Mds V 2 20132-2013

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Mds V 2 20132-2013
il mestiere di storico
Rivista della Società Italiana
per lo Studio della Storia Contemporanea
V / 2, 2013
viella
SOCIETÀ ITALIANA PER LO STUDIO DELLA STORIA CONTEMPORANEA
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IL MESTIERE DI STORICO
Copyright © 2013 - Sissco e Viella
ISSN 1594-3836 ISBN 978-88-6728-164-0 (carta) ISBN 978-88-6728-172-5 (e-book)
Rivista semestrale, anno V, n. 2, 2013
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indice
Riflessioni
Massimo De Giuseppe, El lugar más pequeño: visioni e memorie
della guerra civile salvadoregna
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Discussioni
Eric Bussière, Sundhya Pahuja, Alessandro Polsi, Andrew Preston
e Mark Mazower, Governare il mondo (a cura di Barbara Curli e Mario Del Pero)
Rassegne e letture
Gioia Gorla, Storia della disabilità Daniela Luigia Caglioti, Diritto e società internazionale
Gennaro Carotenuto, Corriere della Sera
Giovanni Sabbatucci, Sulle origini del fascismo Marco Dogo, L’età delle migrazioni forzate Mauro Elli, Enrico Mattei Guri Schwarz, Memorie della Repubblica Riccardo Brizzi, Media e potere in Italia 15
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Memorie e documenti
55
Le riviste del 2012
71
I libri del 2012 / 2
Collettanei
Monografie
Indici
Indice degli autori e dei curatori
Indice dei recensori
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RIFLESSIONI
Massimo De Giuseppe
El lugar más pequeño: visioni e memorie della guerra civile salvadoregna
C’è una scena del documentario messicano-salvadoregno El lugar más pequeño,1 premiato in numerosi festival internazionali e puntualmente non distribuito in Italia, che
raccoglie il senso profondo del progetto. Mentre la voce di un uomo racconta calma il
momento in cui da bambino trovò sull’uscio di casa il corpo del padre ucciso, ancora caldo, con la bocca sfondata, avvolto da un acre odore di fumo, la telecamera scorre decisa
lungo un sentiero di grassa e scura terra vulcanica, supera le radici, si inerpica tra i rami
sottili e le fitte foglie di un albero di aguacate (avocado), fino a rivelare una collina dalla
bellezza struggente, sommersa dalle nuvole dense dell’alba. Quello stesso sentiero, attraversando la foresta, conduce a una grotta, utilizzata per più di due anni come rifugio da
un gruppo di abitanti del villaggio de la Cinquera (nel dipartimento di Cabañas, a nord
di San Salvador), costretti a lasciare le proprie case nell’ambito di un’operazione militare
di tierra atrasada. In quel punto, probabilmente il momento topico del documentario,
ombelico ideale della sua narrazione multipla, convergono tutti i testimoni intervistati nel
film. Per la prima e unica volta svelano i propri volti, mentre si ritrovano a discutere faccia
a faccia del passato, delle ferite aperte dalla guerra, gettando uno sguardo anche sull’attualità di un paese segnato dalla migra selvaggia (un terzo dei salvadoregni è all’estero) e dalla
violenza minorile, in una regione passata dalla condizione di nodo strategico della nuova
guerra fredda a quella di corridoio centroamericano del narcotraffico.2
El lugar más pequeño, il posto più piccolo, è un raro esempio di microstoria trasportata
al cinema, attraverso la costruzione di una struttura semplice, quasi naif, libera da ogni
retorica e ideologismo, raccontata con la giusta distanza e uno stile originalissimo ma,
soprattutto, con un senso di assoluto rispetto per le persone, i luoghi, le voci e i silenzi.
1. El lugar más pequeño/The Tiniest Place, Regia e sceneggiatura: Tatiana Huezo Sánchez.
Durata: 104’. Messico 2011. Tra i riconoscimenti: il John Schlesinger Award del Palm Springs Film
Festival, il gran premio del Visions du Reel di Nyon e il premio della critica della Viennale.
2. Transnational Organized Crime in Central America and the Carribean: A Threat Assessment,
Vienna, Unodc 2012.
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Questa formula è ottenuta grazie a una naturale empatia tra regista e intervistati e al
ricorso a un singolare approccio narrativo in cui, per una volta, scompaiono le cosiddette
talking heads (i volti dei testimoni, ripresi durante l’intervista, spesso in una cornice
artificiale) tipiche della documentaristica storica anglosassone. La scelta stilistica (e al
contempo la proposta culturale) del film si basa infatti sulla decisione di registrare solo
tracce audio delle interviste ai testimoni, lasciando loro la massima libertà espressiva e
narrativa, accompagnandole poi nel montaggio con riprese dell’ambiente: del villaggio
ricostruito e della foresta umida che lo avvolge. Il tutto all’insegna di un grande pudore
e senza effetti visivi gratuiti. Unica eccezione è appunto quella delle riprese nella grotta
(con tutto il portato simbolico-religioso che le cuevas ancora rivestono nella cultura rurale
mesoamericana) in cui i narratori – un contadino, un guardiano di mucche, una donna
che ha perso tutti i suoi figli (guerriglieri e non) nel conflitto, il letterato del villaggio (la
cui prima lettura fu il dizionario Larousse), un ex paramilitare di Orden,3 una levatrice di
uova di galline altrui… – si spogliano delle proprie paure e, immortalati dalla fotografia
naturale di Ernesto Pardo, si confrontano «en vivo» sul senso di una devastante guerra
civile. Un conflitto, sorto ai margini della new cold war americana, segnato da una sequela
di violenze efferate che ha lacerato il paese, abbattendosi con particolare virulenza (specie
nel triennio 1981-1983) proprio sulle comunità rurali che ospitavano le invisibili linee
del fronte tra esercito e guerriglia, tra cui appunto Cabañas nell’Alto Lempa.4
La vicenda della rapida discesa del piccolo El Salvador verso una drammatica guerra
civile, protrattasi, dopo una lunga incubazione, dall’autunno del 1980 al gennaio del 1992
e costata più di 80.000 vittime, è stata raccontata in passato in più occasioni: dapprima
da una bibliografia militante e da una pubblicistica di denuncia internazionale, spesso
incentrata sulle responsabilità statunitensi nel conflitto,5 quindi da una storiografia
ancora in costruzione. Entrambe sono state accompagnate nel tempo, dato tutt’altro che
insignificante, da alcuni film e diversi documentari, su cui torneremo più avanti. Per meglio
comprendere l’andamento a strappi di questo processo corale (certo non privo di vuoti,
tensioni e contrapposizioni interne), credo sia necessaria però una breve premessa che aiuti a
coglierne alcune specificità. La vicenda si colloca naturalmente sullo sfondo della crisi sociopolitica che trasformò, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, il Centroamerica in
una delle aree di tensione strategica della guerra fredda e che vide, per una serie di ragioni
diverse, attori nazionali e internazionali giocarvi un ruolo di primo piano. In particolare,
3. La Organización Democrática Nacionalista (Orden) era un organo paramilitare sorto nel
1967 e sciolto nel 1980. Charles D. Brockett, Political Movements and Violence in Central America,
Cambridge, Cambridge University Press, 2005; Margaret Popkin, Peace Without Justice, University
Park, Pennsylvania State University Press, 2000.
4. From Madness to Hope, the 12- Year War in El Salvador- Informe de la Comisión de la verdad,
New York-San Salvador, United Nations-Donostia, 1993.
5. Mi limito ai più noti: Robert Armstrong, Janet Schenk, El Salvador: The Face of Revolution,
Boston, South End Press, 1982 e Walter Lafeber, Inevitable Revolutions. The United States in Central
America, New York, Norton, 1993.
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dopo l’uccisione di mons. Oscar Arnulfo Romero, il 24 marzo del 1980, il piccolo El
Salvador divenne il centro di una complessa rete di attività diplomatiche, iniziative politiche,
proposte terzaforziste e forme, spesso inedite, di mobilitazione e denuncia.6 Tutti fattori
che avrebbero proiettato sul paese tensioni «altre», finendo per incidere sulle dinamiche
esterne della ricostruzione del conflitto. In tal senso il caso salvadoregno rappresenta – in
termini distinti rispetto ai vicini Nicaragua e Guatemala, dove le segmentazioni sociali
assunsero un carattere ripettivamente più ideologico ed etnico7 – un modello emblematico
della latinoamericanizzazione della guerra fredda.
In primo luogo, analizzare genesi e sviluppi della guerra civile, permette di ricostruire i
termini della sovrapposizione tra frattura interna del paese (con tutti i sedimenti e le concrezioni
del passato e gli elementi di rottura sociale introdotti nel quindicennio precedente) e riflessi
regionali dei mutamenti in atto negli equilibri bipolari. Ricostruire, attraverso il filtro della
pervasività della guerra fredda, tempi e modi dello scivolamento del paese verso il conflitto,
così come la sua uscita negoziale (con gli accordi di pace firmati nel castello messicano
di Chapultepec nel gennaio del 1992) è infatti un esercizio complesso e in divenire: solo
alcuni archivi sono stati aperti,8 a fronte però di una crescente disponibilità di materiale
memorialistico e testimoniale, più o meno organizzato.9 La produzione storiografica soffre
quindi ancora di naturali resistenze e ideologizzazioni ma ha cominciato ad assumere forme
compiute e ad offrire proposte originali. Si è approdati ad esempio ad una periodizzazione
sufficientemente condivisa intorno all’intreccio tra dinamiche endogene ed esogene della
guerra civile, distinguendo tra una stagione di polarizzazione politica e di escalation della
violenza (1977-1980), una fase di guerra aperta e operativos masivos (1980-1983) e un lungo
6. Jackie Smith, Charles Charfielf, Ron Pagnucco, Transnational Social Movements and Global
Politics: Solidarity Beyond the State, Syracuse, Syracuse University Press, 1997. Nel 2010 l’Onu ha
proclamato il 24 marzo «giornata internazionale della denuncia delle gravi violazioni contro i diritti
umani».
7. Sull’uso della sfuggente categoria «etnica» nelle guerre centroamericane rimando a un confronto tra Greg Grandin, The Blood of Guatemala. A History of Race and Nation, Durham, Duke
University Press, 2000, e Rodolfo Stavenaghen, The Ethnic Question: Conflicts, Development and
Human Rights, Tokyo, United Nation University, 1990.
8. In El Salvador solo in parte è consultabile l’Archivo General de la Nación, mentre diversi
documenti sono disponibili presso il Centro de Documentación e Investigación Histórica (Cepaz) o in
archivi privati, di associazioni ed enti religiosi. All’estero, oltre ad alcune fonti diplomatiche (in attesa
delle Frus, i documenti messicani dell’Acervo histórico de la Secreteria de Relaciones Exteriores), si
ricordano i fondi conservati presso l’Instituto Americano de Derechos Humanos di San José e le carte
della Comision de Derechos Humanos de El Salvador (Cdhes), depositate presso la Fondazione Basso.
9. Un caso interessante, ancorché di parte, è rappresentato dal Museo de la Palabra y la Imagen
(Mupi) di San Salvador. Nato nel 1994 per valorizzare il patrimonio di manoscritti, foto e video della
guerriglia, raccolti dal fondatore di Radio Venceremos, Carlos Henríquez Consalvi, il Mupi ha promosso
mostre itineranti e il memoriale delle vittime del conflitto. Il suo patrimonio è stato valorizzato a livello
istituzionale dopo la vittoria elettorale del candidato del Fmln, Funes, nel 2009. http://museo.com.sv.
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conflitto a baja intensidad (1984-1992), sospeso tra i fragili processi di democratizzazione
interna e gli stop’n’go di una diplomazia bloccata.10
Un esempio di approccio narrativo, costruito attraverso una storia orale «dall’alto»,
si trova nel lavoro di Rafael Menjivar, Tiempos de Locura,11 che ricostruisce la genesi del
conflitto, in tre parti quasi indipendenti tra loro, basate su interviste ai diversi protagonisti:
militari (dal colonnello Majano, leader della prima junta militar progressista, al «falco»
colonnello Abdul Gutiérrez), comandanti guerriglieri (Rafael Menjívar Larín), politici
(Rubén Zamora) e rappresentanti della società civile (l’ex rettore della gesuitica Universidad
Centroamericana – Uca – Ramón Mayorga). Anche se l’impostazione del lavoro manifesta
dei limiti strutturali, si tratta di una ricostruzione utile a tratteggiare una mappa di reti
e gruppi d’interesse coinvolti nella guerra. In particolare aiuta a capire, oltre i freddi
paletti dei bollettini ufficiali, alcuni elementi originali di quella composita aggregazione
federativa di movimenti distinti tra loro (per natura ideologica, composizione sociale e
forme di comando) che fu il Frente Farabundo Martí de Liberación Nacional (Fmln)12
e il suo braccio politico, il Frente Democrático Revolucionario (Fdr). In particolare la
terza edizione di questo work in progress ha arricchito il preesistente impianto di storia
orale con i quaderni privati (conservati presso la biblioteca di teologia del Centro
Monseñor Romero de la Uca) del gesuita spagnolo Ignacio Ellacuría, una figura cruciale
per comprendere le dinamiche religioso-culturali (e relative ripercussioni politiche) della
componente liberazionista della teologia postconciliare in America centrale. Una figura
sulla cui tragica morte, consumatasi al crepuscolo del conflitto – Ellacuría sarebbe stato
massacrato nel novembre del 1989 all’interno della Uca, insieme a cinque colleghi gesuiti
e a due donne salvadoregne, da militari del battaglione speciale Atlácatl – sono già state
scritte alcune importanti pagine testimoniali.13
Un secondo dato da tener presente dipende dal fatto che l’orizzonte della guerra
civile salvadoregna si colloca al centro della cosiddetta second cold war o new cold war,
10. Sui tentativi negoziali, Mario Ojeda Gómez, Retrospección de Contadora. Los esfuerzos
de México para la paz en Centroamérica (1983-1985), México, El Colegio de México, 2011. Sul
pro­cesso di pace Lisa A. Hall, Constructing Peace. Lessons from Un Peacebuilding Operations in El
Salvador and Cambodia, Lanham, Lexington Books, 2007.
11. Rafael Menjívar Ochoa, Tiempos de locura. El Salvador 1979-1981, San Salvador, Flacso,
2006. Il volume tratta il periodo che va dal golpe militare del 15 ottobre 1979 alla fallimentare
offensiva finale del Fmln del 10 gennaio 1981.
12. Nel Fmln confluirono nell’ottobre del 1980 le Fuerzas de Liberación Popular (Fpl), organizzazione armata filocubana fondata da Cayetano Carpio nel 1970, l’Ejercito Revolucionario
del Pueblo (Erp), costituito nel 1972 da dissidenti democristiani e sindacalisti rurali delle Feccas,
Resistencia Nacional (Rn), il Partido Comunista salvadoreño (Pcs) e, successivamente, il Partido
Revolucionario de los Trabajadores Centroamericanos (Prtc).
13. Il battallón Atlácatl era un’unità speciale di contrainsurgencia delle forze armate salvadoregne. Teresa Withfield, Pagando el precio. Ignacio Ellacuría y el asesinato de los jesuitas en El Salvador,
San Salvador, Uca, 1991.
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assumendone quindi anche gli elementi di novità rispetto al passato.14 Se infatti la
storiografia contemporaneistica su El Salvador pre-guerra civile è incentrata principalmente
sulle caratteristiche della storia agraria del paese15 e sulla violentissima repressione delle
rivolte popolari del 1932 con conseguente irruzione dell’esercito sulla scena politica – una
vicenda che Greg Grandin, Gilbert M. Joseph e Jeffrey Gould interpretano, in una lettura
di lungo periodo della Latin American Cold War, come una sorta di contrainsurgencia antelitteram16 – tutto sembra mutare (anche a livello storiografico) con i fatti del 1980 (morte
di mons. Romero e avvio della guerra civile). Tra i fattori caratterizzanti va infatti rilevato
che il caso salvadoregno subì in pieno l’impatto simbolico-mediatico, e di conseguenza
profondamente politico e ideologico, del rilancio del conflitto bipolare (in questo caso in
termini anti-terzomondisti ancor prima che anti-sovietici), che accompagnò il passaggio
dall’amministrazione Carter a quella Reagan. Di qui un filone storiografico in via di
costruzione riguarda proprio la pervasività di quella singolare miscela tra vecchio e nuovo
sulle tensioni socio-economiche interne, sulla dialettica politico-militare e perfino sulle
dinamiche negoziali del conflitto. Una delle proposte più interessanti in tal senso è
quella di una lettura della specificità salvadoregna in seno al ben più ampio fenomeno di
«transnazionalizzazione» della guerra sucia, elaborata da Ariel C. Harmony17 in un denso
saggio del 2004, che ridefinisce la relazione tra una nazione culturalmente e socialmente
divisa, un impianto statuale aggressivo ma fragile e una comunità internazionale alle prese
con una complicata emergenza sotto il profilo umanitario. L’intreccio di questi fattori ha
permesso al pulgarcito de las Américas di assumere una rilevanza simbolica extracontinentale
di gran lunga superiore alle aspettative.
