Resoconto a cura della dott.ssa E. Stefanelli

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Resoconto a cura della dott.ssa E. Stefanelli
“COSTITUZIONI E COSTITUZIONALISMI NEL MONDO ARABO ISLAMICO”
4/5 dicembre 2014, Napoli – Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
Nei giorni 4 e 5 dicembre 2014 si è svolto presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”
un Convegno organizzato dal Dipartimento Asia Africa e Mediterraneo, dal titolo “Costituzioni e
costituzionalismi nel mondo arabo-islamico”. Tale convegno ha rappresentato un’occasione di
incontro per massimi esperti in tema di costituzionalismo islamico.
La prima sessione del Convegno ha fornito una panoramica sul tema del costituzionalismo nei Paesi
arabi, attraverso le relazioni di Giampiero Di Plinio, Maria D’Arienzo, Antonio Cantaro e Rossella
Bottoni.
Numerosi studi recenti esaminano il rapporto tra l’Islam, da una parte e il costituzionalismo, la
democrazia e la rule of law dall’altra parte, cercando quasi sempre di teorizzare la supremazia
dell’uno o dell’altro.
Ciononostante dato che il modello della rule of law e quello della Sharia sono sostanzialmente
analoghi nel loro meccanismo di legittimazione, nessuno dei due può dichiararsi superiore rispetto
all’altro.
Difatti, a condizionare l’esercizio del potere è una costante immutabile, rappresentata dal nucleo
intangibile di valori (trattati, principi costituzionali comuni, principi generali dell’ordinamento) i cui
confini sono però imprecisati. La definizione di tale contenuto ambiguo, indistinto e generico,
avviene sempre ad opera di qualcuno deputato a dichiararlo, ossia di coloro i quali lo interpretano,
siano essi le Assemblee elettive, la dottrina o le Corti. La consistenza del nucleo emerge quindi
nella Costituzione materiale di uno Stato, nel diritto vivente di quest’ultimo.
In questa prospettiva, la tradizione giuridica occidentale e quella islamica sembrano seguire lo
stesso schema in materia di tecnica del diritto costituzionale e per entrambe si pone lo stesso
problema del controllo e della limitazione delle attività di interpretazione del nucleo di principi
fondamentali.
Spesso le transizioni costituzionali sorte a seguito della ”primavera araba” sono analizzate alla luce
degli ordinamenti politico-giuridici che ripropongono principi e istituzioni proprie della tradizione
costituzionale occidentale. Generalmente infatti si ritiene che il modello occidentale sia il
necessario punto di approdo di tali transizioni. A ben vedere invece la principale sfida che devono
affrontare tali ordinamenti sta nell’individuare una “via islamica alla democrazia”, in cui non vi sia
solo una legittimazione democratica ma anche una legittimazione identitaria.
Un simile compromesso permetterebbe di conciliare il riconoscimento costituzionale dell’Islam
come religione di stato con la tutela della democrazia, del pluralismo religioso e dei diritti umani.
Lungi dal ricercare una simile soluzione di compromesso tra Islam e democrazia, l’introduzione del
principio di laicità nell’ordinamento turco ha inizialmente coinciso con il tentativo di eliminare
qualsiasi forma di pluralismo religioso, ciò che lo ha reso senz’altro un unicum tra i Paesi nei quali
è presente un’ampia maggioranza musulmana.
La costituzionalizzazione della laicità avviene nel 1937 al momento del passaggio da un regime
imperiale a uno repubblicano e figura tra uno dei sei principi (c.d. “sei frecce”, ossia:
repubblicanesimo, nazionalismo, populismo, statalismo, laicità e rivoluzionismo) sui quali si fonda
la rivoluzione kemalista. Il principio di laicità era funzionale, secondo il pensiero di Mustafa Kemal
Atatürk, al ricongiungimento con la civiltà moderna e all’allontanamento del Paese dall’assolutismo
politico e dal fondamentalismo religioso.
Diversamente da quanto avviene in Francia, patria di tale principio, in Turchia l’affermazione di
quest’ultimo non ha coinciso con l’occultamento di tutti i simboli religiosi, ma solo di quelli
considerati l’emblema dell’essenza retrograda dell’Islam (quali il velo), mentre si è ad esempio
proceduto alla sacralizzazione della mezzaluna, contenuta nella bandiera nazionale.
