatro: prima
l’insurrezione delle bande repubblicane nella Toscana e nelle Romagne, indi il carcere come conseguenza di que’ moti, poi la campagna di Francia. Se non
che avendo egli affidato a un amico quella sua prima
commedia, questi tanto fece e si adoperò che la
Compagnia drammatica Dondini e Pezzana la poneva
in iscena a Mantova, e con buon successo, mentre egli si trovava ancora in Francia a combattere contro i
Prussiani.
E una volta fatto il primo passo, gli altri riescon
più facili. Tanto è vero che tornato di Francia trovò a
Lucca la stessa Compagnia Dondini che aspettava il
suo arrivo per rappresentare Volti e Maschere. Ciò
per lui fu una lieta sorpresa e una vera fortuna, perché festeggiato oggi come garibaldino, come valoroso soldato, domani sarà anche applaudito come poe-
VITA DI T. STROCCHI
CXXI
ta. Sicché fatte alcune prove, sacrificate all’esigenze
del capocomico e del prim’uomo e della prima donna alcune scene o parti di scene, subite a una a una
tutte quelle umiliazioni che sono riservate a un giovane autore drammatico, dalla presunzione di artisti
spesso ignoranti, ma più spesso egoisti; passato insomma a traverso tutte quelle piccole miserie del dietro scena che ti farebbero perdere la testa, s’essa in
que’ momenti non vagasse già nelle nuvole, sognando ora l’applauso, ora i fischi, l’1 d’aprile 1871 rappresentavasi al teatro Pantera la sua commedia, e poche volte fu visto quel teatro così affollato. Grandissima pertanto l’aspettativa, varii i prognostici; tutti
concordi nel riconoscere l’ingegno dell’autore, ma
non così tutti egualmente si fidano delle sue idee politiche. E mentre i più temono tirate fuor di luogo e
pericolose, a taluno invece non parrebbe vero che ve
ne fossero e di quelle veramente scottanti! È un’ansia
per tutti. Però e gli uni e gli altri s’ingannano; l’opera
del nostro autore non è una cosa improvvisata, non è
uno sfogo giovanile di un volgare scrittore, ma sì
l’opera di un giovane d’ingegno, di uno scrittore serio; è l’opera d’arte non priva di difetti, ma che tutti
coloro che hanno ingegno e buoni studi, e che si sentono disposti a scrivere per il Teatro, vorrebbero averla scritta come primo loro saggio della difficil’arte. E gli esagerati timori e le pazze speranze
presto si dileguarono, e l’uomo politico, l’ardente garibaldino, il repubblicano disparve dinanzi a gli occhi
e alla fantasia degli spettatori per non rimanervi che
lo scrittore; e gli applausi scoppiarono spontanei, fragorosi, unanimi e ripetuti sì che il nostro amico,
l’eroe di Digione, tremante come un fanciullo e trascinato quasi a forza da’ comici soddisfatti, dové più
VITA DI T. STROCCHI
CXXII
volte presentarsi al pubblico. La commedia fu ripetuta per più sere.
Dopo le rappresentazioni fatte a Lucca, la commedia Volti e Maschere di Tito Strocchi fece il giro
della maggior parte de’ teatri d’Italia e ovunque fu
sempre applaudita. Un vero trionfo l’ebbe a Pisa,
presente l’autore che ne lasciò scritto: « Quanto mi
furon cari quegli applausi… Pisa è città che io amo
per le dolci rimembranze che mi suscita, per la vita
beata che io v’ho passato per tre anni e mezzo. E
questo primo e colossale successo me la rese più cara. Ognuno faceva a gara per conoscermi, tutti si ricordavan di me, e antichi compagni d’arme nella
campagna del 1866, e caffettieri , e vecchi scolari, e
vetturini, d’ogni condizione; e io umile in tanta gloria assaporava, lo confesso, questa prima aurora di
popolarità e di gloria. E la gloria e la popolarità sono
un frutto come quello del lago Afaltide, colorato al di
fuori di brillanti colori, rosei, aurei e pieno al di dentro di cenere. Lo appressi alle labbra desioso, stringi,
mordi, amarezza e cenere. Tale la gloria e la popolarità. Cose gratissime, non nego, che commuovono
l’anima, che fanno piangere dolcemente, che ti compensano spesso d’ogni dolore sofferto, ma che in fine
dei conti non hanno in se stesse niente di vero, niente
di saldo e che ti lasciano poi come ti trovano. È una
specie di ebbrezza, simile a quella prodotta dal vino,
eccita, stordisce e stanca. Durante quell’ebbrezza
l’uomo si sente sollevato al di sopra di se stesso e
degli altri, pieno di energia e di buona volontà; è felice. Ma quei vapori svaniscono, quei fumi si dissipano, l’energia fittizia cade con essi, e cosa resta? niente. – Fumo di gloria, ha detto Giorgio Sand, non vale
fumo di pipa. È vero! Intendiamoci che io parlo per
VITA DI T. STROCCHI
CXXIII
conto mio e per la mia piccola gloria, ma petite glorire a moi; parlo di quella gloria che per quanto piccola, è per me cosa nuova e straordinaria, cosa che finalmente tutti non hanno provata.»
Ma non è anche cessata l’eco degli applausi pei
suoi Volti e Maschere, ch’egli ha già pronta una seconda commedia dal titolo Amore. La donna, lasciò
scritto Tommaseo ne’ suoi Pensieri morali, educa,
diverte o perverte; e da questo proverbio il nostro
amico trasse il concetto del suo nuovo lavoro drammatico, concetto che svolse in modo vario e interessante in cinque atti pieni di ardimenti e di spirito,
senza però perder mai di mira il fine morale propostosi. E, cosa mirabile di fecondo ingegno come il
suo, la scrisse in pochi giorni, dal 13 maggio al 4
giugno, spintovi un po’ da quella confidenza in cui si
trovava per il lieto successo della sua prima commedia, ma più dalle strettezze finanziarie nelle quali
versava da mancargli perfino il pane quotidiano. Tanto che riandando que’ giorni, sempre meno tristi di
quelli che lo tormentarono poi, scriveva:« Era quella
per me una bella primavera, primavera dell’ingegno
da cui avrei potuto togliere grandi frutti se le sventure
sopravvenute, la tristezza, la miseria delle condizioni,
la incertezza del vivere non mi avessero abbattuto,
paralizzata ogni mia energia, ridotto ad un tratto impotente!»
Frattanto la Compagnia drammatica Pezzana da
Pisa s’era recata a Firenze e recitava all’arena Goldoni. Ne’giorni 7, 8,e 9 giugno vi aveva rappresentato Volti e Maschere e con ottimo successo: con i soliti applausi; con le solite chiamate al proscenio. Sicché migliore occasione non si poteva presentare al
nostro autore per porre in iscena la sua nuova com-
VITA DI T. STROCCHI
CXXIV
media; e senza indugio ne consegnava al Pezzana il
manoscritto, proprio senz’averlo nemmen corretto,
senza verlo fatto leggere ad anima viva, pur riputando questa sua commedia migliore di Volti e Maschere: lo spronava a far presto il bisogno, la necessità di
guadagnare qualcosa per vivere! E sotto questi auspici il 9 se ne incominciarono le prove; e come pe’ Volti e Maschere, così per l’Amore si dovettero adoprar
le forbici, onde ridurre il lavoro ne’ limiti delle esigenze teatrali; ché di soverchia lunghezza peccaron
sempre gli scritti tutti del nostro amico, perché oltremodo fecondo d’idee e di pensieri e facile di parola , perché nemico del correggere e poco paziente
nell’usar della lima! E i tagli che vi furon fatti così ad
aocchio e croce, riuscirono com’era naturale in massima parte vere e proprie storpiature a danno della
chiarezza e dell’effetto: si tagliava, si tagliava per accorciare, né il tempo corto consentiva di correggere e
rifare; quindi guastata nella giusta proporzione delle
sue parti, l’opera dové molto perdere dei suoi pregi
artistici. E in tal modo fu rappresentata la sera del 15
giugno in Firenze, con grande aspettazione, con un
teatro affollatissimo di pubblico scelto, ove brillavano i più noti letterati e i più noti rappresentanti della
stampa giornalistica.
Nonostante però i tagli fatti la commedia riuscì
assai lunga; se ne cominciò la rappresentazione alle
otto di sera e finì dopo la mezzanotte. Pure
l’attenzione del pubblico non si stancò mai; si mantenne vivissima fino all’ultimo, né mancarono gli applausi e le chiamate al proscenio. La commedia fu ripetuta il giorno dopo, ma in generale non piacque e il
successo non fu pari alla prima. I giornali tutti per altro ne parlarono e con serietà, e le critiche fatte torna-
VITA DI T. STROCCHI
CXXV
rono a grande onore del giovane nostro poeta. Tanto
che se non mi fossi proposto di dar qui soltanto un
cenno delle opere edite e inedite di Tito Strocchi, riserbandomi a fare un’estesa bibliografia in
un’appendice a parte, mi cadrebbe in acconcio il ricordare e trascrivere molti brani di rassegne pubblicate in prova di quanto dico, non che il dimostrare
come ei non sdegnasse questa critica, anzi ne accogliesse gli appunti fatti con deferenza propria di chi
sa di valere qualcosa, ed ha la coscienza di poter far
meglio, ammaestrato dall’esperienza e dallo studio
continuo. L’appunto principale che gli venne fatto fu
quello di aver riprodotto nella donna, con una certa
compiacenza da Mefistofele, gli angeli decaduti piuttosto che quelli incontaminati, ciò che a mio credere
non è tutto vero, come egli stesso prese a dimostrare
difendendosi in una prefazione a me diretta e che aveva in animo di stampare insiem con la commedia
rimasta poi inedita. Vi sono è vero in questo suo lavoro drammatico delle scene che ti rappresentano la
Società al nudo, scene come dissi piene di ardimenti,
ma son anche scritte con sì squisita arte da apparire
opera non di un giovane, ma di un provetto e grande
scrittore. Ciò che fe’ dire nell’appendice del giornale
l’ « Opinione » al severo D’Arcais: lo Strocchi corre
sempre sul filo di un rasoio e non si taglia mai!..
Un gran dolore lo colpì in questi giorni « e tanto
più grande » egli dice « che seppellito nel cuore, nessuno lo conoscerà mai, tranne coloro che me lo cagionarono». E dovett’essere grande davvero, perché
tornato in Lucca il 23 luglio oh! com’era cambiato;
avresti detto che fosse venuto meno in lui perfino
quell’entusiasmo per la patria, per la libertà e per
l’arte che formava tanta parte di sé, e che sempre a-
VITA DI T. STROCCHI
CXXVI
vevalo reso superiore alle molte traversie della vita.
Così, a chi non sapeva darsi ragione di cotesto suo
improvviso abbattimento morale, a chi ripensando
alle recenti festose accoglienze che da’ numerosi amici erangli state fatte al suo ritorno dalla Francia,
non che agli applausi, a’ trionfi recentissimi ottenuti
su le scene del teatro di Lucca, di Pisa, di Firenze co’
suoi Volti e Maschere, a chi lo interrogava su la cagione di cotesta sua tristezza, rispondeva: «che volete?.. il dolore dell’anima uccide lo spirito!..»