C’è poi un ulteriore fattore da non sottovalutare e che qui mi limito ad accennare,
ovvero il ruolo cruciale giocato dalla Chiesa cattolica, nella sua complessità. Loris Zanatta
ha ricordato che questa fu una guerra intra-cristiana, in cui il «nome di Dio era invocato su
tutti i fronti delle barricate», frutto di una sommatoria particolare tra «crisi della modernità
14. Massimo De Giuseppe, Il Centroamerica nella «nuova guerra fredda». Riflessioni sull’esperienza salvadoregna, in M. De Giuseppe (a cura di), Oscar Romero. Storia, memoria, attualità, Bologna, Emi, 2006, pp. 25-84.
15. Charles D. Brockett, Land, Power and Poverty: Agrarian Transformation and Political Conflict in Central America, Boulder, Westview Press, 1998 e Aldo Lauria-Santiago, Leigh Binford (a
cura di), Landscape and Struggle. Politics, Society and Community in El Salvador, Pittsburgh, University of Pittsburgh Press, 2004.
16. Jeffrey L. Gould, On the Road to “el porvenir”. A Revolutionary and Counterrevolutionary
Violence in El Salvador and Nicaragua, in Greg Grandin, Gilbert M. Joseph, A Century of Revolution: Insurgent and Controinsurgent Violence during Latin America’s Long Cold War, Durham, Duke
University Press, 2010, pp. 88-120.
17. Ariel C. Harmony, Transnacionalizando la «Guerra sucia», Argentina en Centroamérica,
in Daniela Spenser (a cura di), Espejos de la guerra fría. México, América central y Caribe, México,
Ciesas/Sre, 2004, pp. 319-348.
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e crisi della cristianità».18 La genesi e la prima fase della guerra civile salvadoregna non solo
risentirono dell’onda lunga della latinoamericanizzazione del Concilio Vaticano II e delle
conseguenze sociali e politiche da questa prodotte; la crisi del pulgarcito si colloca infatti
in uno spartiacque storico e all’interno di un processo di trasformazione delle relazioni tra
la S. Sede, istituzioni ecclesiastiche, laici, comunità cristiane e governi centroamericani.
La guerra civile salvadoregna si consuma infatti tra la III e la IV conferenza del Celam
(Puebla 1979 e S. Domingo 1992): due appuntamenti delicati e decisivi per la Chiesa
latinoamericana in generale e per le sorti del laicato e del clero impegnato nelle diverse,
spesso tumultuose, forme di pastoral liberadora. La comunità cattolica internazionale fu
scossa nel profondo dall’impatto simbolico della morte di mons. Romero e di centinaia
tra catechiste e sacerdoti (13 tra il 1977 e il 1989), e diverse sue componenti si resero
protagoniste di un’imponente attività di solidarietà. In un certo senso con El Salvador,
attraverso tutti gli anni ’80, si chiuse una stagione della ricezione del Concilio e forse anche
del terzomondismo cattolico. Non è un caso quindi che la fama delle vicende salvadoregne
sia passata e lievitata attraverso il filtro delle pubblicazioni – dapprima militanti e
memorialistiche, quindi sempre più compiute anche sotto il profilo storiografico19 –
dedicate ai protagonisti di quei processi. Anche l’Italia ha giocato un ruolo cruciale in tal
senso, dal successo di un istant book di denuncia come il Romero di Abramo Levi, ai recenti
studi storici di Roberto Morozzo della Rocca e altri.20
C’è però anche un ultimo elemento, a lungo sottostimato ma cruciale per comprendere
i termini del conflitto salvadoregno, e riguarda l’uso della storia orale, ricostruita «dal basso»,
con le testimonianze di gente comune, sospesa nella terra di mezzo tra esercito e guerriglia.
Questa prospettiva risulta essenziale per descrivere la dimensione quotidiana e popolare della
guerra. La stragrande maggioranza delle vittime (l’80% secondo la Comisión de la verdad
Onu), erano infatti pacíficos, civili, rappresentanti degli strati sociali popolari, perlopiù
rurali: cortaleros di caffè, milperos, contadini e piccoli artigiani (qualche operaio) intrappolati
tra insurgencia e contrainsurgencia. Dallo stesso bacino sociale arrivava anche buona parte
dei ribelli e dei soldati. La vera cifra di quella guerra civile centroamericana stava in fondo
nella ricaduta del peso bellico su questa popolazione silenziosa, lacerata a livello familiare e
18. Loris Zanatta, Storia dell’America latina contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2010, p. 192;
Id., El Salvador e la crisi dell’unione tra croce e spada, in Oscar Romero. Storia, memoria, attualità,
pp. 133-155.
19. Troppo lunga sarebbe qui la lista di volumi di memorie e denuncia (a cominciare dalle
opere curate dal teologo gesuita Jon Sobrino per la editorial Uca). Tra gli studi: Luis A. González, Izquierda marxista y cristianismo en El Salvador, 1970-1992, México, Flacso, 1994 e Anna L.
Peterson, Martyrdom and the Politics of Religion: Progressive Catholicism in El Salvador’s Civil War,
Albany, University of New York Press, 1997. Mancano invece ricerche sulla difesa del cattolicesimo
tradizionale come elemento legittimante di forze armate e gruppi paramilitari.
20. Abramo Levi, Oscar Arnulfo Romero. Un vescovo fatto popolo, Brescia, Morcelliana, 1981,
inaugurò la serie di biografie in italiano. A livello storiografico una svolta si è avuta con la biografia di
Roberto Morozzo della Rocca Primero Dios. Vita di Oscar Romero, Milano, Mondadori, 2006.
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comunitario, costretta a un’esibizione della morte e della violenza esasperata, che la distingueva
dalla logica della desaparición che aveva caratterizzato la contro-insurgencia nel Cono Sur. In
El Salvador la morte non doveva essere occultata ma esibita; anche gli attivisti, a differenza
di Cile e Argentina, erano principalmente contadini e in quest’ottica si muovevano tanto le
strategie di repressione preventiva quanto quelle di tierra atrasada, come ricostruito da Mark
Danner per il caso di El Mozote.21 Un dato interessante risulta dall’uso della storia orale
che, riadattando alcune intuizioni di Alexandra Barahona per il Cono Sur,22 è gradualmente
trasmigrata dalla classica raccolta testimoniale di guerriglieri e militanti,23 a ricostruzioni
sempre più compiute della quotidianità di una guerra civile e delle forme di aggregazione
rurale, in particolare attraverso alcune categorie: i rifugiati, le donne, il cooperativismo
contadino.24 Tra questi studi ricordo l’importante lavoro di apripista svolto da Elizabeth
J. Wood con Insurgent collective action and civil war in El Salvador,25 una ricerca capace
di toccare i nervi scoperti dell’anima popolare del conflitto, conciliando magistralmente
testimonianze orali e fonti d’archivio. Su questa scia si colloca anche il più recente studio
di Molly Todd sulle dinamiche sociali, politiche e culturali dei rifugiati;26 un lavoro che
parte da un quesito paradossale: la sensazione di assenza della storia che avvolge lo studioso
che si avvicina alla realtà salvadoregna. Abbandonando la prospettiva di intellettuali, leader
politici, guerriglieri o militari, giornalisti o teologi, la voce di questi testimoni offre infatti
una visione del conflitto differente, spesso spiazzante. Via via che ci si addentra nei meandri
di queste esperienze vissute, amplificate ed esasperate dalla tragedia bellica, ci si rende però
conto che la storia non è assente, anzi; vive nascosta sotto altre forme (laddove un albero
può sostituire una lapide), voci e apparenze, individuali e comunitarie, distinte rispetto alla
classica tradizione e percezione occidentale della trasmissione della memoria. La prospettiva
«dal basso» muta dunque le tessere e il volume del ricordo, sposta le cesure e le continuità,
offrendo nuovi spunti per la conservazione e narrazione del passato. Una ricerca in termini
comparativi che si muove tra rievocazione di ferite e ricordi, tra politica e società, è anche
il filo conduttore di un recente libro curato da Eduardo Rey Tristán e Pilar Cagiao Vila,
21. Mark Danner, The Massacre of El Mozote: A Parable of the Cold War, New York, Vintage,
1994.
22. Alexandra Barahona, Paloma Aguilar, Carmen González-Enríquez (a cura di), The Politics of
Memory. Three Decades of Transitional Thruth and Justice, Oxford, Oxford University Press, 2001.
23. Marta Harnecker, Con la mira en alto. Historia de las fuerzas políticas de liberación Farabundo Martí a través de entrevistas con sus dirigentes, San Salvador, Uca, 1993.
24. Tiempo de recordar y tiempo de contar: Testimonios de comunidades repratriadas y reubicadas
de El Salvador, San Salvador, SjdPA, 1994 e Norma Vásquez, Mujeres-montañas. Vivencias de guerrilleras y colaboradoras del FMLN, San Salvador, las Dignas, 1996.
25. Elizabeth J. Wood, Insurgent collective action and civil war in El Salvador, Cambridge,
Cambridge University Press, 2003.
26. Molly Todd, Beyond Displacement. Campesinos, Refugees, and collective Action in the Salvdoran Civil War, Madison, University of Wisconsin Press, 2010.
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riflessioni
Conflicto, memoria y pasado traumáticos: El Salvador contemporáneo.27 Un lavoro frutto di un
progetto interuniversitario ribattezzato Nomes y voces, promosso dall’Instituto de Estudios
Históricos Antropológicos y Arqueológicos (Iehaa) della Universidad de El Salvador, che
aiuta, a vent’anni dagli accordi di pace, a tracciare una sorta di cartografia della memoria,
con tanto di mappe culturali, miti e rielaborazioni del passato ad uso del presente.
Come detto in apertura, la guerra salvadoregna, conflitto periferico di fine stagione
bipolare, ha però lasciato un segno nell’immaginario occidentale (e nordamericano in
primis) anche sotto un profilo iconografico e cinematografico. A livello di fiction le opere
più famose restano due pellicole di produzione statunitense: Salvador di Oliver Stone
del 1986 e Romero di John Duigan del 1990.28 Il primo, con James Woods nei panni del
reporter alcolista Richard Boyle, alla ricerca di uno scoop in una guerra del terzo mondo,
sconta una serie di errori storici e alcuni passaggi disinvolti tipici dello stile dell’autore
ma ebbe il merito di portare il dibattito sul coinvolgimento dell’amministrazione
Reagan nelle vicende centroamericane (per un triennio El Salvador divenne il terzo
beneficiario di aiuti militari statunitensi, dietro solo a Israele ed Egitto)29 all’attenzione
di un pubblico mainstream, ben più ampio di quello legato ai movimenti pacifisti o
ispirati alla teologia della liberazione. Boyle avrebbe anche contribuito nel 2001 a un
interessante documentario, Into the Valley of Death,30 incentrato sulla testimonianza dell’ex
ambasciatore in El Salvador, Robert White (ultimo fautore della linea Carter); si tratta di
un lavoro utile a comprendere lo spirito dell’operazione di Stone, uscito nelle sale proprio
mentre in Centroamerica si consumava la fase delle «guerre a bassa intensità» ma subito
surclassato al botteghino dal quasi contemporaneo Platoon. Il film di Duigan è invece un
onesto biopic dell’arcivescovo di San Salvador, qui interpretato da Raul Julia. Un’opera
che paga le eccessive semplificazioni della sceneggiatura e una contenuta disponibilità di
mezzi ma ancora libera dalle future imposizioni stilistiche delle fiction televisive; da noi
soffrì una circolazione modesta, fuori dai circuiti parrocchiali del tempo. Ancor peggio
andò a un’originale produzione televisiva franco-italiana del 1987, Lettera dal Salvador,
di Florestano Vancini (autore in precedenza di due film storici, uno sull’eccidio di Bronte
e l’altro sul delitto Matteotti), sceneggiata dallo spagnolo Suprán e nemmeno acquistata
dalla Rai che pure l’aveva co-prodotta. Anche il più recente Voces inocentes, film del 2004
di Luis Mandoki, trasmesso nelle televisioni italiane in orari improbabili (con titolo I figli
della guerra) non è mai stato distribuito nei nostri cinema, nonostante abbia ottenuto
27. Eduardo Rey Tristán, Pilar Cagiao Villa (a cura di), Conflicto, memoria y pasados traumáticos: El Salvador Contemporáneo, Santiago de Compostela, Universidad de Santiago de Compostela,
2011.
28. Salvador, regia Oliver Stone, 122’, Usa-Uk, Hemdale Film 1986; Romero, regia John
Duigan, 102’, Usa, Paulist Pictures 1989.
29. El Salvador. Accountability for US Military and Economic Aid, Washington, Gao/Nsiad,
1990.
30. Into the Valley of Death, regia Charles Kiselyak, 61’, Usa, Mgm 2001.
riflessioni
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diversi premi e un buon successo di pubblico nelle Americhe. Pur nei limiti di una
trasposizione a costi contenuti di un libro di memorie, questa produzione messicana offre
una lettura originale della guerra civile, narrata attraverso gli occhi di un bambino in
attesa del compimento dell’11° anno d’età con l’incubo dell’arruolamento (lui finirà poi
nelle file della guerriglia, mentre due suoi compagni di giochi entreranno nell’esercito).31
Tutti questi film hanno un tratto in comune: sono stati girati in Messico, perlopiù
in Morelos, in un contesto che ricorda da vicino il Salvador (per ambiente, gradazione
di meticciato e rapporto tra matrice rurale e urbana), senza però poterne riprodurre in
toto alcune peculiari dinamiche socio-culturali, linguistiche e finanche religiose. Per quanto
concerne i documentari, se si escludono alcuni interessanti istant-docu-movies di denuncia
statunitensi come Justice and the Generals di Gail Pellet del 1980, Guazapa: the face of
War del 1984 (dedicato a uno dei massacri più efferati del conflitto, ricostruito dal noto
corrispondente Don North) e Maria’s Story di Pamela Cohen e Monona Wali del 1989 (la
storia di Maria Serrano, guerrigliera del Fmln), questi si sono concentrati più sul versante
ecclesiale del conflitto. In particolare ricordo Roses in December del 1982 di Bernard Stone
e Ana Carrigan, sulla vita di Jean Donovan (la missionaria laica uccisa insieme a tre suore
di Maryknoll da uno squadrone della morte nel 1980) ed Enemies of War di Esther Cassidy
(produzione Pbs del 1989) sull’eccidio dei gesuiti nella Uca. Anche il recente The Last Journey
of Monseñor Romero, altro documentario di Ana Carrigan, insieme a Juliet Weber, prodotto
nel 2010 dalla University of Notre Dame, resta in qualche modo irrisolto. Il lavoro presenta
un’interessante narrazione e alcune notevoli immagini di repertorio ma senza scostarsi da
un orizzonte intraecclesiale e nazionale (scompare l’intreccio tra storia salvadoregna e guerra
fredda). Vanno infine segnalati anche uno speciale Rai di La Storia siamo noi del 2011,
Monsignor Romero una morte annunciata, basato sulla ricerca di Morozzo, e due documentari
ufficiali prodotti per il trentennale della morte dell’arcivescovo: uno dall’Arzobispado di San
Salvador, l’altro dal governo Funes.
