Introduzione*

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. Davanti alle mura dell’antica Corinto scendono, da ogni
dove, le greggi. La folla si accalca come in un giorno di mercato attorno a un «baldacchino rozzo e, insieme, barbaricamente raffinato, con pelli e ornamenti d’oro». Uno dei pastori ha portato al re Polibo un neonato, un trovatello abbandonato sul monte Citerone: il piccolo Edipo. In sottofondo, si leva un canto solenne e festoso: è una colinda romena, uno dei canti tradizionali che gruppi di giovani eseguono nei villaggi della Romania durante le festività del solstizio invernale.
È questa una delle prime scene, dopo il prologo moderno, dell’Edipo re di Pasolini, del , la cui colonna sonora è costituita quasi interamente da registrazioni di canti e
musiche popolari romene. Inizialmente, Pasolini aveva
pensato di girare l’Edipo in Romania e vi si era recato per
compiere i sopralluoghi in vista delle riprese. Contrariamente alle sue aspettative, gli era sembrato che il paese fosse in gran parte modernizzato, con il mondo delle campagne sottoposto a una vera e propria «rivoluzione industriale», senza che vi fosse rimasto «nulla di antico». Era un’immagine almeno in parte eccessiva, soprattutto per gli anni
Sessanta. Abbandonata, comunque, l’idea di condurvi le riprese (il film verrà girato in Marocco), Pasolini scopre in
Romania alcuni canti popolari che lo affascinano moltissimo, perché gli sembrano «estremamente ambigui, a metà
strada fra lo slavo, il greco e l’arabo», musica «indefinibile»
* I PARR. - sono di Dan Octavian Cepraga, il PAR.  è di Lorenzo Renzi.

e «fuori dalla storia» . Nella sceneggiatura aveva parlato di
«vera musica, popolare, di allora e di sempre: la musica del
mito della terra» .
Nel film, la storia di Edipo è ambientata in una Grecia
barbarica e remota, dai connotati tribali e storicamente imprecisabili. Le musiche e i canti che la accompagnano, ai
quali spetta una parte non trascurabile del fascino delle immagini, dovevano suonare, almeno all’orecchio di uno spettatore occidentale, altrettanto ancestrali e selvaggi: si tratta
di colinde (l’iniziale Juni cu juni se-ntîlniară), canti rituali della sepoltura (Cîntecul zorilor), lamenti funebri (un bocet la
mamă), canti dei riti agrari del solstizio di primavera (Drăgaica), tutti provenienti dal repertorio folclorico romeno . Il
senso di questa scelta si inquadrava in un’operazione intellettuale di vasta portata, che attraverso il riuso dei materiali
popolari tentava il recupero ideologico di una cultura contadina primordiale e incorrotta, che affondasse le sue radici
oltre la Storia, nel tempo ineffabile del Mito. Sensibile ai valori della poesia popolare (anche di quella italiana, di cui nel
 aveva curato una dotta e bellissima antologia), Pasolini
aveva individuato con precisione due caratteristiche fondamentali dei canti romeni: da un lato l’arcaicità, la forte conservatività della loro forma e dei loro contenuti, dall’altro la
loro natura culturalmente «ambigua», lo spiccato sincreti. Le dichiarazioni del regista si trovano nel famoso libro-intervista del
critico inglese Stack (, p. ), dove Pasolini spiega: «I found some folktunes which I liked a lot because they are extremely ambiguous: they are
half-way between Slav, Greek and Arab songs, they are indefinable: it is unlikely that anyone who didn’t have specialized knowledge could locate
them; they are a bit outside history. As I wanted to make Oedipus a myth, I
wanted music which was a-historical, a-temporal».
. Si cita dalla sceneggiatura pubblicata in Pasolini (), p. . La scena di Corinto, con il piccolo Edipo presentato a Polibo, si trova ivi, p. .
. La fonte (non dichiarata) da cui Pasolini ha tratto tutti i canti romeni confluiti nella colonna sonora dell’Edipo re sono i sei LP curati dall’etnomusicologo Alexandru (), che contengono materiali inediti e, spesso,
bellissimi, provenienti dall’archivio fonografico dell’Istituto di etnografia e
folclore di Bucarest.

smo, dovuto alla stratificazione e al rimescolarsi, al loro interno, di tradizioni molteplici ed eterogenee.
Nel terzo volume della sua Histoire des croyances et des
idées religieuses, uscito nel , Mircea Eliade, il grande storico delle religioni romeno, ricorrerà, non a caso, al folclore
del proprio paese per dimostrare la «sopravvivenza delle tradizioni religiose precristiane» nell’Europa moderna. Due
pratiche ancestrali delle comunità rurali romene – il rito dei
călu"ari e i canti del solstizio invernale (le colinde) – vengono utilizzate per illustrare il sincretismo pagano-cristiano
delle culture popolari europee e la resistenza nel corso dei
secoli del patrimonio mitico tradizionale . A questo scopo,
Eliade appronta una breve rassegna di temi e immagini tratti dal repertorio delle colinde, che testimoniano della continuità di un mondo simbolico e figurale dai tratti marcatamente arcaici. Un Dio costruttore plasma la Terra e appoggia il cielo su quattro pilastri d’argento; un giovane eroe lotta con il leone, lo doma e lo incatena; altri eroi inseguono bestie fatate e irraggiungibili; su un’isola in mezzo al mare cresce un albero gigantesco, l’Albero cosmico, piantato al centro del Mondo . Di fronte a questi materiali, Eliade si pone
il problema di trovare «un’ermeneutica adeguata delle tradizioni rurali», strumenti interpretativi, cioè, che sappiano
penetrare sino in fondo la creatività mitologica e poetica popolare, rivelandone gli strati più remoti . La questione era,
. Cfr. Eliade (-), vol. III, cap. XXXVIII, parr. -, trad. it., pp.  (Sopravvivenza delle tradizioni religiose precristiane; Simboli e rituali di
una danza catartica). Molti dei materiali presentati nei due paragrafi erano
stati anticipati in Eliade ().
. Cfr. Eliade (-), vol. III, trad. it., p. . Per alcuni dei tipi tematici ai quali Eliade – non sempre in maniera perspicua – fa riferimento, cfr.
infra, rispettivamente, PARR. ., ., ..
. Cfr. Eliade (-), vol. III, trad. it., pp. -; dell’importanza di
queste pagine all’interno del percorso critico eliadiano si era accorto, con la
solita fosca lucidità, Elémire Zolla (, p. ), che vi riconosce un passaggio cruciale dei modi in cui Eliade «si appropriò i tesori sapienziali della cultura contadina romena, unica in Europa per la persistenza di riti e miti e grandi personaggi arcaici».

del resto, già presente nel suo più importante saggio giovanile, Comentarii la legenda Me"terului Manole (), dove
l’analisi mitica e storico-religiosa di un canto vecchio (cîntec
bătrînesc) romeno diventava l’occasione per interrogarsi sui
modi in cui la creazione folclorica «lascia trasparire strutture della mentalità arcaica» e sui significati da attribuire alla
«permanenza di temi, simboli e scenari mitico-rituali arcaici
nelle culture popolari europee moderne» . Si potrebbe dire
che la lunga riflessione critica condotta sui prodotti della
poesia orale romena ha contribuito, in parte, a definire una
delle idee di fondo dell’ermeneutica eliadiana: l’ipotesi, cioè,
di un filo diretto che colleghi i valori simbolici e spirituali
delle società arcaiche e preistoriche con le culture popolari
e le folk-religions dell’Europa moderna .
Recentemente Carlo Ginzburg, seguendo in parte suggestioni eliadiane (ma, va detto, con premesse metodologiche affatto diverse), ha preso in considerazione la pratica cerimoniale delle colinde, assieme ad altri riti tradizionali romeni dei Dodici Giorni e della Pentecoste, all’interno della
sua ampia e complessa indagine sulle radici folcloriche del
sabba stregonesco e, più in generale, sulla circolazione e la
sopravvivenza di miti e riti eurasiatici di tipo sciamanico
nelle culture popolari europee. Anche in questo caso, le testimonianze folcloriche romene sono adibite a dimostrare la
persistenza di credenze e scenari mitico-rituali antichi, appartenenti a strati culturali più che millenari. I colindători
. Eliade (); cfr. anche Scagno (, pp. XIII, XVI), dal quale provengono le citazioni.
. Nella Prefazione al fondamentale De Zalmoxis à Gengis-Khan Eliade
dirà, appunto, che non c’è nulla di più «appassionante e stimolante, per la
coscienza occidentale, che lo sforzo di comprendere quelle creazioni “preistoriche” e “protostoriche” che si sono stratificate e conservate, durante i
millenni, nelle culture esotiche, primitive e “folkloriche”» (Eliade, ,
trad. it., p. ). Rimossa l’inerzia interpretativa di certi schemi ideologici precostituiti, si potrà riconoscere la sostanza consimile, anche se con presupposti diversi, delle posizioni di Eliade e di Pasolini nei confronti della cultura popolare.

romeni, gli esecutori cioè dei canti rituali, sono collocati all’interno di una lunga serie comparativa che comprende altri gruppi di tipo iniziatico, esecutori di riti legati tra loro da
corrispondenze morfologiche e mitico-simboliche, e anche,
probabilmente, da più nascoste connessioni di carattere storico-culturale: i călu"ari (danzatori rituali, attivi nei villaggi
romeni nel periodo della Pentecoste), i benandanti friulani,
i táltos ungheresi, i kresniki balcanici, i burkudzäutä del
Caucaso ...
Abbiamo ricordato tre momenti importanti della ricezione del folclore romeno da parte della cultura occidentale
odierna. Pur con motivazioni e scopi diversi, in tutti e tre i
casi l’interpretazione, o il riuso, dei materiali popolari romeni si fonda, come si è visto, sulla natura arcaica dei loro contenuti, sulla loro capacità di aprire prospettive inedite su
strati antichissimi di civiltà. Indubbiamente, queste letture
poggiano su alcuni dati di fatto. Radicata all’interno di una
lunga tradizione orale, proveniente da una di quelle «province che hanno gravitato ai margini degli Imperi e sono sopravvissute alla loro caduta» , la poesia popolare romena
può riservare al lettore occidentale la vertigine della scoperta di un mondo Altro, un universo culturale remoto e complesso, per alcuni versi esotico, che fino a solo una generazione fa era ancora vivo nei riti e nei prodotti poetici di una
società rurale dell’Europa sud-orientale.
I due generi orali rappresentati nell’antologia – canti vecchi e colinde – sono, per molti aspetti, un terreno privilegiato per misurare l’arcaicità e la complessità culturale della tradizione romena . Entrambi i generi, ancora nei primi de-
. Cfr. Ginzburg (), in particolare pp. -, -.
. Eliade (), trad. it., p. .
. Abbiamo tradotto con “canto vecchio” la denominazione tradizionale del genere cîntec bătrînesc. Nella folcloristica romena è molto diffuso
anche il termine baladă (“ballata”), introdotto da Alecsandri per suggestione romantica, ma ignoto alla tradizione popolare. Abbiamo lasciato invariata in italiano la denominazione colindă (pl. colinde), termine che fa parte