Né io alzerò ora quel fitto velo dietro del quale
e’ volle che rimanesse celata a tutti la vera e principale cagione del suo immenso dolore; e dico principal cagione, perché ad inacerbire maggiormente la
piaga del suo cuore contribuì allora e non poco anche
un forte disinganno patito. Amava il nostro Tito una
bella fanciulla e si sentiva felice; « era tanto tempo »
diceva « che il mio cuore sempre assorbito dalle
grandi passioni dei patria, di libertà, aveva dimenticato di battere solo per sé dolcemente!» Pure anche
questa sua dolcezza eragli di tanto in tanto turbata dal
segreto presentimento che quell’«angelo» non sarebbe stato suo. Difatti dopo un’ardente dichiarazione
fattale, quella bella fanciulla si disse pronta a qualunque sacrificio per lui, ma ad un patto; che tornasse a
credere com’essa credeva; ché « tu pure » dicevagli «
sei nato cattolico!..» Né per quanto egli si adoperasse
per persuaderla che era vittima di un volgare pregiudizio a nulla valsero le sue argomentazioni; e rispondeva: « e come potrei io amare un uomo che rinnega
la sua fede? » Quell’anima vergine, non ancora sfiorata dal dubbio, si sentiva solo atterrita dall’idea di
doversi unire per sempre con chi non partecipava alle
dolcezze del suo ideale, non divideva le sue aspira-
VITA DI T. STROCCHI
CXXVII
zioni celesti, non si scaldava della stessa fede, con
chi insomma aveva ben altro concetto della Vita; e
senza più respinse la sua mano. Ma se la cieca fede
rese irremovibile dal suo proponimento l’onesta fanciulla , anche la pura ragione non tradì il nostro amico che posto così tra la coscienza e l’amore non titubò un solo istante. Sicché poi con una certa compiacenza scriveva: « Io sono stato degno della causa
per la quale combatto e mi sono sentito forte, ho vinto. Ma ahimè a qual prezzo!.. Sono nato all’infelicità
e devo sopportare fino in fondo il peso che spontaneamente ho assunto… Soffri, soffri, povero mio cuore! ».
Ora se allo strazio dell’anima sua per la malvagità degli uomini e l’avversità de’ tempi, aggiungi
anche la sempre peggiorata condizione finanziaria
del povero padre suo, che da solo e con la sua industria più non bastava al sostentamento della famiglia;
al crescente urgentissimo bisogno ch’e’ sente di dovere abbandonare la casa paterna per non essere più
di aggravio a’suoi e campare del proprio lavoro, facilmente comprenderai lo scoraggiamento in cui cadde, e come venuta meno in lui ogni fiducia di sé, diffidasse delle sue forze così da non poter poi nemmeno corrispondere all’impegno che aveva assunto con
Giuseppe Mazzini; di scrivere cioè per la Roma del
Popolo, periodico di molto valore, che pubblicavasi
in Roma e che era non solo ispirato, ma scritto nella
sua parte polemica da quel grande Atleta del pensiero
italiano. « Tanto furono gravi le tristezze, scrive il
nostro amico, e la noia che mi vinsero per un anno,
cioè finché quel giornale seguitò a pubblicarsi, che
io, con tutto il desiderio che aveva di accondiscende-
VITA DI T. STROCCHI
CXXVIII
re a ciò che da me bramava l’uomo che più abbia venerato sulla terra, non scrissi per quel giornale nulla1.
1
Giuseppe Mazzini scrisse di questo tempo quattro lettere
a Tito Strocchi. La prima non fu da lui ricevuta; le altre
tre, rinvenute fra le sue carte, le trascrivo qui, perché ancora inedite e perché, secondo quel ch’io penso, nulla dovrebbe rimanere sconosciuto per la storia di ciò che scrisse e operò quel grande intelletto. Poi di quanto onore non
sono pel nostro amico, se da esse apprendiamo che Giuseppe Mazzini reputavalo capace più di molti altri giovani
e di cuore e di mente a scrivere pel suo giornale delle cose
di Francia e della parte che vi ebbero gl’Italiani durante la
guerra del 1870? – Eccole:
"Fratello
Vi mandai tempo fa una mia da Milano: vi giunse? Io vi
chiedeva un lavoro che probabilmente per ragioni diverse
non potevate fare. Ma questo importa meno dell’altro motivo che m’indusse a scrivervi. Aveste la lettera? E se
l’aveste,perché non mi rispondeste? Siamo com’eravamo
prima o non siamo? Potrei se occorresse mai un giorno far
calcolo su voi per le cose nostre? Questo è ciò che stimandovi come meritate, mi preme sapere.
Quanto alla Roma del Popolo non ho bisogno di dirvi che
s’anche non potete fare il lavoro indicatovi, sarò lieto se
scriverete qualche cosa per essa. – Scrivetemi all’indirizzo:
Sig. Raffaele Rosselli, Palazzo della Posta Livorno. Le lettere
mi giungeranno dovunque io sarò.
27. 6. 71
Vostro sempre
Gius.
“Fratello
Mi duole della lettera smarrita. Non vi era cosa, ch’io ricordi,
compromettente. È tardi per ciò ch’io vi chiedo. Era un sunto, in parecchi articoli s’intende, della parte che ebbero
VITA DI T. STROCCHI
CXXIX
Sì, il nostro Tito ha ormai deciso di abbandonare
Lucca, ché vivere in casa a spese di suo padre non
vuol più, né potrebbe più. Ma dove andare? Che farà
egli fuori di Lucca? Avendo finito il tempo necessario per le pratiche di avvocato, egli potrebbe dar
l’esame, esercitare la professione; ma a lui occorrono
gl’Italiani nelle cose di Francia per la Roma del Popolo. Era
certo di averlo da voi scevro di entusiasmo per Francia e
d’ire esagerate e scevro della cieca ammirazione per ogni
starnuto di Garib. O per ogni colpo di fucile d’un italiano,
ma colla debita lode al di lui genio e all’intrepidezza e capacità di sacrificio italiano. Avreste anche avuto campo di accennare alle piaghe della Francia e ai doveri dei nostri verso
il loro paese che essi sembrano generalmente credere – e me
lo provarono pur troppo in Gen. Mil. e altrove prima del
mio soggiorno in Gaeta – inferiore in fatto di elementi alla
Francia mentr’io lo credo superiore ad essa pel popolo della
città. Quando io vi richiedeva di questo lavoro non v’erano
che i ragguagli di Beghelli e di Bizz. Le loro eterne colezioni,
enumerazioni di sigari fumati, ed oggi v’è il lavoro della Mario più serio e quello del Socci che non ho veduto. Forse
non sarebbe tardi se il lavoro si convertisse in una specie di
rivista di quei lavori, Di questo vedete voi. Ma quello o altro
sarei lieto di vedere il nome vostro di tempo in tempo nella
Pubblicazione fondata da me. Del resto era certo della vostra risposta. Ora ogni discorso sarebbe prematuro: è necessario che sorga un’agitazione qualunque. Ma da una proposta papale di Francia, da una vigliaccheria del Governo o da
altro può escire. Allora farò di parlarvi. Intanto tenete i giovani fermi al fine e raccolti in piccoli gruppi e possibilmente
armati. Val meglio che infuriar a parole sul Comune come
fanno taluni dei nostri. Sono lieto pei vostri trionfi. Saranno
stampate le vostre Commedie.
Vostro sempre
Gius
VITA DI T. STROCCHI
CXXX
per prepararvisi almeno tre o quattro mesi di studio:
dal giorno in cui prese la laurea non ha più aperto un
libro di scienza legale! Frattanto il problema del come campare la vita durante questo tempo gli sta dinanzi minaccioso, terribile come la fame; sicché bisogna pur prendere un partito, bisogna decidersi. E il
9 di settembre ricevute dagli amici di Massa ducale
trecento lire partiva da Lucca con la sorella Livia per
Firenze deciso di prender ivi dimora, come difatti ve
la prese. Tanto che da quel giorno può dirsi ch’egli
abbia vissuto quasi interamente fuori della sua città
natale, lontano da’ suoi e sempre povero e infelice. «
Se io avessi potuto essere avvocato in quei giorni, egli ci dice, forse la mia sorte sarebbe stata diversa.
Non aveva ancora provato i mille imbarazzi del dover vivere senza risorse, avevo conoscenze, amicizie
ed avrei potuto procurarmi in qualche città lavoro
stabile che ora sarebbe stabilissimo; ma costretto a
lanciarmi in un avvenire ignoto consumai la mia energia, tutte le probabilità di fortuna, nella forzata
impotenza… Solo io so quanto fosse terribile questa
circostanza che m’imponeva di partire, di avventurarmi in braccio all’incertezza, come un naufrago sopra una zattera col pane che gli possa bastare per due
giorni. E poi?..»
Presa istanza a Firenze, egli ben presto acquistò
sulla gioventù democratica fiorentin quell’ascendente
cui poteva giustamente ambire pel suo ingegno e pel
suo noto patriottismo. E ch’egli allora prevalesse su
molti fu la sua fortuna, perché non solo si mostrò
sempre tra’ più attivi nell’efficace apostolato repubblicano, ma in diverse occasioni riuscì anche a trattenere le esorbitanze di coloro che invasata la mente
delle nuove idee socialiste che avevano procurato alla
VITA DI T. STROCCHI
CXXXI
Francia i tristi giorni della Comune, s’erano distaccati
dal partito mazziniano. Il quale per essi rappresentava
la moderazione della Repubblica; dacché lo stesso
Mazzini con santo ardore, con forza d’argomentazioni
e splendore di forma inarrivabili aveva preso a combattere nella Roma del Popolo le teorie
dell’Internazionale, reputando il grande italiano suo
dovere, già che n’era in tempo, di far conoscere ai
molti illusi tutto l’inganno di quell’errore generoso, di
quell’eroismo sviato, perduto per deficienza nel fine,
tutto il pericolo insomma che le loro medesime aspirazioni correvano gettandosi ad un tratto dietro una
bandiera che non rappresentava altro che una materiale conquista di beni, di guadagno, altro che una nuova
tirannia innalzata sulle rovine della vecchia tirannia;
dietro una bandiera, un programma, che, com’egli dice, se trionfasse « riuscirebbe egualmente funesto
all’avvenire delle classi operaie e al Progresso generale, dal quale quell’avvenire non può scompagnarsi:
tentando da un lato a separare la questione sociale dalla politica, ciò che vale sopprimere il campo sul quale
potrebbe inalzarsi il nuovo edifizio , dall’altro ad inaugurare un’insana guerra tra il lavoro e il capitale,
mentre unica via a risolvere il problema è per noi
l’associazione tra que’ due eterni elementi di produzione.»
E il dissidio sorto fu serio e doloroso in modo
che per un momento parve proprio fosse riuscito a far
quello che non era mai riuscito fare a’ moderati; a
scindere vo’ dire, a dividere il partito repubblicano.
Se non che il buon senso finì poi com’era naturale a
trionfare nuovamente, e il partito repubblicano tornò
ad essere unito e compatto: e mentre in Italia i principi dell’Internazionale non trovano buon terreno per
VITA DI T. STROCCHI
CXXXII
esservi coltivati, le dottrine politiche e sociali di Giuseppe Mazzini sono ancora il programma della gran
maggioranza dei repubblicani;… e dico le dottrine
politiche e sociali, perché purtroppo il numero di coloro che dissentono dalle dottrine filosofiche e religiose di Giuseppe Mazzini va ogni giorno di più aumentando. Peraltro s’ingannerebbe chi credesse cotesti repubblicani dissidenti, seguaci di quel razionalismo scettico che non ha entusiasmi, né conosce virtù
di sacrificio; scuola atea e realista! « Io non vorrei
ammettere nessuno Iddio, dice il nostro amico, nemmeno quello di Mazzini, ma neanche vorrei lo scetticismo dell’anima, poiché comprendo che dopo aver
riso d’Iddio si riderà della patria e della virtù. Io vorrei combattere pel razionalismo, ma coll’ardore di un
fanatico religioso; vorrei che la fede nella libertà, nella verità, nell’amore, nel bello riempisse la coscienza
di tutti e fosse essa stessa la nuova religione ».