Torniamo allora a El lugar más pequeño, perché si tratta di un’opera innovativa sia
sul fronte documentaristico sia per l’uso della storia orale prima evocato. Innanzi tutto
è girato interamente in El Salvador, catturando voci e accenti del mondo rurale, senza
ricorrere a immagini di repertorio ma soffermandosi sui segni, materiali e immateriali, del
passato e sul loro lento trasformarsi nel presente. La genesi del lavoro, in fondo, ne rivela la
causa. La regista, Tatiana Huezo, di padre salvadoregno e madre messicana, è protagonista
di un personale viaggio alla ricerca delle proprie origini che si muove su un registro
intimo e potente al tempo stesso (a differenza di un altro docu-film più tradizionale sul
dopoguerra come Return to El Salvador di Jamie Moffett del 2010). Nata in El Salvador
nel 1972, alla vigilia del conflitto si trasferì a Città del Messico con la madre. La Cinquera
è il villaggio di origine della nonna paterna e Tatiana ricorda nelle interviste di averlo
riscoperto grazie a lei. Entrando nella microscopica chiesa, che porta ancora le ferite dei
bombardamenti, restò colpita dall’assenza di immagini di santi, sostituiti da una lunga
31. Voces Inocentes/Innocent Voices, regia Luis Mandoki, 120’, México, Bender/Muvi 2004.
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riflessioni
distesa di foto di vittime della guerra, perlopiù ragazzi e bambini. Nella fase più dura del
conflitto il villaggio fu integralmente distrutto e gli abitanti sopravvissuti si trasformarono
in desplazados che dovettero riadattarsi a vivere nei campi profughi o cercare una via di
fuga nella giungla urbana della capitale o nella foce del Bajo Lempa. Dall’inizio degli anni
’90 il villaggio è stato ricostruito e oggi davanti alla chiesa, con il suo albero di flor de fuego
e i murales di Romero, spiccano un proiettile di obice, un missile terra aria e una coda di
elicottero arrugginita. Sembra lo specchio della suggestiva locandina del documentario,
dove il volto di una ragazzina è solcato da alcuni disegni infantili (un fucile automatico,
uno stivale militare, una casa e un pappagallino) che potrebbero ricordare allegri comics
ma anche i tatuaggi minacciosi di un pandillero (membro di una gang), aprendo una
riflessione sulla continuità mimetica della violenza e dell’esibizione della morte.
Il documentario ha richiesto quasi cinque anni di preparazione, più umana che
tecnica, nove settimane di riprese, e un lungo lavoro di montaggio e postproduzione.
Dall’incontro tra questa regista migrante e i racconti dei profughi di ritorno è però
scaturito un frammento rappresentativo di una guerra civile pervasiva e totalizzante; il
tutto senza pretese di esustività ma con un senso naturale della testimonianza storica e
un realismo evocativo della quotidianità della violenza che aiuta a comprendere come
questa sia tracimata oltre i limiti tradizionali di una società strutturalmente polarizzata,
lacerando le comunità e castrando le nuove generazioni.
Forse anche per questo, El lugar más pequeno è però anche un raro film sulla
sopravvivenza: sulla capacità umana di reinventarsi, riadattarsi, contraddirsi e ridefinirsi,
perché, come ricorda un testimone, «en fin de cuenta de eso se trataba: sobrevivir o morir».
Consapevoli che certe ferite non potranno mai rimarginarsi, questi uomini e donne di
diverse generazioni si mettono in gioco, lavorando sulla propria memoria personale e
collettiva, ricreando gli spazi negati ma anche quelle pratiche di solidarietà descritte da
Elizabeth Wood e Molly Todd. Con i loro altari privati spiegano il senso e il peso atavico della
religiosità popolare nelle pratiche quotidiane di sopravvivenza alla guerra (tema cruciale per
comprendere la ricezione popolare di alcuni gesti di mons. Romero); con alcuni commenti
offrono la visione «dal basso» di impianti statuali fragili e cittadinanze incompiute, fuori
dall’orizzonte del villaggio e del ciclo agricolo tradizionale, fino a spiegare indirettamente il
perché del ricorso al paramilitarismo e all’esibizione terroristica della morte nelle guerre civili
centroamericane. Ed è per questo stesso motivo che la natura diventa una co-protagonista
assoluta del film: la flora così potente e suggestiva ma anche la fauna (formiche, pipistrelli,
uccelli, gli onnipresenti cani) che si muovono fuori da qualsiasi esotismo, come parte
del quotidiano, facendo sì che un bosco tropicale si trasformi in un luogo sacro e in un
testimone, solo apparentemente silenzioso ma ben più impressionante a livello sensoriale
rispetto a un tradizionale memoriale delle vittime in marmo o bronzo.
Non a caso questo film di rara sensibilità si chiude con una canzone che racconta
di un piccolo uccello uscito da una tempesta, Pájaro hermoso, cantata da un’anziana
sopravissuta ai suoi figli. Mentre l’esile voce si perde nel cielo, lascia dietro a sé una strana
sensazione, di forza e, soprattutto, speranza.
discussioni
Governare il mondo
(a cura di Barbara Curli e Mario Del Pero)
Mark Mazower, Governing the World. The History of an Idea, New York, The Penguin
Press, 475 pp., $ 29,95
ne discutono
Eric Bussière (Paris Sorbonne), Sundhya Pahuja (Melbourne Law School, SOAS, University of London), Alessandro Polsi (Università di Pisa), Andrew Preston
(Clare College, Cambridge University) e Mark Mazower (Columbia University)
Che cosa contraddistingue i progetti, le filosofie e le visioni dei tanti internazionalismi degli ultimi due secoli? Quali dibattiti e processi culturali vi sottostanno? Quali dinamiche, e finanche esigenze, della storia informano e catalizzano queste discussioni? Quali
modelli ne conseguono, e quali sono le loro forme compiute e strutturazioni istituzionali?
In che modo, infine, le principali potenze del sistema internazionale hanno di volta in
volta cercato di proiettare, e talora imporre, una visione internazionalista che portava con
sé una dimensione quasi inevitabilmente imperiale?
Sono queste le complesse domande alle quali Mark Mazower cerca di dare risposta in questo volume ricco, erudito e brillante, che completa e sistematizza riflessioni
ricorrenti in suoi precedenti lavori, affrontate poi direttamente in un libro che per certi
aspetti anticipa molti dei temi presenti in questo volume: No Enchanted Palace, dove
Mazower si soffermava sulle origini delle Nazioni Unite, smontandone il mito fondativo
legato precipuamente al ruolo degli Stati Uniti e al peso della Seconda guerra mondiale, e collegandolo invece alla discussione sugli imperi, la loro trasformazione e, anche,
preservazione.1
Governing the World è diviso in due parti, piuttosto dissimili tra loro. La prima, che
copre all’incirca il periodo che va dal Congresso di Vienna agli anni tra le due guerre
1. Mark Mazower, No Enchanted Palace: the End of Empire and the Ideological Origins of the
United Nations, Princeton NJ, Princeton University Press, 2009.
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discussioni
mondiali, si sofferma principalmente sul dibattito intellettuale e sulle diverse filosofie e
idee internazionaliste di una sorta di lungo XIX secolo: dall’internazionalismo di potenza
del concerto viennese a quello socialista; dal nazionalismo democratico intrinsecamente
universalista di Mazzini (e, in una qualche misura, di Wilson) alla competizione tra i due
grandi universalismi del XX secolo, quello statunitense e quello sovietico.
Ed è proprio sull’era americana – sul «governo del mondo in stile americano» (Governing the World the American Way) che dà al titolo alla seconda parte del libro – che
si sofferma l’analisi degli anni che vanno dalla seconda guerra mondiale a oggi. Vi si
discutono temi che hanno scandito il dibattito storiografico degli ultimi due decenni:
le strategie modernizzatrici e di sviluppo come modelli a loro volta d’internazionalismo,
nelle loro logiche omologanti e globali; la crisi che negli anni ’70 parve travolgere l’ordine
internazionale – le sue strutture, le sue norme, il suo modus operandi – emerso sulle ceneri
della guerra; la successiva, e in parte inattesa, affermazione di un nuovo ordine economico
internazionale, dove alla debolezza crescente della politica corrisponde il riflusso di un
internazionalismo forte e, con esso, del sogno di immaginare, architettare e dare forma a
un «governo del mondo». Qui la riflessione si fa inevitabilmente più presentista e, in una
certa misura, polemica, con considerazioni finali che oscillano tra la critica pessimista di
un mercatismo sovranazionale imperante e l’auspicio che un ripensamento delle forme
della sovranità possa rovesciare processi e tendenze ormai quarantennali.
La narrazione – dotta, fresca, e anche divertente nelle tante, impressionistiche vignette che la scandiscono – ruota attorno ai dilemmi, invero alle aporie, dei pensieri e dei
progetti internazionalisti, delle loro realizzazioni e del frammentario sistema di «governo
mondiale» che negli anni è stato edificato. Tre di queste aporie meritano di essere menzionate. Innanzitutto, la tensione tra un ostentato primato della politica e la frequente
sottolineatura del ruolo centrale di esperti e tecnocrati come «agenti» di internazionalismo. Si tratta di un internazionalismo, la cui realizzazione è affidata di volta in volta anche
a giuristi, ingegneri, medici; con logiche teleologiche e finalistiche che talora sembrano
marginalizzare paradossalmente il momento politico. La seconda contraddizione è data
da un tema che corre lungo tutte le pagine del libro: la dialettica tra il progetto e il sogno
di dare un governo al mondo e la tentazione della potenza egemone di turno – prima
la Gran Bretagna e poi gli Stati Uniti – di utilizzare questo progetto per consolidare ed
estendere la propria egemonia. Un tratto, questo, che si manifesta con chiarezza appunto
nella seconda parte del libro, in cui l’internazionalismo infine affermatosi sarà a lungo un
«internazionalismo statunitense». L’ultima tensione è quella tra i tanti disegni internazionalisti e processi più o meno autonomi di sviluppo di forme plurime d’interdipendenza
che uniscono, vincolano e costringono. Una tensione nella quale non sempre si comprende quale sia il momento agente e quale quello reagente.
Come sempre con i libri di Mazower, anche Governing the World ha alimentato una
vivace discussione storiografica alla quale «Il mestiere di storico» contribuisce con questa
tavola rotonda.
discussioni
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Eric Bussière
Le très beau livre de Mark Mazower est l’un des quelques ouvrages à proposer une
lecture d’ensemble de l’évolution du système international à l’époque contemporaine. Au
delà de l’exposé académique des données, il s’agit bien d’une vision qui débouche sur les
interrogations fondamentales qui se posent à nos contemporains et à leurs gouvernants.
Ce livre s’adresse fort logiquement en priorité à un public américain. Si la question posée
est claire, une gouvernance mondiale est elle possible et qu’apporte de ce point de vue
l’expérience d’un très large XXe siècle, la réponse qui lui est donnée ne l’est pas moins: depuis les années 1980-1990 le système mis en place après 1945 a subi une inflexion qui l’a
détourné du mode de fonctionnement qui avait été le sien au cours du troisième quart du
siècle et les Etats-Unis ont joué un rôle majeur dans la conduite de cette inflexion. Le lecteur/citoyen américain s’intéressant au fonctionnement du système international se voit
donc proposer un bilan dans lequel le gouvernement de son pays joue un rôle essentiel.
La structure même du livre témoigne des interrogations de son auteur. La première partie,
The Era of Internationalism, met en scène la montée en puissance de l’internationalisme
à travers l’étude de ses sources intellectuelles, des milieux qui l’ont porté, du rapport des
Etats au système international. Le tout converge vers la création de la Société des nations
(SDN) et l’échec de son ambition à installer durablement la paix. Cette première partie
fait une large place à l’Europe où se jouent alors sur tous les plans les évolutions du système. Mais les contributions américaines n’en sont pas moins présentes, qu’il s’agisse de
premières tentatives d’organisation régionale (panaméricanisme) ou des contributions des
scientifiques et des juristes à la réflexion sur la gouvernance mondiale. La participation/
retrait américain à la SDN constitue le point d’inflexion de cette histoire. Governing the
World, the American Way, titre de la seconde partie du livre, infléchit le regard et invite
beaucoup plus directement à observer le rôle des Etats-Unis dans la mise en place et le
fonctionnement du système onusien. Le propos est davantage centré que dans la première
partie sur le fonctionnement du système, la centralité de l’acteur américain est fortement
marquée et la place réservée aux autres acteurs, notamment européens, est faible. Le livre
n’en est pas moins des plus intéressant pour le lecteur européen, notamment en raison des
interrogations qu’il pose et des continuités qu’il installe.
Une gouvernance mondiale est-elle possible et sous quelles conditions? Mazower
situe la réponse à l’intersection de deux dynamiques. D’un côté celle de l’évolution des
idées et des aspirations à l’universalisme autour de concepts politiques – droit des peuples,
institutions démocratiques…– de la naissance et du développement du droit international, de la prise en compte par les scientifiques et les experts de grands phénomènes transnationaux qui, par leur nature, justifient des réponses à l’échelle internationale. De l’autre
l’existence de réalités politiques et le rôle des principaux acteurs dans une configuration
qui change: centralité européenne articulée autour d’un oligopole de grandes puissances,
entrée dans le jeu d’acteurs ou de groupes d’acteurs extra-européens, en premier lieu les
Etats-Unis. La vision esquissée par Mark Mazower est donc, à juste titre, différenciée
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discussioni
selon les champs et les époques, esquissant à la fois le renouvellement des dynamiques et
de fortes continuités.
L’un des apports importants du livre est la place réservée au rôle de l’expertise dans le
gouvernement du monde. Ce rôle représente la part qui revient à l’étude et à la connaissance que l’on pense comme nécessairement neutre au plan politique. Il représente l’un
des fondements d’une sorte d’universalisme intégral à qui reviendrait la mission de poser
les bases de la gouvernance mondiale voire de la mettre en œuvre. L’expertise s’institutionnalise et s’installe au cœur du système à partir du XIXe siècle à travers la création d’organisations internationales, souvent à caractère scientifique ou technique, qui acquièrent la
permanence et dont les objets se diversifient abordant progressivement aussi le champ des
sciences humaines. Mazower analyse fort bien la continuité et le renouvellement de cette
dynamique sur plus d’un siècle, les questions d’environnement s’insérant ainsi au cœur du
débat à partir des années 1970. Cette dynamique prend en apparence l’aspect d’une nébuleuse d’institutions, le plus souvent privées (des congrès du XIXe siècle aux ONG contemporaines), et très peu ordonnée. Mais l’une des caractéristiques de cette dynamique est la
tendance à la consolidation institutionnelle de ces organisations et à leur insertion, selon
des modalités et à des degrés divers, dans le réseau de la SDN puis celui de l’ONU. Cette
tendance traduit en réalité la politisation de leurs objets et la volonté des pouvoirs publics
d’orienter leur action voire de les contrôler. Ce constat rejoint la question fondamentale
posée par le livre. La gouvernance mondiale ne relève pas d’objets inertes mais de contenus
en évolution. Une fois politisés ils s’insèrent dans un entre-deux qui se situe précisément
au cœur du débat sur le gouvernement du monde: l’expertise crée et formalise des objets
dont le politique finit par s’emparer. Mazower fournit de ce point de vue les instruments
d’une analyse en profondeur de cette dynamique lorsqu’il traite du champ économique.
Les économistes et les praticiens ont longtemps considéré que leur champ de compétence
devait échapper au contrôle des politiques, le cas de la monnaie constituant l’un des exemples les plus frappants de cette réalité jusqu’à nos jours. La SDN puis l’ONU ont capitalisé
sur cette expertise bien spécifique à travers son Comité financier pour la première, le FMI
pour la seconde. On y ajoutera le rôle de la BRI/BIS créée en 1930 et restée depuis le lieu
de dialogue entre banquiers centraux. La montée en puissance de doctrines ou de méthodes plus interventionnistes ont de même été intégrées au système même lorsqu’elles furent
expérimentées à l’échelle nationale. La technocratie qui a construit l’expérience du New
Deal et dont l’expérience a été transférée pendant et après la guerre en Amérique latine et
en Europe a généré un internationalisme issu des Etats-Unis puis transféré au cœur des
institutions de Bretton Woods. Mais ce type de phénomène n’est pas irréversible lorsqu’un
très grand Etat renonce à jouer le jeu de l’internationalisme au point d’utiliser les savoirfaire et les moyens qui accompagnent l’expertise au profit de stratégies nationales comme
le firent les Etats-Unis en 1971 dans le domaine monétaire. Mark Mazower montre de ce
point de vue à quel point le champ de l’économie est devenu l’élément structurant majeur
du système au cours de la deuxième moitié du XXe siècle au point que l’essentiel des inflexions des années 1980-1990 peut lui être attribué.
discussioni
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De par les objectifs de sa démonstration qui privilégie les responsabilités des EtatsUnis dans le système, les analyses de Mazower sont très largement centrées sur le dialogue
entre Etats et institutions internationales. Elles laissent ainsi assez peu de place à l’analyse
du régionalisme comme mode de gouvernance intermédiaire au sein du système. Le livre
offre quelques aperçus sur le panaméricanisme, évoque très rapidement la dimension européenne du régionalisme à travers le plan Briand de1930 sans toutefois en approfondir les
termes, puis consacre une partie de chapitre au projet européen d’après la seconde guerre
mondiale en privilégiant la vision d’un Altiero Spinelli qui n’en résume pas, loin s’en faut,
la substance. La réalité des choses est infiniment complexe et mériterait de plus amples
développements. Car le projet européen s’insère avec une grande continuité tout au long
du XXe siècle dans les débats analysés par Mark Mazower, au point de constituer l’un des
apports de l’Europe à la réflexion sur la gouvernance mondiale. Le régionalisme s’est en
effet institué comme méthode de gouvernance articulée sur le système international. Le
modèle européen ne doit donc pas être traité comme un isolat mais dans sa relation avec
l’internationalisme institutionnalisé, objet central de l’ouvrage de Mazower.