cenni del Novecento, erano eseguiti e fruiti attivamente, in
forme relativamente coerenti e perspicue. Lungi dall’essere
manifestazioni isolate, essi facevano parte di un sistema folclorico ancora vivo, formato da riti, credenze e scenari cerimoniali che riguardavano tutto il dominio dell’esistenza e
avevano mantenuto, in gran parte, la loro integrità . I canti
vecchi (cîntece bătrîne"ti) rappresentano la categoria più importante di testi versificati a carattere narrativo del folclore
romeno: essi costituiscono un larghissimo repertorio di narrazioni eroiche, fantastiche e leggendarie di tradizione completamente orale. Le colinde sono, invece, canti rituali con
funzione augurale, che accompagnano la più rilevante cerimonia collettiva dei villaggi romeni nel periodo del solstizio
invernale, fra Natale ed Epifania. Al loro interno si trovano
materiali narrativi e simbolici connessi ai temi mitico-rituali
dell’anno nuovo, al ciclo della vita, alle leggende e al calendario liturgico cristiano, all’agiografia popolare .
Questa vasta produzione poetica tradizionale è, come abbiamo detto, pressoché unica nel panorama della poesia popolare europea per la sopravvivenza al suo interno di contenuti arcaici, altrove scomparsi o presenti in forme ridotte e
disgregate. Grandi miti ancestrali, di pertinenza antropologica, immagini e temi che rimandano a strati culturali antichissimi occupano un posto centrale all’interno del repertorio orale romeno, assumendovi forme coerenti e compiute
dal punto di vista narrativo e simbolico. Il Sole e la Luna, uno
dei canti vecchi più originali e complessi, mette in scena una
di un più vasto gruppo di parole di origine latina entrate nel lessico romeno attraverso lo slavo meridionale. Alla sua base sta la forma antico-slava
koleda, a sua volta dal latino calendae, le cui continuazioni si ritrovano nella maggior parte delle varietà slave moderne.
. Per una classica presentazione generale del folclore romeno cfr.
Bîrlea (-); più recente l’ottima sintesi di Constantinescu (); utilissimo infine Talo" (), un dizionario completo della mitologia popolare romena.
. Per una sintesi dei generi epici cfr. Renzi ().

cosmogonia primordiale, in cui i due astri personificati sono
fratello e sorella e la colpa della loro passione incestuosa si
pone, eziologicamente, all’origine del Mondo e del Tempo.
La vicenda di Mastro Manole è una potente rielaborazione
poetica di un antico tema mitico-rituale, radicato in numerose culture tradizionali: il sacrificio di fondazione, compiuto per assicurare vita e durata a un edificio . Un vasto gruppo di testi, che rappresentano con ogni probabilità uno dei
nuclei originari dell’epica romena, è incentrato sull’iniziazione premaritale e sui riti che segnano il passaggio dei giovani allo stato di adulti. Al suo interno si dispiegano scenari
fantastici, di impianto fiabesco, in cui gli eroi lottano corpo
a corpo con gigantesche femmes sauvages, uccidono draghi,
affrontano fate malevole e altre creature femminili mostruose e demoniache .
Gli esempi potrebbero continuare: l’eredità arcaica e le
implicazioni di mitologia popolare pervadono i canti vecchi
attraversando l’intero repertorio. Anche quando si incontrano temi e figure che paiono risalire ad ambiti culturali più recenti, è facile leggervi in filigrana la presenza di un sostrato
più antico, sul quale si sono sovrapposti nuovi significati. È
il caso dei canti dedicati agli haiduci, briganti valorosi che vivono alla macchia, sfidando l’ordine sociale e il potere costituito. Certi personaggi, come quello di Toma Alimo" o di
Corbea, al di là della loro caratterizzazione immediata secondo il tipo dello haiduc, sembrano rifarsi a modelli eroicocavallereschi più remoti, lasciando affiorare tratti che ricordano il chevalier del romanzo medievale occidentale o, spingendosi ancora più indietro, il tipo arcaico del guerriero, dominato dalla colpa, dalla collera eccessiva, dalle violenze ingiustificate. Perfino in un canto ispirato a un fatto storico relativamente recente – la decapitazione, da parte del sultano,
. Cfr. infra, PARR. ., .. Per Il Sole e la Luna cfr. anche Chit,imia
().
. Su questa importante categoria di canti cfr. innanzitutto Ispas ();
cfr. inoltre infra, PAR. ..

del voivoda Constantin Brîncoveanu avvenuta nel  – vibrano echi più lontani, che riportano l’intera vicenda all’interno del modello mitico della leggenda sacra .
. Sarebbe sbagliato, tuttavia, considerare i canti narrativi e
rituali romeni testimonianze immobili e cristallizzate di una
mentalità arcaica tout court. In realtà, la poesia dei canti vecchi e delle colinde è il risultato di una stratificazione dinamica di temi, immagini e significati, al cui interno si possono
ancora leggere, con relativa chiarezza, le continue ricodificazioni ideologiche e culturali subite dal repertorio nel corso della sua storia plurisecolare, tutta consumata nella dimensione dell’oralità. I significati tradizionali e precristiani
sono risemantizzati nell’ambito del sistema simbolico e dottrinario del cristianesimo, gli elementi arcaici convivono accanto a innovazioni recenti, il piano mitico del racconto si riflette continuamente sulla dimensione rituale e affabulatoria
dell’esecuzione, in una situazione in cui – con le parole di
Paul Zumthor – «locutore, destinatari, circostanze si trovano fisicamente a confronto, indiscutibili» . Queste dinamiche complesse di interazione tra livelli culturali, dovute all’intreccio di mitologie, tradizioni spirituali, sistemi simbolici di diversa origine, determinano la fisionomia e la specificità poetica di entrambi i generi qui rappresentati.
Il caso delle colinde è, in questo senso, particolarmente
eloquente. A un primo livello, il repertorio narrativo e simbolico dei canti rinvia direttamente ai contenuti della “grande festa” solstiziale che celebra la fine dell’anno vecchio e l’inizio di quello nuovo. Vi si riconoscono i temi caratteristici
del Capodanno agrario, radicati nella storia più antica dell’umanità e largamente diffusi presso la maggior parte delle
civiltà europee e del Vicino Oriente: l’identificazione del ciclo solare e del ciclo agronomico, le implicazioni funebri, le
. Cfr. infra, PARR. .-..
. Zumthor (), trad. it., p. .

connessioni con i sistemi di produzione e rinnovamento delle riserve alimentari, in una parola, la rifondazione del ciclo
vitale o, come direbbe Eliade, la rigenerazione periodica del
Tempo. Da questo punto di vista, le colinde romene si inquadrano in un ampio orizzonte culturale e religioso, di
chiara matrice precristiana . La loro antichità è dimostrata
anche dalla vasta diffusione della pratica del colindat, che è
attestata in forme sostanzialmente simili in tutto il Sud-Est
europeo, presso romeni, bulgari, ucraini e, in forme più ridotte, presso greci, polacchi e altri popoli slavi .
D’altro canto, la grande cerimonia delle colinde è saldamente legata nella coscienza dei suoi esecutori e destinatari
popolari alle grandi feste cristiane del Natale e dell’Epifania
e ai loro significati religiosi. Il cristianesimo ha segnato in
maniera profonda e sostanziale non solo il contenuto dei testi, ma anche il senso e le funzioni della pratica cerimoniale.
Il repertorio narrativo del colindat comprende l’intero kérygma cristiano, cioè i contenuti principali della predicazione
apostolica, dalla Natività al Battesimo, alla Passione, alla Resurrezione. Vi si trovano, inoltre, rielaborati, episodi apocrifi, leggende cristiane popolari, racconti agiografici, frammenti di testi liturgici. Gli esecutori stessi dei canti, i colindători, sono considerati santi, che portano materialmente
Dio nelle case degli uomini. Essi sembrano dotati di uno speciale carisma sacramentale, grazie al quale possono battezzare e convertire, trasformare gli uomini da pagani a cristiani. In questa prospettiva, la pratica del colindat ha instaurato rapporti complessi con la liturgia cristiana, collocandosi
su un piano emulativo e concorrenziale con i riti ufficiali del. Per uno sguardo d’insieme sul complesso mitico-rituale del Capodanno nella nostra prospettiva cfr. Lanternari (), pp. -; Eliade
(a), trad. it., pp. -; Meslin ().
. Dopo lo studio pionieristico di Veselovskij (), il lavoro fondamentale che raccoglie e discute un vasto materiale comparativo è Caraman (); in particolare, per le koljady russe cfr. Propp (), trad. it.,
pp. -.

la Chiesa. Nelle cosiddette colinde protocollari, che mettono in scena l’arrivo dei cantori nelle case del villaggio, il rito
stesso si autorappresenta come una sorta di azione liturgica
collettiva (parallela a quella della Chiesa) all’interno della
quale si realizza una vera e propria mise en abyme dei riti cristiani e dei loro significati .
Date queste premesse, non è difficile comprendere la natura multiforme, intricata, spesso sorprendente di molte colinde cristiane. Dio e Gesù arrivano nelle case del villaggio
assieme al gruppo dei colindători: a volte indossano una lunga veste purpurea su cui sono impresse immagini astrali, il
Sole, la Luna, le stelle. La Madonna partorisce in cima ai
monti, all’ombra di un tasso benevolo, che piega i suoi rami
per proteggerla. Santa Domenica, madrina e levatrice, arriva in ritardo al battesimo di Gesù bambino: per il dispiacere tenta di suicidarsi, gettandosi nelle acque del Giordano.
Gesù spiega ai santi che dal suo sangue caduto a terra durante la crocifissione ha avuto origine il vino, dai brandelli
della sua carne è nato il grano e dal suo sudore l’olio santo .
Siamo di fronte a una forma particolare di sincretismo
pagano-cristiano, tramandatosi per stratificazioni successive, nel cui ambito un cristianesimo popolare di tradizione
essenzialmente orale, vera e propria eredità delle origini, si
trova intrecciato ai miti e alle credenze della comunità rurale, in un processo dinamico fatto di compromessi e di condizionamenti reciproci. Come afferma Ovidiu Bîrlea, nelle
colinde
. Cfr. infra, PAR. .. Fra gli autori recenti è stata Sabina Ispas quella
che con più determinazione ha chiarito l’importanza degli elementi cristiani nelle colinde, in una serie di studi fondamentali (ora in Ispas, ). Sulla presenza del cristianesimo nelle colinde, e più in generale nella cultura
popolare romena, andranno ricordate anche le intuizioni di Teodorescu
() e le sostanziali acquisizioni critiche di Ionică () e Herseni (),
nel solco della famosa scuola di sociologia rurale di Dimitrie Gusti. Per una
sintesi della questione cfr. anche Cepraga (c).
. Cfr. infra, PARR. ., .-..