In Firenze dunque il nostro Tito vive, se non lieto come avrebbe potuto, se si fosse trovato in migliore condizione, certo un po’ meno peggio di quel che
vivesse a Lucca. Dinanzi a que’ superbi monumenti
che gli ricordano la potenza e la gloria del popolo
fiorentino, che gli ispirano nell’anima alti sensi di libertà repubblicana, e’ si sente quasi direi rinato a
nuova vita, e il fuoco del suo apostolato, della sua fede si riaccende in lui; sicché lavora e spera… e spera
anche in un migliore avvenire per sé e per la sua diletta sorella. Frattanto studia per prepararsi all’esame
di libero esercizio come avvocato, deciso ormai di
darlo appena può, e scrive per l’Italia Nuova, giornale passato al partito democratico quando il Bargoni,
che n’era direttore e proprietario, lo cedé per andare
prefetto di Pavia; e da questo ritrae appena tanto da
VITA DI T. STROCCHI
CXXXIII
campare miseramente. E così miseramente che invitato dagli amici di Carrara a recarsi colà per assistere
la sera del 23 gennaio alla rappresentazione de’ suoi
Volti e Maschere, già ripetuta per più sere in quel teatro dalla compagnia drammatica diretta da Luigi Pezzana, risponde di non poter aderire al cortese invito
per più e diverse cagioni. Né ci sarebbe andato, se
quegli amici, indovinando la cagion vera ed unica del
suo non possumus, non gli avessero mandato in tempo il denaro necessario pel viaggio.!
Ecco quello che sotto questa data trovo scritto in
un suo taccuino e che ci rivela lo stato vero
dell’animo suo: « 23 gennaio 1872, ore quattro pomeridiane.- Anno passato a quest’ora le fucilate piovevano intorno a me, presso a Digione. Era una terribile posizione; i prussiani ci avevano circondati e ci
minacciavano a pochi passi; io scaricava incessantemente la mia carabina e vedeva la morte cogliermi di
momento in momento. Più tardi la bandiera del 61°
fu conquistata e tornai a Digione lieto, mangiai e
dormii felice come quando fanciullo, mi addormentava nel grembo di mia madre. – Ed oggi? Ho molte
ragioni di tristezza, ne avrei anche molte di conforto,
di gioia, eppure vorrei esser là fra quelle tempeste di
piombo; e se vi fossi, chi sa? Forse cercherei la morte…- 23 gennaio 72, ore otto. – Piove. Il vapore corre
dall’Avenza a Carrara; piove dirottamente e l’acqua
batte sui vetri del Wagon assai tristemente. Vado a
passare una sera felice, eppure non sono allegro…
Oh come rideva volentieri pochi anni or sono, ora
non so più ridere…»
Dopo aver assistito nel teatro di Carrara alla
rappresentazione della sua commedia, Volti e Maschere e riportato un nuovo trionfo drammatico, tor-
VITA DI T. STROCCHI
CXXXIV
na a Firenze ove gli viene partecipato che il presidente della Corte d’Appello di Lucca gli ha accordato di
poter dare l’esame ne’ giorni 22 e 23 marzo. Sicché,
ottenuto quello che aveva domandato e desiderato,
deposta ogni altra cura, si dà a studiare con maggiore
assiduità per prepararsi meglio che può, sentendo urgente bisogno di diventare avvocato nella speranza di
potere con l’esercizio della professione guadagnare
almeno tanto da poter vivere. Ma ecco che anche in
questo momento una nuova sventura lo coglie come
coglie tutti i veri patrioti italiani. La morte di Giuseppe Mazzini avvenuta il 10 marzo a Pisa, dove nessuno o ben pochi sapevano che si trovasse ammalato
da quasi due mesi, fu tal ferita pel suo cuore che lo
distolse da’ suoi studi così, che l’esame gli arrivò addosso senza manco averci più pensato. Erano scorsi
appena ventidue giorni ch’egli aveva ricevuto da
Mazzini una lettera che vinceva ogni altra per opportunità di consiglio e calore di affetti 1; e ripensando a
1
(1 di p. 7) Pubblico anche questa lettera essendo rimasta
inedita come le altre due; poi perché, come dissi, le lettere
scritte da Giuseppe Mazzini a Tito Strocchi non vadano
perdute per la storia politica d’Italia, quando sarà scritta con
animo veramente scevro da spirito partigiano; il che non sarà tanto presto per l’umor de’ tempi che corrono.
“Fratello,
Ricaduto malato non posso scrivervi a lungo; ma mi
fu cara la vostra e vi ritengo sempre come uno dei migliori e
più fedeli repubblicani che abbiamo. Se, scossi come Lazzaro dal sepolcro – non ci vuol meno – gl’Italiani accennassero
a cosa degna e vedessi ognora possibile, non dimenticherei
certo voi.- Voi già sapete la mia opinione sul congresso proposto: riuscirà di scandalo e danno. Quanto ai principii sapete
VITA DI T. STROCCHI
CXXXV
quella e al desiderio ivi nuovamente espresso di veder pubblicato nella Roma del Popolo qualche suo
scritto se ne rammarica e ne sente il rimorso. «Egli è
morto, dice, «desiderando da me una cosa che io non
ho fatto! Ed avrei data la mia vita per lui.» Tanto che
a sfogo dell’anima sua addolorata scrisse poi sulla
perché: ogni insana parola pronunziata sarà arme agli avversi
che la diranno espressione del partito a impaurire gl’ ignari.
Quanto all’azione, non può produrre risultati. Quanto
all’unione non v’è che l’azione che possa darla. In me, non
vedo che una via. Garibaldini o non Garibaldini dovrebbero
lasciare in pace l’individuo, unirsi nel programma repubblicano, prepararsi seriamente con un ordinamento di nuclei ed
atti a cogliere l’opportunità di un’agitazione popolare che
potrebbero cercare di suscitare o che sorgerà impreveduta.
Allora avrete, non dico me – non v’è bisogno di dirlo – ma
Garib. E nell’azione saremo uniti. Fin là non congressi, né
troppe ciarle, ma apostolato con tutti i nuclei d’operai coi
quali ciascuno di noi può avere contatto e far loro intendere
ragione sulla questione politica. – Ma questo è affare di coscienze. – Voi l’avete e retta. Solamente, in ogni caso, riconsigliatevi sempre con essa. Voi non potevate attendere al lavoro che io vi aveva suggerito per la Roma del Popolo, ma sarei stato lieto se aveste anche per una volta sola, o con altri
vostri lavori scritto qualche cosa per essa. Avrei desiderato
che le sue colonne avessero raccolto il nome di tutti i buoni
e capaci. Farete quello che Dio v’ispira. Io non voglio insistere. Le determinazioni hanno ad essere spontanee.- Io lavoro – a modo mio. Se mai venissi a capo di cosa che abbia
importanza e probabilità chiamerei all’azione quei che stimo
e voi siete fra quelli. Se no, farà presto o tardi chi rimarrà.
Sono sfasciato, assalito in ogni parte del mio organismo; ma
finché vivo abbiatemi qual mio conoscente e fratello.»
GIUS. MAZZINI
16. 2. 72.
VITA DI T. STROCCHI
CXXXVI
morte del grande italiano pagine eloquentissime che
vorrei qui tutte pubblicare, essendo rimaste inedite,
se non temessi di dilungarmi troppo, avendo già e di
molto oltrepassato i limiti che mi erano stati assegnati.
Pure non posso non trascriver quella pagina nella quale e’ ci descrive il momento quando in Pisa si
trovò dinanzi alla salma di lui, pagina che non ho potuto leggere senza lagrime, convinto di far cosa grata
a quanti tennero Giuseppe Mazzini in quell’alto concetto che meritava, e serbano anche oggi venerata
memoria di lui, che tutta la vita spese pel bene della
patria e dell’umanità. « Era la prima volta, scrive Tito
Strocchi, ch’io lo vedeva e lo vedeva morto!... Entrai… non dirò quello che provai; tutto il sangue mi
rifluiva al cuore ed i miei occhi erano fissi su lui…
Avrei voluto baciarlo; esser solo con quel cadavere,
senza tutti quelli che sospingevano, che volevano
passare… Oh fra tutti costoro v’è uno che l’abbia
amato come me e che come me ne serbi nell’anima le
reliquie della memoria?.. Egli era steso sopra un lettuccio, pallido e severo, come cosa immortale; la
barba bianca, la fronte… oh la fronte maestosa come
un tempio di granito. Si vedeva che colà aveva abitato il genio, ed i suoi occhi erano chiusi ad un sonno
che non ha mattina. Era coperto da un modesto scialle bianco e nero a strisce, che mi dissero avesse portato in vita e su quello scialle avevano attaccato un
piccolo nastro coi tre colori d’Italia: i suoi tre colori.
Io credeva che Egli non dovesse morir mai!... Che
cosa potrei dire io? – Io lo guardava e non aveva pure
il coraggio di guardarlo. Mi parve che fosse l’Italia
morta; la patria nel sepolcro. E quella mano ora fredda ed immota aveva ventidue giorni prima scritto una
VITA DI T. STROCCHI
CXXXVII
lettera a me, scritto il mio nome… Che cosa avrà Egli pensato di me?... Mi avrà amato, sarà stato convinto dell’amore ch’io gli portava, avrà creduto ch’io
volessi qualche cosa di più di altri?... - Sì, egli me lo
disse… Uscii dalla stanza. Ora lo rivedrei contemplandolo a lungo, allora non potei. Mi doleva il cuore
come duol la testa se prende l’emicrania…»
Spunta il sole del 22 marzo, ed ecco finalmente
il nostro Tito alla prova… non del fuoco, ma della
dabbenaggine umana, per mostrare urbi et orbi
ch’egli è proprio degno degnissimo di vestire la toga
dell’avvocato, e capace di difendere il diritto offeso,
nell’interesse del privato cittadino e della società.
L’esame… questa gran pietra del paragone per assaggiare gli uomini e vedere se sono dotti o ciuchi!...
Quand’io penso agli esami e al tono con cui si danno,
principiando dalle scuole elementari comunali per salir su su fino alla laurea dottorale nelle università regie, mi vien proprio da ridere, o per essere più sincero dirò mi fa quasi ira. Perché, e per l’esperienza fatta
da me e per quella fatta da altri ho dovuto convincermi che, se gli esami sono sempre una superfluità,
una cosa inutile, spesso son anche un inganno, una
mistificazione. L’esame poi che si dà a’ dottori in
legge, appena fatte le pratiche, per poter liberamente
esercitare la professione d’avvocato o di procuratore,
è cosa davvero ridicola se non indecorosa per la
commissione esaminatrice e per il candidato che, fatte rarissime eccezioni, dalle quali generalmente non
riescono i migliori professionati, non torna scolare
per nulla; memore del passato egli ribatte la vecchia
via… pur di andare innanzi e conseguire lo scopo,
pur di raggiungere la meta.