Car les projets d’organisation de la gouvernance mondiale, très largement développés au sein des élites du vieux continent autour de 1900, sont fréquemment liées à une
réflexion spécifique sur la dimension européenne de la question avec laquelle ils cherchent à s’articuler. Leurs objets, les schémas institutionnels et les principes qui les soustendent, les milieux qui les développent se recouvrent très largement. Au lendemain du
choc de la première guerre mondiale la dimension européenne s’affirme plus nettement
même s’il faut attendre le plan Briand présenté devant l’assemblée générale de la SDN
en septembre 1929 pour que soit énoncé un projet européen d’ensemble aux composantes économique, sociale et politique. Mais les porteurs de ce projet le font au nom des
mêmes valeurs que les défenseurs de l’universalisme de la SDN et ne le conçoivent qu’articulé sur ce dernier. Le régionalisme mis en oeuvre à partir des années 1950 prolonge
sans aucune rupture celui de l’époque antérieure et s’intègre dans l’ordre universel de
l’ONU sur lequel il est explicitement articulé. De ce point de vue la forte continuité très
bien analysée par Mark Mazower entre la SDN et l’ONU se retrouve si l’on observe la
dynamique du projet européen. Le modèle régional établi en Europe occidentale sur une
base institutionnelle depuis 1950 relève des valeurs d’un universalisme libéral et de schémas d’organisation qui sont aussi celles des Etats-Unis et dont les origines communes
sont analysées dans le livre de Mazower. L’atlantisme apparait ainsi fondamentalement
comme la mise en oeuvre, à échelle réduite, d’un projet universel au sein duquel s’articule
le régionalisme européen. La guerre froide et l’existence d’un «autre modèle» à vocation
universelle, le socialisme soviétique, ne modifient en rien ce rapport qui s’inscrit, jusqu’à
nos jours, dans la continuité.
L’ouvrage de Mark Mazower pose au total au lecteur américain comme au lecteur
européen une question fondamentale d’ordre académique mais aussi politique. Un système à vocation universelle peut-il durablement fonctionner s’il repose sur la responsabilité
d’une puissance dominante? La question fondamentale posée par le dilemme de Triffin
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sur le terrain monétaire se trouve ainsi transposée au plan politique. Le gouvernement
américain s’est trouvé confronté à cette question au début des années 1970, on peut penser qu’il l’est à nouveau aujourd’hui. Dans le premier cas il a opté pour la fuite en avant
dans une mondialisation libérale remettant en cause l’équilibre acquis au sein des institutions internationales après la deuxième guerre mondiale. Dans le deuxième cas il est invité
à participer à une recomposition et à de nouvelles normes. Dans les deux cas, la montée
en puissance de nouveaux concurrents/partenaires dans un contexte de déstabilisation
partiel du système invite à tenir compte des réalités d’un monde devenant multipolaire.
La réponse que tente d’apporter l’Europe est celle du régionalisme, tout à la fois structure
et méthode de gouvernance mondiale enracinée dans une dynamique à laquelle les EtatsUnis participèrent depuis la fin du XIXe siècle.
Sundhya Pahuja
Understanding international law requires an appreciation of its history, and both legal scholars and historians have developed a welcome appetite for critically rethinking the
history of international law. In keeping with disciplinary developments (in history more
than law), this is not the usual «transitional» history which describes a linear progression
toward an ever more perfect future, but the critical or unofficial history which is attentive
to power, as well as to the production of historical knowledge as it tries to understand the
past. And yet those at the vanguard of scholarship on international law and history are
divided along at least one methodological line of significance. The division lies in how
the category of «law», international or otherwise, is understood and treated in methodological terms. One approach works within the inheritance of occidental modernity, and
modern law, and accepts a definition for law that relies broadly on traditions of positivism. Although from the perspective of legal theory positivism is highly variegated, such
conceptions of law implicitly accept for law and legality a particular meaning, defined by
validity and traceable back to the state in some way.
Another approach starts from a position agnostic to the normative claim of positive
(state based) law rightfully to be «law», and treats that law (domestic and international)
instead as a parochial (rather than universal) practice of authorization, specific to places,
practices and people. This practice of authorization may be called «jurisdiction», from juris-dicere (to speak the law), because it claims not only to speak the law, but also to decide
what «law» is. There are various reasons, conscious or unconscious, as to why a person
would take as given a positivist account of law. It is the necessary posture of the doctrinal
lawyer, policy maker, practitioner, and a common one for legal theorists. This remains
true even when «law» is the subject of critique, or is «pluralised» by being depicted as
rubbing shoulders with other normative regimes. But in the context of histories of (international) law, the «given-ness», or non-problematisation of a particular definition for
discussioni
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law means either that its normativity is accepted as a matter of choice, or is understood
implicitly as having been formed or «fixed» at some point outside the time or place of the
history being told. On the other hand, jurisdictional approaches to law and history regard
modern law as a set of practices of authorization which are not fixed, final or settled, but
ongoing, and always encountering other – often rival – practices of authorization.
Mark Mazower’s new book, Governing the World, is a good example of what may be
gained – and what may be at stake – in accepting a positivist account of law when offering an historical account of international law and institutions. What is gained is perhaps
audibility and audience. Taking as given international law’s own account of itself (and by
extension, state law) as rightfully «law» enables the presentation of a strongly narrative account of the intellectual history of the idea of internationalism, and its associated projects
of governing the world, in its more or less imperial variants. It is heuristically useful for
the book to have «made strange» the idea that people in Accra may in some sense be
«governed» by bureaucrats from Washington, New York or Geneva, and according to the
same general («technical») principles used to govern people in Bengal, Kingston or Bogota. Useful too, is the way the variegations in the idea of internationalism are drawn out,
placed in the cultural-historical context of their emergence, and an account given of how
those variegated ideas have found their way into contemporary institutions.
Moving from the Great Power internationalism of the Concert of Europe in 1815,
through the democratic internationalist utopias of the mid nineteenth century, through
peace movements, free trade utopias, populist, capitalist, communist and some more
eccentric variants, and the influence of those ideas on the formation of international institutions, we are presented with a dynamic and readable story of which people with what
projects shaped the history of international law. This is embedded in a rich account of
both geo-political and political-economic rivalry. Its agonic axis is the oscillation between
the Great Power internationalism of the Concert of Europe, with its Old Europe emphasis on diplomats, power and intrigue, and its putative opposite, an Anglo-American
(and finally American) technocratic internationalism organized around international law,
institutions and administration.
The account is unashamedly a history of the present. The book begins not with
Metternich himself, but Henry Kissinger’s doctoral thesis on Metternich. When our gaze
is directed back, it is through the eyes of less antique statesmen; figures like Woodrow
Wilson and Winston Churchill, or Margaret Thatcher and Tony Blair. And when we
get to the end, the payoff comes in the form of what a more detailed understanding of
the history of the idea of governing the world might offer us for reimagining a collective
global future. But it is here we see what might be at stake in the acceptance of a positivist
account of law in telling histories of international law. Its particular manifestation here is
in the mystique of sovereignty, which returns in a strangely nostalgic register at the end of
the book. Mazower is not naïve about international institutions – he has illustrated clearly
that putatively universal institutions can work perfectly well with the rule of exceptionalist states. And his account of a commodified, individualistic world of shadowy corporate
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discussioni
power, and philanthropic anti-politics, in which superficially networked consumers are
rapidly losing the postwar gains of the welfare state is nicely paranoid.
And yet the grain of hope he finds in this dystopia is sovereignty: «[…] what does
seem novel, in historical terms, is the collapsing importance of the public bodies that have
given national sovereignty meaning, and the way that organs of international government and regulation have come to assail the internal legitimacy, capacity and cohesion of
individual states» (p. 421). But sovereignty, like nostalgia, is not what it used to be. No
matter how universal its claim, sovereignty is itself a parochial practice of authority, with
a history specific to time and place. It is a practice of jurisdiction taken up as a promise
by most of the world in the aftermath of empire because of the spread of the Jus Publicum
Europaeum as the rightful law of encounter during the imperial period, and the monopoly
on legal personality held by its subject, the nation-state. In most of the world, it has been
experienced ever since only as loss, for it rapidly became clear that for the Third World,
sovereignty was always porous, open to penetration by the «developed» world, because it
is embedded in a developmentalist frame which necessitates the continual transformation
of non-European states from primordial particularity to modern, universal statehood.
In the context of histories of international law, one consequence of accepting a positivist account of law can be to end up in a position of reform, no matter how damning the
foregoing critique has been: «[g]etting the institutional architecture right is the subject of
endless […] reform proposals. But there are two kinds of more fundamental change that
will need to take place too» (p. 425). But another consequence of accepting international
law’s claim to right (if not efficacy) can be to rehearse the discipline’s Eurocentrism, notwithstanding a pluralizing intention. The concern here is that taking sovereignty as a general experience of public life means taking the history of European statehood, and turning
it into the teleological trajectory of the rest of the world. The «failed states», for example,
which appear so often in Mazower’s critique of the turn to global executive administration, and which, with their «in danger» and «borderline» cousins cover most of the Fund
for Peace map, could be read as pitifully afflicted and in need of development assistance.
They could also be read as exemplars of what happens when one keeps trying, over 60
years, to generalize through force if necessary, the jurisdictional form of the nation-state
in places with different forms of law, economy and associational life.
But even if «public» should be understood in terms of the demos of European statehood, it is not clear either that the financial capital Mazower fears has not laid long at its
heart. It is possible that the faltering state of the 17th century – in England at least – was
made stable against its own associational rivals through a relationship of indebtedness
between the King and the newly monied merchants, and the invention of the «national
debt». This instrument created in the creditor, a vested interest in the continuing existence of the juridical form of the borrower: the state. That is a relationship yet to be told
in terms of the emergence of international law, the place of the Company and its relation
to the authority Mazower yearns to «return» to the public. But that would be another
story…
discussioni
23
Alessandro Polsi
È il libro che avrei voluto scrivere, e con questo chiudo i complimenti a questa opera
di vasto respiro e robusta costituzione, che offre spunti per una riflessione estesa fino
al presente. Il lavoro si gioca sull’ambiguità di fondo del termine «internazionalismo»,
un’ambiguità che ne racchiude tutta la storia. Almeno due significati sono possibili: da
un lato l’internazionalismo è stato il riconoscimento di un insieme di valori che hanno
avuto l’ambizione di presentarsi come valori universali, validi per tutti gli uomini e tutti
gli stati. Possono essere stati valori definiti «borghesi», la scienza, il diritto internazionale,
i diritti umani, o «socialisti», l’internazionalismo proletario, la dittatura universale del
proletariato. Entrambi avevano l’ambizione di costruire una scienza di governo, i cui
valori, specularmente antitetici, dovevano rappresentare paradigmi universali, validi per
tutti gli uomini e le nazioni. Un internazionalismo che vedeva come proprio fine teleologico la costruzione di un governo mondiale. Ma internazionalismo è stata anche l’idea di
costruire un governo del mondo, in cui fosse possibile far convivere in maniera armonica
popoli e culture diverse. Mazzini, o Wilson, propongono un metodo universale di governo (l’Europa dei popoli, la Società delle Nazioni) che contemporaneamente contiene in
sé un riconoscimento di diversità e quindi in nuce il germe della sua possibile distruzione.
È possibile leggere l’opera anche secondo la prospettiva della affermazione a livello globale della cultura e dell’impero europeo e poi americano. Una affermazione ottenuta non
solo con gli strumenti delle armi, ma con quelli della scienza, della cultura, del diritto.
Il momento di massimo trionfo dell’internazionalismo è dopo la prima guerra mondiale
quando la Società delle Nazioni e la Corte permanente di giustizia internazionale, per
quanto imperfette, incarnano e fondono al massimo livello mai raggiunto la duplice utopia di un governo mondiale fondato su stati nazionali e su un insieme di regole certe e
valide su scala planetaria.
Tutta la prima parte del volume è una sapiente raccolta dei tanti rivoli di pensiero
politico che sfociano nel medesimo fiume all’inizio degli anni ’20 del secolo passato.
Dopo la correzione in senso realistico e tecnocratico degli istituti del governo mondiale
attuato con la fondazione dell’Onu e delle grandi agenzie internazionali, l’altro punto di
svolta significativo è rappresentato dal conflitto politico che contrappone mondo occidentale a nuovi paesi decolonizzati. Un conflitto che Mazower, pur inquadrandolo nel
contesto della guerra fredda, propone in una dimensione molto più vasta, come scontro
fra visioni del mondo, gruppi umani che, ritrovata l’indipendenza, esprimono bisogni,
richieste politiche ed economiche, che contestano radicalmente l’egemonia occidentale e,
per quanto largamente strumentali, finiscono per minare le certezze granitiche del mondo
sviluppato.
Il libro di Mazower è una delle rare opere che danno una lettura epica dello scontro
fra occidente e Terzo mondo, un conflitto culturalmente molto meno rassicurante di
quello potenzialmente letale, ma facilmente inquadrabile, che contrapponeva Stati Uniti
e Unione Sovietica. Ne esce confermata l’importanza della presidenza Reagan che non
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
24
discussioni
solo assestò la spinta definitiva alla fine del comunismo, ma riportò una schiacciante
vittoria sul piano economico e quindi culturale sul terzo mondo. Una vittoria che alla
fine non ha significato l’imposizione del modello occidentale, ma l’emergere di nuovi
strumenti di governo del mondo, il WTO e la globalizzazione, che in una visione quasi
hegeliana della storia hanno portato all’affermazione di nuovi stati (la Cina, l’India, il
Brasile) ma soprattutto di nuovi poteri sovranazionali che ormai minacciano l’autonomia
e l’indipendenza degli stati nazionali. È la fine dell’internazionalismo, inteso come utopia
politica unificante, sostituito da una sorta di pensiero unico economicista, sempre di origine anglosassone, che ambisce a soppiantare le arti della politica.
Anche l’Europa trova un posto in questo quadro, in un capitolo finale che parte
dall’utopia federalista del Manifesto di Ventotene per arrivare alle delusioni e alla preoccupante assenza di prospettive politiche della attuale crisi. Trovo originale e molto anticonformista l’approccio alla figura di Jaques Delors, ormai una delle icone della integrazione europea, considerato come una sorta di apprendista stregone, che ha dato avvio al
processo che ha creato l’Unione Europea, una istituzione in questo momento ben diversa
da quel forte organismo in grado di coniugare liberismo economico e stato sociale, come
auspicato dal politico francese.
Se la prima parte dell’opera, grazie alla dimensione sostanzialmente anglosassone del
dibattito (anche se Mazzini ha un suo rilievo quasi idealtipico) mi sembra più esaustiva, la
seconda parte, dedicata al post ’45, è necessariamente giocata su grandi affreschi, pur non
rinunciando a dar conto dell’estrema complessità dei piani e degli attori in gioco. Fino
agli anni ’30 si parla di Stati Uniti e di Europa, dopo il ’45 gli Stati Uniti sono il punto
di riferimento, l’impero informale che ha soppiantato l’impero britannico, e restano in
ombra, forse al di là di quanto meritano, gli esausti paesi europei o il ribollente continente
asiatico. Ma tutto questo avrebbe richiesto un altro libro. Credo che l’opera di Mazower,
di cui mi auguro la traduzione anche in italiano, rappresenterà per i prossimi anni un
punto di riferimento per chi si vorrà misurare con quella che con un termine di gran
moda di chiama world history.