La fedeltà all’immagine dell’Homo Kemalicus è stata assicurata prima dal monopartitismo e poi, al
momento del passaggio verso il pluripartitismo nel 1962, sia dall’istituzione di organi aventi lo
scopo di vegliare sul corretto funzionamento della democrazia sia dal ruolo affidato alla stessa
Corte costituzionale, chiamata a sciogliere i partiti non conformi ai principi propri di una repubblica
democratica e laica e alla nozione d’integrità territoriale e nazionale. Quest’ultima ha ad oggi
sciolto ben ventotto formazioni politiche (a fronte di soli tre partiti politici sciolti in Europa
Occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale).
L’arrivo al potere dell’AKP nel 2002 coincide con il riconoscimento di forme di pluralismo senza
che sia con ciò prospettata l’abrogazione del principio costituzionale della laicità. Soprattutto dal
2008 si assiste a un’involuzione autoritaria ed ad un’apertura solo nei confronti di determinati
segmenti della popolazione, la frangia islamica, che può dunque beneficiare di un’applicazione
meno rigida del principi del kemalismo.
La II sessione del Convegno si è incentrata sui casi di Algeria, Mauritania e Sudan per i quali la
transizione democratica rimane largamente incerta. Sono intervenuti rispettivamente Maria Cristina
Ivaldi, Marisa Fois, Giuseppe Maimone e Giuseppe D’Angelo.
Dal momento della sua indipendenza nel 1962 l’Algeria ha conosciuto diverse Costituzioni1.
La Costituzione tuttora vigente è quella del 1996 così come modificata nel 2002 e nel 2006. La
1
La prima Costituzione è quella del 1963, essa è estremamente breve e rimane in vigore fino al colpo di stato del 1965.
Dal 1965 al 1976 l’ordinamento è retto dalla “petite Constitution provisoire”, un’ordinanza che ha regolato lo stato di
emergenza per undici anni. Con legge fondamentale del 1976 si segue una certa evoluzione istituzionale poiché il testo
adottato è più articolato rispetto al precedente. La crisi socio-economica e politica del 1988, porta all’entrata in vigore
scelta operata dai costituenti va nella direzione di un ampliamento dei poteri presidenziali rispetto al
testo del 1989, i quali sono limitati solo dall’introduzione del bicameralismo e dal rafforzamento
delle prerogative delle istituzioni giurisdizionali.
In Algeria, come del resto nella maggioranza delle società musulmane, ad eccezione del Libano che
riconosce nella sua Costituzione le diverse comunità religiose presenti sul territorio, l’Islam si
afferma in quanto religione di stato. In tutte le Costituzioni algerine era contemplata la seguente
formula: “L’Islam è la religione dell’Algeria”.
La Costituzione del 1963 controbilancia l’affermazione del confessionismo in senso islamico
sancendo il libero esercizio dei culti e il divieto di discriminazione su base religiosa, un
riconoscimento del tutto assente sia nella Costituzione nel 1976 che in quella del 1989, la quale
riconosceva ciononostante la superiorità dei trattati internazionali ratificati in tema di tutela dei
diritti umani. Una disposizione che garantisca espressamente la libertà di religione non è tuttora
contenuta nel testo costituzionale.
Particolari requisiti sono richiesti per l’esercizio della carica del Presidente della Repubblica, il
quale deve essere necessariamente musulmano e di origine algerina; si consideri ciononostante che
il requisito dell’appartenenza a una determinata fede religiosa è previsto anche al di fuori dagli
ordinamenti di matrice islamica, come nel Regno Unito (nel quale il Sovrano deve essere di fede
protestante).
Una disciplina regolante l’esercizio dei culti diversi da quello musulmano è stata adottata solo nel
20062 a seguito dell’avanzata del proselitismo evangelico che si registra soprattutto nella regione
della Cabilia. Tale legge riconosce espressamente il divieto di discriminazione su base religiosa ma
prevede altresì la condanna di qualsiasi condotta che possa portare alla conversione dei musulmani
a un’altra religione. Inoltre, è stata istituita la Commissione nazionale dei culti, preposta tra l’altro
al rilascio del parere preventivo per l’autorizzazione delle associazioni a carattere religioso.