VITA DI T. STROCCHI
CXXXVIII
Volete aver la prova di quanto asserisco? Udito
il nostro amico, e ab uno disce omnes. « Non sono
più scolare, egli dice, ma tale diventa ogni uomo che
debba prendere un esame; quindi si procura ogni
mezzo perché gli esami scritti non debbano essere
che una mistificazione. Così fanno tutti, così faccio
io. - Il 22 vado al Palazzo ov’è la Corte; mi rinchiudono in una stanza. Il Cancelliere mi riceve, un giudice mi presenta le due tesi, civile e criminale da
sciogliere durante la giornata, quindi sono lasciato
solo e la porta è ben guardata. Io copio le tesi sopra
due piccoli pezzi di carta ed aspetto che il cameriere
di casa mi porti una bistecca per colazione. Sembra
che quella bistecca debba darmi l’ispirazione. Intanto
ho tratto di tasca un coltello… Per far che? Si direbbe
che io disperato volessi uccidermi. Oh!... È un coltello da tavola. Il manico si svita dalla lama ed è vuoto
nell’interno. Entro quel vano pongo le due tesi, poi
ripongo il manico al suo posto, divoro la bistecca, poi
al cameriere cui ho detto di aspettare ordino che porti
via i piatti, le posate e soprattutto quel prezioso coltello. Poi passano le ore, fumo, leggo, scarabocchio
della carta, mi provo a risolvere da me la tesi penale,
ma aspetto con impazienza l’ora del desinare… e non
ho fame.
- Ebbene? Dice un Vice Cancelliere entrando,
lo**, un uomo rosso di pelo come una carota, tutto
gentile e manieroso.
- Eh, è quasi fatto. Aspetto di aver desinato per
dar l’ultima mano!
« Alle quattro giunge il pranzo; io non guardo se
vi siano carni, guardo se vi sia un coltello. Son solo;
prendo il coltello, lo svito, traggo due fogliolini in
VITA DI T. STROCCHI
CXXXIX
cui le tesi sono scritte, ripongo su quel tavolo il primo coltello, e quello misterioso rimetto in tasca.
Quindi le copio, ed ecco fatto…»
Le due tesi, com’era naturale, furono approvate
e il 23 il nostro amico vestito di nero, frack e cravatta
bianca come un invitato a Corte… o come un cameriere, si presenta per dare il suo esame orale. « Tremava come una foglia, egli racconta. Temevo che
quei signori coi quali avevo avuto che fare qualche
volta, ma in molto differente relazione, si volessero
mostrare severi verso lo scapigliato repubblicano che
si trovava allora sotto le loro unghie e mi potevano
imporre la umiliazione di un rigetto. Essi avrebbero
potuto facilmente imbrogliarmi con interrogazioni
equivoche e costringermi al silenzio con interrogazioni difficili… Ma furono, debbo confessarlo, gentilissimi, e parve avessero compreso che in quegli anni
di pratiche, io non aveva potuto studiar tanto fra le
campagne, le carceri, eccetera. M’interrogarono; risposi discretamente ed eccomi avvocato!»
Tito Strocchi è avvocato, ma la sua via crucis
non è ancora ultimata: a ogni passo ch’egli fa, sempre un nuovo ostacolo gli si para dinanzi, principalissimo la sua povertà e quella della sua famiglia. No,
non ha proprio modo di pagar subito la tassa governativa richiesta per poter essere iscritto sull’albo degli avvocati esercenti!.. Ma se a lui per la mancanza
di poche lire è ora conteso di potersi presentare come
avvocato dinanzi al pubblico di un Assise, egli può
bene presentarsi come poeta dinanzi a quello di un
teatro, ed esservi applaudito. Al teatro Pantera si trova la compagnia drammatica diretta dall’artista Pietriboni. Un amico glielo presenta, pregandolo di dargli qualche sua poesia, avendo egli divisato di chiu-
VITA DI T. STROCCHI
CXL
dere le sue recite con una declamazione. Ma come
fare? Il nostro Tito ha lasciate tutte le sue carte a Firenze; il tempo per poter scrivere qualche cosa di
nuovo è troppo breve, la poesia dovrebbe esser consegnata per la mattina seguente. E… il soggetto? …
Pensa un po’ il nostro poeta, poi dà la sua parola. Egli aveva più volte meditato un soggetto per farne un
dramma: Sampiero d’Ornano, colpito da quella bella
figura corsa che sacrifica alla patria il suo stesso amore coniugale. Questo il soggetto; e in poche ore la
poesia è scritta. Sicché la sera del 25 gli applausi
scoppiarono fragorosi dal pubblico numeroso, e il
nostro avvocato poeta dové presentarsi sul palco scenico, quello stesso su cui si presentò la prima volta
come autore drammatico co’ suoi Volti e Maschere.
E, essendo in Lucca e godendo qualche giorno
di tranquillità, scrisse anche una nuova commedia
che intitolò Maria. Narrai ch’egli fu costretto a rinunziare alla mano di una bella fanciulla della quale
era perdutamente innamorato, piuttosto che tradire la
propria coscienza, ponendo essa per condizione al
matrimonio ch’e’ tornasse alla religione cattolica apostolica romana. Ebbene, da ciò il nostro poeta trasse l’argomento della sua commedia; nella quale purtroppo il concetto, la tesi, dirò così, vince l’intreccio
semplicissimo. « Non era tanto una commedia che io
volevo presentare, egli dice, quanto la dimostrazione
di una massima, quella cioè che l’onore, forte
nell’anima di un giovane libero, è veramente più onesto di ciò che si chiama religione, poiché questa ha
dei pregiudizi, ma non fortifica i principii, quello invece ha tutto il suo fondamento sulla verità e
l’onestà.» Maria è scritta in versi martelliani, e i colori smaglianti della poesia danno a’ suoi due atti
VITA DI T. STROCCHI
CXLI
quel non so che di piacevole e di attraente, che pel
fatto e l’intreccio così semplici non avrebbe forse altrimenti potuto avere. Provò poi tanto piacere nello
scriverla che in soli cinque giorni l’ebbe compiuta. «
Io scriveva quelle scene, e’ dice, con passione, perché quelli affetti sentiva in me. Ricordo che nello
scrivere le due scene d’amore, quella del primo atto
in cui è Oberto che soffre, e quella del secondo in cui
è Maria che piange, io era agitato, ispirato, e parevami di aver la febbre. Non ricordo di aver mai scritto
cosa alcuna prendendo tanta e così sincera parte al
soggetto. Mi pareva che fosse vero.»Difatti in cotesta
commedia, anche leggendola – perché non fu mai
rappresentata ch’io sappia – , tu trovi due pregi principalmente: la passione caldissima, che è azione
drammatica per eccellenza; la virtù che rifulge e
trionfa come stella, che è morale educativa – mezzo
quella e fine questa dell’arte.
Verso la metà d’aprile tornò a Firenze, ma per
pochi giorni, perché il 29 parte per Roma con incarico ricevuto da persona cui premeva regolare in quella
città alcune sue faccende. E parte avendo in animo di
rimanervi anche più del necessario per soddisfare
all’impegno preso, lavorando, ove necessità lo stringa, nell’ Italia Nuova che là ancora si pubblicava.
Roma! Qual fortunata occasione per lui, qual gioia il
poter rivedere l’eterna città non più prigioniero in
mezzo alle schiere francesi e pontificie, come dopo la
battaglia di Mentana, ma libero per liberamente poterne ammirare tutte le meraviglie!.. Sicché come rapito alla magica parola di Roma mentre vi è a poca
distanza, prende il suo taccuino e scrive: «Roma, io
non scriverò qui l’inno che mi sento traboccare dal
petto. Che cosa dovrei dire io che fosse degno della
VITA DI T. STROCCHI
CXLII
tua grandezza? Su queste pagine le mie parole ti ho
già rivolte, quando soldato per la tua libertà, io era
sotto le tue mura e contemplava scintillare ai raggi
del sole la cupola di san Pietro. Meglio di allora non
potrei parlare, perché quel fuoco che sentiva
nell’anima, stando appoggiato al mio fucile, non potrei avere adesso. Allora io era presto a vederti pagando colla mia vita tal sorte, ora vi sono giunto pagando con pochi franchi un biglietto della ferrovia.»
E l’entusiasmo aumenta in lui col volger de’ giorni,
colpito ogn’ora più dalla magnificenza di que’ monumenti, che narrano da secoli e po’ secoli la storia
di due civiltà, la pagana e la cristiana.
Trovandosi in Roma, e adunatosi ivi nella prima
quindicina di maggio il Congresso della Massoneria
italiana per essere Costituente all’invocate riforme, e
all’istituzione di un solo Grand’Oriente, egli
v’interviene quale rappresentante delegato della Loggia Dante e Unità di Catania. Ma non ne resta contento: egli avrebbe voluto vedere la Massoneria farsi
una buona volta associazione politica, ed essa invece
si ostina a voler rimanere estranea alla politica, adottando la massima, né politica né religione; programma puramente negativo, che doveva poi di necessità
ridurla all’impotenza, come tutte le istituzioni che
non vanno più collo spirito de’ tempi, che progrediscono, pe’ vecchi pregiudizi de’ suoi sacerdoti che
come tutti i preti di tutte le sètte religiose tengono
all’immutabilità del dogma. La beneficenza,
l’istruzione, il progresso, la libertà astrattamente considerata, indipendentemente da una forma politica
sono bellissime cose, non lo nego, ma non saranno
mai così efficaci da riparare al male che ci travaglia.
In tempi come i nostri, ove la lotta è viva e incessan-
VITA DI T. STROCCHI
CXLIII
te, bisogna combattere per vincere; e nulla oggi agita
il mondo più della questione religiosa, politica e sociale: il secolo nostro eminentemente democratico,
non mira che alla soluzione di questi grandi principii;
il problema della riforma è complesso. Sicché ogni
istituzione che non sia di spiriti retrogradi, deve necessariamente concorrervi e con tutte le sue forze.
Avanti, avanti sempre se non si vuol perdere il tempo
in inutili e vane apparenze!...
Non avendo altro da fare in Roma, né sapendo
come procurarsi i mezzi necessari per rimanervi più
lungamente, perché anche la speranza di lavorare per
l’Italia Nuova era svanita, conducendo quel giornale
vita così stentata da prevederne prossima la morte, il
17 maggio ritorna a Firenze. E vi giunge in tempo
per poter prender parte all’adunanza de’ rappresentanti della Democrazia toscana ivi convocati sotto la
presidenza di Federigo Campanella, allo scopo di
formare il fascio di tutte le associazioni democratiche
della Toscana, come già in Romagna s’era formato
quello delle società romagnole. E fu in
quest’occasione anzi, come già accennai, ch’egli da
convinto seguace delle dottrine politiche e sociali di
Giuseppe Mazzini seppe tener testa ad una minoranza
di seguaci delle teorie internazionalistiche che si opponevano all’adozione di un programma informato a’
principi della vecchia scuola repubblicana d’Italia:
tanto da meritarsi il plauso non solo del venerando
Maurizio Quadrio, del quale e’ dice « avrebbe voluto
darmi l’anima sua per comunicarmi la sua fede », ma
anche della grande maggioranza de’ convenuti, che
lo elessero poi a far parte della commissione direttiva
permanente.