gli elementi cristiani sono assimilati nella stessa grande categoria
della mitologia popolare, e di conseguenza sottoposti a continue
rielaborazioni, mentre gli elementi mitici popolari sono ridimensionati mediante innesti e aggiunte cristiane: [...] fra di essi funziona continuamente un comodo ponte di passaggio .
Complessità culturale e stratificazione tematica contraddistinguono anche la fisionomia dei canti vecchi. Nel repertorio è ben riconoscibile un nucleo antico, originario, costituito da temi di natura fantastica, connotati in senso meraviglioso e dalle forti implicazioni mitiche. Alcuni temi, come
per esempio quelli di Mastro Manole, della Miorit,a, della pesca fatale della Vidra, sono presenti anche nel repertorio delle colinde, a testimoniare l’esistenza di un fondo comune di
miti e credenze, al quale i due generi folclorici hanno attinto indipendentemente, ciascuno secondo le proprie esigenze espressive. La dimensione epico-eroica dei canti vecchi
appartiene, con ogni probabilità, a una fase successiva della
vita del genere. Allo strato fantastico primordiale, che contiene motivi quali la ierogamia del Sole e della Luna, il sacrificio di fondazione, le prove iniziatiche premaritali, le iniziazioni professionali, si aggiungono altri materiali narrativi di
argomento eroico, legati per lo più all’immaginario feudale
e ai valori cavallereschi. Vi si trovano rappresentati imprese
e prove di valore guerriero, conflitti di corte fra boiari, vanti e gesta eroiche (o eroicomiche) compiute da famiglie leggendarie come quella dei Novac, episodi della lotta contro i
turchi o i tartari. A uno strato ancora più recente sono riconducibili i testi legati alle figure degli haiduci, connessi al
fenomeno storico del brigantaggio, sviluppatosi tra XVIII e
XIX secolo e diffuso, in forme simili, presso romeni, serbi,
bulgari e altre popolazioni balcaniche. Parallelamente, sono
entrati a far parte del repertorio tipi tematici privi di carat. Bîrlea (-), vol. I, p. . Sul sincretismo pagano-cristiano delle
colinde romene cfr. anche Constantinescu ().

teristiche eroiche, di orientamento lirico-narrativo e di ambientazione quotidiana, che rappresentano conflitti familiari o drammi sentimentali .
Come nel caso delle colinde, le diverse dimensioni culturali e narrative del genere convivono e si sovrappongono
all’interno dei singoli testi, i quali presentano, almeno nella
forma in cui li conosciamo dalle varianti raccolte negli ultimi centocinquant’anni, un carattere fortemente composito
e stratificato. In questa prospettiva, il canto mitico-fantastico delle nozze del Sole può includere una rappresentazione
dell’escatologia cristiana, mentre gli antichi temi iniziatici
delle prove di forza premaritali possono essere attualizzati
in senso avventuroso e romanzesco, sullo sfondo, storicamente determinato, della rivalità fra nobili valacchi e invasori turchi .
. Ramiro Ortiz, filologo romanzo e romenista italiano,
raccoglieva nel , sotto l’etichetta Medioevo rumeno, alcune riflessioni su una serie di coincidenze tra il folclore romeno e i prodotti culturali del Medioevo occidentale, evidenziando affinità e parallelismi. Il problema, assai complesso, veniva affrontato con gli strumenti interpretativi
dell’epoca, in sintonia con l’orientamento ideologico allora
predominante all’interno della filologia romanza. Il quadro
critico di riferimento presupponeva, cioè, l’idea che le manifestazioni poetiche popolari fossero gesunkenes Kulturgut, relitti di un patrimonio culturale decaduto, le cui origini andavano ricondotte a un ambito colto. Le analisi di Ortiz si riallacciavano, in questo modo, a tesi già vulgate, come quelle del grande storico romeno Nicolae Iorga sull’ori. Sulla tradizione e la fisionomia del repertorio dei canti vecchi cfr.
Caracostea (), in cui si trovano alcune pagine fondamentali di uno dei
migliori interpreti del folclore romeno; da ultimo cfr. le importanti analisi
di Ispas (, pp. -), che riprendono e sviluppano in maniera originale
proprio alcune idee di Caracostea.
. Cfr. infra, PARR. ., ..

gine colta e feudale dei canti vecchi, fatti risalire, attraverso
intermediari italiani e serbi, ai modelli della chanson de geste
francese .
Le tesi di Iorga sono largamente infondate. Non sussistono, infatti, elementi che possano comprovare filiazioni o
parentele dirette fra la poesia orale romena e le tradizioni letterarie dell’Occidente medievale. Allo stesso modo, risulta
difficile, alla luce della fisionomia complessa del loro repertorio, sostenere l’origine colta dei canti narrativi romeni,
che, sempre secondo Iorga, sarebbero nati intorno al XVI secolo presso le corti feudali e solo successivamente si sarebbero diffusi nelle comunità popolari dei villaggi. Tali posizioni teoriche, del resto, vennero superate dai nuovi orientamenti della folcloristica e dell’antropologia culturale. Appena un anno dopo il libretto di Ortiz, un importante saggio di
Roman Jakobson metteva radicalmente in discussione le teorie incentrate sul concetto di gesunkenes Kulturgut, prendendo di mira i vecchi approcci al folclore che non segnavano, in linea di principio, alcuna differenza tra poesia orale e
letteratura scritta. Veniva riconosciuta in questo modo, per
la prima volta, la sostanziale alterità della creazione folclorica rispetto ai prodotti della cultura scritta, la sua specifica
identità poetica, in una prospettiva critica per la quale diventava essenziale «non la nascita e l’esistenza delle fonti in
ambito extra-folclorico, ma la funzione del passaggio al folclore, la scelta e la trasformazione del materiale assunto» .
Il problema della “medievalità” della poesia tradizionale
romena merita, in questo senso, di essere ripreso e impostato su basi rinnovate. Studiosi recenti del folclore romeno
quali Mihai Pop e Sabina Ispas hanno rimesso in circolo, su
basi teoriche nuove, l’ipotesi che il nucleo più vitale e consistente del repertorio delle colinde e dei canti vecchi, almeno
. Cfr. Ortiz (); su Ortiz e il folclore romeno cfr. Renzi (), pp.
-.
. Cfr. Jakobson (b), p. .

nella forma in cui lo conosciamo, risalga sostanzialmente all’epoca medievale, essendosi formato nel lungo periodo feudale attraversato dalla civiltà romena, che si è concluso solo
nel XVIII secolo. I canti narrativi e rituali avrebbero, perciò,
tramandato fino a oggi le creazioni più importanti della poesia romena medievale, che hanno preceduto la comparsa dei
primi testi letterari scritti .
La dimensione medievale della poesia popolare romena
andrà, pertanto, rintracciata all’interno di una tradizione
preletteraria, o meglio extraletteraria, che si è sviluppata nel
dominio dell’oralità, più o meno indipendentemente dai testi scritti. Ricordiamo, al riguardo, che la letteratura romena
scritta non possiede una fase propriamente medievale, coeva
a quella delle letterature occidentali: i primi documenti in romeno sono del XVI secolo, epoca a cui risalgono anche le prime opere letterarie, costituite in gran parte da traduzioni di
testi religiosi. Il Medioevo dei canti vecchi e delle colinde
sarà essenzialmente un Medioevo che si raggiunge leggendo
stratigraficamente i testi orali attuali e collocandoli nella
“lunga durata” del tempo folclorico, all’interno delle tensioni e delle poste in gioco culturali che hanno attraversato la
società rurale romena nel corso della sua storia. In questo
senso, per il lettore occidentale lo studio dei canti tradizionali romeni può a ragione essere concepito come «un lungo
viaggio per i Balcani verso il Medioevo, quasi una ricerca nello spazio del tempo perduto» .
Allo stesso modo, la presenza di modelli ed elementi colti nel repertorio orale tradizionale andrà interpretata alla luce della circolarità fra cultura delle classi popolari e cultura
della classi dominanti, di rapporti, cioè, reciproci, fatti di
«scambi e di contrapposizioni, di tensioni e di omogeneità» . In questo senso, per esempio, andranno valutati gli
. Cfr. Pop (), p.  e Ispas (), pp. -.
. Renzi (), p. .
. Ginzburg (), p. XIV.

elementi feudali ed eroico-cavallereschi dei canti vecchi. Sicuramente, come testimoniano anche le fonti storiche, i canti narrativi tradizionali circolarono nelle corti medievali romene, arricchendo e modificando, probabilmente, il proprio repertorio narrativo, l’immaginario simbolico e le tecniche esecutive. L’incontro fra le tradizioni poetiche rurali e
il mondo dei boiari e delle corti avvenne, però, in una situazione in cui la nobiltà feudale romena non aveva ancora
compiuto quello che Peter Burke chiama «il ritiro delle classi dominanti dalla cultura popolare», fenomeno che in alcune tradizioni occidentali, come quelle italiana e francese,
si era consumato molto precocemente . Il prolungato Medioevo romeno è caratterizzato, cioè, anche dal «persistere
della nobiltà feudale in una sfera culturale vicina se non addirittura sostanzialmente identica a quella contadina», rendendo possibile la fruizione della poesia tradizionale da parte degli strati sociali più alti, che in gran parte ne condividevano i valori e l’immaginario .
Anche nel caso delle colinde, l’organico intreccio di religione e folclore, di tradizioni cristiane e di riti tradizionali,
rimanda alle specifiche condizioni storico-culturali del cristianesimo nella Romania medievale. Bisogna tener conto,
pertanto, del carattere periferico e profondamente rurale
della Chiesa romena tradizionale, che per un lungo periodo
è vissuta e si è sviluppata in forme non istituzionali, vicina ai
riti e alle credenze del villaggio, solidale con essi. A questo
proposito Petru Caraman giustamente afferma che «sotto
l’ala protettiva della chiesa orientale, davvero tollerante, la
tradizione del colindat non solo non è decaduta, ma si è ancora meglio conservata e sviluppata, rafforzandosi» .
Sul piano poetico e stilistico, è stato Leo Spitzer uno dei
primi a mostrare, da par suo, quanto sia proficuo il confron. Cfr. Burke (), trad. it., pp. -.
. Renzi (a), p. .
. Caraman (), p. .

to tra la poesia orale romena e le letterature romanze medievali. Nel suo saggio sulla Miorit,a, il più celebre canto vecchio
romeno, affronta questioni di fondo riguardanti le particolarità stilistiche del canto, i tratti distintivi del genere, i rapporti fra le varianti orali del testo folclorico, utilizzando esempi
e materiali tratti dall’epica francese e dai romances spagnoli.
Sono chiamate in causa, inoltre, le famose teorie di Menéndez Pidal sulla poesía tradicional dei romances per spiegare
determinati fenomeni della trasmissione dei testi orali romeni. L’obiettivo era dimostrare che l’archetipo della Miorit,a, la
variante cioè originaria e più antica del canto, era costituito
da una versione lunga, contenente l’episodio della madre e il
motivo delle nozze del pastorello con la morte . Riguardo al
problema della versione lunga, Spitzer ha probabilmente torto. Di sicuro, il suo approccio ai testi folclorici è fortemente
sbilanciato sul versante della valutazione puramente letteraria, prestando scarsa attenzione ai dati etnografici . Il suggerimento teorico ricavato dal confronto con i romances medievali resta, tuttavia, di grande attrattiva euristica, mettendo
in campo la possibilità di confrontare concretamente le modalità di trasmissione tipiche dei testi orali con la tradizione
scritta dei testi medievali di carattere popolare .
Su queste basi ci sembra utile impostare nuovamente il
confronto con la produzione letteraria e l’immaginario sim-
. Cfr. Spitzer (), in particolare pp. -.
. Nel suo articolo Spitzer sottovaluta, per esempio, con eccessiva disinvoltura le ricerche e le ipotesi sulla Miorit,a di due dei massimi folcloristi
romeni, già all’epoca note: critica (senza averlo letto) il contributo di Constantin Brăiloiu () sulle implicazioni funebri del canto e presenta in modo fortemente riduttivo la tesi di Ion Mu"lea () sulla mort-mariage, commentando: «il faut toujours se méfier un peu des folkloristes dissertant sur
une œuvre d’art particulière; ils sont aptes à en méconnaître le sens artistique et à le noyer dans le général ainsi que dans le fait folklorique brut» (Spitzer, , p. ).
. Come ricorda giustamente Contini (, p. ) la questione era già
stata posta in termini simili da Michele Barbi, anch’egli filologo attivo altresì nel dominio del folclore.