Le lacune presenti in Costituzione, le disposizioni contenute nella legge del 2006 e quelle dei
decreti di attuazione adottati in conseguenza, evidenziano una perdurante violazione della libertà di
religione da parte dell’ordinamento algerino.
Per quanto riguarda la minoranza berbera-cabalista presente in Algeria, essa si è mostrata
particolarmente attiva al momento del raggiungimento dell’indipendenza nazionale, essendo la
promotrice di una linea d’intervento che mirava alla realizzazione della c.d. “Algeria algerina”,
nella quale sarebbero state riconosciute tutte le minoranze etniche e religiose presenti nel territorio
algerino (musulmane, ebraiche e berbere). Prevalse invece la visione promossa dalla componente
della Costituzione democratica del 1989 che si ispira ai principi democratici universali: è abolito il partito unico,
riconosciuta la separazione dei poteri e sono affermati i diritti dell’uomo e le libertà.
2
Legge n. 06/09 del 17 aprile 2006
arabo islamica, volta all’affermazione della propria identità nazionale, che si è realizzata, in Algeria
come negli altri Paesi del Nord Africa, attraverso un’opera di discriminazione della minoranza
berbera.
Le prime rivolte della minoranza berbera si sono svolte nel 1980 con la “primavera berbera”, a
seguito della quale è sorto il Movimento culturale berbero e nel 2001 con la “primavera nera”.
Nelle diverse Costituzioni algerine la minoranza berbera non è mai stata oggetto di specifiche forme
di tutela e la stessa Dichiarazione Universale dei diritti dei popoli del 1976 si riferisce
genericamente ai diritti delle minoranze. Solo nel 1995, con l’aumento delle rivendicazioni berbere
è stata istituita con decreto presidenziale la Commissione sull’amazighità, che ha ottenuto
l’insegnamento del berbero nelle scuole.
Nel 2002 il Parlamento algerino ha adottato all’unanimità la legge di revisione costituzionale in
base alla quale la lingua berbera è ufficialmente riconosciuta come “lingua nazionale”, un termine
volutamente tenuto distinto da quello di “lingua ufficiale”, lo status conferito alla sola lingua araba.
Più che come un Paese che ha avviato una propria transizione democratica, la Mauritania si presenta
tuttora come un regime pretoriano. Il Paese raggiunge la sua indipendenza dalla Francia nel 1960 ed
è subito governata dalle élite politiche che avevano collaborato in passato con le autorità francesi,
motivo per il quale si assiste inizialmente a una sostanziale continuità nell’esercizio del potere
politico.
La Costituzione del 1960 istituisce una forma di governo di stampo presidenzialista che riconosce la
presenza di un unico partito, il Parti de Regroupement Mauritanien (PRM) e proclama la
Mauritania “Repubblica Islamica”. Il processo di arabizzazione dello Stato è diretto soprattutto
contro la componente nera della popolazione mauritana, in larga parte ancora in condizione di
schiavitù, che sarà definitivamente abolita solo nel 1981.
Nel 1991 il regime militare salito al potere nel 1978 acconsente all’adozione di un testo
costituzionale approvato a larghissima maggioranza (98% dei voti) da un referendum popolare al
quale fanno seguito le prime elezioni presidenziali. La Repubblica di Mauritania conosce in seguito,
con l’elezione di Ould Taya alla carica di Presidente della Repubblica, un regime fortemente
autoritario basato sulla primazia della maggioranza mauro-berbera, nel quale la lingua araba era
l’unica ad essere riconosciuta e che vietava la possibilità di costituire partiti politici fondati su base
religiosa, regionale o etnica.
Seguono due colpi di stato militari: il primo di Ely Ould Mohamed Vall apre una breve parentesi
democratica nel Paese all’insegna della transizione costituzionale democratica e approda
all’indizione delle prime elezioni popolari nel 2007. Tale esperienza democratica sarà interrotta dal
successivo colpo di stato del 2008, grazie al quale l’attuale Presidente della Repubblica, il generale
Mohamed Ould Abdel Aziz, assume il potere, salvo poi essere confermato tramite le elezioni del
2009.
L’eterogeneità etnico-culturale è un fattore che accomuna i Paesi del continente africano e in
particolare quelli dell’Africa Subsahariana, essa è stata la principale causa della scissione interna
del Sudan nel 2011. Il Paese è sempre stato caratterizzato dalla contrapposizione tra una
maggioranza arabo-musulmana presente nel Nord del Paese e il Sud nel quale prevalgono le
religioni tradizionali o legate al cristianesimo.