VITA DI T. STROCCHI
CXLIV
Ed è in Firenze che il nostro Tito, sebbene si
trovi nella più sconfortante povertà, riprende
l’argomento del Sampiero d’Ornano e ci scrive su un
dramma in cinque atti e in versi; quadro dipinto a forti tinte, dove la verità storica de’ fatti è spesso sacrificata all’effetto drammatico, ma pur tale che ti rivela
il potente ingegno del giovane poeta, meglio forse di
tutti gli altri suoi lavori drammatici. Il 3 d’agosto
l’aveva compiuto, e nell’ottobre cercò di farlo rappresentare; ma non gli riuscì, quantunque uno de’ capocomici più intelligenti d’Italia gli lodasse il lavoro
e lo giudicasse di sicuro effetto per la scena, se rappresentato da un buon attore. Sicché anche questo
componimento del nostro amico rimase per molto
tempo, come vedremo, fra le sue carte, aspettando di
uscire alla luce di un qualche teatro, quando, indipendentemente da ogni merito artistico e letterario,
piacerà ad un capocomico di empire la sua cassetta di
biglietti, sfruttando il nome dell’autore; e più che il
nome suo di scrittore, quello di uomo politico, di garibaldino. Così volgono i tempi per l’arte in Italia,
così va innanzi e prospera il nostro Teatro drammatico. No, non è mai o quasi mai il merito intrinseco
dell’opera tua che ti fa largo, ma è l’orpello del tuo
nome, se per un verso o per l’altro ti sei acquistata un
po’ di fama!...
È detto popolare, ed è anche una verità fisiologica, che di poco si vive, ma non si vive di nulla! E il
nostro amico avrebbe dovuto col fatto dimostrare il
contrario, cioè di poter vivere anche con nulla, per
rimanere più a lungo tempo in Firenze; tutto ha tentato per fare qualche cosa e campare lavorando, e tutto
ha esaurito, mezzi e speranze!... Un bel giorno si trova possessore di cinquanta lire, guadagnate traducen-
VITA DI T. STROCCHI
CXLV
do per incarico avuto da Federigo Campanella un
lungo articolo di Giuseppe Mazzini scritto in francese, e di queste si giova per tornare a Lucca. Quivi però non vuol vivere disoccupato e va a’ Bagni di Lucca, invitato dagli amici, ma più attrattovi dall’amore.
Poiché è da sapersi che fino dal giugno, per una fortunata occasione, aveva là rinvenuta la donna del suo
cuore, colei che sarebbe stata indubbiamente la sua
sposa, se la morte non l’avesse colto prima di essersi
fatta una comoda posizione. La vide per la prima volta il 27 giugno, e da quel giorno l’amò; e così schiettamente e serenamente l’amò, ch’io credo di non
peccare d’indiscrezione riportando queste pagine delle sue memorie che sono a un tempo lo specchio fedele dell’animo suo, della nobiltà e santità de’ suoi
affetti.
«X***, ormai il tuo nome è pronunziato, e per la
prima volta è segnato su queste memorie. È questa la
prima volta ch’io ti vedo, eppure quanto questo giorno, quest’ora ha influito sulla nostra vita. La tua dolcezza, la tua modestia e il tuo volto gentile mi piacquero e teneramente mi scolpirono nel cuore la immagine di una sposa casta, affezionata, buona, dolce
sollievo alle amarezze della vita, ai tormenti e alle
lagrime della passione e della lotta. Tu mi sembrasti
una mammola nascosta fra le erbe del prato, un asilo
silenzioso e tranquillo, un palpito felice e sicuro, un
seno amoroso su cui avrei potuto quietare i miei affanni. – Non eri la bruna innamorata dai palpiti ardenti, presso cui si cerca l’amore e la voluttà, la passione coi suoi delirii, i suoi vaneggiamenti, le sue ebbrezze e i suoi disinganni e la sua stanchezza; non eri
la vampa che incendia, la rosa che inebria col suo
profumo, il cuore che si rompe alla piena di un affet-
VITA DI T. STROCCHI
CXLVI
to irrompente. Un tuo rifiuto non mi avrebbe fatto
impazzire o non mi avrebbe determinato a uccidermi,
ma mi sarei tristamente volto verso di te nel vederti
allontanare, come il pellegrino stanco che si rigetta
dall’ombra di un palmizio sotto cui ha sperato riposo
e ristoro. Tu eri la quiete dopo la lotta, l’amore sereno, onesto, lieto di se stesso, come raggio di sole
dell’alba; tu, la sposa onesta madre di figli, la sorella
dolce, il conforto alla noia ed al dolore, il bacio che
rinfresca la fronte e l’anima, il seno fido, il sorriso
dell’innocenza, tutto ciò che è vero, che è santo e vero sulla terra, tutto ciò non seduce, ma persuade, che
non inganna giammai, che non ubriaca, ma consola.
Né allora, né tutte le altre volte che io t’ho veduta, il
meno casto pensiero mi ha fatto nascere la tua gioventù e la tua bellezza; io non ho veduto in te che
l’amante fidanzata, l’amante che dovrà essere sposa.
E sarei geloso di me come di altri….X**, tu leggerai
queste pagine; tu sola a differenza di tutti, le leggerai
intere, poiché io non ho cosa alcuna a nasconderti.
Un giorno, se la morte non ci colpisce, tu sarai mia
sposa ed io ti racconterò tutti gli affanni della mia vita, e ti dirò quanto fosse dolce la speranza che mi
scese nel cuore, quando io guardandoti sentii quel
pensiero. Tu sarai allora sicura del mio amore e meglio che in queste pagine lo cercherai nel mio affetto,
nella mia tenerezza verso di te. – Io da quel giorno ti
ho amata e questo amore è andato sempre crescendo
come cosa naturale; io t’amerò sempre…»
Rimase a’ Bagni di Lucca fino alla metà di novembre, quando, pensando seriamente al modo come
mettersi in regola per esercitare la professione, tornò
in Lucca. Ma ecco ch’ivi di lì a pochi giorni lo colpisce una nuova sventura, e ahi! Come tremenda. Ugo,
VITA DI T. STROCCHI
CXLVII
uno de’ suoi fratelli minori, Ugo da lui amato tanto
per la dolcezza dell’animo e la vivacità dell’ingegno,
muore di diciannove anni consunto da tisi. Chi vide il
nostro Tito in que’ giorni oh, non può aver dimenticato l’immenso suo dolore: una cupa tristezza pareva
che gli pesasse sull’anima sì, da far temere e fortemente del suo avvenire. Non poteva darsi pace; non
gli pareva possibile che Ugo così giovane fosse morto! Tanto che anche dopo molto tempo così scriveva
di lui:«E mi sembra impossibile, quando ci penso,
che egli sia morto; mi sembra che ciò non possa essere. – E non so sopportare il dolore che mi penetra il
cervello quando penso a lui, quando io evoco la sua
immagine, la sua figura e mi sembra di sentirlo parlare, ridere, scherzare… Io non potrei respirare a pensarvi lungamente, e nello scrivere queste righe mi
sembra che mi dolga la testa. Feci stampare alcuni
suoi versi, come ricordo di lui; e spesso guardo i suoi
fogli, i suoi appunti, lavori giovanili, ma che facevano conoscere quanto sarebbe diventato robusto il suo
ingegno col tempo e colla istruzione, ed ogni volta
che vedo quelle pagine scritte da lui, que’ progetti di
lavori, di romanzi, di commedie che la morte troncò,
oh lo ripeto, mi sembra impossibile che egli sia morto e mi viene da piangere. Ugo, fratello mio, sei tu
proprio nulla? Oh purtroppo, io non ti vedrò più. Ho
dimenticato mia madre, perché era troppo fanciullo
quando elle morì, ma te non dimenticherò mai. Io avrei dovuto morire prima di te.» E a queste meste parole, succedono pagine di fuoco: egli delira e …
spossato grida: « abbiate compassione di me! »
L’anno 1872 passò dunque pel nostro Tito triste
come i precedenti. E il nuovo anno? In Spagna ferve
la guerra fra la Repubblica e don Carlos: dapprima e’
VITA DI T. STROCCHI
CXLVIII
vuole andarvi per arruolarsi nelle truppe repubblicane, ma poi si trattiene pensando che la Spagna può
fare anche senza di lui, e ch’egli non deve buttarsi
così allo sbaraglio in ogni avventura. E poiché G. P.
di Collodi, un brav’uomo, un vecchio patriota amico
suo e della famiglia gli è stato garante con la sua firma ad una cambiale di quattrocento lire, paga la tassa
per poter esercitare la professione, fa tutte le altre
spese di cui non può fare a meno avendo bisogno di
tutto, e finalmente eccolo iscritto sull’albo degli avvocati esercenti del collegio di Lucca. Lucca per altro
non è la città ov’egli possa farsi una clientela; le sue
opinioni religiose e politiche vi son troppo note, e i
moderati consorti ai clericali che in lui sanno di avere
l’avversario più fiero e temuto non lascerebbero certo
passare occasione per troncargli la sua carriera: gente
siffatta non perdona mai. Bisogna proprio che parta
da Lucca, se vuole esercitare la sua professione; e
dopo avervi pensato su, decide di andare a stabilirsi a
Bologna, città grande e di spiriti democratici. Si rivolge allora ad un suo amico di là; gli dice che ha bisogno, lui avvocato novellino, di essere collocato in
uno studio de’ più accreditati, ove oltre farvi pratica
possa trovarvi modo di guadagnare qual cosa per vivere, essendo sprovvisto di mezzi: e difatti prima del
15 maggio noi lo troviamo a Bologna collocato nello
studio del valoroso avvocato Aristide Venturini. Il 9
maggio indossa per la prima volta la toga
dell’avvocato difensore dinanzi al tribunale Correzionale di Bologna, timido come un agnello, incerto
di sé, tutto pauroso, tremante. « Era molto commosso, egli dice, e tremava quasi. Io non sapeva ciò che
poteva valere, non conosceva le mie forze, mi esponeva per la prima volta ad una lotta sconosciuta, sen-
VITA DI T. STROCCHI
CXLIX
za sapere come avrei potuto resistere…Non aveva la
più piccola cognizione della pratica, della procedura,
delle regole con cui si tengono e si dirigono i dibattimenti. Non aveva mai, veramente mai assistito
all’intero svolgimento di una causa, né di Pretura, né
di Tribunale, Né di Corte. Non sapeva come s’ interrogassero i testimoni, non come si facessero requisitorie dal pubblico Ministero, né come si rispondesse
all’avvocato. Mi gettava ad occhi chiusi in un abisso
ignorato; ma contava un po’ sul mio coraggio, sebbene me lo sentissi mancare.» Quale differenza fra
lui ricco d’ingegno e di erudizione e tanto facile parlatore, fra lui dico e tant’altri presuntuosi che allontanati un po’ dalle pratiche forensi, lavoro di ogni giorno, non sanno un’acca di quanto abbella lo spirito e
arricchisce la mente, aridi come spugne, ma gonfi
come aerostati inalzati in tempo di fiera!..