bolico del Medioevo occidentale, al fine di inquadrare le forme e i contenuti dei canti tradizionali romeni in un orizzonte
culturale più vasto, che permetta di leggerli in una prospettiva diversa rispetto alla valutazione strettamente nazionale ed
etnografica che se ne offre di solito. Riconoscendo la radicale diversità delle fonti e assumendo in tutta la sua complessità
il problema dei rapporti fra popolare e colto, tradizionale e
autoriale, il confronto può rivelare, soprattutto al lettore occidentale, coincidenze e affinità tipologiche sorprendenti.
L’incontro fra le due tradizioni poetiche può avvenire a un
livello profondo, di quelle che potremmo chiamare le strutture mitiche dell’immaginario, rimandando, in ultima istanza,
al fondo comune della mitologia popolare europea. È questo
il caso da noi trattato nel commento al canto di Toma Alimo", dove lo scenario iniziale della fonte e dell’albero prodigioso, nonché la sfida con il guardiano del locus consecratus,
ricorda da vicino l’episodio della sorgente meravigliosa nell’Yvain di Chrétien de Troyes. In realtà, queste analogie ci parlano non solo dei canti romeni, ma anche della complessità
dei testi poetici dell’Occidente medievale, al cui interno si è
già da tempo imparato a riconoscere la sovrapposizione e la
coesistenza di livelli di cultura diversi, che vanno letti in tutta
la loro densa stratigrafia. Le somiglianze tra l’arcaico eroe romeno e il «cavaliere del leone» francese, confermano, in un
certo senso, la molteplicità delle poste in gioco ideologiche
dell’intellettuale medievale, che in quanto produttore e fruitore di poesia appare impegnato in un progetto complesso e
non sempre lineare di riuso e ricodificazione di materiali simbolici e poetici tradizionali, tipici della cultura «bassa» .
In altri casi le affinità si ripercuotono su dati testuali più
circoscritti e specifici. Il motivo della prigione sotterranea,
invasa dall’acqua e infestata da serpi, vipere, rospi o altre
. Cfr. infra, PAR. ..
. Su tali questioni cfr. da ultimo le riflessioni critiche di Mancini
(), che proprio partendo da Chrétien fa il punto su un dossier vastissimo e ancora sostanzialmente aperto.

creature acquatiche dai tratti infernali, si ritrova, in termini
perfettamente omologhi, nel canto romeno Corbea e in molte chansons de geste francesi . Tanto nell’epica francese
quanto nelle varianti del canto romeno, il motivo ha valore
topico e formulare. La circolazione del topos, attestato anche
all’interno dell’epica orale serba e bulgara, porterebbe a riconsiderare, limitatamente alla diffusione del motivo in questione, la trafila già ipotizzata, in generale, da Iorga per dimostrare la dipendenza della poesia eroica tradizionale del
Sud-Est europeo da modelli occidentali, ipotesi che non era
riuscito a corroborare con alcuna prova .
Le corrispondenze con la letteratura del Medioevo occidentale paiono ancora più stringenti nel caso della colinda
sulla disputa del grano, del vino e dell’olio santo, che presenta notevoli affinità con la grande tradizione delle dispute
allegoriche mediolatine e romanze . La possibilità di porre
in relazione i contenuti dei canti romeni del solstizio con una
serie precisa di testi medievali (un conflictus latino tra la rosa e la viola, i castigliani Denuestos del agua y el vino, la Disputatio rosae cum viola di Bonvesin de la Riva, e altri ancora) inciterebbe a tracciare linee concrete di derivazione che
descrivano un passaggio analogo a quello avvenuto nella tradizione occidentale, ove la forma poetica della disputa allegorica, attraverso i libri di colportage e le stampe popolari, è
entrata a far parte del repertorio propriamente folclorico. In
realtà è difficile, se non impossibile, attestare con elementi
positivi i percorsi e i contatti culturali che possono aver determinato tali filiazioni anche all’interno della poesia orale
della Romania. Al contrario, si può osservare che la forma disputa è presente anche in altre zone del folclore romeno, tro. Fra le chansons de geste che contengono il motivo ricordiamo La prise de Cordres et de Sebille, La mort Aymeri de Narbonne, La prise d’Orange,
Le Siège de Barbastre; cfr. infra, PAR. .. Per la diffusione del motivo nell’epica francese cfr. anche Guidot (), pp. -.
. Cfr. anche Ion Talo" ().
. Cfr. infra, PAR. ..

vandosi applicata a contenuti ben più arcaici dell’allegoria
cristiana messa in scena nelle colinde. Nei canti rituali che
accompagnano la falciatura e la fine del raccolto viene rappresentata, per esempio, una disputa fra la sorella del Sole e
la sorella del Vento: si tratta di un testo che, utilizzando il
modello tradizionale del contrasto fra due figure allegoriche,
rinvia a significati culturali antichissimi, legati ai riti agrari
della fertilità . In generale, si può constatare che la disputa
fra due entità allegoriche, e in particolare fra due specie vegetali, è forma poetica primordiale, di vastissima circolazione, che ritroviamo, indipendentemente, in differenti ambiti
storico-culturali. Convergenze e affinità tra la poesia orale
romena e le letterature dell’Occidente medievale sembrerebbero riportare quindi, anche in questo caso, a un complesso di relazioni più antiche fra Europa occidentale ed Europa orientale, a contatti che si sono instaurati su un fondo
folclorico comune, percorrendo spesso le vie oscure e imprevedibili dell’oralità .
. I legami con le letterature medievali occidentali, benché
rilevanti sul piano culturale e interpretativo, sono, tutto sommato, difficilmente razionalizzabili in percorsi certi di derivazione. Altre dimensioni culturali hanno invece lasciato
tracce più sicure e profonde nella poesia orale della Romania.
Uno degli esempi più interessanti è dato dalla diffusione nella cultura romena antica della letteratura apocrifa cristiana,
fenomeno che ha segnato in maniera pervasiva anche la produzione folclorica tradizionale. Le prime traduzioni romene
di testi apocrifi si trovano in alcune sillogi manoscritte assemblate tra la fine del XVI secolo e l’inizio del XVII, che sono
anche tra i più antichi documenti della nascente letteratura in
lingua romena. Si tratta di traduzioni condotte, in gran par-
. Su questo tipo di cerimonia agraria cfr. Ionică ().
. Cfr. le analoghe conclusioni di Renzi () su alcuni «incontri» fra
Occidente e Oriente «nel mondo della fiaba».

te, su modelli slavi meridionali, a loro volta mediatori della
grande tradizione greco-bizantina. Isolati dalla romanità occidentale, i romeni sono entrati precocemente, già prima della loro organizzazione in consolidate forme statali, sotto il dominio culturale bizantino-slavo adottando, probabilmente
già fra X e XI secolo, il cosiddetto slavo ecclesiastico come lingua della Chiesa e, in seguito alla formazione dei primi principati romeni, anche delle cancellerie e delle corti feudali .
Seguendo la trafila bizantino-slava, si sono diffusi nella tradizione romena non solo testi biblici e liturgici canonici, ma anche la grande nebulosa degli apocrifi, dalle leggende veterotestamentarie ai vangeli dell’infanzia, dalle apocalissi ai miracoli della Vergine e ai racconti agiografici popolari. Questo
vasto materiale narrativo ha dato vita a una ricca produzione
letteraria che ha circolato intensamente anche in ambito popolare, fuori dei percorsi riservati alla letteratura dotta . Trascritta e diffusa, il più delle volte, dai rappresentanti del clero rurale, la letteratura apocrifa, con i suoi contenuti spesso
fantastici e leggendari, vicini al gusto popolare, era destinata
ad esercitare un forte influsso sulla produzione orale, incidendo in modo particolare sul genere folclorico più esposto
all’influsso del cristianesimo, quello delle colinde.
In questo modo sono entrate a far parte del repertorio dei
colindători alcune tradizioni apocrife risalenti al Protovangelo di Giacomo e allo Pseudo-Matteo, come per esempio il racconto della levatrice presente alla nascita di Gesù e il miracolo dell’albero benevolo che piega i rami davanti alla Vergine. Questi materiali narrativi, largamente diffusi nel folclore
. Per un quadro completo della letteratura romena antica (secoli XVIcfr. Cartojan (); in italiano cfr. la breve ma densa sintesi premessa a Niculescu e Dimitrescu (), pp. XV-LIX.
. Sui cosiddetti libri popolari romeni (cărt,i populare) esistono studi
autorevoli, a cominciare dall’opera del grande filologo Ha"deu (-),
che ha fondato la ricerca in questo campo; sull’argomento l’opera di riferimento è tuttora l’ampia sintesi di Cartojan (-); fra i contributi più recenti cfr. Moraru ().
XVIII)

anche in forma di leggende in prosa, furono riadattati nel
contesto originale delle colinde della Natività, dove si intrecciarono con tradizioni e immagini più antiche, di origine precristiana, legate, a volte, ai riti della comunità pastorale . Altri temi risalgono, invece, a tradizioni agiografiche, come nel
caso della colinda di sfînta Vineri (santa Venerdì), fondata su
una leggenda apocrifa di origine bizantina diffusa in redazioni greche, slave e romene. Una versione della leggenda, tradotta dallo slavo, è contenuta anche nel cosiddetto Codex
Sturdzanus, la più antica raccolta romena di scritti apocrifi e
di letteratura popolare, allestita tra il  e il . Le colinde
ne hanno tratto solo alcuni elementi generali, creando una
storia sostanzialmente nuova, in linea con lo stile tradizionale: la leggenda agiografica della giovane santa partita per predicare la fede cristiana, sottoposta al martirio e salvata da Dio,
diviene un racconto fantastico, in cui santa Venerdì accompagnata dai fulmini di sant’Elia costringe le città pagane a
convertirsi e ad accettare il battesimo . Accanto a temi narrativi di una certa estensione e portata, come quelli appena ricordati, vi sono poi frammenti più limitati risalenti alla tradizione degli apocrifi, motivi, immagini, semplici nomi o figure, che attraversano l’intero repertorio cristiano costituendone uno dei principali tratti distintivi.
In generale tutti i materiali letterari – o comunque estranei alla dimensione popolare – entrati nel circolo dell’oralità
sono stati assimilati e rielaborati, a volte in maniera radicale,
secondo le esigenze poetiche e cerimoniali dei generi popolari. La ricognizione degli strati antichi e degli elementi di
origine colta – o comunque allogeni – presenti nei canti tradizionali non deve farci dimenticare che si tratta di testi vivi,
. Per la colinda dell’albero benevolo cfr. infra, PAR. ..
. Sul Codex Sturdzanus cfr. l’edizione curata da Chivu: in particolare,
sulla leggenda di sfînta Vineri, CS, pp. -; sulla circolazione dei temi apocrifi cfr. Cartojan (-), vol. I, pp. -; vol. II, pp. -. Per le colinde
cfr. la variante in Bartók (), n. a.