In un contesto di costante interdipendenza tra diritto e religione, il Sudan rappresenta un caso
interessante che mostra come la religione possa esercitare il suo impatto sul processo di
consolidamento democratico.
La Sharia è stata riconosciuta come fonte generale del diritto solo con le “leggi di settembre” del
1983, prima di allora essa disciplinava esclusivamente i rapporti tra musulmani. L’islamizzazione
del Sudan attuata da Numeiri trova però i suoi maggiori limiti nella mancata attuazione di altrettanti
interventi sulla struttura sociale del Paese e nel riferimento a una particolare interpretazione della
legge islamica non unanimemente condivisa. Il Sudan è dunque diventato, nonostante le resistenze
del Sud del Paese, un esempio unico di Stato islamico nel mondo musulmano sannita.
Sotto la spinta della Comunità internazionale e nell’intento di conformarsi agli standard
internazionali in materia di tutela dei diritti umani è stato poi adottato il testo costituzionale del
1999. Al suo interno la sovranità sembra essere attribuita al popolo (per via della natura
repubblicana affermata in Costituzione) e al contempo promanare dall’autorità divina. La
secolarizzazione dello Stato appare dunque prettamente formale soprattutto in presenza di
disposizioni dalla chiara portata religiosa-confessionale. L’art. 65 in particolare erige a parametro di
costituzionalità della legislazione statale (accanto al referendum popolare e alla Costituzione) la
stessa
Sharia,
conformemente
alla
quale
devono
essere
interpretati
i
diritti
umani.
A seguito della scissione in due distinte entità statuali e in attesa di una nuova fase costituente
rimangono in vigore le Costituzioni transitorie del 2005. La Costituzione del Sudan si pone in
diretta continuità con quella del 1999, mentre in quella del Sud Sudan il principio di separazione tra
Stato e religione è affermato più chiaramente.
La III sessione del Convegno è stata dedicata alla nuova Costituzione tunisina, considerata da molti
esperti come un caso di successo all’interno del panorama delle transizioni costituzionali nei Paesi
arabi.
Sono intervenuti Tania Groppi, Pietro Longo, Tania Abbiate e Giammaria Milani.
A partire dalla Seconda Guerra Mondiale si assiste all’affermarsi di una tendenza verso il
“costituzionalismo globale”. L’avanzamento della democrazia è inevitabile in un contesto altamente
globalizzato come quello odierno ed è tale per cui nel 2013 il 45% degli Stati sono democrazie (a
fronte del 29% nel 1974).
Il costituzionalismo globale comporta in particolare l’adozione di costituzioni scritte e rigide, dotate
di alcune caratteristiche contenutistiche comuni (quali la garanzia dei diritti e delle libertà, la
separazione dei poteri, lo svolgimento di libere elezioni, l’apertura al diritto internazionale dei diritti
umani e il decentramento territoriale del potere), che determinano la convergenza verso una forma
di Stato qualificata come “Stato costituzionale” (o di democrazia costituzionale).
Con le “primavere arabe” del 2011 anche Medioriente e Nord Africa hanno conosciuto tale
tendenza. All’interno di quest’area geografica la Tunisia si pone senz’altro come precursore poiché
non solo conosce la propria rivoluzione nel 2010 ma risulta anche essere, secondo il rapporto di
Freedom House del 2014, lo Stato che guadagna più punti rispetto all’indice di libertà che aveva nel
2009.
La Costituzione tunisina del 2014 prevede tra l’altro una giustizia costituzionale, un procedimento
aggravato di revisione costituzionale e delle disposizioni intangibili, costituite dall’art. 1 (già
presente nel testo del 1959), dal nuovo art. 2 sulla forma di Stato (i quali “reggono tutta la
Costituzione”), dall’art. 49 sui diritti e le libertà e dall’art. 75, relativo alla durata del mandato
presidenziale.
Peraltro, il catalogo dei diritti risulta essere particolarmente ampio e al suo interno la dignità occupa
una posizione centrale tanto che la stessa Costituzione tunisina può essere ascritta alla categoria
delle c.d. ”Costituzioni dignitarie”.
