8 LAS CASAS SEPULVEDA appunti

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8 LAS CASAS SEPULVEDA appunti
II difficile riconoscimento dell'«altro»
(tratto da Dentro la storia vol. 1 di Ciuffoletti, Baldocchi, Bucciarelli, Sodi, Casa Editrice D’Anna)
Sino alla fine del XV secolo gli europei sapevano che in Africa e in Oriente vivevano popolazioni diverse da loro, ma avevano
elaborato strumenti culturali, basati sulla Bibbia e sulla filosofia greco-romana, sufficienti a spiegarne le diversità fìsiche e
comportamentali. In base a queste concezioni, il diverso colore della pelle e altre caratteristiche fisiche degli asiatici e degli
africani venivano spiegati ricorrendo alla discendenza di quelle popolazioni da differenti personaggi biblici: Noè, l’unico patriarca
sopravvissuto al diluvio, aveva avuto tre figli - Sem, Cam e Jafet - e le grandi stirpi umane derivavano da ciascuno di essi. (…)
La scoperta dell’America e delle sue popolazioni costituì però un’inquietante novità e aprì crepe profonde nell’ interpretazione
del mondo e della storia che aveva caratterizzato il pensiero medievale.
L’immagine degli indigeni che Cristoforo Colombo aveva tratteggiato nei suoi primi resoconti di viaggio era quella di
«selvaggi» che vivevano allo stato di natura: quasi in un nuovo Paradiso terrestre. Queste persone, che almeno apparentemente
sembravano prive di leggi, attività lavorative, pratiche religiose e proprietà privata, destarono una grande curiosità e sconvolsero
le certezze di una società convinta della propria superiorità.
Alla curiosità si sostituirono però ben presto altri atteggiamenti. Anzitutto, l’aspettativa per gli enormi guadagni economici che
si sperava di ottenere da terre che si favoleggiava piene di miniere d’oro e d’argento e da mitiche località dove vi era abbondanza
di tutto. Ne derivò la necessità di legittimare la violenza che veniva usata nei confronti degli indios per impadronirsi di quei
territori, confusa e spesso mascherata dall’intento di conversione al cristianesimo di queste nuove popolazioni. L’atteggiamento
che prevalse fu così la volontà di dominio su quelle terre e su quei popoli.
Perfino Colombo, tra i meno interessati ad accaparrarsi le ricchezze americane e tra i più convinti dell’opportunità di
conversione degli indios, non ebbe timore nei suoi scritti di manifestare lo stretto rapporto che intravedeva tra esplorazione, evangelizzazione e conquista.
Altri, con meno scrupoli di lui, non esitarono a compiere ogni sorta di nefandezze per ottenere in tempi rapidissimi enormi
fortune e immeritate ascese in campo sociale.
Uomini, semiuomini o animali?
Per poter legittimare questo atteggiamento di dominio fu però necessario rispondere prima a una serie di domande. Gli indios
erano uomini? Se lo erano, avevano ricevuto la rivelazione giudaico-cristiana? E se l’avevano ricevuta, perché si comportavano in
maniera diversa dagli europei?
Il problema di partenza era quello di spiegare la presenza degli indios nel Nuovo Mondo senza entrare in contraddizione con
quanto era descritto nella Genesi sul diluvio universale e sull’estinzione dì ogni essere umano a eccezione di Noè e dei suoi
figli, a loro volta padri di tutti i popoli conosciuti. Partendo dal presupposto che tutti gli uomini derivano dall’unico progenitore
Adamo (antenato di Noè) e dalla sua discendenza, si tentò di rispondere a questo problema elaborando articolate genealogie per
cui gli indios potevano comunque appartenere a un ramo secondario della stirpe ebraica.
Del resto, lo stesso pontefice Paolo III (1534-1549), nel 1537, si era pronunciato a favore della piena natura umana degli
indios e aveva vietato ogni forma di riduzione in schiavitù i (vedi la Bolla Veritas Ipsa in nota di chiusura).