E a questa prima causa, tennero dietro altre:
guadagnava poco, spesse volte nulla, ma vi trovava
soddisfazione: era contento. Se non che poi, ripensando a’ casi suoi, alla realtà delle cose, alla sua povertà, usciva in queste parole: «Ma io forse sono
condannato ad esser vittima di una eterna illusione; la
mia fantasia, o meglio l’anima mia ama ingannarsi e
tutto vela colla rosea illusione di una nube dietro a
cui le misere cose traspariscono leggiadramente ridenti, ed io corro dietro a questi vaghi fantasmi creati
dalla mia stessa immaginazione e non raggiungo mai
cosa che abbia vera sostanza e produca un vero interesse. Io porto con me i miei sogni, li spargo dovunque mi trovi e amo essere circondato da essi. Come
un pellegrino o un soldato che seco trasportano la
propria tenda e dovunque si arrestano per riposarsi, o
in un deserto, o sul piano di una rupe, fra le brume o
VITA DI T. STROCCHI
CL
sotto i raggi dei tropici, quella stessa tenda si alzano
e sotto di essa si riparano, così io dovunque vado, in
qualunque circostanza mi trovi, traggo fuori la mia
tavolozza di vivi colori, il forziere in cui tengo tutti i
falsi diamanti delle mie illusioni, il turibolo su cui
brucio gl’incensi dai profumi inebrianti, e il deserto,
le steppe, la nudità, la miseria, la prosaica realtà, tutto
sotto il pennello della mia fantasia cambia di aspetto,
assume forme e pare cosa bella. Così nel viaggio di
Caterina di Russia il suo amante Potonkin le allietava
la sterile via, inalzando sul suo passaggio dorati castelli di cartone. E tutto ciò non giova ad altro che a
perpetuare in me la favola di Ipsione che abbraccia
eternamente delle nuvole… Io vorrei essere un avvocato onesto; il difensore del diritto e della giustizia
conculcata, l’oppositore della violenza e del tranello,
soldato nel foro come sul campo. E tutte queste non
sono povere illusioni che faranno sì ch’io non riesca
a nulla?»
Difatti se il povero nostro amico presto si meritò
le simpatie di molti degli uomini più chiari in Bologna; e con ciò la sorveglianza della Polizia com’era
naturale! Se frequentando la migliore società, in casa
dell’ex colonnello garibaldino Pais, allora direttore
del giornale La Voce del Popolo, impara a conoscere
il fiore della democrazia bolognese con l’illustre poeta Giosuè Carducci; e se incoraggiato dall’avvocato
Venturini che in lui più di un maestro ha trovato un
amico, ogni giorno s’avanza nelle pratiche avvocatesche e difende cause penali, facendo mostra del suo
bell’ingegno, anche i mesi trascorrono, e dato fondo
a’ pochi denari che aveva portati da casa, comincia
ad accorgersi che co’ pochissimi soldi che guadagna,
e che non sempre guadagna, non può vivere. «Con-
VITA DI T. STROCCHI
CLI
sumai presti, scrive, quei pochi franchi che poteva
avere e quelli che qualche amico durante quel tempo
mi prestò. Io mi era troppo avventurato venendo a
Bologna senza una posizione certa. Era avvocato, ma
chi lo sapeva? A Bologna troppi avvocati v’erano e
conosciuti, e molti valentissimi. Io pure avrei potuto
farmi una clientela, ma mi sarebbe stato necessario
un anno o due anni prima di averla, e frattanto come
avrei io vissuto? Chi mi avrebbe data la forza di
sciogliermi dalle spire della miseria? Lavorava trattando qualche causa, lavorava pel giornale La Voce
del Popolo, scriveva articoli e appendici, ma nessuno
mi dava un soldo, né io sapeva più donde avrei potuto levar denari.» E per lui ricominciavano i giorni tristi, se pure eran mai finiti!... «Tristi giorni, continua a
dire, in cui tutto diventa cupo e doloroso, in cui l’idea
del suicidio si affaccia alla mente, spontanea come la
soluzione naturale di un intrigo fastidioso. Aver voglia di lavorare e non trovare! Essere istruiti, avvocati, pieni di volontà e non poter guadagnare ciò che
guadagna un calzolaio, un muratore! Io non sapeva a
qual diavolo votarmi.»
Una inattesa circostanza però venne a toglierlo
da tanto imbarazzo. Alcuni suoi amici di MassaCarrara avevano fino dal primo anno fondato colà un
giornale di principii democratici, come sono generalmente in Italia tutti que’ piccoli periodici che si
pubblicano nelle città capo luogo di provincia, e che
meglio assai de’ giornali di gran formato rispondono
al sentimento e a’ bisogni delle popolazioni, non essendo né sussidiati dal governo in nessun modo, né
sempre dipendenti da uomini politici che spesso subordinano l’interesse pubblico all’interesse del proprio partito, quando non se ne servono come un mez-
VITA DI T. STROCCHI
CLII
zo efficace per avvantaggiare se stessi nel proprio
tornaconto. Si chiamava il Corriere della provincia
di Massa; e pregato vi aveva già scritto qualche articolo contro un altro periodico apertamente clericale,
che da poco tempo era pur nato colà. Dimodochè
scrivendo appunto in que’ giorni di angustie per lui,
prese occasione per far conoscere a quegli amici
l’incertezza della sua condizione; e n’ebbe in risposta, che si recasse a Massa, dov’era molto da fare per
gli avvocati, dove avrebbe presto potuto farsi una
clientela, essendo città piccola, e dove avrebbe anche
diretto il loro giornale, pensando essi al suo mantenimento, finché da sé non avesse guadagnato il necessario per vivere convenientemente. Pensate se se
lo fece ripetere due volte! Abbandonava è vero Bologna per Massa, abbandonava quel centro di vita intellettuale e politica per ritirarsi in quel piccolo paese
appiattato fra’ monti; ma in quel momento era egli
libero di scegliere?... Sicché ricevuti i denari pel viaggio, un bel giorno parte senza dir nulla ad anima
viva; troppo lo imbarazzava il dover manifestare altrui la sua deplorevole condizione. Era il 22 di luglio.
Due cose principalmente adunque s’era proposto
di fare il nostro amico in Massa: esercitare la professione, e dirigere il giornale. – Ora che cosa fosse un
giornale per Tito Strocchi lo sappiamo, un campo aperto dove poter combattere in pro della libertà e del
progresso, un’arma per ferire a morte i nemici della
verità e della giustizia; e con che ardore e’ si ponesse
all’opera, lascio considerarlo. Nemico com’era de’
mezzi termini, e volendo togliere ogni possibile equivoco, al vecchio programma ne sostituisce uno
nuovo, e il Corriere diviene apertamente repubblicano; poi impegna subito polemica viva e a fondo con-
VITA DI T. STROCCHI
CLIII
tro l’Apuano, giornale moderato e semiufficiale della
provincia di Massa, e contro l’Operaio cattolico. E
amici e nemici cercano e leggono il Corriere, e tutti
van d’accordo nel riconoscerlo pel meglio fatto, e
scritto con spirito e condotto da mano maestra. Quale
odio però concepissero contro di lui i clericali di
Massa è impossibile dire, pari e forse superiore a
quello dei clericali di Lucca. Né si risparmiano i
moderati consorti, che cercano di metterlo ogni dì più
in mala vista presso le pubbliche autorità; le quali già
stanno sull’avviso, non potendo dissimularsi
l’incremento che in Massa e ne’ paesi vicini ha presto
il partito repubblicano, mercé la sua instancabile operosità.
Ma se tutto ciò piaceva alla sua indole battagliera e, diciamolo pure, giovava alla causa della libertà e
della democrazia, non giovava certo a’ suoi interessi;
poiché non era in tal modo ch’ e’ poteva sperare di
farsi come avvocato, una larga clientela. Pure la parte
più liberale del paese lo stima e lo ama così, che
qualche cosa fa anche in professione e più si ripromette fare per l’avvenire. Dimodochè, se non può
dirsi contento, il suo amor proprio è soddisfatto. «Insomma, scrivevami nel febbraio 1874, se non sono
contentissimo, sono almeno sulla via di diventarlo.
Le incertezze tremende sono terminate, non ho più a
temere la fame, sono sulla strada dell’agiatezza, il lavoro mi sorride come un buono e vecchio amicone,
dormo saporitamente, mangio con appetito, ho già da
molti mesi perduto l’abitudine di bevere liquori, sto
bene e comincio a pensare: finalmente ho un’ora di
pace.»
Povero amico, egli se lo credeva; ma poi non
doveva essere così!... Perché ora che ha trovato lavo-
VITA DI T. STROCCHI
CLIV
ro, ora che ha bisogno di salute per lavorare, ecco che
si ammala gravemente. È l’alba del 17 marzo quando
si sente per la prima volta al lato sinistro del petto un
acuto dolore che gl’impedisce perfino di respirare; e
quando un rauco rantolo doloroso lo affanna , e le
mani e i piedi gli si agghiacciano e gli
s’intorpidiscono da parergli a momenti di dover morire!... I medici diagnosticarono, o vollero pietosamente dargli a credere, che fosse un principio di avvelenamento prodotto dalla nicotina per troppo fumare. E se curato, di lì a sette od otto giorni poté alzarsi
dal letto e uscir anche di casa, perché lo volle, presto
ricadde giù e con tali sintomi che quegli stessi amici
che gli erano stati prodighi delle più affettuose cure,
lo consigliano di andare a Firenze ed entrare
all’Ospedale, ove può esservi curato da buoni medici.
Frattanto, scherno del destino! Al teatro di Massa recitava dal primo di quaresima la compagnia
drammatica Arnous-Tollo; e pregato di dar loro qualche cosa, aveva dato il Sampiero. Il 30 era il giorno
della recita, e sebbene ammalato volle ad ogni costo
assistervi; e come si trovasse poi là fra le scene di
quel teatro affollatissimo, un po’ per l’emozione e un
po’ per la febbre che aveva, ognuno può indovinarlo
senza ch’io lo dica. Basta ricordare che, reggendosi
appena su’ piedi, a stento potè presentarsi al proscenio, chiamatovi da ripetuti e calorosi applausi. Il
giorno dopo infatti decise di andare a Firenze, e il 3
aprile sul far della sera entrava all’Ospedale di Santa
Maria Nuova, dicendo come De Musset; m’y voilà –
eccomivi!...
Malato di pleurite sinistra, con versamento, vi
rimase fin quasi alla metà di maggio, quando tornò a
Massa per darsi nuovamente alle sue occupazioni di
VITA DI T. STROCCHI
CLV
avvocato e di giornalista. Però la sofferta malattia e
la lunga assenza furono a lui di molto danno: aveva
allora principiato a farsi un po’ di clientela, e quasi
dovè tornare da capo nel lungo noviziato! Dimodoché scoraggiato, pensa di abbandonare Massa e di
andare a Roma, sperando di trovar la miglior fortuna.
La quale idea, sebbene lungamente vagheggiata non
poté poi secondare, sconsigliatovi da persona autorevole e amica, che nell’aprile del 1875 scrivevagli:
«Credo che vi siate fatto una pericolosa illusione su
Roma. In questa città non v’ha probabil fortuna che
pei farabutti e i cavalieri d’industria. Gli uomini onesti del vostro stampo o ne scappano o vi muoiono di
fame. L’ingegno non giova a nulla, la probità vi è di
danno. Il giornalismo o poverissimo o venduto. Gli
avvocati più numerosi dei clienti e costretti a mangiarsi fra loro…« Parole che rivelano un animo esacerbato quanto e forse più del suo, per non pochi disinganni patiti; ma pur vere, per chi nato repubblicano fosse stato costretto a vivere allora in Roma. Sicché rassegnato a portare la sua croce se ne rimane per
altri due anni in Massa, dove sempre malaticcio e tutto modesto lo vediamo esercitare la professione per
vivere, e scrivere di tanto in tanto qualche articolo di
critica letteraria, qualche commedia o racconto, lavori tutti che ad altri meno modesti di lui e non tanto
sfortunati come lui, avrebbero non solo accresciuta la
fama, ma dato modo di vivere agiatamente.