Al contempo la Costituzione tunisina non manca di introdurre chiari elementi d’identità
costituzionale, attraverso ad esempio il riferimento all’Islam e alla lingua araba, i quali
appartengono alla storia e alla cultura nazionale del Paese.
In tal modo, come un Giano bifronte, la Costituzione del 2014 mantiene uno sguardo rivolto al
passato, preservando la sua tradizione locale e uno al futuro, teso ad aspirare al costituzionalismo
globale.
In Tunisia il richiamo all’Islam tramite la clausola confessionale contenuta nell’art. 1 della
Costituzione non è stato sufficiente a sviluppare una dottrina del costituzionalismo islamico simile a
quella promossa dalla Suprema Corte Costituzionale egiziana. Tale testo evita infatti di richiamare
le fonti del diritto islamico (nel corso del processo costituente lo stesso partito di maggioranza
Ennahda scelse di non introdurre espressi riferimenti alla Sharia) e non sarebbe ipotizzabile la
presenza nel Paese di un organo giudiziario di matrice musulmana avente il compito di esaminare le
leggi approvate dal Parlamento.
Occorre difatti ricordare che il costituzionalismo islamico si basa sia sulle fonti del diritto islamico
(Quran e Sunna), contenenti un numero esiguo di disposizioni che su principi di natura
consuetudinaria che derivano dal consenso dei dotti giurisperiti musulmani (ijma‘). Da qui nasce la
distinzione tra la Sharia (la legge islamica rivelata) e il fiqh, ossia la giurisprudenza prodotta dai
fuqaha’ (i giuristi).
Nell’ordinamento tunisino non si è mai proceduto a un’attuazione e ad una codifica della Sharia,
complice anche il mancato riferimento a quest’ultima già nella Costituzione del 1959. In Tunisia la
Sharia si pone dunque al di sopra del diritto positivo, come un insieme di principi generalmente
condivisi, tesi ad orientare il legislatore e i giudici più che a fungere da vero parametro di
costituzionalità.
Una delle principali caratteristiche della “rivoluzione dei gelsomini” in Tunisia è stata la
partecipazione popolare all’elaborazione dell’attuale Costituzione, resa possibile sia da strumenti di
e-partecipation che da opportunità di confronto diretto tra deputati e cittadini, nonché da
manifestazioni di piazza. Grazie all’attivismo dimostrato non solo dai gruppi formali, come le
ONG, ma anche da quelli informali, la società civile ha esercitato un ruolo di impulso e di controllo
sul processo di adozione della Costituzione tunisina da parte dell’Assemblea Nazionale Costituente
(ANC). Il risultato è stato dunque quello di una “Costituzione partecipata”, grazie alla quale è stato
possibile risolvere l’impasse del 2012 e del 2013.
Superando l’influenza francese presente nella Costituzione del 1959, la Tunisia valorizza oggi
l’autonomia delle collettività territoriali affidando allo Stato il compito di rinforzare il
decentramento (art. 14), il quale è posto tra i principi generali. Al decentramento è inoltre dedicato
un intero capitolo in Costituzione (art. 131-142) e la materia, spesso coperta da una serie di riserve
di legge, è disciplinata seguendo i principi enunciati nella Carta europea dell’autonomia locale.
La Costituzione tunisina ha dunque posto le premesse per il superamento dei principali ostacoli che
in passato erano posti alla realizzazione di un reale decentramento e che riguardano principalmente
la retorica dell’unità e il ruolo che si è voluto riconoscere allo Stato centrale nelle politiche di
sviluppo e ammodernamento.
La IV sessione del Convegno è stata dedicata alla transizione marocchina illustrata dagli interventi
di Francesco Biagi, Francesco Alicino e Carlo de Angelo.
Il Marocco conosce la sua prima Costituzione democratica nel 2011, la quale segna un punto di
svolta rispetto alle cinque precedenti Costituzioni adottate durante il Regno di Hassan II.
Nonostante tale testo sia stato adottato sotto la spinta esercitata dal “Mouvement du 20 Février” è
stato il Re Mohammed VI a dettare le linee guida che dovevano orientare il processo costituente
(indicate nel suo discorso del 9 marzo 2011). Le forze politiche si sono successivamente limitate a
recepire le direttive corrispondenti alla volontà del Sovrano cosicché si può parlare di
una
Constitution octroyée.