Ma come spiegare allora una realtà cosi diversa da quelle già note? Tutte le popolazioni fino ad allora conosciute, per quanto
lontane e diverse da quelle europee, avevano una religione, delle leggi, delle gerarchie sociali. I primi indigeni conosciuti,
invece, sembravano privi delle caratteristiche proprie dell’uomo civile. Soprattutto la mancanza di pudore (enorme fu lo
sconcerto di fronte alla nudità degli indios) e alcune pratiche, come l’antropofagia (un vero e proprio tormentone della
pubblicistica del XVI secolo), o semplicemente lo spirito pacifico vennero visti come esempi di debolezza caratteristici più degli
animali che dell’ uomo. Si fece allora strada un’altra concezione, più utile per la volontà di conquista di cui abbiamo parlato,
che negava la piena umanità di quelle popolazioni. Paladino di questa posizione fu l’umanista spagnolo Juan Ginés de
Sepùlveda (1490-1573), il quale, utilizzando alcune affermazioni del filosofo greco Aristotele, giunse ad affermare che gli
indios non erano propriamente uomini ma homunculi, una sorta di sottospecie umana, naturalmente predisposta a una
condizione di schiavitù.
Il dibattito tra Las Casas e Sepùlveda
Principale oppositore della teoria di Sepùlveda fu Bartolomé de Las Casas (1474-1566) che, giunto nella Nuova Spagna da
Siviglia come encomendero, ben presto fu convertito alla difesa degli indios dalla predicazione di alcuni frati domenicani e dalle
atrocità di cui era quotidianamente testimone e decise di farsi egli stesso domenicano e di dedicare tutta la sua vita alla difesa
delle popolazioni oppresse.
Egli riuscì a inserire la sua azione di tutela degli indios all'interno del contrasto che si era creato tra i conquistadores e la
Corona: i primi, pur di ottenere un rapido arricchimento nel Nuovo Mondo, non avevano esitato ad attuare una politica di
distruzione e depauperamento degli uomini e delle terre loro affidate; ì sovrani spagnoli, al contrario, erano interessati alla
creazione di insediamenti duraturi, al mantenimento della manodopera indigena in condizioni di vivibilità e alla parziale
conservazione della loro organizzazione sociale.
Schierandosi apertamente in difesa degli interessi della Corona, Las Casas denunciò le atrocità dei conquistadores, si oppose
al lavoro forzato nelle encomiendas e propose la creazione di insediamenti liberi, dove gli indigeni lavorassero per il proprio sostentamento e consegnassero agli spagnoli soltanto il sovrappiù come ricompensa della protezione loro accordata. In questa sua
strenua difesa degli indios, Las Casas giunse persino, per garantire la produttività economica delle colonie, a suggerire
l’importazione di schiavi africani, considerati più resistenti. Benché fortemente avversato dagli encomenderos e da larga parte
del clero, egli potè realizzare un primo esperimento di quanto andava proponendo in un territorio che gli fu affidato e che
battezzò «La vera pace».
Le sue opere, specialmente la Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie, composta verso il 1539 ma pubblicata solo
nel 1552 e subito tradotta nelle principali lingue europee, scossero profondamente le coscienze più sensibili del Vecchio
Continente e dettero origine a quella che gli storici hanno chiamato la «leggenda nera», cioè la condanna delle atrocità degli
europei contro le popolazioni indigene.
Las Casas tornò ben sette volte in Spagna per perorare la sua causa e fu tanto insistente che perfino l’imperatore Carlo V
decise di ascoltare, assistito da una commissione di teologi e giuristi, le tesi contrastanti sulla natura umana degli indigeni.
Convocati a Valladolid nell’estate del 1550, Sepùlveda e Las Casas si confrontarono in un approfondito e lungo dibattito, che,
pur non avendo un vincitore, contribuì a cambiare l'atteggiamento delle autorità spagnole nei confronti degli indios.