che sono vissuti assieme alla comunità che li ha prodotti e il
cui contenuto poetico è sempre funzionale alle ragioni, rituali e sociali, della loro esecuzione.
Non si potrebbe comprendere il vasto processo di assunzione e rielaborazione della tradizione cristiana compiuto dalle colinde, a livello tematico, simbolico e persino lessicale, senza tener conto delle dinamiche di emulazione e di concorrenza instauratesi fra il rito popolare e i riti della Chiesa. Si considerino, per esempio, le colinde che narrano il battesimo del
figlio santo: in molte varianti Gesù, appena nato, accompagnato dalla Madonna, viene portato in un luogo dove scorrono tre ruscelli – d’acqua, di vino e di olio santo – nei quali viene immerso e battezzato da san Giovanni. I testi in questione
sembrano particolarmente interessati alla descrizione dei gesti e delle materie rituali, stabilite dalle parole del santo:
Mai ia-t,i Maică fiu-n brat,e
"i mergi Maică mai-nainte,
mai-nainte, nu-i departe,
căci "tiu Maică trei rîuri,
trei rîuri, trei pîrîuri,
rîu de vin "-altul de mir
"-alt de apă limpejoară
într-ăl de apă l-om scălda,
cu vin bun l-om boteza,
cu mir bun l-om mirui,
’ntr-un ve"mînt l-om primeni,
sus în cer l-om ridica.
(Prendi, Madre, il figlio in braccio
e vai, Madre, sempre avanti
più avanti, non è lontano,
conosco, Madre, tre fiumi,
tre fiumi, tre ruscelli,
fiume di vino e un altro d’olio santo
e un altro d’acqua limpida,
in quello d’acqua lo immergeremo,
con buon vino lo battezzeremo,
con olio santo lo ungeremo,

con un vestito lo vestiremo,
su nel cielo lo innalzeremo .)
L’immagine dei tre fiumi, d’acqua limpida, di vino e d’olio
santo, è un vero e proprio Leitmotiv delle colinde, che ritorna in numerosi punti del repertorio. Come ha indicato di recente Sabina Ispas, si tratta della rappresentazione allegorica, proiettata sul piano mitico del racconto, dei tre riti principali dell’iniziazione cristiana: il battesimo, la cresima e l’eucaristia . Ricomponendo materiali di origine differente (ricordiamo la scena del bagno di Gesù bambino presente nell’iconografia bizantina della Natività), le colinde del battesimo costruiscono un quadro narrativo e simbolico di grande
originalità: la scena descritta diventa, pertanto, non solo ipostasi delle pratiche battesimali correnti della Chiesa ortodossa, ma anche giustificazione, sul piano mitico-rituale, della liturgia cristiana dell’iniziazione e della santità delle materie liturgiche, rappresentando il momento in cui l’acqua, il
vino e l’olio santo vengono consacrati dal contatto con il corpo di Cristo. Il rito tradizionale, per mezzo dei suoi canti, ingloba e proietta in un nuovo orizzonte di senso l’immaginario e l’ideologia cristiani. Allo stesso tempo, l’autorità dei
contenuti cristiani assicura ai canti legittimità ed efficacia rituali, corroborando la loro funzione magica e propiziatoria,
vale a dire l’incidenza diretta sul piano della realtà.
I testi delle colinde sono disseminati non solo di rappresentazioni simboliche della liturgia cristiana, ma anche di
numerose e pervasive allusioni autoreferenziali, che si collegano alle diverse fasi del rito popolare svolgendo a volte una
vera e propria funzione prescrittiva e protocollare . Il grande rito solstiziale del colindat comprende diversi usi cerimo-
. Per il testo cfr. Cucu (), pp. -; è il tipo n.  dell’indice Brătulescu ().
. Cfr. Ispas ().
. Cfr. le colinde sulla scena del rito (infra, PAR. .).

niali in cui gli esecutori, organizzati in gruppi più o meno
ampi e compatti, girano di casa in casa e compiono determinati atti e scenari rituali. Nei villaggi romeni la pratica assume forme particolarmente ricche e complesse articolandosi
in diverse categorie, quali per esempio il colindat dei bambini (pit,ărăii o mo"-ajunul) o l’arcaico colindat con le maschere, in cui una persona che indossa una maschera zoomorfa o
teriomorfa (chiamata variamente capra, turca, brezaia...) viene accompagnata con musica e danze in giro per il villaggio.
In tempi relativamente recenti si sono diffusi per opera della Chiesa i cosiddetti “canti di stella” (cîntece de stea), composizioni di argomento religioso generalmente riguardanti la
nascita del Salvatore, sviluppatesi con il contributo diretto
dei rappresentanti del clero ed entrate poi a far parte del repertorio tradizionale di colinde.
La categoria principale, per ampiezza e profondità di contenuti, è il cosiddetto colindat de ceată (“di gruppo”) eseguito, nella sua forma più arcaica, da una sola classe d’età, i giovani maschi non sposati (feciori o juni), oppure da gruppi più
estesi composti da giovani e adulti, che in certe località arrivano a comprendere rappresentanti maschi di ciascuna famiglia del villaggio. Il gruppo dei colindători, guidato da un capo (vătaf, jude) e organizzato secondo regole e ruoli prestabiliti, nei quali si intravedono ancora i riflessi di un’antica associazione di carattere iniziatico, si riunisce a partire dal  novembre per imparare e ripetere il proprio repertorio di colinde. L’esecuzione del colindat avviene di norma la notte della vigilia ( dicembre) oppure la notte di Capodanno, solo
sporadicamente in altre date. I colindători iniziano a girare
per le vie del villaggio subito dopo il tramonto, terminando il
rituale all’alba, in concomitanza con il sorgere del Sole; spesso sono accompagnati da tamburi e da altri strumenti musicali e preannunciano il loro arrivo con grida e richiami che
creano un festoso clamore, dalle chiare funzioni apotropaiche. Loro compito principale è fermarsi presso tutte le unità
familiari del villaggio, entrare nelle case, cantare un numero
variabile di colinde e augurare prosperità e salute. La prima

colinda viene cantata di solito alla finestra, in seguito il gruppo è invitato dal padrone di casa a entrare. All’interno, i colindători si dispongono intorno al tavolo, imbandito per l’occasione, ed eseguono i loro canti, alcuni di carattere generale
– che vanno ripetuti in ogni casa – e altri specifici – dedicati
ai vari membri della famiglia, il cui argomento varia in base
all’età, al sesso, alla posizione sociale e professionale del destinatario. La minuziosa classificazione popolare del repertorio prevede, infatti, colinde specifiche per il padrone di casa,
per il giovane maschio non sposato, per la ragazza in età da
marito, per i giovani sposi, per i neonati. Alcune si cantano
solo nella casa del prete, altre in quelle degli anziani e dei vedovi. Nella maggior parte dei casi, l’eroe che agisce sulla scena del poema porta il nome stesso del destinatario della colinda, che ne diviene protagonista nel momento stesso in cui
assiste alla sua esecuzione. Alla fine, dopo le cosiddette urări,
discorsi recitati che contengono gli auguri veri e propri, i colindători ricevono, in cambio della loro opera, alcuni doni rituali, di cui i più importanti e tradizionali sono la ciambella
preparata per l’occasione (colac) e il vino. Quasi tutte le fasi,
i momenti, i luoghi e i gesti che compongono il rito hanno un
riflesso, anche solo simbolico o allusivo, sul piano narrativo e
testuale: l’intero genere si fonda, cioè, sull’interferenza tra la
dimensione poetica dei testi e la loro funzione cerimoniale .
Similmente, i canti vecchi non possono essere valutati correttamente senza considerare la dimensione affabulatoria della performance giullaresca, all’interno della quale giocano un
ruolo fondamentale le strategie messe in atto per soddisfare la
curiosità, attirare l’interesse e la simpatia, stimolare l’immagi. Attualmente la pratica del colindat de ceată è in fase di decadenza e
si presenta, a seconda delle regioni, in forme più o meno disgregate. La descrizione sommaria qui fornita riguarda il suo passato più recente, quando
l’uso aveva ancora una sua vitalità e coesione all’interno della comunità folclorica. Le più importanti analisi del rito sono quelle di Bîrlea (-), vol.
I, pp. -; Brătulescu (), pp. -; altre informazioni si trovano in
German (); Herseni ().

nazione del pubblico. In una tale situazione, il piano del testo
è ovviamente inscindibile dal piano dell’esecuzione: vi è una
connessione organica fra il contenuto narrativo dei canti e
l’insieme della situazione reale in cui essi si collocano. Le ambientazioni feudali con la messa in scena del clan guerriero
raccolto a banchetto, i vanti iperbolici, i combattimenti con
creature fantastiche e terrifiche, la stessa efferatezza di alcuni
eroi come Corbea o Toma Alimo" e le crudeltà alle quali si abbandonano, sono tutti elementi di matrice eroico-cavalleresca, che andranno misurati anche sul metro dell’intrattenimento, degli effetti di straniamento e di sorpresa, delle strategie di rappresentazione del fantastico e del meraviglioso perseguiti dal lăutar/giullare davanti al proprio pubblico.
L’esecuzione di un canto vecchio, secondo le regole dello stile tradizionale, inizia quasi sempre con una breve sequenza proemiale in cui il protagonista, oltre a ripetere i classici tópoi dell’esordio giullaresco (allocuzione agli ascoltatori, captatio benevolentiae, formule di umiltà), si impegna a
saldare strettamente il suo racconto con l’occasione reale in
cui avviene la narrazione.
Oggi i canti vecchi sono eseguiti quasi esclusivamente durante il grande banchetto di nozze, di fronte agli sposi e ai
commensali riuniti. Di norma, se il cantore deve descrivere
gli eroi del proprio canto radunati intorno a una tavolata festiva (scena topica, con la quale iniziano molti testi di argomento epico-eroico), non tralascia mai di suggerire l’identificazione fra i destinatari reali della performance e gli eroi che
si muovono sulla scena del poema . È a questo livello che i
canti vecchi romeni conservano ancora il ricordo di una delle funzioni fondamentali della poesia epica nelle cosiddette
società a oralità primaria: come ci hanno insegnato gli studi
di Eric A. Havelock sull’epos omerico, il cantore epico attraverso la narrazione delle vicende eroiche ha anche il compito
di trasmettere, di generazione in generazione, la memoria e il
. Per un esempio cfr. infra, La figlia del Cadì (PAR. .).