La stessa Commissione Consultiva per la Revisione della Costituzione, organo ad hoc istituito per
redigere il progetto di Costituzione, ha svolto il suo mandato in tempi estremamente rapidi (soli tre
mesi) e senza che fosse garantita alcuna partecipazione da parte della società civile e di
conseguenza nessuna forma di trasparenza. Ai partiti, ai sindacati e alle organizzazioni sociali è
stato ciononostante attribuito un ruolo più incisivo all’interno del processo costituente,
permettendogli di presentare richieste non solo scritte ma anche orali e di incontrare i membri della
Commissione.
Il testo della Costituzione è stato approvato tramite referendum dal 98% della popolazione
marocchina (una larghissima maggioranza che viene spesso raggiunta nei referendum costituzionali
promossi in Marocco). Un simile risultato deve però essere letto alla luce della precedente azione di
propaganda promossa dal regime e dalle accuse di brogli elettorali riportate. La transizione
costituzionale democratica del Marocco presenta quindi tutta una serie di criticità o “ombre”.
Coerentemente con quanto previsto dai testi previgenti, la Costituzione del 2011 riafferma il
modello confessionale e la funzione di guida politica e religiosa del Presidente della Repubblica del
Marocco (che è sia il Capo dello Stato sia il Principe dei credenti), conferendo all’Islam, declinato
secondo i dettami dell’orientamento malikita, una dimensione statalista.
La forma monarchica dello stato marocchino e la religione musulmana appaiono come elementi
centrali nel testo costituzionale e sono legati tra loro da un rapporto di mutua legittimazione, poiché
l’Islam stesso risulta essere funzionale all’affermazione del potere politico della Monarchia. Essi
sono peraltro elementi inderogabili e imprescindibili dell’ordinamento, come dimostra la loro
intangibilità.
Il progetto di Costituzione sottoposto a referendum elimina il riferimento alla libertà di coscienza
che nel testo previgente era garantita indipendentemente dall’appartenenza a una determinata
religione. In precedenza era dunque sancita la libertà della religione e soprattutto dalla religione.
Tale riferimento è stato eliminato per via delle pressioni esercitate dal partito di maggioranza,
Giustizia e Sviluppo (PJD), il quale voleva salvaguardare l’identità islamica del Regno.
Ciononostante, non mancano disposizioni costituzionali dalla chiara vocazione liberale, contenute
prevalentemente all’interno del preambolo e che evocano l’aspirazione del Paese verso il
costituzionalismo globale (si pensi al richiamo ai trattati internazionali ratificati in materia di diritti
umani).
Peraltro, l’art. 1 della Costituzione si riferisce esclusivamente all’Islam moderato e l’art. 3
controbilancia il riconoscimento dell’Islam come religione di Stato con la garanzia del libero
esercizio dei culti.
Tali importanti disposizioni introdotte per la prima volta della Carta fondamentale del Marocco
permettono di valutare positivamente la transizione in corso, nonostante permangano forti criticità
legate perlopiù ai condizionamenti esercitati dalla passata tradizione costituzionale.
Il fenomeno delle migrazioni è nel caso del Marocco d’indubbio rilievo costituzionale, soprattutto
se si considera che il 10% della popolazione risiede all’estero per un valore totale delle rimesse pari
a circa 6 miliardi di dollari nel 2011. Durante la seconda metà del XX secolo l’emigrazione è stata
assistita e istituzionalizzata tramite la firma di accordi bilaterali con gli Stati dell’Europa
Occidentale per la fornitura di manodopera. Negli anni ’70 si è assistito al fenomeno dei
ricongiungimenti familiari e in seguito a quello delle emigrazioni volontarie.
La legge n. 02-03 del 2003 afferma di conformarsi ai trattati internazionali in materia
d’immigrazione illegale nel suo territorio e in mancanza di una disciplina puntuale che regolasse il
fenomeno migratorio e che disciplinasse i diritti dei migranti, l’unica forma di tutela derivava dalla
ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sui migranti3. Ciononostante, in assenza di
disposizioni che indicassero come procedere al recepimento delle norme convenzionali o che
indicassero come risolvere l’antinomia tra norme pattizie e quelle di diritto interno, il recepimento
delle norme di diritto internazionale all’interno dell’ordinamento marocchino non era agevole.