Mi piace dare enfasi anche a un’altra dimensione dell’internazionalismo: la nascita e
la crescita a partire dagli anni ’20 di una intellighenzia sovranazionale, che cresce dentro
le prime istituzioni internazionali, e si pone in rapporto spesso problematico con gli stati
di appartenenza, veicolatrice di valori innovativi (Jean Monnet è una figura da manuale),
ma sempre a rischio di isolamento o di distacco dalle linee politiche prevalenti nel paese
di origine, fino a sfociare oggi in una élite tecnocratica universale che attraversa istituzioni
pubbliche e private, ormai priva di legami, o con legami estremamente labili con i paesi di
origine (se mai ha senso identificarne uno). È questa élite a esprimere nel mondo attuale
quella sorta di pensiero unico che secondo Mazower sta rischiando di schiacciare popoli
e stati, senza fini di conquista o vantaggi materiali, ma in nome di un mito economicotecnocratico che si riveste di parole come governance e aggiustamento strutturale.
Non possiamo trascurare il forte impegno politico che anima il libro. Condivido
l’idea che l’utopia di creare un governo del mondo, inteso come possibilità della politica
discussioni
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di creare istituzioni che agissero per migliorare la vita degli uomini si sia trasformata nel
suo incubo opposto, un mondo governato da un’idea o da un mito, la governance globale, che sembra sfuggire al controllo di chi lo ha evocato. Quella di Mazower è un’opera
dominata dal dubbio che il mondo abbia smarrito quella sorta di economia morale – il
pensiero va a Edward P. Thompson – che, nella espressione delle sue élites più virtuose e
illuminate, ha cercato di governare l’internazionalizzazione negli ultimi due secoli. Con
il timore che quella economia morale (o politica morale) appartenga a un passato ormai
definitivamente superato.
Il mondo attuale appare modellato da un lato attorno al paradigma dello stato nazionale, dall’altro da livelli di governo sovranazionali (istituzionali, economici e privati) a volte estremamente influenti, e in buona parte esenti da un controllo politico. La
democrazia sembra infatti fermarsi al livello nazionale e andare poco più in là. Solo gli
stati-regione, come gli USA o la Cina possono ancora contrastare le regole astratte della
governance globale.
Il capitolo conclusivo sull’Unione Europea non fa che confermare il pessimismo di
chi scrive sul futuro dell’Europa. Nel parlare dell’Europa Mazower tocca una dimensione
solo parzialmente presente nel resto del volume, una dimensione non storica, ma politologica ed è l’impetuosa corsa verso il regionalismo a livello globale che si è manifestata negli ultimi vent’anni. Forse l’evoluzione nella direzione di un regionalismo politico, che dia
vita a un governo globale fra pochi grandi attori, può essere in grado di contrastare la forza
pervasiva del nuovo credo universalista, e riportarlo sotto il controllo di scelte politiche.
Il paradosso può essere, alla fine, di ritornare ironicamente al congresso di Vienna, a quel
concerto delle nazioni, in chiave di grandi aree regionali, che l’utopia internazionalista ha
cercato per due secoli di demolire. Avevano ragione il principe di Metternich e più di un
secolo dopo Henry Kissinger, o i loro nobili e idealisti avversari?
Andrew Preston
The idea of global community has been with humanity almost as long as humanity
has been around. For a long time, and continuing still, the connective tissue was supplied
by a common spirituality. In this sense, a community of believers that spanned the known
world, and not a pluralist polity that would govern in the interests of all, was the only
objective worth pursuing. Christianity and Islam, the two world religions grounded in
spiritual and territorial expansionism, were the culmination of this earliest form of global
community. Through the efforts of missionaries, and in the form of the church universal,
a priesthood of all believers, and worldwide communions, Christians built transnational
communities based on the presumption that anyone, anywhere, could accept Christ into
their heart and the corresponding assumption that Christ died for everyone, everywhere,
for all time. Such universalistic pretensions were also at the heart of Muslim conceptions
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
26
discussioni
of an integrated humanity, such as the Umayyad or the Caliphate. Predictably, ideologies of Christian and Islamic universalism reached their apogee in the form of empire,
and so imagined communities of believers became vast, sprawling, political entities ruled
through violence and governance.
It was only in the nineteenth century that secular forms of global community gained
prominence, and it is here that Mark Mazower begins his erudite and wonderfully readable book Governing the World. To be sure, Mazower considers imperial and religious influences on the idea of global community, as well as on ideas for its implementation. But
his main task is to trace the evolution of plans for global community that are grounded
in the idea of governance, much as bureaucratic states govern sovereign nations. Thus
it is also not a coincidence that Mazower’s book begins in the post-Enlightenment and
post-revolutionary era when nationalism emerged, solidified, and grew in Europe and the
Americas. International organizations then reached their apogee in the years after World
War II, which just also happened to be the era of decolonization and the rapid spread of
national self-determination.
These are only some of the paradoxes that animate Governing the World and enliven
its analysis. Mazower has a keen eye for the revealing contradiction, as anyone familiar
with his previous books Dark Continent, Hitler’s Empire, and especially No Enchanted
Palace will attest. Here, in Governing the World, we encounter Nazis who helped build Interpol and CIA agents who established the International Commission of Jurists. We meet
a Richard Nixon who as president began the rightward bound realignment of American
political life but also zealously promoted a strain of liberal international environmentalism that his fellow conservatives detested; we then meet a Bill Clinton who as president
rescued the Democratic Party from oblivion but turned his back on international environmentalism that his fellow liberals worshipped. We are introduced to «GONGOs»
– Government-Organized Nongovernmental Organizations – groups that are supposed
to represent the voice of the unofficial people but were founded and run at the behest of
national governments seeking the legitimacy that only NGOs can provide.
Mazower’s sharpest paradox probably concerns the League of Nations, which receives similar treatment here that the United Nations received in No Enchanted Palace.
The League, Mazower shows, was not an idealistic attempt to build a permanent peace
after the Great War. Rather, it was the victors’ form of rough justice, imposed and ruled
mainly by Britain and France in the name of preserving their interests in Europe and
around the world. «In fact – writes Mazower – the League was the first body to marry
the democratic idea of a society of nations with the reality of Great Power hegemony».
The League of Nations professed to embody the highest and noblest aspirations of a
new internationalism, but instead it «embodied a paradox: it spoke the language of the
brotherhood of man but existed as a result of a military victory. Like the older Concert
of Europe, which it defined itself against, it was the instrument of a triumphant alliance
of Great Powers and a means to preserve their domination of Europe – and their values
– into the peace» (pp. 153-54). The vision that propelled the League, Wilsonianism, was
discussioni
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thoroughly American and yet, through the mandates system, came to be a handmaiden
to the most blatant forms of European imperialism.
Yet a further paradox, implicit and hard to notice, lies at the heart of the book. No
Enchanted Palace did not have much time for the United States. In that account, Mazower
portrayed the UN as a creature, in large part, of European attempts to preserve imperial
control over the extra-European world through other means. The UN’s influential founding figures who lived outside of Europe, such as the Zionists who built the state of Israel
or South Africa’s Jan Smuts, were not decolonization radicals but believers in a kind of
pan-European governing order, based on national sovereignty and the inherent supremacy
of European values – and power. No Enchanted Palace did not of course ignore the United
States, but taking place as it does in the 1940s, at a moment when Henry Luce’s American
Century actually did come into focus, the absence of the Americans was striking.
In Governing the World, by contrast, the United States is not simply present, or even
predominant, but preeminent. This is a book about American power – or, at its broadest, Anglo-American ideas about world order that have come to shape our world. In the
first few chapters, Great Britain, or those ideologically connected or sympathetic to the
British, have the most to say about internationalism. By the time we reach the founding
of the League of Nations, in chapter five, we see the United States succeeding the United
Kingdom in the attempt to construct an international organization that would be truly
responsive to the needs of both human liberty and international stability. Mazower reminds us that even though the U.S. Senate (in)famously rejected the League, Americans
remained active in its councils, particularly in managerial roles in its scientific, medical,
technological, humanitarian and economic initiatives. During World War II, moreover,
with the League discredited and ignored, Roosevelt resurrected Wilson’s dream of an
international organization and proclaimed the existence of the United Nations. FDR
described his successor institution as more «realistic» than the League, most explicitly
through the veto power of each member of the Security Council, but it was Wilsonian all
the same. And if the League facilitated the perseverance of European empires in the 1920s
and ’30s, it was nothing compared to the cozy relationship between the UN and the
postwar growth of U.S. power, despite the Americans’ own deep ambivalence, and often
widespread distrust, about the legitimacy of the United Nations itself. As Mazower puts
it, «the blisteringly fast emergence of American global power after 1945 is unimaginable
without the assistance and cover of the panoply of international institutions and the vast
and noble ambitions [...] they incarnated» (p. xvii).
There is little that is missing from Governing the World, which is natural given its
erudition but surprising given its lively pace. It is both comprehensive and entertaining
– no small feat, particularly considering the subject at hand. Studies of the international
organizations, especially the UN, are often tediously dull institutional or bureaucratic
histories. But Mazower is interested in how institutions emerged from ideas, and how
they developed in strange and unexpected ways. Everyone is curious about the concept of
a world community – it lies, after all, at the heart of globalization, and anyone who logs
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discussioni
onto the internet assumes they are a member of a wider, borderless grouping – but almost
everyone is bored by the institutional minutiae and political paralysis of the present-day
UN. By deftly blending intellectual history with diplomatic, economic, and even cultural
history, Mazower has given readers what they want and need most.
And so it is perhaps churlish to ask for more. Yet I could not help but wonder: what
of modern religion? Religion and empire feature prominently in the book’s nineteenthcentury chapters, but while empire remains present throughout (albeit in the more diluted forms of hegemony and globalization in the final chapters), religious ideas about world
order and global governance recede once we enter the twentieth century. Mazower notes
that in the 1840s «there were no more ardent internationalists to be found anywhere than
among evangelical Christians» (p. 31). This was undoubtedly true then, but it remained
true well into the next century and yet his Christians remain largely confined to the
nineteenth century. The twentieth century has been bookended by such visions, from the
Protestant ecumenical movement that, thanks to John Foster Dulles among others, was
instrumental in helping the Wilson and Roosevelt administrations construct the League
and the UN; to the Vatican’s efforts to foster a world consciousness conducive to global
Christian values, particularly during the Second Vatican Council; to the more recent,
and more fundamentalist, attempts by Muslims to create transnational communities of
believers that will supersede the modern, secular nation-state.
Where does this leave various other dreams of internationalism today? Mazower
is not optimistic. Governing the World begins and ends in Europe, firstly with the reactionary Concert of Europe constructing a pan-European order after the tumult of the
Revolutionary and Napoleonic wars and finally with the recent currency and debt crises
that have rocked the European Union. In between, failed or aborted attempts at fostering a world society litter Mazower’s pages. The visions that did become reality, if only
for a time, did so because they became the projects of the dominant power of the day.
With American interest in global community waning on any number of fronts, from the
environment to the UN to financial regulation, this does not augur well. In the coming
decades, it could be left to China to promote its own vision of global community – not
a comforting thought. But what Governing the World also demonstrates, perhaps more
clearly than anything else, is that the idea of a world community is a powerful one that inspires and motivates like few others. After finishing Mazower’s impressive volume, I share
his concerns, but I take heart in the knowledge that there are budding internationalists
out there who will start us all afresh.
Mark Mazower
I would like to thank all four reviewers warmly for their generous and thoughtful
responses to a book whose many imperfections I am keenly aware of. This book was
discussioni
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particularly hard to write for many reasons. In the first place I had difficulty precisely
articulating its subject to myself since it was certainly not a history of the United Nations,
still less of international institutions in general, and even the term internationalism itself
is deeply imperfect. Getting the balance right between ideas and institutions was an
impossible task, or so it came to seem. Second, I did not know exactly where to draw
the limits, either chronologically or thematically. The starting-point still seems to me
to be about right but bringing the story up to the present, unavoidable for me for nonhistorical reasons, explains its increasingly open-ended and arbitrary and dare I say it
journalistic quality towards the end. The story is frankly centred on Europe in the first
part and on the US in the second, and that was a conscious choice, dictated by the desire
to figure out for myself more about where the still regnant institutions and assumptions
of international society had come from. That is where they came from; or so I believe. But
there is obviously a cost to pay for this choice for there is a much more global, or if not
global, then simply non-Euro-Americano centred story to be told too. Whether it would
be as sweeping a story is another question.
Let me now turn to some of the specific comments and observations the reviewers
have made. All of them remark on the way the book is directed towards the American
reader. That is obviously true and a product no doubt of its genesis. Its origins lay in
conversations I had been having with myself and with others since I came to Columbia
in 2004 about the nature of American power in the world, and in particular, the nature
of the US engagement with international institutions and norms. In some cases – the
chapter on humanitarian intervention for instance – this directional quality is clear; in
the earlier chapters, perhaps less so, and there I would now wish to have written rather
more about the whole pan-American question, viewed either side of the Panama canal
than I have done. American internationalism as a hemispheric question strikes me as a
fascinating topic for both 19th and 20th century historians, and after a long pause some are
becoming interested in it again. On the other hand, although written with the question
of American power very much at the center stage, it is in critical conversation with, rather
than – I hope – bound by, the conceptual conventions of mainstream American thinking
about international affairs, whether policy-oriented or theorized through international
relations. Indeed in some ways, this is a conversation between the historian I have become
and the IR professor I was briefly earlier in my career.
Eric Bussière is quite right to pinpoint the 1980s and 1990s as the critical time [in
my telling] in the development of a new kind of global governmentality. Experts of course
predominated before then, and there appears to be something about the international
realm that attracts and empowers expertise, perhaps precisely because of its lack of
tethering in the realm of politics as experienced by most people. But the nature of the
expertise, the overwhelming dominance of the economic – above all, the financial – and
the consequent assault this represented on national state power was something new and
we still haven’t figured out its implications, which I find troubling.
This brings me to Pahuja who reproaches me for waxing nostalgic about sovereignty
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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discussioni
and the national state. Her reproach is both right and wrong, I think. It is wrong because
it confuses my own attitude with what I was attempting to describe, which is the rise
of a form of internationalism that saw nationalism and internationalism as mutually
reinforcing. It is right, because although I do not ascribe ethical value to such a view
myself in the abstract, I do think that in western Europe between 1945 and 1975 this
mutually reinforcing symbiosis did restore parliamentary democracy with the assistance
of international cooperation – primarily but not exclusively at the regional level – and did
so by expanding welfare and social provision in a fashion that reduced income and wealth
inequalities and created a fairer society. In this sense, the European postwar age does seem
to me to have been relatively golden – and I say that as a historian of Greece well aware of
the suffering and repression the Cold War brought with it, and well aware too – having
grown up in England through the 1960s and 1970s – that this postwar social contract
hid plenty of ugly social realities as well. Yet for many people in western Europe it made
citizenship meaningful and gave politics meaning.
Insofar as this is no longer true, we are worse off. I think that in the last thirty
years, we have lost sight of this potential symbiotic relationship between international
cooperation and domestic politics, a relationship which can produce not only monsters
but also the kind of potential for long-range state planning for the public good that is
now a memory. Sovereignty may indeed be often, in many parts of the world, generally
experienced as loss, as Pahuja says, but the question is what is plausibly to replace it as an
organizing principle for political mobilization.
The other criticism she advances, that I subscribe to a positivistic conception of
international law leaves me flummoxed since nothing I would have thought could be
further from the truth. I have apparently not made clear enough the distinction between
my own views and the position of the subject I was trying to analyse. I am the first to
admit the many deficiencies in my own treatment of international law, a subject on which
I am certainly no expert, and walking the tightrope between positivisist commitment
on the one hand, and Schmittian demystification on the other is not always possible
without occasionally falling off. But if this book tries to do one thing, it is to explore
the relationships between different forms of internationalism and underlying political
realities, and this does not exactly conduce to a positivistic reading of law’s power.
