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CULTURA
Ferré, lo stilista che vestiva i sogni
di Valeria Palermi
Nelle sue forme fluide e scultoree ha anticipato le architetture di Frank Gehry. Ritratto di un maestro
che ha reinventato la moda. Partendo dalle emozioni e dall'utopia
Piaceva a Margaret Thatcher, l'altra regina d'Inghilterra dopo Elisabetta. Piaceva a donne forti, capaci di
durezze, che sapessero all'occorrenza anche essere crudeli, Gianfranco Ferré. Che potessero portare
senza esserne schiacciate i suoi abiti. Li chiamava "architetture tessili pensate per il corpo": lo aveva
detto all'ultima lezione, tenuta al Politecnico di Milano, giovedì 14 giugno, tre giorni prima della sua
scomparsa il 17 giugno. Titolo, 'Le forme dell'emozione', e come preambolo una frase di Mies van der
Rohe: "Vogliamo appoggiare saldamente i piedi per terra, ma con la testa vogliamo raggiungere le
nuvole". Disse anche un'altra cosa in quella lezione, che creare un abito è sognare razionalmente,
citando chissà se inconsapevolmente Shakespeare: "Siamo fatti della stessa sostanza dei sogni". La sua
moda, del resto, era nata nel segno di un'utopia. "Erano gli anni Settanta, Milano era una città
bruttissima, industriale, metallica, quella di cui Luchino Visconti si vergognava, nota solo per la Fiera
e Mike Bongiorno", ricorda Quirino Conti, architetto, storico della moda e autore di 'Mai il mondo
saprà' per Feltrinelli. "Ma è da qui che cominciarono a sentirsi degli scricchiolii. A comparire queste
facce bizzarre, gotiche, nordiche. Missoni, Armani, Albini, Ferré, Mariuccia Mandelli: mettevano su dei
piccoli studi, trasfiguravano questa brutta città. Oggi non se lo ricorda più nessuno, ma Ferré allora
era un ragazzo di sinistra. Aveva fatto architettura, aveva una mentalità progettuale. E il progetto era di
rendere un prodotto di qualità equamente distribuibile. Andò in India per le sue prime cose, la
collezione Ketch, sperimentale, colorata, underground: lì poteva produrre a prezzi bassissimi. Era pura
utopia di sinistra".
Racconta un Ferré diverso dall'iconografia ufficiale, Conti. Un Ferré non solo gran borghese, non
ancora sontuoso, imponente, importante, fin troppo. "In quel momento la moda milanese aveva lo
spirito della Factory di Andy Warhol, le loro creazioni erano come i suoi multipli. La moda, quella di
Ferré come quella degli altri, era venata di ideologia, aveva una visione prospettica: quella di un futuro
democratico, della bellezza distribuibile". Erano gli anni in cui Missoni diceva: "Voglio tessere un telo
per chi ne farà ciò che vuole", Versace - appena arrivato a Milano - "Voglio fare l'abito più semplice del
mondo". "La moda di Milano liquidava la vitalità festaiola di Roma. Era sobria, casta, dall'industria
traeva il suo linguaggio. L'asciuttezza era un'occasione", dice Conti. Per Ferré la funzionalità era la
frontiera. Scopre la gomma, il caucciù, le resine. La tecnologia da fabbrica, da ingranaggi, meccanica.
L'abito come la carrozzeria di una macchina.
"Ferré ha anticipato l'estetica di Frank Gehry. Lo ha fatto con i tessuti, usati per creare architetture
morbide, rotonde. Come in Gehry, nel suo tratto non ci sono rette ma curve, e il solido diventa fluido",
interviene Maria Luisa Frisa, critico della moda e direttore del corso di laurea in design della moda
all'università Iuav di Venezia. "Il suo non è un segno decorativo ma costruttivo. Che ha fatto della sua
una moda non semplice, importante, piena di cappe, di grandi colli di pelliccia, pantaloni, monili
esasperati, scultorei. Adatta a donne importanti. Julia Roberts, sua testimonial, non era molto adatta".