Peraltro la stessa applicazione dei trattati era subordinata ad una loro pubblicazione in Gazzetta
Ufficiale, un atto questo che era però discrezionale.
La Costituzione del 2011 risolve in parte tali criticità, riconoscendo la superiorità dei trattati
internazionali e prevedendo l’obbligo di pubblicazione degli stessi in Gazzetta Ufficiale.
Con la Sessione V sono state esaminate le recenti tendenze evolutive dell’esperienza costituzionale
iraniana e turca rispettivamente da Luciana De Grazia e Valentina Rita Scotti.
La Costituzione dell’Iran entra in vigore dopo la rivoluzione del 1979, al suo interno
l’organizzazione dello Stato si fonda sulla centralità del potere religioso. In particolare è la religione
sciita (che prevede la sacralizzazione dell’Imam) ad essere istituzionalizzata, nonostante
quest’ultima sia generalmente minoritaria nel mondo arabo. L’Islam sciita era già riconosciuto
come religione di stato nella Costituzione del 1906, la quale istituiva una forma di governo
monarchico-costituzionale e nella quale il diritto islamico si configurava come parametro di
legittimità delle leggi.
Inizialmente la Costituzione del 1979 affidava il ruolo di Guida suprema, ossia di vertice
istituzionale dello Stato sia in ambito religioso che politico, al Presidente della Repubblica il quale
era eletto a vita da un’Assemblea di esperti. Con la riforma del 1989, resa necessaria al momento
3
Convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie,
adottata dall’Assemblea Generale il 18 dicembre 1990.
dell’individuazione del successore di Khomeini, la figura del Presidente della Repubblica perde la
sua connotazione religiosa, egli è incaricato esclusivamente dell’azione di governo e assorbe le
funzioni del Primo Ministro. Il Presidente diventa dunque la più alta guida dello Stato dopo
l’autorità religiosa, rappresentata dalla Guida suprema.
È dunque possibile notare come nel corso del tempo si sia assistito a un prevalere del ruolo politico
anziché religioso della Guida suprema, contrariamente a quanto previsto dalla religione sciita.
Accanto a una simile politicizzazione dell’elemento islamico si assiste a una sovrapposizione tra
organi religiosi e non, cosicché coesistono corti religiose e civili. Inoltre, al Consiglio dei Guardiani
è affidato il compito di verificare la conformità delle leggi rispetto al diritto islamico, potendo porre
un veto assoluto sulle decisioni adottate dal Parlamento.
L’Iran può dunque essere definito come un’autocrazia costituzionale in cui la Costituzione procede
dal diritto religioso e non viceversa. Nonostante l’evoluzione seguita dopo il 1979 il caso iraniano
mostra i limiti della circolazione dei modelli costituzionali, i quali in questo caso non sembrano
essere stati recepiti.
La Costituzione vigente in Turchia è stata adottata nel 1982 a seguito di un colpo di stato militare.
Nel corso degli anni sono state emendate numerose disposizioni costituzionali, relative alla
possibilità per la minoranza curda di avere accesso all’educazione, alle competenze della Corte
Costituzionale e all’elezione diretta del Capo dello Stato (revisione quest’ultima che, lo scorso
agosto 2014, ha permesso a Erdogan di diventare il primo Presidente della Repubblica eletto).
Manca ciononostante una revisione organica del testo costituzionale che possa portare all’adozione
di una Costituzione che promani direttamente dal popolo e che non sia un risultato imposto dalle
forze militari.
La Commissione di riconciliazione alla quale era stato affidato il compito di presentare un nuovo
progetto di Costituzione (dapprima entro il 2012, termine successivamente prorogato al 2013) è
stata infatti sciolta per via del mancato raccordo tra le diverse forze politiche.
Negli ultimi anni l’ordinamento turco si è ispirato prevalentemente a paradigmi alternativi rispetto a
quelli occidentali, favorendo una riapertura verso il mondo arabo (così deve essere interpretato il
riconoscimento di Hamas che ha portato alla rottura del rapporto storico con Israele) e un revival
non solo panislamico ma anche panturamico, attraverso il rafforzamento delle relazioni con il vicino
caucasico.