sapere della comunità di cui fa parte, enunciando, con i mezzi della poesia, l’ethos comune del gruppo, quell’insieme di
consuetudini pubbliche e private, comprese la storia, i miti,
la religione, che ne esprimono la coesione e l’identità culturale . Si tratta di un sapere non sistematico, incorporato nel
tessuto stesso del racconto, il cui metodo principale di affermazione consiste nel proporre un modello emotivamente efficace e nell’invitare a identificarsi con esso. Sono queste dinamiche complesse che hanno permesso, per esempio, il riuso di un testo di tenore mitico-fantastico, come quello della
ierogamia fra il Sole e la Luna, all’interno del contesto concreto dei festeggiamenti nuziali, determinando al contempo
la sua parziale ricodificazione nel senso dell’etica cristiana.
Allo stesso modo, l’occasione esecutiva legata al momento
delle nozze ha contribuito in maniera decisiva alla conservazione di un nucleo molto antico del repertorio, costituito dai
cosiddetti canti premaritali, che mettono in scena proprio i
miti e i riti del corteggiamento e dell’iniziazione nuziale, con
tutto il loro immaginario arcaico e fantastico.
. La lettura sulla pagina stampata di opere nate nella dimensione dell’oralità comporta, com’è ovvio, la perdita di elementi essenziali per la loro comprensione. Canti vecchi e colinde sono testi versificati e cantati, inseriti in un contesto esecutivo multiforme, di cui fanno parte non solo la dimensione
musicale ma anche altre tecniche della performance, che riguardano i campi della gestualità, della mimica, della vocalità
e che prevedono il rispetto di un determinato protocollo cerimoniale. Data l’inscindibilità fra piano del testo e piano dell’esecuzione, nessuno di questi elementi, di natura linguistica,
musicale o extralinguistica, «può essere ritenuto a priori insignificante» . Le vecchie raccolte di poesia popolare hanno
tralasciato quasi sempre questo tipo di informazioni, conse-
. Cfr. Havelock ().
. Renzi (), p. .

gnandoci di necessità un’immagine mutila del testo folclorico
e dell’evento orale-auditivo di cui fa parte. Per i canti vecchi
e le colinde romene disponiamo, fortunatamente, di numerose trascrizioni scientifiche prodotte dalla grande scuola romena di etnografia, nonché di una mole ingente di materiali
fonografici, conservati ora nell’archivio dell’Istituto di etnografia e di folclore di Bucarest, che, pur testimoniandoci solo
le fasi recenti del repertorio, permettono di valutare con più
esattezza la natura complessa della loro oralità .
Ascoltare dal vero (o da registrazioni originali) le colinde,
per esempio, è un’esperienza che smentisce completamente
l’immagine temperata e devota che risulta dalle varie trascrizioni e rielaborazioni colte che girano copiose sul mercato discografico attuale. Il canto tradizionale delle colinde si fa a piena voce, con intonazione scandita e aggressiva, su ritmi potenti e dinamici, diversi da quelli di qualsiasi altra melodia popolare. Le voci poderose dei colindători, accompagnate a volte
dal battito selvaggio dei tamburi, creano un flusso sonoro fragoroso e travolgente, che mette al centro del rito la forza primordiale della Voce, l’energia incantatoria della pura vocalità
e la sua capacità magica di incidere direttamente sul reale .
. Per i canti vecchi disponiamo dei lavori fondamentali di Amzulescu,
che ha fornito una tipologia tematica completa del repertorio dei canti narrativi tradizionali romeni, corredata da un indice bibliografico e da un’ampia antologia di testi (Amzulescu, ). Lo stesso autore ha poi rivisto e ampliato la tipologia, includendo nell’indice e nell’antologia anche le varianti
disponibili su supporto fonografico (Amzulescu, , ). Per le colinde
l’opera di riferimento è Brătulescu (), che comprende un indice tematico e bibliografico del repertorio nonché un sostanziale studio introduttivo.
Attualmente Ion Talo" sta lavorando all’allestimento di un corpus completo
della colinda romena, sulla base di una nuova e più ampia tipologia tematica. Ricordiamo che per un tema importante come quello della Miorit,a possiamo contare sull’edizione completa di tutte le varianti note, opera monumentale realizzata da Adrian Fochi () che comprende più di  testi.
Per altre edizioni complessive di varianti cfr. Datcu, Săvulescu (), per
Toma Alimo"; Talo" () per Mastro Manole.
. Sul ruolo della voce nell’esecuzione delle colinde cfr. Bîrlea (-),
vol. I, pp. -; in generale sulle questioni della vocalità cfr. senz’altro Bologna ().

Al canto collettivo e rituale delle colinde si contrappone
l’esecuzione individuale, affabulatoria e giullaresca dei canti vecchi. Generalmente, nella modalità interpretativa più
conservativa e arcaica, l’esecuzione di un cîntec bătrînesc si
articola in una serie di episodi vocali di varia estensione, separati da brevi interludi strumentali. Spesso sono presenti
un preludio (chiamato taxîm) e una chiusa anch’essi strumentali. Secondo le regole dello stile epico tradizionale, nel
corso della performance si alternano parti propriamente
cantate, eseguite nella forma del recitativo melodico, e parti
in recitativo parlato, vale a dire in una pronuncia intonata
media che si avvicina al parlare ordinario. L’alternanza fra
canto e declamazione, che può occorrere anche all’interno
dello stesso verso, e la distribuzione proporzionale delle due
modalità variano secondo le esigenze retorico-formali specifiche di ciascun testo e di ciascuna esecuzione. Il cosiddetto
stile băsmit (da basm, “fiaba”), largamente diffuso presso i
cantori più anziani dell’Oltenia, prevede, per esempio, il netto predominio della modalità parlato rispetto ai versi cantati, ai quali viene riservato uno spazio quantitativamente ridotto, anche se rilevante dal punto di vista strutturale.
Nelle colinde e nei canti vecchi, e in genere nel canto romeno arcaico, non esistono strofe, vale a dire la successione
delle rime non ha valore strutturante dal punto di vista della partizione del testo. I canti sono organizzati in libere sequenze monorime, con frequenti assonanze, di estensione
variabile, alle quali si alternano, in posizioni non fisse, uno o
più versi irrelati che hanno molto spesso una chiara funzione strutturale, legata al contenuto semantico del testo . La
struttura formale delle colinde è caratterizzata dalla presenza obbligatoria di un ritornello eterometrico, che viene intercalato dopo ciascun verso – o dopo un couplet di due versi – per tutta la durata del testo.
. Sulla questione specifica dei versi irrelati nel canto vecchio cfr. Constantinescu ().

Più complessa risulta l’architettura metrico-melodica dei
canti vecchi: sul piano melodico i testi si suddividono in unità
di lunghezza variabile («strofe libere» o «episodi», le chiama
Amzulescu), che presentano un certo numero di tratti isomorfi predeterminati, ripetuti in maniera regolare, o con variazioni non sostanziali, lungo l’intero componimento. Tali unità,
che potremmo chiamare sequenze, spesso delimitate da interludi strumentali, sono costituite dunque, dal punto di vista melodico, da una serie di formule o sezioni iniziali, mediane e finali, che hanno tratti musicali omologhi a seconda della posizione che occupano. Il numero di versi di ciascuna sezione può
variare in base alle esigenze esecutive dell’interprete. Di norma, le sezioni melodiche iniziali e finali, che svolgono una funzione fortemente demarcativa della struttura del canto, si
estendono su un numero ristretto di versi (il più delle volte
due, con la possibile aggiunta di uno o più versi in modalità
parlato) e hanno carattere musicale stabile e stereotipato.
Le sezioni mediane comprendono un numero più ampio
di versi, avendo forma musicale più libera e aperta alla variabilità dell’improvvisazione. In molti casi le pause strumentali che suddividono le diverse sequenze interrompono
anche il corso della narrazione e segnano, come nota Amzulescu, gli snodi fondamentali nello sviluppo del racconto, delimitando con precisione unità narrative compiute, che scandiscono la progressione della storia .
Sul piano della versificazione, canti vecchi e colinde utilizzano due soli tipi di verso: di  e di  sillabe, con le relative varianti catalettiche di  e di  sillabe. Il ritmo è regolarmente trocaico, l’accento metrico non coincide necessariamente con quello tonico, anzi è normale che nella prima
. Per quanto riguarda l’esecuzione e le strutture metrico-melodiche
del canto narrativo romeno cfr. Amzulescu (); Vicol (); notizie utili sulla dimensione musicale dei canti vecchi anche in Comi"el (). Sull’aspetto metrico-musicale delle colinde cfr. Bartók () e, per un approccio più recente, Vicol (); Hert,ea (), che nella presentazione del genere riserva ampio spazio alla componente musicale.

parte del verso (prime  sillabe nel senario, prime  nell’ottonario) l’accento cada su una sillaba atona del parlato o
che, inversamente, una accentata diventi atona a causa della sua posizione nel verso. Nella seconda parte del verso si
realizza invece, quasi sempre, la concordanza dei due accenti. Sono molto frequenti i fenomeni della rima interna
(rimalmezzo) e dell’enjambement, quest’ultimo soprattutto
nei versi di  e  sillabe. Il sistema rimatico prevede l’utilizzo di rime imperfette (di norma, una vocale rima con i dittonghi dei quali costituisce l’elemento tonico) e di assonanze vocaliche e consonantiche . I versi di  o di  sillabe (con
le rispettive varianti catalettiche) rappresentano, del resto,
gli unici due versi cantati conosciuti dalla poesia popolare
romena, impiegati sia nei generi narrativi sia in quelli propriamente lirici. È questo un tratto distintivo dell’epica orale romena rispetto alla tradizione delle popolazioni circostanti: in nessun caso, infatti, i versi narrativi – come il decasillabo epico slavo o il verso di quindici sillabe greco – sono gli stessi della lirica. Benché manchino studi comparativi approfonditi, si può affermare che i versi romeni sono isolati nel panorama europeo sud-orientale. Il senario non ha
riscontri, l’ottonario romeno si differenzia dal verso epico
breve dei bulgari, che è un ottonario “asimmetrico” a cesura obbligatoria ( | ), con ritmo giambico – caratteristiche
addirittura opposte a quelle del verso romeno .
Dal punto di vista retorico-formale, canti vecchi e colinde impiegano le tecniche del cosiddetto “stile formulare”
(oral-formulaic style), comune alla maggior parte della poesia tradizionale nata e diffusasi nella dimensione dell’oralità.
Come hanno dimostrato i fondamentali studi di Milman
Parry e di Albert B. Lord, lo stile formulare caratterizza una
. Sulla prosodia del verso popolare romeno è essenziale Brăiloiu
(-), vol. II, pp. -; cfr. anche il capitolo sulla metrica di Renzi
(a), pp. -.
. Cfr. Jakobson (), pp. -.

serie molto ampia di prodotti poetici, di diversa origine e disposti lungo un arco cronologico plurisecolare, che va dai
poemi omerici fino all’epica popolare serba e bosniaca, costituendo uno dei tratti fondamentali delle dinamiche di
composizione, memorizzazione ed esecuzione della poesia
orale. Anche il cantore popolare romeno ha di fronte a sé
una serie finita di mezzi stilistici tradizionali, dati a priori, costituiti da formule e sistemi di formule, da temi formulari, da
schemi astratti generali di tipo metrico-grammaticale, da un
sistema consolidato di epiteti e di figure stilistiche .
Nella tradizione romena la formula, l’unità minima dello stile formulare, può comprendere un emistichio, un verso, due emistichi finali, a volte può stabilire una rima fissa.
Vi sono, per esempio, formule semplici che servono a introdurre un personaggio o una sequenza narrativa, del tipo
“X che cosa faceva?” o “X quando lo vide/sentì” (cfr. infra,
., v. : «2i Gruia ce mi-"i făcea?»; ., v. : «Soare d-auza»; .., v. : «lucru mîndru ce-mi vedea?»). Altre formule semplici sono quelle allocutive o di invocazione: nel verso di  () sillabe le prime  contengono un nome proprio o
comune al caso vocativo, accompagnato a volte da particelle esclamative che fungono da zeppa metrica, al quale segue
l’allocutivo reverenziale dumneata (infra, ., v. : «mămpărate, dumneata»; ivi, v. : «Brîncovene dumneata»).
Nel verso di  () sillabe, invece, l’allocuzione è espressa secondo uno schema formulare che prevede il nome al vocativo ripetuto due volte (infra, .., v. : «Manoli, Manoli»). Si sviluppano su due versi consecutivi formule a rima
fissa che servono alla localizzazione spaziale o temporale,
come «joi de dimineat,ă / pă nori "i pă ceat,ă» (infra, .., vv.
-), dove i due elementi invariabili sono le parole in rima,
. Per la teoria di Parry e Lord cfr. Parry () e il classico Lord ();
cfr. anche l’equilibrata presentazione di Finnegan (, pp. -) e la bibliografia critica sullo stile formulare di Foley (), ampiamente lacunosa
per quanto riguarda il dominio romeno.