Difatti, è verso la metà del 1876 ch’e’ riprende
in mano, Una pagina de’ miei ricordi, 1867, pubblicata nell’appendice del periodico lucchese Il Serchio,
durante il 1869; e aggiungendovi i ricordi del 187071, la rifonde così da comporne un libro che dobbiam
dolerci non sia stato ancora pubblicato; perché alla
VITA DI T. STROCCHI
CLVI
verità storica de’ fatti ivi narrati, i colori smaglianti
della sua fantasia e l’intreccio e la passione del romanzo non tolgono, ma accrescono evidenza ed efficacia. L’amor di patria e il sacrificio per la libertà, la
vita nuova e il vecchio mondo, la reazione e il progresso vi sono simboleggiati con caratteri così intieri, veri e parlanti che il lettore si scalda con essi, diviene, si fa quasi direi, attore del dramma. L’opera è
divisa in due parti: Patria, 1867; Libertà, 1870-71, e
porta la dedica a Giuseppe Mazzini. È da credersi che
scrivesse di questo tempo, e certo prima del marzo
1877, anche la commedia Amore e Lavoro in quattro
atti; la quale vorremmo pur vedere rappresentata, perocchè, oltre ad essere condotta con quell’arte che gli
era familiare, di saper cioè intrecciare i fatti e svolgere l’azione per modo da interessare sempre il pubblico, vi sono figure fra que’ personaggi che se non si
possono dire caratteri interamente nuovi per teatro
italiano, certo vanno co’ meglio indovinati e resi; nobilissimo poi n’è il fine.
Lavora, scrive il nostro povero amico, ma non
gli giova; non può liberarsi dalla miseria! E quasi ciò
non basti, sente che la sua salute si logora ogni giorno. Pure e’ fa il possibile per tener celata a’ più la sua
triste condizione, e lotta, lotta con una abnegazione
che non ha esempio, o se ne ha, son ben pochi ne’
giorni che corrono! e a’ sacrifizi passati ne aggiunge
ognora di nuovi, senza perdersi mai. A qualcuno de’
più intimi amici peraltro cotesta sua condizione è
nota, né manca chi s’adopra con amore e costanza in
favor suo; tanto che la Direzione del Dovere, giornale
repubblicano mazziniano che si pubblica in Roma, è
lieta di potergli conferire nel marzo 1877 l’ufficio di
suo corrispondente da Genova con l’onorario di ot-
VITA DI T. STROCCHI
CLVII
tanta lire al mese, le quali sono una vera provvidenza
per lui. Sicché verso la metà d’aprile, egli lascia
Massa e va a Genova, da dove poi scrisse pel Dovere
non solo delle corrispondenze, ma anche qualche
racconto. E i suoi racconti son così graditi che da
quella Direzione non solo si preferiscono per la pubblicazione ad altri di scrittori forestieri, ma gli si propone di diminuire il numero delle corrispondenze e di
mandar più puntate per l’appendice. Il 19 luglio 1877
così scrivevagli da Roma G. Nathan, uno de’ fondatori e direttori di quel giornale: «Come avrete già visto annunziato nel Dovere domani cominceremo a
pubblicare in appendice il romanzetto da voi speditomi. Da ciò capirete che se prima credevamo bene
rimandarlo ancora per qualche tempo, adesso che
l’abbiamo letto ci siamo convinti che è molto migliore di altri lavori di second’ordine, tradotti da lingue
straniere. Accettate insieme alle mie congratulazioni i
sensi della più alta stima e considerazione.»
E i racconti di Tito Strocchi scritti pel Dovere
sono: Alcuni versi di Virgilio, Una passeggiata a
Gavinana, lavori dettati con tutta quella serenità
d’animo, elevatezza di concetti e semplicità ed eleganza di forma, propria di coloro che non fanno
dell’arte per l’arte, ma si studiano e vogliono dilettando, educare la mente e affezionare il cuore di chi
legge ad una santa causa, quella della patria e della
libertà. Col primo racconto e’ ci fa rivivere in Firenze
a’tempi del giovane Cosimo; vasta tela per disegnarvi e dipingervi su uomini e cose da dare l’intreccio ad
un romanzo: amori, avventure, tradimenti e scelleratezze d’ogni sorta, fremiti di libertà, d’odio e di vendetta; carceri, patiboli e quanto altro poteva far corredo ad uno de’ minori Medici che signoreggia su
VITA DI T. STROCCHI
CLVIII
tutto un popolo fatto suddito e servo! E col secondo
ci ricorda gli eroici sforzi fatti da’ Fiorentini in difesa della gloriosa repubblica, quando un Papa e un
Imperatore insiem collegati nell’infamia, vollero in
lei vedere spento anche l’ultimo raggio della libertà
de’ nostri Comuni. Non è storia quella narrata dal nostro amico, ma in que’ suoi personaggi che si muovono, in que’ fatti che s’intrecciano, c’è la vita, la
passione tutta di quel tempo, e basta. «Sono ombre,
egli dice, quando volge alla fine del suo primo racconto, sono ombre che passano. Io come ombre le ho
disegnate e come ombre scompaiono. Ombre che ebbero anima sensibile alla truce realtà del dolore, che
piansero, sanguinarono dalle ferite del corpo e da
quelle del cuore e scomparvero nella cenere dei miseri senza nome e senza memoria. La storia dei grandi
fatti il lettore ricerchi nelle grandi pagine dei nostri
scrittori; io l’ho appresa in quelle e ho tremato leggendola; ora in quei grandi sepolcri raccolgo un pugno di cenere e su quella piango e maledico, pianti e
maledizioni che saranno cenere fra poco.»
Presa stabile dimora in Genova. Egli nel luglio
1877 intraprese insiem con altri patriotti la pubblicazione di un nuovo periodico, Lo Squillo,
nell’intendimento di difendere il partito mazziniano,
vivamente attaccato e ne’ principii e nelle persone da
un gruppo di repubblicani dissidenti che avevano Il
Popolo per loro organo di pubblicità. E la polemica
che s’impegnò fra’ due giornali fu così ardente, che
come accade d’ordinario, la passione politica li fe’
scendere a personalità, da procedere senza freno di
sorta nella discussione. Sicché poi se n’ebbe a lamentare una serie di fatti dolorosi, che valsero ad inasprire sempre più gli animi, e si vide per fino il brutto
VITA DI T. STROCCHI
CLIX
spettacolo d’esser portati innanzi come vessillo di
discordia fra’ repubblicani d’Italia, i due nomi immortali di Mazzini e Garibaldi. Di guisa che il nostro
amico tanto se ne accuorò e tanto ne soffrì, che la sua
salute, già molto deperita per la prima malattia, toccò
di que’ giorni sì forte scossa ch’e’ dové finire
coll’andare nuovamente all’ospedale; dove tra’ malati di tisi, senza denaro e senza conforti, quasi abbandonato come un pezzente, disperando di guarire, rimase più di quattro mesi, fino al 20 d’aprile. Ma allora l’associazione Giuseppe Mazzini di Lucca, della
quale egli era presidente onorario, saputo della sua
malattia e della mancatagli assistenza, con lodevole
pensiero provvedeva, perché fosse condotto a Lucca.
Il 21 aprile corsi a salutarlo all’albergo della
Campana dove lo avevano messo, e lo trovai così
sfinito dalla lunga malattia e più, credo, dalle inenarrabili sofferenze morali patite in que’ lunghi mesi di
ospedale a Genova, che appena ebbi fiato di chiedergli come stava. Un nuvolo di amici, tutti lieti, soddisfatti che il nostro Tito fosse tornato tra noi, erano lì
intorno al suo letto, chi in piedi, chi a sedere, e tutti
animati da un sentimento di benevolenza verso di lui;
era una gara per volerlo soccorrere, tutti avrebbero
voluto ridonargli la salute e la pace. Il giorno dopo fu
condotto in casa del bravo giovane A. M. che spontaneamente, col cuore in mano, avevagli detto: «
Frattanto vieni in casa mia, poi vedremo quel che sarà da farsi.» E in casa del generoso amico rimase fino
al 30 maggio, giorno in cui e per consiglio de’ medici
e con piena sua soddisfazione, desideroso di guarire,
di poter vivere dell’altro, veniva condotto
all’ospedale di san Luca, in una camera riservata, essendosi a tutto provveduto mercé una sottoscrizione
VITA DI T. STROCCHI
CLX
di amici e di altre rispettabili persone che s’erano obbligate di pagare un tanto al mese, finché non fosse
guarito. E poi bisognava vedere con quanta sollecitudine e con quanto amore gli amici corressero ogni
giorno e in ogni ora là nella sua camera per tenergli
compagnia, per servirlo di tutto quanto abbisognasse;
sicché il regalarlo di qualche cosa era divenuto quasi
direi un dovere per tutti. Era cosa che commuoveva,
che recava piacere,che incoraggiava, perché faceva
pensare non esser l’egoismo un vizio comune, ma
una rara eccezione, specialmente ne’ giovani. Oh sì,
la gioventù operaia principalmente, sebbene cresca
fra mezzo allo scetticismo delle classi privilegiate,
vive anche oggi di amore, di filantropia ed è capace
di far sacrifizi immensi in sollievo di chi soffre.
L’epulone forse ti ricuserà una lira per un che chiede
misericordia per grazia di Dio, l’uomo del popolo no;
egli che pur suda per vivere lavorando da mattino a
sera, non nega mai il suo soldo al più miserabile di
lui. E grazie sieno rese a voi, o giovani amici personali e di fede del povero Tito, a voi che per mercé
vostra egli poté esser curato, e riacquistare, per poco
è vero! Un po’ di salute e con essa quella fiducia nelle giovani sue forze, che purtroppo aveva dovuto
perdere quando s’era trovato solo e nella più squallida miseria nell’ospedale di Genova.