Francisco de Vitoria e la «guerra giusta»
Una buona parte dell’ordine domenicano difese le posizioni di Las Casas. Tra tutti merita di essere ricordato Francisco de
Vitoria (1483-1546), teologo dell’Università di Salamanca, che nella sua Questione degli Indios (1539) non solo mostrò
l’infondatezza delle tesi tradizionali che legittimavano l'occupazione spagnola, ma sostenne che gli indios erano pienamente
uomini, anche se certe loro pratiche barbare (come i sacrifici umani o l’antropofagìa) mostravano che essi erano solo all’inizio
del cammino verso la civiltà. La dominazione spagnola poteva allora trasformarsi per loro in una occasione di civilizzazione,
raggiungibile proprio a partire dalla loro conversione al cristianesimo.
Ma il domenicano andò ben oltre, proponendo una nuova teoria sul diritto di guerra che lo colloca sul crinale tra tradizione
medievale e modernità. In particolare, interrogandosi su quali motivi potessero giustificare una guerra, egli negò legittimità non
solo alla ricerca della gloria, all’espansione territoriale, al rafforzamento dello Stato, ma anche alla differenza di religione:
veniva ritenuta ingiustificata ogni conquista, anche se presentata come una crociata, privando la politica espansionistica
spagnola di uno dei suoi più solidi fondamenti ideologici.
Per quanto le posizioni di Las Casas e di De Vitoria trovassero una nutrita serie dì oppositori, stimolarono nella legislazione
spagnola un'evoluzione in senso sempre più favorevole ai diritti degli indigeni, come appare dalle istruzioni emanate
dall'imperatore Carlo V nel 1520 e nel 1523 e soprattutto dalle Nuove Leggi delle Indie, promulgate a Barcellona nel 1542.
i
Veritas Ipsa è una bolla di Paolo III del 2 giugno 1537. Essa è conosciuta anche col nome di Sublimis Deus o di Excelsus Deus.
Già nella lettera al Cardinale di Toledo (29 maggio 1537), Paolo III scomunica “tutti coloro che ridurranno in schiavitù gli indios
o li spoglieranno dei loro beni”.
In questa bolla il Pontefice condanna le tesi razziste, riconosce agli indiani, cristiani o no, la dignità di persona umana, vieta di
ridurli in schiavitù e giudica nullo ogni contratto redatto in tal senso. Il Papa mette così fine alle numerose dispute tra teologi e
università, soprattutto spagnole, circa l’umanità degli indios d’America e sulla possibilità di ridurli in schiavitù. Il Papa tenendo
conto della dottrina teologica e della documentazione a lui pervenuta volle porre fine alle dispute ed emanò il verdetto: «Indios
veros homines esse».
Queste le disposizioni principali assunte dal Pontefice:
« Noi, sebbene indegni, … consideriamo tuttavia che gli stessi indios, in quanto uomini veri quali sono, non solo sono capaci di
ricevere la fede cristiana, ma, come ci hanno informato, anelano sommamente ad essa; e, desiderando di rimediare a questi mali
con metodi opportuni, facendo ricorso all’autorità apostolica determiniamo e dichiariamo con la presente lettera che detti indios
e tutte le genti che in futuro giungeranno alla conoscenza dei cristiani, anche se vivono al di fuori della fede cristiana, possono
usare in modo libero e lecito della propria libertà e del dominio delle proprie proprietà; che non devono essere ridotti in
schiavitù e che tutto quello che si è fatto e detto in senso contrario è senza valore; che i detti indios ed altre genti debbono essere
invitati ad abbracciare la fede in Cristo a mezzo della predicazione della parola di Dio e con l’esempio di una vita edificante,
senza che alcunché possa essere di ostacolo »
(Paolo III, Veritas Ipsa)
Il divieto di ridurre gli indigeni in schiavitù sarà ripetuto da papa Gregorio XIV (Cum Sicuti, 1591), da papa Urbano VIII
(Commissum Nobis, 1639), da papa Benedetto XIV (Immensa Pastorum, 1741) e da papa Gregorio XVI (In Supremo, 1839).