Polsi’s focus on how the Cold War shifts in this perspective chimes both with what
I was searching to achieve, and I think with a larger shift in the historiography. The
North-South divide looms ever larger – see works such as Giuliano Garavini’s excellent
After Empires – and East-West becomes less all-encompassing. It is precisely the tension
between these two frames that helps, I think, understand the divergent perspectives and
approaches of, say, a Dean Rusk and a Henry Kissinger. The question this trend raises
of course is what use value, if any, remains in the term Cold War? Is everything across
the globe now to be subsumed under this heading? Or was it something much more
delimited in geography and time? The conceptual discussion has been inaugurated by
my colleague Anders Stephanson but permeates the valuable new collection of essays
discussioni
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edited by Duncan Bell and Joel Isaac entitled Uncertain Empire: America and the Idea
of the Cold War.
Finally, Andrew Preston has it spot on – at least as regards my intentions – when
he describes the theme of the book as «how institutions emerged from ideas». He goes
on to posit an intriguing corollary – that the ideas at stake should include much more
about modern religion than is found in Governing the World. And it is true that after a
few Christian peace men from the 1840s flit across the opening pages, not much is done
in this regard. As Preston notes, theological conceptions of divinely ordered harmony
among men underpinned centuries of earlier thought about what we might loosely call
international order, and such conceptions certainly did not cease just because new ones
came along. Indeed my focus on American policy-makers would probably have warranted
greater treatment of Christian doctrine in shaping the policies of a Woodrow Wilson or
John Foster Dulles. The study of religious internationalisms in the 19th and 20th centuries is
now flourishing – there are publications and conferences on Jewish internationalism, and
the first serious studies of the way the Vatican turned itself into a major diplomatic player.
At the intellectual level we have both treatments of Realism [the theory of international
relations] as a kind of secularized theology of state power, and of the importance of
Catholic thought on IR theorists more generally after 1945. Pan-Islam as a political
movement seems to me to have been shown to be a dead end and not especially powerful,
stymied by the rise of new states in the Middle East in particular. But how, for instance,
contemporary Shia thinkers in Iran conceptualise world order remains a subject in need
of serious study; so does that of the religious principles [if any] that underpin Chinese
conceptions of international society. In that sense, the story I adumbrate in Governing the
World may indeed be a story with an ending as well as a beginning.
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
rassegne e letture
Gioia Gorla
Storia della disabilità
Matteo Schianchi, Storia della disabilità. Dal castigo degli dei alla crisi del welfare, Roma,
Carocci, 255 pp., €18,00
Lo storico Matteo Schianchi, che nel 2009 ha pubblicato da Feltrinelli La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà, si propone con questo nuovo volume di
fornire «un quadro generale e complessivo su alcune delle principali trasformazioni della
disabilità, del modo di viverla e di percepirla dall’antichità sino ad oggi» (p. 17). L’opera
appartiene a un ambito poco frequentato in Italia, quasi che la disabilità riguardasse solo
il presente e cadesse fuori dall’interesse di chi studia il passato. E non solo per la difficoltà
di reperire documenti e materiali, ma anche per la necessità di superare «paure, pietismi,
buonismi e rimozioni collettive» (p. 203) che tuttora persistono nei confronti dei disabili.
Il libro prende le mosse dalle «antichissime tracce» della condizione dei disabili nelle
civiltà più antiche, in particolare in quella egiziana (cap. 1), e prosegue trattando della
civiltà greca e romana (cap. 2), a cui sono riferibili la pratiche, ritenute legali, della eliminazione o dell’allontanamento in un luogo isolato e impervio dei neonati gravemente
malformati. Il mondo ebraico, riflesso nella Bibbia, presenta il grande interesse di una
interrogazione sul significato della disabilità, che non smette di inquietarci anche oggi
(cap. 3). Sullo sfondo dell’ebraismo si staglia il messaggio cristiano, con un diverso atteggiamento verso i deboli, trasmesso all’epoca medievale e moderna (cap. 5). Iniziano gli
interventi caritativi da parte dei privati o degli ordini religiosi: i primi «ospitali» raccolgono non solo gli infermi, ma anche i poveri e i disabili. Col nascere degli Stati nazionali, le
iniziative a favore dei poveri vengono assunte dal potere centrale, anche per tenere sotto
controllo grandi masse potenzialmente pericolose. Si distingue comunque tra i «poveri
con Pietro» o «vergognosi», degni di essere aiutati perché inabili al lavoro, e i «poveri con
Lazzaro» che mentivano sulle loro reali condizioni e, scoperti, erano obbligati a lavorare
con mansioni pesanti e poco retribuite. In quest’epoca iniziano le «pedagogie speciali» per
ciechi, sordi, disabili intellettivi e motori, che richiedono di essere meglio studiate nelle
loro conseguenze sociali (cap. 6). Dopo l’aumento della disabilità legata alla rivoluzione
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rassegne e letture
industriale che moltiplica gli infortuni sul lavoro, tra ’800 e ’900 nascono le prime forme
di tutela dei lavoratori infortunati e in genere dei disabili (cap. 8). Il cap. 9 è sugli «scenari della contemporaneità», quando viene messa a punto la normativa internazionale sui
diritti dei disabili e una rigorosa classificazione delle diverse forme di disabilità e di handicap. Nella nostra «società del rischio» (Ulrich Beck), il numero dei disabili è aumentato
(supera ormai il 15 per cento della popolazione mondiale, cioè oltre un miliardo di persone), a causa di malformazioni prenatali, di malattie invalidanti e di incidenti, determinati
da un insufficiente controllo delle applicazioni scientifiche e tecnologiche.
Nel percorso storico vengono incastonati due capitoli particolarmente interessanti,
sui mostri (cap. 4) e sui freaks (cap. 7), casi limite di disabilità fisica. La nascita di un
mostro era ritenuta dagli antichi un segno inviato dagli dei per ammonire gli uomini
(monstrum deriva da monere); convinzione che persiste in epoca cristiana e verrà sconfitta
solo agli inizi dell’800 con l’affermarsi della teoria epigenetica. Entro la stessa categoria,
possono considerarsi i freaks of nature, gli «scherzi di natura», giganti, nani, donne barbute, individui fortemente obesi, che nell’800 e sino a metà del ’900 venivano esibiti nelle
fiere come fenomeni da baraccone. In questi due capitoli l’a. approfondisce la tesi centrale
del libro: la disabilità è una «realtà sociale» che viene costruita, nelle diverse epoche, attraverso le pratiche messe in atto nei confronti dei disabili. Ma i comportamenti erano, e
sono, influenzati da convincimenti espliciti, codificati da leggi o soggiacenti a concezioni
religiose, e altresì da atteggiamenti interni non consapevoli. Questi oscillano tra il turbamento e l’attrazione verso l’anormale, sempre comunque tenuto a rassicurante distanza
e collocato nella categoria dei «diversi» da noi, con un processo che, secondo lo studioso
statunitense Leslie Fiedler, richiama le osservazioni di Sigmund Freud (Il perturbante,
1919) a proposito di realtà che ci risultano insieme familiari e straniere. La natura sociale
della disabilità deve indurre lo storico a ben distinguere il suo specifico oggetto storicosociologico all’interno di vaste categorie storiche (ad esempio, il pauperismo nel medio
evo e nell’età moderna). L’a. rimprovera ai disability studies inglesi un ricorso acritico alla
nota tesi di Michel Foucault sul carattere repressivo delle istituzioni totali, mentre «sussistono spesso concomitanti regimi e articolazioni sociali, talvolta in contraddizione tra
loro» (p. 111).
Il libro induce a riflettere sul legame tra passato e presente su di un tema così drammatico, e pervasivo, come quello della disabilità e riporta una vasta e interessante messe
di dati, collegandola con alcune grandi questioni storiografiche e sociologiche. Il rischio,
sempre presente in opere di sintesi, di cadere nella mera elencazione viene quasi sempre
evitato. La collana editoriale in cui appare il volume si proclama rivolta a un pubblico
più ampio di quello specialistico e questo probabilmente spiega la scelta di escludere note
di commento e di adottare il sistema bibliografico di autore-anno nel testo, che risulta
applicato però in modo disomogeneo. I riferimenti dati sono troppo spesso imprecisi,
vaghi anche per lunghe citazioni (come a pp. 175-176) e non tutti hanno riscontro nella
bibliografia finale, che risulta perciò incompleta così come l’indice dei nomi, e dove viene
omesso l’anno di edizione originale delle opere tradotte.
rassegne e letture
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Daniela Luigia Caglioti
Diritto e società internazionale
Martti Koskenniemi, Il mite civilizzatore delle nazioni. Ascesa e caduta del diritto internazionale 1870-1960, presentazione di Gustavo Gozzi, Roma-Bari, Laterza, 697 pp.,
€ 54,00 (ed. or. New York, 2001)
A undici anni di distanza dall’uscita presso Cambridge University Press, esce in italiano uno dei libri più rilevanti e influenti di Martti Koskenniemi, professore di diritto
internazionale all’Università di Helsinki. Il volume è una raccolta di saggi, originati da
una serie di lezioni tenute nel 1998 all’Università di Cambridge e intitolate a Sir Hersch
Lauterpacht, protagonista del quinto capitolo. I saggi sono coerentemente legati tra loro
dalla struttura argomentativa, da un approccio foucaultiano e da una serie di «intuizioni»
forti. L’edizione italiana, presentata da Gustavo Gozzi, professore di Storia delle dottrine
politiche all’Università di Bologna, è stata ottimamente tradotta da Lorenzo Gradoni e
Paolo Turrini.
È difficile, nello spazio di una breve recensione, dare conto di un libro tanto complesso, ricco e così pervaso di intelligenza. Accanto al contenuto, alle argomentazioni, alle
«intuizioni», come le chiama lo stesso K., bisognerebbe infatti dare spazio all’impatto che
quest’opera ha avuto sia nell’ambito specifico del diritto internazionale e della sua storia,
sia al di fuori di quel particolare settore di studi.
Il libro di K. non può essere catalogato e costretto dentro un genere, ma proprio per
questo è diventato punto di riferimento della storiografia che in anni recenti si è occupata
di internazionalismo e organizzazioni internazionali, di colonialismo e imperialismo, di
diritti umani, ecc. Dopo decenni di studi sui nazionalismi e il nation-building, quest’opera ha riportato brillantemente l’attenzione sull’altra faccia del periodo compreso tra gli
anni ’70 dell’800 e l’immediato secondo dopoguerra: il cosmopolitismo, la globalizzazione delle relazioni internazionali, l’internazionalismo, l’utopia e l’ideologia liberali, il
progetto di civilizzazione dell’Occidente, l’eurocentrismo.
Il sottotitolo, Ascesa e caduta del diritto internazionale 1870-1960, racchiude bene il
contenuto del libro e propone subito uno dei suoi tratti più originali: la periodizzazione.
La storia del diritto internazionale presentata in questo volume comincia con il 1870 e
cioè con l’epoca della sua professionalizzazione, dell’invenzione di una nuova figura di
giurista nella quale politica e diritto si coniugano dando luogo ad ambiziosi progetti di
riforma globale e termina con quello che K. considera il naufragio di una certa idea di
diritto internazionale nell’immediato secondo dopoguerra. La prima importante rottura
introdotta dall’a. è con le analisi storiciste che stabiliscono una continuità tra «il diritto
delle genti», il diritto naturale e il diritto internazionale. Koskenniemi non è interessato
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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rassegne e letture
all’affresco, né al succedersi delle epoche storiche, e ancor meno a istituire una continuità
tra Grotius, Vattel, Martens e i giuristi dell’Institut de droit international protagonisti del
primo capitolo del volume, o tra Vestfalia, Vienna e le Convenzioni di Ginevra o dell’Aja
e Versailles. L’approccio tuttavia è pienamente storico, interessato, una volta lasciatosi
alle spalle lo strutturalismo che aveva caratterizzato una precedente opera (From Apology
to Utopia, Helsinki 1989 poi Cambridge 2005), alle discontinuità, all’insieme di idee e
prassi, ai discorsi dei protagonisti.
Il libro è diviso in sei densissimi capitoli che corrispondono in sostanza a tre parti.
La prima si concentra sugli albori della professionalizzazione della disciplina (cap. 1) e sul
nodo civilizzazione-sovranità-imperialismo (cap. 2). La seconda parte è invece dedicata a
ricostruire le idee dei protagonisti del diritto internazionale nel contesto di tre specifiche
tradizioni giuridiche nazionali: quella tedesca (cap. 3), quella francese (cap. 4) e quella britannica (cap. 5); mentre l’ultima parte riconnette l’esperienza europea con quella
americana attraverso un’analisi del rapporto tra le idee di Carl Schmitt e quelle di Hans
Morgenthau.
Ad ascendere e a crollare nel sessantennio analizzato da K. non è un «insieme di
idee», «dato che molte di esse restano ancora oggi sorprendentemente vitali« (p. 4), bensì
«una sensibilità che connota idee e prassi, concentrando in sé la fede politica, il modo di
concepirsi e di intendere la società, così come i vincoli strutturali che influiscono sulla vita
e il lavoro dei professionisti del diritto internazionale» (p. 5).
Questa sensibilità, questi modi di concepire la società che si affermano nell’ultimo
quarto dell’800 sono «parte inestricabile dei movimenti liberali e cosmopoliti dell’epoca»
(p. 5), di un vero e proprio progetto politico assai ambizioso che ha i suoi cardini nell’idea
di «civilizzazione» e nel concetto di sovranità e che fornisce alla politica gli strumenti di
legittimazione di colonialismo e imperialismo. Il diritto internazionale si professionalizza
a partire dagli anni ’70 del XIX secolo e si dà quel compito di «mite civilizzatore» che,
nell’arco dei novant’anni oggetto della riflessione di K., contribuisce a una serie di grandi
successi e di clamorosi fallimenti. Dal lato dei successi, K. annovera il suffragio universale,
il welfare e l’affermazione della rule of law, mentre dal lato dei fallimenti vanno elencati il
federalismo globale, la pace e i diritti umani universali e le non previste, opposte conseguenze dell’«estensione della civiltà occidentale nelle colonie» (p. 5).
Il pregio principale, da cui credo sia derivata la grande e meritata fortuna di questo
libro presso molti storici, e non solo del diritto, consiste non solo nella limpidezza della
scrittura e dell’argomentazione, ma nell’aver riportato pienamente il diritto, e il diritto
internazionale in particolare, nella narrazione politica, sottraendolo a quella dimensione
di strumento tecnico cui invece la seconda guerra mondiale lo ha relegato.
rassegne e letture
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Gennaro Carotenuto
Corriere della Sera
Lorenzo Benadusi, Il Corriere della Sera di Luigi Albertini. Nascita e sviluppo della prima
industria culturale di massa, Roma, Aracne, 308 pp., € 18,00
Ernesto Galli della Loggia (a cura di), Storia del Corriere della Sera, Milano, Rizzoli (2011):
vol.I: Angelo Varni, Alberto Malfitano (a cura di), Il Corriere e la costruzione dello stato
unitario (1876-1899), 2 tt., 478+490 pp., € 70.00; Simona Colarizi, Lorenzo Benadusi (a
cura di), Il Corriere nell’età liberale (1900-1925), 2 tt., 484+834 pp., € 70,00
Marzio Achille Romani (a cura di), Luigi Einaudi e il Corriere della Sera (1894-1925),
Milano, Fondazione Corriere della Sera, 2 tt., CLXXIII e 798+1588 pp., €70,00
A breve distanza temporale è uscita una serie di opere rilevanti dedicate alla storia del
«Corriere della Sera», che si occupano del periodo che va dalla fondazione nel 1876, intorno alla figura di Eugenio Torelli Violler, a tutto il primo cinquantennio di vita del giornale, la seconda metà del quale è segnata dalla direzione di Luigi Albertini. Sono anni nei
quali l’edificazione dello Stato unitario coincide con la costruzione del «Corriere» come
giornale di respiro nazionale. Con quadrature temporali e tagli diversi queste opere studiano, attraverso la pubblicazione di importanti apparati critici in parte inediti, affiancati
da profili storici e saggi originali, l’intero percorso dell’Italia liberale nel cinquantennio
che va dalla fondazione del giornale fino alle dimissioni di Luigi Albertini il 28 novembre
1925, costretto a cedere alla normalizzazione voluta dal regime fascista.
Per quanto riguarda la ponderosa opera in due volumi, ciascuno di due tomi, coordinata da Ernesto Galli della Loggia, storico e storico editorialista del quotidiano, la
narrazione storiografica è curata da Angelo Varni e da Simona Colarizi, mentre i secondi
tomi sono dei preziosi apparati critici, curati rispettivamente da Alberto Malfitano e da
Lorenzo Benadusi.