mentre nel primo emistichio di entrambi i versi sono possibili numerose variazioni.
A un livello superiore di complessità si trova il cosiddetto tema formulare, «una sorta di formula estremamente sviluppata che, per esprimere una situazione tipica, impiega lo
stesso materiale lessicale nella stessa disposizione metricosintattica, con un largo limite di variabilità» . Tre testi compresi nel presente volume – La ragazza selvaggia, La figlia del
Cadì, Antofit,ă – iniziano, per esempio, con la descrizione di
un banchetto solenne che riunisce intorno a una tavola imbandita tutti i membri di una grande famiglia: nell’allegria
della festa c’è però un giovane malinconico, il solo fra i commensali che si rifiuti di bere e di mangiare . Si tratta della
migrazione in canti differenti di uno stesso tema formulare,
utilizzato, con ampie oscillazioni e variazioni specifiche a
ogni canto, tutte le volte che all’esecutore si presenti la necessità di raccontare la situazione-tipo del banchetto.
Vi sono infine schemi formulari che si fondano su modelli
astratti di tipo metrico-grammaticale, non legati a un determinato materiale lessicale. Su schemi di questo tipo sono costruite, per esempio, le sequenze narrative con il verbo collocato alla fine di ogni verso, che danno luogo a lunghe serie
monorime (infra, ., vv. -: «iar ea, dacă auzea, / tot în
brat,e mi-lua / "-a"a tare îl strîngea, / trei coaste i să rupea, /
"-apoi ea mi-l învîrtea / "i în nori îl repezea»); le topografie
(infra, ., vv. -: «la mjlocu cîmpului, / la marginea crîngului, / la put,u porumbului, / la trupina ulmului»); la descrizione di persone, oggetti, azioni (come la strigliatura del
cavallo, infra, ., vv. -: «La Negurit,ă să ducea / de
căpăstru-l dezlega, / cu ghebreaua mi-l "tergea / de pulbera
grajdului, / de floarea vizdeiului, / de mălura orzului»). La
ripresa regolare di uno stesso schema grammaticale da un
verso all’altro determina la figura del parallelismo, procedi-
. Renzi (a), p. .
. Cfr. infra, ., vv. -; ., vv. -, -; ., vv. -.

mento fondamentale dello stile tradizionale, che si può sviluppare in forme estremamente complesse e raffinate, caratteristiche non solo della poesia narrativa ma anche di tutta la
lirica popolare romena. Sull’alternanza e il bilanciamento di
due diversi schemi di parallelismo grammaticale è costruita,
per esempio, la famosa descriptio del pastore nella Miorit,a
(infra, .., vv. -: «Fet,i"oara lui, / spuma laptelui, /
mustăt,ioara lui, / spicul grîului, / peri"orul lui, / peana corbului, / ochi"orii lui, / mura cîmpului? –») . Come ha mostrato Jakobson, il parallelismo grammaticale è una tecnica
comune a numerose tradizioni folcloriche, divenendo a volte, come nel caso della poesia finnico-carelica o di quella russa popolare, il modello compositivo predominante nella costruzione e concatenazione dei versi .
Lo stile formulare è, dunque, il principio organizzatore
fondamentale delle dinamiche di produzione testuale della
poesia popolare romena, che vale, sostanzialmente, per tutti
i generi versificati orali. Canti vecchi e colinde rappresentano, tuttavia, tipologie profondamente diverse per funzione,
fisionomia testuale e modalità esecutive: al loro interno lo stile formulare assume peso, misure e caratteri assai differenti.
Le colinde sono canti rituali estremamente conservativi, la cui
effettiva estensione è assai ridotta, superando solo raramente
la misura media dei - versi (non si tiene conto, ovviamente, delle frequenti ripetizioni di versi e del ritornello intercalato). La loro prassi esecutiva prevede lunghe sedute di
memorizzazione collettiva, in cui gli esecutori imparano a
memoria preliminarmente, sotto la guida di un cantore esperto, il repertorio tradizionale di testi. Il canto di gruppo lascia
pertanto margini molto ristretti all’improvvisazione esecutiva, operata cioè nel corso stesso della performance. La for. Lo studio dello stile formulare dei canti vecchi romeni è stato inaugurato da Renzi (a), cui sono seguite altre opere di vasto impegno (Vrabie, ; Fochi, ) che hanno tracciato un’immagine pressoché esaustiva della retorica del folclore romeno.
. Cfr. Jakobson (a).

mularità delle colinde ha, di conseguenza, caratteri cristallizzati e fissi e a un’incidenza quantitativamente più ridotta sul
piano testuale rispetto ai canti vecchi. Questi ultimi, data la
loro natura legata intrinsecamente all’esecuzione individuale,
sono molto più esposti a fenomeni di innovazione e oscillazione variantistica, dovuti a scelte momentanee e coscienti
dell’interprete, compiute nell’atto stesso di produzione del
testo. L’estensione dei canti vecchi si attesta sulla misura media dei  versi, toccando solo in casi eccezionali la soglia del
migliaio, ben lontano comunque dalle misure ipertrofiche del
canto epico serbo – che può superare, a volte, i . versi.
L’interprete dei canti vecchi romeni si muove, dunque, in maniera equilibrata tra memorizzazione e combinazione, ricorrendo in parte alla mera ripetizione mnemonica e in parte alla libera combinazione degli schemi formulari .
Nonostante il loro ruolo fondamentale, le tecniche dello
stile formulare non esauriscono la dimensione retorico-formale dei canti vecchi e delle colinde romene. I due generi, infatti, sono caratterizzati da particolarità linguistiche – di tipo
morfologico, sintattico e lessicale – talmente spiccate e numerose da definire, nel loro insieme, la fisionomia di una vera e propria lingua poetica, multiforme e originale, che segna
a diversi livelli la sua difformità dalla lingua d’uso della comunità rurale all’interno della quale i canti vengono prodotti
e fruiti. Si tratta di una lingua poetica marcata dalla presenza
massiccia di arcaismi, termini rari, esotici e desueti, in cui la
gravitas del lessico religioso ed ecclesiastico convive accanto
alla leggerezza del gioco linguistico, della glossolalia delle parole vuote, inventate, deformate, dove la varietà e l’uniformità
si dividono equamente lo spazio, e la voce imprevista ed estraniante si staglia sullo sfondo di parole comuni e tradizionali .
. Per tali questioni cfr. Renzi (), pp. -.
. Sulle particolarità della lingua della poesia orale romena cfr. innanzitutto l’esemplare studio di Onu () sul valore dell’imperfetto nella poesia narrativa; altre questioni di sintassi e di lessico sono trattate in Barindi
(); Cepraga ().

Ai contenuti mitici e fantastici, al ricchissimo immaginario simbolico e metaforico della poesia orale romena corrisponde, dunque, anche sul piano formale, uno stile complesso e raffinato, di rara efficacia affabulatoria. Nel loro insieme,
canti vecchi e colinde rappresentano un modello integrale di
lingua e di tradizione poetica, che gli intellettuali romeni scopriranno in anni di fervente interesse per il folclore nazionale
intorno alla metà dell’Ottocento: da allora in poi la tradizione poetica popolare sarà destinata a incidere profondamente
sulla cultura romena, a ogni livello, dalla letteratura colta fino
alla produzione di consumo e all’ideologia di massa.
. In tutta Europa è il romanticismo che innesca il grande
movimento di scoperta delle tradizioni folcloriche nazionali,
procurando, nei primi decenni del XIX secolo, sulla scorta
delle idee già propagandate da Johann Gottfried Herder e da
Jacob Grimm, le prime grandi raccolte di poesia e di canti popolari. Dopo la famosa collezione Des Knaben Wunderhorn
di Ludwig Achim von Arnim e Clemens Brentano, allestita tra
il  e il , si susseguono, per esempio, la monumentale
raccolta dei canti epici serbi di Vuk S. Karadzi| del - e
l’importante traduzione di Claude Charles Fauriel dei Chants
populaires de la Grèce moderne (-). Come osserva acutamente il critico romeno Paul Cornea, l’interesse per il folclore è più intenso e produce risultati più spettacolari proprio
nei paesi dell’Est e del Sud-Est europeo, per i quali esso rappresenta «una vera e propria riscoperta di sé stessi: esalta e incanta, libera le giovani letterature, ancora in fase di formazione, dal complesso di inferiorità, offrendo loro un termine di
paragone propagandistico e un modello estetico, entrambi di
insuperata forza creativa» .
A causa del già ricordato ritardo con cui le classi colte del
paese hanno compiuto, fino in fondo, il «ritiro» dalla cultu-
. Cornea (), p. ; ma cfr. tutto l’importante capitolo dedicato
alla «scoperta del folclore» (ivi, pp. -).

ra popolare, il fenomeno della scoperta del folclore nazionale si attesta in Romania relativamente più tardi, per opera degli intellettuali romantici attivi fra il  e il  . Le prime importanti antologie di canti popolari romeni si devono
al grande poeta Vasile Alecsandri, nel  con il volume di
Balade (cîntice bătrîne"ti), poi con la raccolta di Poesii populare ale românilor (, ma preceduta dall’edizione francese, Ballades et Chants populaires de la Roumanie, uscita a Parigi nel ). Nei due lavori di Alecsandri sono contenuti 
canti vecchi, che presentano già il nucleo fondamentale del
repertorio tradizionale, essendovi compresi tutti i canti che
avrebbero poi avuto un ruolo importante (e ossessivo) nella
tradizione letteraria e culturale della Romania: Miorit,a, Mastro Manole, Toma Alimo", Il Sole e la Luna. La prima raccolta di colinde, invece, è pubblicata a Budapest nel  da
Atanasie Marienescu (): con i suoi  testi fornisce, anch’essa, un primo sguardo significativo sul repertorio di temi dei canti del solstizio invernale.
Queste prime sillogi risentono, ovviamente, dei limiti che
caratterizzano gran parte della folcloristica dell’epoca, segnata da pesanti e frequenti interventi degli autori nel correggere e ricomporre i testi poetici popolari. Secondo gli intenti già dichiarati nei titoli dei volumi, le poesie sono «culese "i îndreptate», «culese "i corese», cioè “raccolte e ritoccate, corrette”: le manipolazioni, pur non arrivando al “falso antico”, sono tuttavia rivolte a fornire un’immagine di dignità letteraria alla poesia tradizionale. Varianti diverse dello stesso canto vengono rifuse insieme, alcuni versi riscritti o
mutati, le rime rettificate mediante la sistematica riduzione
delle assonanze; vengono eliminate tutte le particolarità esecutive, quali le sillabe di completamento che nello stile tra-
. Sulla natura spiccatamente Biedermeier di questa prima generazione romantica romena cfr. le importanti osservazioni di Nemoianu (, pp.
-), che parla giustamente di «half-romantic nature», ben lontana dai
«central concerns of romantic imagination and transfiguration».