Troppo Pretty Woman, spaesata forse dalla grandiosità dell'ultimo Ferré. Era più coerente la cantante
nera Skin, in passerella per la primavera estate 2007 con un top tempestato da mille diamanti portato
con pantaloni maschili e un lungo teatrale mantello. "Lei era una pantera regale, e per Ferré la donna
era una regina. Lui le voleva vestire le donne, non svestire. Per questo i francesi avevano visto in lui
l'unico capace di disegnare Christian Dior, l'unico capace di fare couture, con i suoi chiaroscuri, i
volumi, le pieghe. Alla couture serve un segno forte. Come le sue camicie bianche: il massimo della
semplicità, trasformate nel massimo della sofisticatezza". E per questo gli anni Novanta gli furono
subito nemici. Stava iniziando l'era di Tom Ford, l'icona diventava Madonna vestita di una camicia di
seta e pantaloni da uomo aderenti. Tempi di pensiero effimero, inadatti a uno così indifferente ai trend,
alle furbate mediatiche, alle celebrities di piccolo cabotaggio. A uno sottoesposto per scelta.
In realtà le ultime collezioni di Ferré sono state applaudite come quelle dei tempi migliori. E il
problema della sua successione non sarà dei più semplici da risolvere. Ma fa parte di un problema più
grande: quello del futuro della moda italiana, della mancanza di una nuova generazione di eredi dei
grandi. "Ferré è stato il sommo anacronista. Ma nel frattempo è arrivata la strada", spiega Conti:
"Ineludibile, la gente. Non più l'aristocrazia della committenza, non più l'utopia, ma il sondaggismo, le
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ricerche di mercato, e lo stilista che diventa raccoglitore di input dalla strada. Per trovarli, oggi, i
designer, dobbiamo andare alle Biennali: perché questa è un'epoca di dodecafonia, e la moda cerca
alleati nell'arte per continuare a legittimarsi". n
Il testamento di Gianfranco
Nella sua ultima lezione alla facoltà del Design del Politecnico di Milano, 'Le forme dell'emozione',
Gianfranco Ferré ha elencato. illustrandoli, i punti cardine della sua estetica. Eccoli.
Scomporre
Il gioco delle forme può esprimersi anche nella scomposizione dell'abito stesso, ovvero
nell'eliminazione di alcune sue parti. Così può accadere che la blusa 'perda' il corpetto conservando
invece maniche sontuose, o che la giacca tuxedo perda le maniche lasciando nude le braccia.
Elaborare
Creare un abito significa attuare un processo di costruzione formale. La logica è quella
dell'elaborazione di semplici forme geometriche in forme complesse e sviluppate nella
tridimensionalità. Il primo necessario passaggio è la definizione delle forme stesse sotto forma di
bozzetto.
Eliminare
L'abito può persino mancare di una forma propria per adottare in toto quella del corpo. Questo
risultato si ottiene elaborando
la materia e giocando unicamente di taglio. L'abito scolpisce il corpo mentre il corpo costruisce l'abito.
L'abito diventa essenza. Ridurre
La ricerca di essenzialità porta anche a ridurre le proporzioni e le dimensioni dell'abito in sé o in
alcune sue parti. Risultato immediato, l'accentuazione della facilità con cui si può vivere l'abito.
Risultato più importante, la ridefinizione dei confini tra le diverse tipologie del vestire.
Ricalibrare
Nella ricerca dell'effetto, l'armonia intrinseca dell'abito può essere riconsiderata. È sufficiente porre
l'accento su
un dettaglio, ovvero esasperare le dimensioni e le proporzioni di una parte del corpo, creando
intenzionali 'dismisure'. Colli, polsi e fiocchi di grandezza esagerata possono trasformare il più
elementare degli abiti in qualcosa di completo, unico, speciale. Diventano l'anima dell'abito e nella
logica del 'pars pro toto' sono l'abito stesso.
Semplificare
Il processo di elaborazone formale dell'abito è in molti
casi ricerca di linearità. Che porta all'eliminazione di ogni ridondanza.
Il risultato è un'impressione di nitore, rigore. Le valenze dell'essenzialità non riguardano solo gli abiti
da giorno, ma anche quelli da sera.
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