E al riaversi delle sue forze morali e fisiche là
nello Spedale di san Luca, in lui si risvegliò anche il
desiderio , la bramosia di lavorare. Sicché non appena poté, e gli fu permesso alzarsi dal letto, eccolo che
passa più ore del giorno al tavolino scrivendo. Poco
prima di ammalarsi in Genova, il nostro amico s’era
messo a scrivere un altro racconto, Lucrezia Buonvisi, invogliatosi di scrivere su tal soggetto, dopo di
VITA DI T. STROCCHI
CLXI
aver letto la storia di cotesta donna lucchese, tanto
colpevole e tanto infelice, raccontata su’ documenti
del chiarissimo signor Bongi; e ora lavorava, lavorava per completarlo, e con tanto piacere , con sì dolce
soddisfazione che parmi proprio ne scrivesse fin
l’ultima pagina nell’Ospedale di Lucca, e non senza
speranza di vederlo presto pubblicato. Valendosi de’
fatti storici narrati dal sig. Bongi, egli riuscì a tessere
un racconto così ricco e vario nella sua unità
d’azione, per episodi e avventure romanzesche di
quel secolo XVI, secolo tristo, che giusta
l’espressione di Cesare Balbo, fu un elegantissimo
baccanale di cultura fra le pugnalate e i veleni, che a
malincuore tu ne interrompi la lettura e vorresti andar
fino in fondo tutto d’un fiato, tanto ti riesce piacevole
e interessante: vi sono delle pagine stupende, vi sono
de’ caratteri così scolpiti, degni davvero de’ migliori
nostri scrittori. Qualcuno forse, non molto addentro
nella storia scandalosa de’ monasteri in quel secolo,
leggendo il libro dello Strocchi griderà esagerate per
ispirito d’incredulità nell’autore certe scene della vita
del chiostro, certe brutture morali appena più immaginabili a’ giorni nostri, che pure da certi piagnoni si
vogliono così corrotti da vedervi il finimondo. Ma
ove si faccia ragione al romanziere che usa l’arte di
riavvicinare e intrecciare insieme più fatti. Di riunire
e aggruppare più personaggi in un dato luogo e in un
dato momento per rappresentarci in un quadro a
grandi linee i costumi, gli usi e le tendenze tutte di
una società, o di una parte di quella durante lo svolgersi di un periodo storico, si dovrà riconoscere che
nella Lucrezia Buonvisi del nostro autore non c’è nulla che non sia stato studiato e reso con quella rettitudine d’animo, serenità e squisitezza di spirito propria
VITA DI T. STROCCHI
CLXII
del vero artista, che non sa mentire a se stesso, né
vuol mentire altrui. Trasportatosi egli in mezzo al patriziato lucchese del secolo XVI, così vago di avventure amorose e tanto diviso da fazioni politiche e più
da vecchi odii di casate e di famiglia, un bel giorno lo
vediamo entrare in compagnia del signor Bongi nel
monastero di santa Chiara e là trovata la bella Lucrezia Malpigli, vedova di Lelio Buonvisi, le si avvicina
e la interroga…, e dalle interrotte sue frasi, dall’alito
affannoso, dal fuoco de’ suoi occhi, egli ne indovina
lo strazio dell’anima, e con lei maledice al secolo tristo. Vede frattanto sfilargli dinanzi le altre suore tutte. Le guarda, le fissa, e da que’ corpi gentili da cui
spira la nobiltà del lignaggio, sente il calore della
passione che le rode e le consuma, e colto da sdegno
e da compassione è costretto a piangere con la infelice e gentile Orizia Ortucci. E si fa triste alla vista di
tante anime dannate al chiostro dall’avarizia di padri
snaturati, dall’orgoglio di un patriziato corrotto e dal
falso concetto che in que’ secoli, più che in questo
nostro, si aveva della vita cristiana: vide quelle giovani creature che si consumavano in una forzata castità, mentre eran nate per amare ed essere amate e
con la fantasia calda da tutte quelle memorie del
tempo, lui artista facile e sincero, disegna con mano
sicura e colorisce co’ più bei colori della sua tavolozza tutto quanto ha veduto coll’erudito compagno e
intraveduto col suo genio; e compìta così l’opera sua;
sicuro di non aver fatto cosa indegna di sé e del proprio paese, l’abbandona volentieri alla critica.
Uscito che fu dall’Ospedale il 2 luglio, si recò a’
Bagni di Lucca dall’amico S., dove rimase, sussidiato
sempre dagli amici, fino al 6 ottobre. E là, a
quell’aria così pura e balsamica durante la state, e di-
VITA DI T. STROCCHI
CLXIII
stratto dall’incantevole vista di quelle amene e pittoresche vallate, vivendo tutto ne’ ricordi de’ suoi tempi di giovinezza, fra mezzo a quella gente che lo ama,
e presso la sua adorata fanciulla, e’ si sentì tornato a
nuova vita: si credeva guarito; lo credevamo noi tutti.
Sicché decise non partir più da Lucca, pensava come
esercitarvi la professione, e già sognava una meritata
tregua a’ lunghi dolori. Ma la sua malattia era divenuta ormai incurabile, e passò poco tempo che si ributtò giù per non riaversi: allora furono mesi di speranze e di rassegnazione, lunghi giorni di tristezza e
di abbandono, però senza proferir mai un lamento, un
rammarico, senza far mai un rimprovero a nessuno.
Oh! ricordo quel giorno in cui gli dissi se amava di
vedere suo padre, il buon vecchio Stefano, che viveva in Firenze costrettovi dall’arte sua. Egli impallidì,
e una lagrima brillò ne’ suoi occhi; sentiva di non aver forza bastante per riceverlo in quella condizione,
e pregò me, gli amici tutti, si raccomandò a sua sorella che da più giorni trovavasi presso di lui, perché
nulla scrivessero al babbo!... E bisognò prometter tutto, tutto, mentre si sapeva che suo padre era per via, e
fin quando si trovava lì nell’anticamera tutto in lagrime! Ma il buon vecchio voleva vederlo, voleva
abbracciarlo, baciarlo almen per l’ultima volta e
d’improvviso entrò nella sua camera. Lo vide e …
No, la mia penna non può descrivere una scena come
questa. E potess’ io tralasciare di descrivere altre
scene di cui mi trovai testimone in que’ giorni; non
per ché, ripensando a quelle, l’animo mio si senta
commosso come al ricordo de la piena degli affetti
che vidi prorompere dal cuore di quel padre infelice
presso il figlio morente, ma perché di certe brutture,
ove non fossi costretto a scrivere per ufficio di stori-
VITA DI T. STROCCHI
CLXIV
co, vorrei fosse perfino cancellata ogni memoria per
onore del mio paese e de’ miei contemporanei.
Era il giorno…, non importa ch’io ricordi la data
quando mi si venne a chiamare; perché mi recassi a
casa di Tito. Non perdo un momento, ci volo; e appena entrato mi trovo dinanzi all’illustrissimo signor
Ispettore di Pubblica Sicurezza che in compagnia di
un suo Delegato mi attendeva. Il signor Ispettore mi
dice che per dovere di ufficio era costretto a perquisire la camera del signor avvocato Strocchi, dolentissimo del resto di dover arrecare disturbo al mio povero amico che sapeva trovarsi così gravemente ammalato da dover temere della sua vita. Rimasi come
fulminato; e se la nota cortesia del signor Ispettore e
il pensiero ch’egli si trovava costretto a compiere
quell’atto, e in quel momento! per ordine della Procura Generale, non mi avessero trattenuto, mi sarei
opposto a tanta infamia. Avvertii l’amico della visita,
inaspettata quanto importuna, e mi rispose: «Che
passi!». Introdussi i due signori; aprii io il cassettone,
unico mobile che trovavasi in quella modesta cameretta, e feci veder loro le carte tutte che appartenevano a Tito Strocchi. Non vi furon trovati sebben ricordo che pochi manifesti a stampa del Comitato direttivo della Consociazione Repubblicana Toscana, di cui
egli era membro, copie che furon sequestrate; e steso
il relativo verbale ch’io pure dovetti firmare come testimone, que’ signori se ne andarono, scusandosi
presso l’amico mio di quella loro visita inaspettata.
L’accaduto peraltro disturbò non poco il nostro Tito,
perché in quel momento si trovava così aggravato dal
male che ogni più lieve emozione poteva essergli fatale. Ma che cos’è la vita di un povero cittadino, dinanzi all’ordine pubblico? Si può bene da un Procu-
VITA DI T. STROCCHI
CLXV
ratore Generale far entrare nella camera di un moribondo nella speranza di sorprendervi un segreto che
può salvare la Monarchia da un imminente pericolo,
o la Repubblica se il pericolo è per la Repubblica.
Dinanzi alla Ragion di Stato, nel momento del fervore di un processo politico, ogni convenienza va messa da parte, ogni riguardo sparisce; avanti, avanti
sempre, accada quel che vuole accadere! Anzi, quanto più gli officiali pubblici sono civili, le istituzioni
sono liberali, convien essere barbari, spietati; il diritto della maggioranza copre tutto, giustifica, legittima
tutto… Oh libertà, santa libertà invocata dagli spiriti
magni che per te soffrirono e morirono nelle carceri e
su’ patiboli, come gli uomini del giorno dopo il trionfo ti rendono spesso menzognera!...
Nelle prime ore della notte del 12 giugno 1879,
il povero nostro amico sentendosi morire, chiama
presso di sé la sorella Livia e il fratello Enea, e dopo
di aver dato loro un bacio… e detto: «salutate babbo!» spirò, nulla chiedendo al mondo che lasciava,
nulla all’eternità cui non credeva.
Lui morto, l’Autorità Municipale non vuol permettere che sia data alla salma del chiaro cittadino
onorata sepoltura nel cimitero monumentale del Comune. È là fuori del recinto architettonico del cimitero comune, in un piccolo spazio di terreno abbandonato e deserto, da poco tempo improvvisato – quasi
campo scellerato – a cimitero de’ così detti liberi
pensatori, che dev’essere sepolta la salma
dell’avvocato Tito Strocchi!... Ma a tanto sconcio,
degno de’ più bassi tempi dell’intolleranza cattolica,
e contrario non solo allo spirito moderno, ma allo
spirito delle vigenti leggi, si oppone energicamente
VITA DI T. STROCCHI
CLXVI
l’Autorità prefettizia, riscuotendo il plauso di tutti coloro che lo spirito di setta non ha reso ciechi
d’intelletto, e che pensano di doversi le virtù civili di
un cittadino onorar sempre, indipendentemente dalle
sue credenze religiose, nulla essendovi al mondo di
più sacro e inviolabile della coscienza umana.
Così malgrado l’interdetto dell’Autorità municipale, i funebri resi alla salma del nostro amico, riuscirono degni di lui; di lui che aveva onorato la patria
su’ campi di battaglia col suo eroismo, e ne’ libri col
suo bello ingegno. Oltre alle Associazioni liberali
lucchesi e le rappresentanze della Democrazia di tutta
la Toscana e di molte altre parti d’Italia, seguì il feretro fino al Cimitero un numero considerevole di cittadini; e commoventissimo fu il momento in cui alcuni de’ più intimi amici del nostro Tito calaron giù
nella fossa con amorosa cura la cassa che ne racchiudeva il corpo. Piansi d’angoscia… e avrei voluto che
lì insiem con me fossero stati quanti si contendono il
privilegio fin nella tomba, perché avrei gridato loro:
«O gente superba che credi d’esserti fatta una privativa anche del cielo, prostrati e taci; dinanzi ad una
tomba non c’è che Dio, giudice!»
Son ora trascorsi trenta mesi da quel giorno, e
ancora tutto vivo n’è il doloroso ricordo nella mia
mente… Oh! come sarei soddisfatto se lo scrivere la
Vita di Tito Strocchi, se con questa mia fatica avessi
anch’io, per una piccolissima parte, potuto contribuire perché là su quelle poche zolle di terra a lui contese nel Cimitero di Lucca, sorga un modesto monumento che ne ricordi il nome e le virtù.
Povero Tito… non avevi che trentatre anni.
12 dicembre 1881
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NOTA
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Fin da quando incominciai a scrivere la Vita di Tito
Strocchi, pensai di farla seguire da un’Appendice bibliografica su le sue opere edite e inedite, e più particolarmente su le sue poesie liriche, delle quali nulla
dissi della Vita per non intralciare di troppo il corso
naturale di essa. L’urgenza di questa pubblicazione
peraltro mi obbliga oggi di dar corso alla povera opera mia, sebbene non completata com’era mio intendimento; ma, ove ciò altri non scriva prima di me e
con quella competenza ch’io certo non ho, manterrò
la promessa che mi son fatta
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