Ciononostante i rapporti con l’Occidente rimangono saldi, essendo garantiti dall’appartenenza della
Turchia alla NATO, dalla sua frequente richiesta di pareri al Consiglio d’Europa e non da ultimo
anche dalla sua complessa strategia di relazioni con l’Unione Europea.
Nella VI ed ultima sessione del Convegno Ciro Sbailò ha trattato il tema del costituzionalismo in
Egitto.
Il 14 gennaio 2014, in un clima segnato da scontri politici e di piazza, è approvata per via
referendaria la nuova Legge fondamentale dell’Egitto.
Al suo interno, accanto al ripristino del
tradizionale ruolo della Corte costituzionale e alla riaffermazione della garanzia dei diritti
fondamentali, tra cui l’assoluta libertà religiosa e l’uguaglianza formale e sostanziale tra uomini e
donne, si ribadisce l’importanza dei “principi sciaraitici” in quanto principale fonte della
legislazione (art. 2). Emerge dunque un conflitto tra la tendenza alla statalizzazione dell’Islam
(evidente per esempio nel controllo esclusivo della Corte costituzionale sulla sciaraiticità delle
leggi) e quella all’islamizzazione dello Stato.
Nello specifico, adottando un approccio ermeneutico al testo è possibile individuare tre Costituzioni
poste in relazione sistemica tra loro. La prima costituisce il nucleo del sistema ed è una Costituzione
di emergenza, finalizzata a garantire all’élite militare il controllo del processo di transizione e ad
assicurargli l’ultima parola in merito ad ogni decisione politica riguardante gli affari militari e la
sovranità statale.
La seconda è invece rappresentata dal patto costituzionale raggiunto tra l’élite militare, l’alta
magistratura (che ha storicamente potuto beneficiare di particolari prerogative d’indipendenza e
autorevolezza) e le forze politico-sociali non islamiste. Essa riguarda la forma di governo, la
Costituzione economico-sociale, le garanzie giurisdizionali e il pluralismo politico. I rapporti tra
Esecutivo e Legislativo registrano un’importante semplificazione, dovuta all’abrogazione della
seconda Camera e all’introduzione di una più vivace dialettica tra i poteri (il Presidente può ad
esempio essere rimosso e persino sfiduciato), che accompagna il rafforzamento delle prerogative
presidenziali (rilevanti soprattutto nel caso di sospensione della democrazia). Infine, la terza
Costituzione vede il patto costituzionale declinato in chiave universalistica e umanitaria, attraverso
il richiamo nel preambolo ai grandi valori della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà che sono
anche il frutto dello sviluppo storico raggiunto dall’Egitto.
Nonostante all’élite militare e al potere giudiziario sia attribuito un ruolo di garanti del sistema (si
consideri il monopolio del potere di guerra che detiene l’esercito), è la forza legittimante della terza
Costituzione, conforme ai principi del costituzionalismo democratico, a garantire il funzionamento
della prima.
I lavori del Convegno terminano con la relazione di Orsetta Giolo sul neocostituzionalismo
nell’esperienza araba. Quest’ultimo è una corrente giusfilosofica affermatasi nella seconda metà del
‘900 con il diffondersi delle Costituzioni rigide.
Esso emerge da una connessione necessaria tra “diritto” e “morale”. Il tema della giustizia si
presenta dunque come problema giuridico dato che ha importanti conseguenze dal punto di vista
della limitazione del potere.
Le nuove Costituzioni nel mondo arabo devono dunque essere lette come il risultato di un
compromesso storico attraverso il quale si vuole ridefinire l’idea di giustizia. Per tale motivo uno
dei tratti comuni a tutti i testi riguarda la limitazione dei poteri, tutt’ora in corso, attuata
principalmente tramite riforme importanti che riguardano: la precisazione e l’ampliamento
dell’elenco dei diritti e delle libertà fondamentali; il miglioramento dell’equilibrio dei
poteri
(attraverso l’introduzione di maggiori limiti al potere esecutivo) e il rafforzamento dell’autonomia
della magistratura.
Considerando i tempi lunghi dei quali necessitano sia le transizioni costituzionali è possibile
sposare una visione ottimista relativamente ai profondi mutamenti che hanno interessato e
continuano ad interessare i paesi arabi, confidando dunque nel continuo rafforzamento del processo
democratico.
Resoconto a cura della dott.ssa Ester Stefanelli