Il primo volume è dedicato alla nascita del giornale, collocata simbolicamente all’interno del percorso della creazione dello Stato unitario. Vi si seguono le posizioni prese
dal quotidiano rispetto alla battaglia politica dell’epoca, in particolare nella Milano postrisorgimentale, dove si sviluppò la rivalità con «Il Secolo» di Edoardo Sonzogno, spostato
su posizioni democratiche, per poi focalizzarsi su come, in breve tempo, il «Corriere della
Sera» si affermò tra i principali giornali della cosiddetta Alta Italia prima e della nazione
poi. Si tratta del percorso di costruzione di un grande quotidiano davvero nazionale, una
novità nel panorama post-unitario, che è già nella progettualità di Torelli Violler ma che si
compì solo con la lunga direzione Albertini. È l’occasione anche per valutare dal punto di
vista del «Corriere della Sera» alcuni tradizionali passaggi d’epoca: i sette giorni di uscita
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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rassegne e letture
del quotidiano listato a lutto alla morte di Vittorio Emanuele, la freddezza per la morte
di Pio IX, la capacità del quotidiano milanese di fotografare la lenta apertura della Chiesa
verso lo Stato italiano, l’aprirsi alla sprovincializzazione dell’Italia con le prime grandi
corrispondenze da Parigi, da Londra o dagli Stati Uniti.
Oltre che a un ordine che coniuga il tematico e il cronologico, Varni si dedica allo
studio delle grandi figure della prima generazione del foglio milanese: lo storico fondatore
napoletano Eugenio Torelli Violler, garibaldino, poi anticrispino; Giacomo Raimondi,
uno dei primi cronisti economici italiani; il direttore Alfredo Comandini; l’alba dell’era
di Luigi Albertini che, a metà degli anni ’90, poco più che ventenne, siglava le sue corrispondenze da Mosca «L.A.».
Nell’apparato critico, curato da Malfitano, è ricca la documentazione proveniente
dall’archivio storico del giornale che offre la possibilità di seguire nelle pagine del «Corriere» l’evoluzione in particolare di alcuni grandi temi: politica estera e interna, questione
meridionale, grandi reportage, editoriali, come quello di Torelli del 1883 dal sempre attuale titolo di «Bisogna rifare gl’italiani». Utile è infine la corrispondenza interna redazionale.
Il secondo volume si apre con l’intenso profilo storico di Colarizi sul «Corriere della
Sera» divenuto ormai quotidiano nazionale, foglio simbolo dell’Italia liberale e giornalepartito di Luigi Albertini. L’ampio e utile ricorso ai fondi Albertini e Barzini contribuisce
in maniera sostanziale allo studio del dibattito interno tra le principali figure del giornale
e la classe dirigente dell’epoca, della politica nazionale e locale, spingendosi fino al dopoguerra, al fascismo al potere e all’uscita di scena del direttore stesso. Anche in questo caso
il supporto documentario, curato da Benadusi, è ricco e articolato. Vi è una particolare
attenzione, ed è un contributo importante allo studio del giornalismo italiano, alla corrispondenza sull’organizzazione redazionale interna. Tuttavia, forse, il cuore dei due tomi,
incentrati sulla figura di Albertini, è costituito dai lunghi capitoli dedicati alla Grande
guerra, che ci offrono anche vivaci frammenti di un dibattito sulla libertà di stampa, la
censura, la propaganda che parte già dalla guerra di Libia.
In questo stesso secondo volume non manca il riferimento alla relazione giovanile
tra il «Corriere della Sera» e quello che sarà il secondo presidente della Repubblica Luigi
Einaudi. Il rapporto personale tra Einaudi e Luigi Albertini è invece al centro del volume,
anch’esso in due tomi, curato da Marzio Achille Romani, che illustra pure il processo storico della trasformazione del giornale milanese in un grande quotidiano europeo per un
paese in via modernizzazione. Einaudi e Albertini intrattennero un’intensa corrispondenza fin dagli anni ’90 dell’800. Einaudi scrisse per il «Corriere» ininterrottamente dal 1903
al 1925. Vi firmò 2.744 tra articoli, editoriali, cronache, brevi, bollettini sul «mercato dei
metalli». Nel primo tomo del volume è raccolta una corposa selezione di tali contributi,
dei quali nel secondo tomo viene offerta la completa cronologia. Si tratta di un materiale
che restituisce un giornalismo alto, nel quale le vicende italiane sono totalmente inserite nel contesto internazionale e che offre una prospettiva storica piena di riferimenti
ai decenni precedenti, didascalico nel costituire un prezioso corpus per lo studio della
rassegne e letture
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storia economica del paese. La collaborazione, tutta legata al nome dell’amico direttore,
s’interrompe anche per Einaudi nel novembre del 1925 quando i fratelli Albertini furono costretti a cedere le loro quote. Anche Einaudi fu nel novero dei collaboratori che
lasciarono il quotidiano milanese per non avere a che fare «con uomini con i quali non
si condividono gli ideali e i sentimenti». Al carteggio tra Einaudi e Albertini è dedicato
quasi interamente il secondo tomo dell’opera. Si tratta di circa 1.800 lettere a noi giunte.
È una pubblicazione integrale che ci offre la possibilità di seguire tanto il dibattito tra i
due intellettuali, con documenti corposi (si vedano per esempio a p. 1922 e seguenti, la
trasmissione e i commenti sulla proposta di legge della Confederazione del lavoro – inviata integralmente – per il controllo sindacale delle industrie) come il rapido scambio
di centinaia di quelle che oggi sarebbero email che testimoniano quanto addentro nella
fattura del giornale fosse Einaudi anche quando si trovava all’estero.
Il volume è introdotto da tre saggi. Il primo, del curatore, si occupa di seguire quelle
che vengono definite come «vite parallele» nell’Italia liberale. Nel secondo Giuseppe Berta
affronta l’idea del giornalismo einaudiano, che contemporaneamente scriveva anche per
«The Economist», come archetipo del giornalismo economico italiano. Nel terzo Giovanni Pavanelli si occupa delle riflessioni di Einaudi sulla modernizzazione del paese e
sull’avanzamento del ruolo della stampa nella creazione dell’opinione pubblica. È in questo contesto che, nel commiato del 25 ottobre 1925, Einaudi potrà fare il noto paragone
tra sacerdozio scientifico e sacerdozio giornalistico.
Lorenzo Benadusi, curatore dell’apparato critico del volume Il Corriere nell’età liberale, è autore del volume Il Corriere della Sera di Luigi Albertini. Nascita e sviluppo della
prima industria culturale di massa, pubblicato da Aracne, dal suggestivo titolo che richiama in epoca relativamente precoce il concetto di industria culturale, e che si focalizza
sull’organizzazione interna del giornale. Così Benadusi ragiona su come, nella Milano che
diventa una moderna città industriale, il giornale si faccia largo al centro di un mercato
già presidiato sia a sinistra (con «Il Secolo» di Sonzogno, come si diceva, la competizione
è pluridecennale), che a destra da altri attori e nel quale il dar voce alla borghesia liberale
in crescita è la cifra sulla quale se ne costruisce il successo. Lasciando da parte il ruolo
politico del «Corriere», Benadusi si dedica a un utile studio delle prassi e delle necessità redazionali di un grande giornale nel primo quarto del XX secolo. Si va dall’acquisizione di
rotative, alle questioni inerenti gli alti costi della carta che obbligano in più fasi a lesinare
sull’impaginazione. Si riflette sull’evoluzione delle forme materiali di comunicazione tra
corrispondenti e redazione. L’uso massiccio del telegrafo è sostituito dal telefono dal 1901
in avanti. L’enfasi è su ogni strumento che permetta di guadagnare minuti preziosi per la
vita redazionale che si arricchisce dunque di nuove figure professionali, dagli stenografi ai
linotipisti. Quando il primo gennaio 1902 è inaugurata la prima linea telefonica ParigiMilano il «Corriere» acquista a caro prezzo l’abbonamento per i 12 minuti al giorno che
vanno dalle 21.15 alle 21.27. Dev’esserci uno stenografo di prim’ordine per mettere a
frutto quei pochi minuti concessi ai corrispondenti da Parigi, Zurigo e Roma e ricevere
senza errori – era quanto si richiedeva – ben 120 parole al minuto. È una corsa contro il
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rassegne e letture
tempo quella tra il «Corriere» e i concorrenti che già nel 1908 fa scrivere a Pietro Croci
in una lettera a Luigi Albertini che meglio sarebbe stato tornare a un giornalismo più
elaborato e ragionato. Partita persa, fin da allora.
A tutto ciò Benadusi aggiunge la trattazione di questioni altrettanto rilevanti, dal
mercato pubblicitario (Mussolini usa anche quella leva per «strozzare» Albertini) all’avvento della fotografia e della grafica. È interessante anche seguire i problemi di distribuzione di un giornale che cresce in maniera esponenziale. Nel 1904 sei furgoncini sostituiscono le biciclette nella distribuzione cittadina. È in quello stesso 1904 che il «Corriere»
si dota finalmente di una sede all’altezza, quella di Via Solferino nei cui 9.000 metri
quadrati si trasferisce un quotidiano che, ancora nel 1900, tirava 75.000 copie e che arriva
alle 800.000 del secondo semestre del 1924. I cinque capitoli del saggio sono così soprattutto dedicati all’azienda «Corriere», alla sua costruzione e alle figure dei giornalisti e
corrispondenti principali, con molto spazio dedicato a una figura pur studiata quale Luigi
Barzini. L’epilogo è dedicato alla dolorosa chiusura di un’epoca con la fascistizzazione del
giornale. Si è molto scritto di tale tema eppure dai fondi d’archivio utilizzati emergono
di nuovo dettagli organizzativi, misure di sicurezza personale, preoccupazioni. Sono oltre
trenta i redattori e collaboratori (tra questi Parri, Sforza, Tarchiani e il già citato Einaudi)
che lasciano il giornale fascistizzato. Per «The Times» è la fine di un grande giornale e del
tentativo del Quarto potere in Italia di ricavarsi uno spazio d’autonomia.
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Giovanni Sabbatucci
Sulle origini del fascismo
Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla grande guerra alla marcia su
Roma, vol. III, Bologna, il Mulino, 544 pp., € 36,00
Come egli stesso ha raccontato nella prefazione al primo volume, uscito nel 1967,
della Storia delle origini del fascismo, Roberto Vivarelli cominciò a lavorare alla sua opera
nel 1956-57, quando era un giovane da poco laureato e quando erano ancora vivi i suoi
maestri, Salvemini e Chabod, dedicatari di quel volume come dei due successivi. Il terzo
e ultimo, del 2012, che porta la narrazione fino alla marcia su Roma e si conclude con un
epilogo proiettato sul fascismo-regime, chiude dunque l’opera della vita di uno dei nostri
maggiori storici: un’opera avviata all’inizio della prima vera stagione di studi sul tema e
terminata in coincidenza con una significativa ripresa di quel filone di ricerche.
Da un lavoro sviluppatosi nell’arco di oltre mezzo secolo non ci si può aspettare
un’assoluta uniformità di impostazione e di giudizi. Lo stacco si avverte soprattutto fra il
primo volume e i due successivi. Il Vivarelli del 1967 si manteneva all’interno di una tradizione di sinistra «azionista», declinava il suo salveminismo in termini radical-gobettiani
e polemizzava col suo coetaneo De Felice (i primi due tomi del Mussolini erano usciti fra
il 1965 e il 1966), cui rimproverava fra l’altro un giudizio troppo sfumato sul Mussolini
interventista. Il Vivarelli degli ultimi due volumi – assai più omogenei fra loro, anche se
usciti a ventidue anni di distanza l’uno dall’altro – ha evidentemente altri punti di riferimento (Einaudi e Albertini su tutti). Lo scarto è evidente, ma resta l’uniformità dello stile,
sempre piano e scorrevole; resta la continuità della narrazione (aiutata da frequenti rinvii
interni); e restano soprattutto, pur all’interno di un’evoluzione ben visibile, alcune linee
interpretative di fondo, mantenute e coerentemente sviluppate nel corso degli anni.
Provo a indicare quelle che a me sembrano le costanti principali. La prima è il giudizio fortemente critico sulla classe dirigente liberale e sulla sua gestione dello Stato unitario (un giudizio che Vivarelli aveva compiutamente articolato nel saggio di apertura del
volume del 1982 su Il fallimento del liberalismo). La seconda riguarda la Grande guerra,
sempre considerata dal punto di vista dell’interventismo democratico: dunque come suscitatrice di «speranze» e come occasione (perduta) di rinnovamento e di riconciliazione
nazionale. Il terzo punto (svolto per la prima volta dall’a. nell’intervento a un convegno
del 1978 su Rivoluzione e reazione in Europa e trattato più ampiamente nel secondo volume) è la critica del massimalismo socialista (erede, in senso lato, di quel massimalismo
ante-litteram che nell’800 aveva portato i mazziniani a rifiutare in blocco le istituzioni
unitarie). A uno Stato che non si era mostrato in grado di risolvere la questione delle questioni, quella contadina, il massimalismo aveva risposto accentuando la sua separatezza e
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rassegne e letture
contrapponendo alla passione nazionale che la guerra aveva acceso e che le delusioni della
vittoria avevano esacerbato una passione rivoluzionaria e classista del tutto incompatibile
col senso di appartenenza a uno Stato e a una comunità nazionale.
Dal giudizio sulle scelte dei socialisti deriva, ed è questo il tratto distintivo dell’ultimo volume, un giudizio altrettanto netto sul tema centrale dell’intera opera: ovvero
le origini del fascismo e le responsabilità dei suoi successi. Se il fascismo vince, sostiene
Vivarelli, non è, o non è solo, per la cinica brutalità con cui fa uso dei mezzi violenti, o
per il suo essere asservito agli interessi forti; e nemmeno per le innegabili doti politiche di
Mussolini (alla cui solidità ideologica non si dà molto credito): vince soprattutto perché
riesce a presentarsi come interprete dei valori nazionali contro un’opposizione antisistema
che quei valori nega in radice e contro una classe dirigente che non si mostra in grado
di difenderli, rifugiandosi nella finzione di un’impossibile neutralità. Non sono tesi del
tutto nuove (ne troviamo traccia già in Tasca e prima ancora in Nenni). Ma vengono qui
esposte con una nettezza che sicuramente stupirà molti lettori. Non è usuale leggere in un
testo sul primo dopoguerra una descrizione così ampia e puntuale delle violenze socialiste
nel biennio rosso, o sentir affermare che i liberali sbagliarono non per eccesso di atteggiamenti repressivi nei confronti del movimento operaio, ma, al contrario, per non aver
assunto in prima persona il compito di combatterne gli eccessi e aver così lasciato spazio,
e fornito legittimazione, allo squadrismo armato del biennio successivo.
Sbaglierebbe però chi vedesse in queste tesi il segno di un atteggiamento giustificazionista (basta leggere le impeccabili descrizioni delle azioni fasciste). C’è semmai,
in una ricostruzione serrata e assai ben documentata, un eccesso di spiegazioni deterministiche, un ricorso troppo insistito ai nessi causali alla Nolte (autore peraltro molto
distante dal liberalissimo Vivarelli). Ma c’è anche – e qui si sente la lezione di Chabod
– una speciale attenzione alle «forze ideali» e alle motivazioni culturali come moventi
primi dell’azione politica, spesso più importanti del mero scontro fra gli interessi materiali e fra le appartenenze di classe. Un’attenzione che, nel caso delle origini del fascismo, aiuta non poco a spiegare – cosa diversa dal giustificare – scelte e comportamenti
inspiegabili altrimenti.
Dov’è allora l’eccesso di determinismo? Sta, a mio parere, in alcuni giudizi drastici
che suggeriscono implicitamente un quadro di ineluttabilità. Sta nel prospettare una ferrea catena causale che mal si concilia con la molteplicità degli snodi in cui si articolò la
crisi dello Stato liberale, col peso delle scelte personali e dei fattori casuali che portarono
quella crisi al suo esito finale.