dizionale servono da zeppe metriche, la ripetizione dei versi, gli pseudoallocutivi e le interiezioni e, in generale, tutti gli
elementi extrametrici. Viene compiuta, infine, una censura
preventiva sui contenuti qualche volta osceni o semplicemente erotici.
Nonostante l’etnografia romena abbia conquistato assai
precocemente una solida coscienza scientifica e si siano susseguite numerose raccolte di canti popolari condotte con criteri sempre più rigorosi, è questa prima immagine romantica della poesia orale, normalizzata, corretta, già predisposta
per un riuso poetico in ambito colto, che passerà e si consoliderà nella tradizione letteraria e intellettuale successiva.
Sarebbe difficile sopravvalutare l’influenza profonda,
pervasiva e ininterrotta che la poesia popolare, e in particolare il grande repertorio narrativo dei canti vecchi e delle colinde, ha esercitato sulla letteratura colta romena dell’OttoNovecento, ripercuotendosi a tutti i livelli, da quello ideologico a quello più propriamente tematico-letterario, in quanto serbatoio di tópoi culturali ad alto valore modellizzante,
fino al livello retorico-formale, dei sistemi rimatici e prosodici della lirica d’arte. Per questo motivo, il grande critico
Tudor Vianu considera il legame indissolubile con le fonti
popolari una delle caratteristiche più sconcertanti della letteratura romena nel corso della sua evoluzione nei secoli XIX
e XX: dato che il Rinascimento quale movimento ideologico
e letterario, e con esso l’eredità della tradizione classica, sono mancati allo sviluppo della letteratura romena, «questa
non ha mai perso il contatto con le fonti popolari, e anche
quando è arrivata a creazioni artistiche originali di alto valore, ha conservato un carattere popolare» . Nella stessa prospettiva, George Călinescu apre la sua monumentale Storia
della letteratura romena dalle origini fino ad oggi () proprio con la discussione di alcuni grandi miti colti, di matrice
folclorica, costitutivi della cultura romena moderna, che do. Cfr. Vianu (), p. ; Cornea (), p. , nota .

vevano essere «considerati i punti di partenza mitologici di
ogni scrittore nazionale». Fra questi, Călinescu include anche i due grandi temi, tratti dal repertorio dei canti vecchi,
della Miorit,a e di Mastro Manole .
. In una tale situazione, non è difficile comprendere come
la presenza della poesia popolare abbia segnato in profondità non solo la letteratura, ma anche, più in generale, l’ideologia e il clima intellettuale della cultura romena moderna. Alcune opere fondamentali del pensiero romeno novecentesco, dovute a intellettuali formatisi nel periodo interbellico come il poeta e filosofo Lucian Blaga o Eliade, sono
imperniate proprio sull’interpretazione e il riuso ideologico
della materia della poesia popolare. Nel più importante saggio giovanile di Eliade – risalente proprio alla temperie interbellica e pubblicato nel  – viene fornita, per esempio,
un’interpretazione mitico-simbolica di Mastro Manole, riletto alla luce del grande tema del sacrificio rituale di fondazione. In un lavoro successivo sulla storia del capomastro
che sacrifica la propria moglie per evitare il crollo dell’edificio che sta costruendo, Eliade introdurrà discorsi di più vasta portata culturale:
Il transfert rituale della vita per mezzo del sacrificio – scrive a un
certo punto – non si limita alle costruzioni (templi, città, ponti, case) e agli oggetti utilitari: si sacrificano parimenti delle vittime umane per assicurare il successo di un’operazione, o anche la durata storica di un’impresa spirituale .
In un capitolo del suo Cultura di destra – intitolato Il “messaggio segreto” del professor Eliade – l’antropologo Furio Jesi collega l’interpretazione eliadiana della leggenda di Ma-
. Cfr. Călinescu (), pp. -. Per una trattazione più dettagliata
di tali aspetti cfr. Cugno (), pp. -. Cfr. inoltre infra, PARR. .-..
. Eliade (), trad. it., p. ; per l’intera questione cfr. infra, PAR. ..

stro Manole alla mistica della morte e all’ideologia del movimento fascista romeno delle Guardie di ferro, che avrebbe tratto ispirazione dalla cultura tradizionale, da Mastro
Manole e dalla Miorit,a. Ricordiamo qui la questione anche
perché riteniamo necessario rimettere la discussione sui giusti binari, dopo che ha conosciuto incredibili deviazioni. L’idea di Jesi è che la vittima designata di Eliade, vittima necessaria, fosse in realtà l’ebreo . È nota l’adesione del giovane (ma già maturo e ammirato) Eliade alle Guardie di ferro, l’ala estrema del fascismo romeno, frutto di una «crescente radicalizzazione politica dello studioso, che si manifesterà pienamente nel corso del , e si concluderà con la
vicinanza al Movimento legionario, vicinanza ideale o simpatetica, documentata da una serie di articoli giornalistici
tra il gennaio del  e il febbraio del » . In questo modo, secondo l’analisi di Jesi, l’antisemitismo giovanile di
Eliade non solo non sarebbe scomparso nell’età matura, come si è spesso creduto, non solo non sarebbe estraneo, come in genere si crede, alla sua opera, ma si radicherebbe invece proprio nel cuore del suo pensiero esegetico. Bisogna
dire che niente autorizza nella lettura di Eliade una supposizione come quella avanzata da Jesi. Fuorviato da un’affermazione di Eliade stesso, che aveva parlato di un «messaggio segreto» contenuto nel suo Traité d’histoire des religions,
Jesi giunge a una conclusione del tutto arbitraria riguardante il «segreto» posto al centro del Trattato. Per Eliade,
cioè, la vittima sacrificale – assunta dai rituali di morte della destra fascista romena – sarebbe l’ebreo: in quest’ottica
l’impresa spirituale alla quale assicurare il successo sarebbe
la rivoluzione legionaria propugnata da Codreanu e dalle
. Cfr. Jesi (), pp. -.
. Per l’impegno politico di Eliade nella Romania interbellica – e per
il dossier pubblicato a Gerusalemme nel  sulla rivista “Toladot”, dal
quale lo stesso Jesi ricava i dati sull’antisemitismo di Eliade –, cfr. il bilancio critico di Scagno (); la citazione è ivi, p. .

Guardie di ferro, gli ebrei sarebbero le vittime di fondazione e il legionario il martire colpevole dell’uccisione rituale.
A questo punto Jesi conclude, citando esplicitamente il canto di Mastro Manole: «la figura della moglie del capomastro,
murata viva perché l’edificio sorga, è quella dell’ebreo ucciso, ma anche quella del legionario, che dopo aver ucciso si
farà uccidere» .
Questa ipotesi così azzardata è rimasta, a quanto sappiamo, senza riprese significative, ma anche senza risposte esplicite. Di fatto, ha inciso e continua a incidere in modo negativo sulla ricezione del pensiero di Eliade. Solo recentemente Pietro Angelini, in un equilibrato riesame della figura di
Eliade, ha ricordato brevemente l’intera questione, mettendo in luce i limiti dell’interpretazione proposta da Jesi . È
chiaro che non possiamo in questa sede motivare nei dettagli il nostro rifiuto della tesi di Jesi, ma basterà questo per il
momento. L’onere della prova che in Eliade la vittima per eccellenza sia l’ebreo resta, d’altra parte, ora che Jesi è scomparso, a chi vorrà riprendere le sue argomentazioni. Anche
nella Miorit,a Jesi crede di rintracciare un esempio di tematica romena ispirata all’amore della morte, facendo riferimento in particolare al passo del canto in cui la morte viene presentata come sposa del protagonista. Rinviamo alla nostra
presentazione della Miorit,a per il fatto, non insignificante,
che i versi che sviluppano questa materia non sono popolari, ma rappresentano un’aggiunta di Alecsandri, di ispirazione romantica. Dal saggio di Jesi il lettore potrebbe ricevere
l’impressione, falsa, che i canti popolari romeni contengano
temi esoterici che la poesia popolare in genere, e quella ro. Jesi (), p. .
. Scrive giustamente Angelini (), p. : «Dimenticava Jesi [...]
una cosa che pure sapeva benissimo: che in un libro-mondo quale è il
Trattato si può trovare di tutto, dall’elogio del martirio alla rivalutazione
dell’infanticidio, e che certamente alcuni di questi temi facevano parte anche della mistica legionaria, ma non per questo esulano dalla storia delle
religioni».

mena in particolare, in realtà non può contenere (altrimenti
si accrediterebbero proprio quelle tesi «tradizionaliste» invise a Jesi, ma dalle quali rifuggiamo anche noi) .
La questione, al di là del suo interesse specifico, ci parla anche di come le immagini e i temi del folclore romeno
siano approdati, con tutta la loro carica emotiva e simbolica, fin nel cuore delle tensioni ideologiche e spirituali della
cultura moderna e contemporanea. Riaccostarsi ora a questi materiali poetici, dunque, dovrebbe servire anche a valutare meglio l’importanza della produzione orale romena
per ricostruire un atlante completo della memoria simbolica e dell’immaginario europeo, guardando il quale sia possibile prendere coscienza della complessità della nostra tradizione culturale.
DAN OCTAVIAN CEPRAGA LORENZO RENZI
. Una difesa di Eliade, la cui opera sarebbe dedicata a «estirpare il
razzista che è in noi», si deve al suo allievo Ioan Petru Culianu (, pp.
-), grande storico delle religioni romeno. Ancora più pertinente è la rilettura di Eliade (e del suo contemporaneo Dan Botta) eseguita recentemente da Giovanni Rotiroti (, pp. -), il quale pensa che una ricostruzione precisa ed equilibrata del clima culturale del tempo e delle varie
presenze intellettuali e politiche romene sia il miglior modo di arginare «la
deriva interpretativa» di Furio Jesi. Ricordiamo infine che c’è anche, in Italia, chi aderisce ai valori della destra tradizionalista, antisemitismo compreso, e fa l’apologia dell’ideologia delle Guardie di ferro, come Claudio
Mutti, autore di opere quali Mircea Eliade e la Guardia di Ferro () e Le
penne dell’arcangelo. Intellettuali e Guardia di Ferro (), libri a nostro
modo di vedere aberranti, ma che riposano su una conoscenza precisa della storia romena. Nella seconda di queste due opere Philippe Baillet, nella
sua prefazione (Eclissi e ritorno della tradizione. Sul movimento legionario
romeno), torna sul canto di Manole, ne ricorda l’esegesi di Eliade e vede
echi del tema di Manole nei canti dei legionari romeni, che da quel testo
avrebbero ripreso il motivo del sacrificio: sacrificio di sé, olocausto, comunque, non sacrificio dell’altro.
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