Troppo drastico, secondo me, è il giudizio sullo Stato liberale italiano. Soffriva, è
vero, strutturalmente, di una debole base di consenso e di legittimazione che a sua volta
determinava un cronico deficit di pluralismo e di liberalismo autentico (causa non ultima
della sottovalutazione del fenomeno fascista). Ma, nel suo primo cinquantennio di vita,
aveva fatto progressi notevoli sul piano materiale e civile: tanto più notevoli se li paragoniamo alla situazione di altri Stati mediterranei con i quali l’Italia aveva più punti in
comune di quanti non ne avesse con Francia e Germania (per non dire della Gran Breta-
rassegne e letture
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gna). Le sue tare, innegabili, lo rendevano fragile, ma non lo condannavano in partenza
alla fine ingloriosa cui sarebbe andato incontro.
Altro giudizio troppo severo è secondo me quello sul socialismo riformista e in particolare su Turati. Di errori ne fece molti (da Reggio Emilia fino a Livorno). Ma la sua fedeltà agli ideali (non alle tavole teoriche) del socialismo marxista non era diversa da quella
dei leader del socialismo della seconda Internazionale che avrebbero saputo, in momenti
importanti, assumersi l’onere della partecipazione al governo. Turati e i suoi seguaci non
lo fecero – ed evitarono fino all’ultimo di staccarsi dai massimalisti – non tanto per motivi
ideologici, quanto per un calcolo sbagliato sulla loro capacità di riprendere il controllo del
movimento e (anche loro) per una lettura sbagliata del fascismo.
Sull’incapacità della classe dirigente liberale di fronteggiare la crisi finale del 192122, la critica di Vivarelli è più che fondata. Ma non credo che su questa incapacità abbia
pesato più di tanto l’estraneità, in primo luogo di Giolitti, ai valori della guerra e della
vittoria. Su questo punto la frattura si era in parte colmata già col ritorno di Giolitti al governo e con la fine dell’impresa fiumana. A far perdere il liberalismo italiano fu piuttosto
una lunga serie di errori di calcolo, frutto (ancora) di sottovalutazione del fascismo e di
mal riposte ambizioni personali. Ma nessuno di questi errori era fatale o scontato. Ancora
nell’estate del 1922, al tempo della crisi del primo ministero Facta, una soluzione diversa
era possibile. E non si può escludere a priori che una maggioranza allargata ai socialisti
riformisti nel caso di una scissione comunque vicina, o una più leale collaborazione con i
popolari, o anche solo una guida più salda e capace (Giolitti al posto di Facta?) avrebbero
potuto creare problemi a un Partito fascista costretto ad avanzare verso la conquista del
potere perché a corto di vie di ritirata. È vero che, nella situazione creatasi dopo lo sciopero legalitario, una ferma reazione contro le imprese fasciste era resa impossibile dall’atteggiamento dell’opinione pubblica e delle forze dell’ordine. Ma diversamente stavano le
cose in ottobre, quando le squadre fasciste rischiavano di essere chiamate a uno scontro
cui non erano preparate contro un esercito schierato a difesa delle istituzioni nazionali.
Forse mi sto spingendo troppo oltre sulla via insidiosa delle ipotesi controfattuali.
Ma non credo sia ozioso chiedersi che cosa sarebbe accaduto se il re avesse mantenuto la
decisione di firmare lo stato d’assedio e se l’armata fascista si fosse dispersa ai primi colpi
d’arma da fuoco.
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rassegne e letture
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Marco Dogo
L’età delle migrazioni forzate
Antonio Ferrara, Nicolò Pianciola, L’età delle migrazioni forzate. Esodi e deportazioni in
Europa 1853-1953, Bologna, il Mulino, 501 pp., € 29,00
Questo libro tratta di come e perché circa 30 milioni di persone in Europa e Anatolia furono deportate o costrette a emigrare fra il 1853 e il 1953. Il ciclo inizia con
alcune operazioni condotte dalla Russia zarista nella regione del Mar Nero e si chiude
con la morte di Stalin che segna l’abbandono delle deportazioni come pratica di stato
corrente. Nel secolo intercorso fra le due date protagonisti attivi delle migrazioni forzate
sono entità politiche diverse – dal governo imperiale al movimento insurrezionale – che
esercitano il monopolio della forza su un dato territorio espellendone gruppi di persone
definite collettivamente in base a criteri sociali o culturali. Nel volume il tema è trattato
in 400 pagine di testo suddivise in 15 capitoli (distintamente attribuiti ai due aa.), con
80 pagine di note e numerose e utili tabelle e mappe storiche. L’oggetto dell’indagine
non è di automatica messa a fuoco, perché le migrazioni forzate tendono a confondersi
o sovrapporsi concettualmente e nella pratica con i genocidi da un lato e con le pulizie
etniche dall’altro. La scelta degli aa., ampiamente argomentata, è quella di tener fuori dal
loro discorso la Shoah (nonché il lavoro forzato durante la seconda guerra mondiale), e
di includervi invece le deportazioni mirate contro categorie sociali forzose (tipicamente, i
kulaki di età staliniana).
Anche la periodizzazione richiede un minimo di calibratura. Le migrazioni forzate,
secondo i due aa., tra il 1912 e il 1953 hanno carattere epocale, nel senso che definiscono
il periodo storico; ma sono a loro volta il prodotto di una reazione a catena, iniziata negli
anni anni ’50 del XIX secolo con la pressione espulsiva dell’esercito russo sui circassi
del Caucaso nord-occidentale per fini di sicurezza e di colonizzazione; proseguita quindi
con il «lungo esodo dei musulmani balcanici», che i due aa. interpretano come effetto
collaterale di rivoluzioni agrarie e attriti geopolitici; e culminata nelle fughe di massa,
deportazioni e stermini collegati al ciclo delle guerre balcaniche, della Grande guerra e
della guerra greco-turca. Il decennio 1912-1923 diventa così la cerniera fra le pratiche
«popolazioniste» dei vecchi imperi agrari e le operazioni espulsive condotte su ben altra
scala dai regimi totalitari del XX secolo. Secondo i due aa. l’anello di congiunzione fra le
due epoche ha un nome preciso: si tratta dell’ala radicale del movimento İttihad ve terakki,
Unione e progresso, al governo nell’Impero ottomano durante la Grande guerra, responsabile di un progetto di turchizzazione dell’Anatolia perseguito – come solo in eccezionali
circostanze belliche si sarebbe potuto fare – mediante la deportazione dei propri sudditi
greci, curdi e armeni e lo sterminio di questi ultimi.
rassegne e letture
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Il lavoro prosegue con l’indagine sulle altre maggiori operazioni coeve di spostamento forzato: quella a carico dei sudditi tedeschi ed ebrei dello zar, espulsi dai territori
occidentali prossimi al teatro di guerra verso l’interno della Russia per sospetto di slealtà;
quella a carico dei cosacchi nel 1920, che segna l’esordio in questo campo dei bolscevichi
con misure espulsive che si vengono spostando da un bersaglio etnico ad uno sociale; gli
esodi sotto pressione delle élites ungheresi e tedesche dagli stati successori alla fine delle
ostilità. All’inizio degli anni ’30, in tempo di pace, le deportazioni riprendono in Urss
contro i kulaki nel contesto della campagna di collettivizzazione forzata; le operazioni
sono coordinate dalla polizia politica e i deportati sono assegnati come «coloni speciali» a
regioni del Kazachstan e dell’Asia centrale spopolate dalla carestia del 1932-33: si delinea
così la matrice delle migrazioni forzate sovietiche negli anni a seguire, che investiranno
anche minoranze europee e asiatiche per presunta ostitilità al regime. All’inizio della seconda guerra mondiale, nei 22 mesi dell’alleanza Germania-Urss più di un milione di
persone sono spostate a forza dalla fascia di territorio spartita fra le due potenze: tedeschi
«rimpatriati» dal Baltico, polacchi dei territori annessi trasferiti nel Governatorato generale, ebrei in fuga oltre la linea di demarcazione inviati in Asia centrale, polacchi di Bielorussia e Ucraina occidentale deportati nei «villaggi speciali» dei kulaki di dieci anni prima.
Il 22 giugno 1941 la guerra muove a Est e il fronte si sposta in profondità in territorio sovietico. Circa 800.000 tedeschi sovietici vengono deportati in Kazachstan; un paio d’anni
dopo, rovesciatesi le sorti della guerra, li raggiungeranno (come «popoli puniti») altrettante persone appartenenti a sei gruppi tatari e caucasici accusati di collaborazionismo. Nel
frattempo, nella «nebbia della guerra», gli alleati minori della Germania nazista praticano
pulizie etniche che nelle loro intenzioni dovrebbero costituire dei fatti compiuti e irreversibili in una qualsiasi conferenza di pace: a giudizio dei due aa., si tratterebbe di politiche
di omogeneizzazione nazionale prossime a quelle degli ittihadisti ottomani più che ai
modelli nazisti o sovietici. Nelle ultime fasi della guerra si accende una lotta furibonda
nelle zone etnicamente miste della Galizia e Volinia; la riconquista sovietica deve a sua
volta scontrarsi con la guerriglia nazionalista ucraina, e i «villaggi speciali» del Kazachstan
e dell’Asia centrale ricevono un nuovo contingente di deportati.
Conseguenza delle deportazioni incrociate del 1939-45, della scomparsa degli ebrei
e della «degermanizzazione» della Polonia e della Cecoslovacchia è la fine della «Europa
di mezzo», risultato che i due aa. attribuiscono all’azione cumulativa di innumerevoli
aspetti e varianti delle migrazioni forzate, fra i quali tuttavia spiccano alcune costanti: le
popolazioni rimosse sono identificate in base a caratteristiche collettive loro ascritte, senza
margini per zone grigie identitarie; gli Stati ne escono più omogenei; le diaspore nazionali
annientate o disperse; cancellate le «città aliene» rispetto al contado; esodi ed espulsioni
sono accompagnati da espropri e trasferimenti di risorse economiche; le migrazioni forzate possono funzionare da strumenti di legittimazione e consenso di nuovi gruppi dominanti; e possono essere imposte come punizione collettiva e perfino misura preventiva nei
confronti di categorie accusate o sospettate di slealtà.
Nelle conclusioni, infine, i due aa. propongono una classificazione delle migrazioni
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rassegne e letture
forzate in base agli obiettivi perseguiti (la cui «razionalità», peraltro, è a più riprese discussa nel corso della trattazione): di sicurezza, di colonizzazione, di omogeneizzazione.
In questa formulazione astratta l’immagine delle deportazioni di massa sembra dissociarsi
dall’immane carica di violenza che la loro applicazione ha comportato, in particolare
nel XX secolo. La triade «sicurezza, colonizzazione, omogeneizzazione» risulta un aggiornamento ittihadista della tesi esposta attorno al 1950 da Ömer Barkan, insigne storico
economico turco, secondo cui le ragioni della travolgente espansione ottomana in Europa
fra il XIV e il XVI secolo sarebbero da cercarsi nella capacità organizzativa dell’Impero di
sfruttare il surplus demografico anatolico per colonizzare e mettere in sicurezza le nuove
province europee. L’idea di omogeneizzare il territorio imperiale era ovviamente estranea
agli ottomani di quel tempo, ma sarebbe stata innestata su quella tradizione dai loro eredi
ittihadisti: questi vennero così a stabilire un paradigma deportativo che, come Ferrara
e Pianciola ripetutamente e non sempre convincentemente suggeriscono, sarebbe stato
seguito nei decenni a venire in contesti lontani e diversi «anche se con tutta probabilità in
maniera inconsapevole» (p. 268).
Chi scrive queste righe ha avuto la ventura, nel lontano 1997, di partecipare all’organizzazione di un convegno internazionale su «Trasferimenti forzati di popolazioni nei
due dopoguerra: Europa centro-orientale, regione balcanico-egea, regione istro-dalmata»
e alla successiva edizione degli atti. Come il titolo stesso suggerisce, l’intenzione era quella
di collocare l’esodo degli italiani dall’Istria e Dalmazia in un contesto ampio e in una
prospettiva lunga che consentissero di storicizzare la vicenda. A distanza di sedici anni
da allora, il libro di Ferrara e Pianciola dimostra che lo studio sulle migrazioni forzate ha
fatto enormi progressi sia sul piano della disposizione dei dati in un quadro comparativo,
sia su quello della costruzione di tesi interpretative sulle cause e circostanze del fenomeno.
In definitiva, questo è un lavoro di eccezionale utilità per una gamma molto variegata di
lettori.
rassegne e letture
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Mauro Elli
Enrico Mattei
Enrico Mattei, Scritti e discorsi 1945-1962. Raccolta integrale dall’archivio storico ENI,
Milano, Rizzoli, 1057 pp., € 29,00
Il volume non è una semplice celebrazione per il cinquantenario della morte di Enrico Mattei, ma una fonte significativa su un momento chiave dell’Italia repubblicana, che
valorizza giustamente l’Archivio storico dell’Eni e si presenta al lettore con gli strumenti
di un’edizione scientifica – tanto più necessari a fronte dell’imponente mole. Infatti, oltre
all’indice dei nomi e dei documenti, vi sono tre ottime appendici con, rispettivamente,
la breve sintesi di ciascun documento, le indicazioni su dove trovare l’originale e un’elencazione cronologica. Ciò consente al lettore di reperire singole informazioni con relativa
facilità e, soprattutto, di organizzare percorsi di lettura autonomi rispetto alla scelta editoriale di sistemare i materiali in modo «funzionale» (Mattei partigiano, Mattei vicepresidente Agip ecc.). Il volume è poi corredato da due bei saggi di Daniele Pozzi e Valerio
Castronovo, i quali, pur nella differenza di approccio, letti insieme forniscono un insieme
di molteplici chiavi di lettura che permettono di comprendere la coerenza della visione
strategica di Mattei e di apprezzarne la coraggiosa tenacia.
Un primo significativo aspetto che emerge è l’importanza dell’esperienza resistenziale per Mattei, che anche dopo essere divenuto un impegnatissimo capitano d’industria
non diserterà le manifestazioni degli ex partigiani, impiegando anzi queste occasioni per
fare dei discorsi mai banali o di circostanza. Certamente si trovano dei cedimenti tipici dello scontro ideologico della prima guerra fredda, come la certezza dell’esistenza di
una «criminosa solidarietà» che garantirebbe il dominio comunista sulla cultura (doc.
7). Decisamente più importante, però, è l’idea che gli uomini della Resistenza abbiano la
missione storica di garantire all’Italia un ordinamento democratico e lo sviluppo economico: da ciò deriva, da un lato, che la scelta atlantica ed europea non è un’astratta presa di
posizione politica e ideologica, bensì un contesto confacente per il riscatto dell’Italia, che
resta sempre la pietra di paragone; dall’altro lato, vi deriva la concezione del ruolo sociale
dell’impresa e, di conseguenza, la necessità e auspicabilità dell’economia mista.
Un altro importante aspetto che emerge è quello della centralità dei processi di
appropriazione tecnologica e manageriale per la realizzazione di una visione coerente e
anticipatrice di politica industriale, volta a fare dell’Italia un paese moderno. Il «pionierismo» dell’impresa pubblica, che viene già sistematicamente tematizzato con la scoperta
del giacimento di Cortemaggiore nel 1949 e che diventa il tratto distintivo dell’identità
dell’Agip (doc. 74), è affiancato con la costituzione dell’Eni da cospicui investimenti nella
ricerca e dalla creazione di un Ufficio studi che, come nota Pozzi, era chiamato a una
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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rassegne e letture
più ampia comprensione dei cambiamenti nel nostro paese e nel mondo. Da una parte,
quindi, ricorre di frequente il tema di un’Italia che, gravata da un ritardo nello sviluppo
economico, deve ora bruciare le tappe per poter competere efficacemente nel mondo industriale (emblematica a questo proposito è la cooperazione con i britannici nel nucleare,
doc. 128). Dall’altra parte, le varie iniziative non vogliono essere azioni episodiche volte
al mero profitto, bensì devono rientrare in una strategia coerente per un avvenire più prospero dell’Italia e l’affermazione all’estero del prestigio del lavoro italiano (doc. 105).
Se la crescita del reddito nazionale deve necessariamente passare dal potenziamento
della base industriale, si comprende l’insistenza sugli spill-over dello sfruttamento degli
idrocarburi italiani, dagli analitici richiami alle attività della Snam alla costruzione del
polo petrolchimico Anic di Ravenna. Individuando con chiarezza i problemi a medio e
lungo termine del bilancio energetico, Mattei porta avanti non solo una strategia di rafforzamento e differenziazione sulle fonti nazionali, ma ritiene che l’Eni debba diventare
un venditore nel mercato internazionale del petrolio sviluppando la produzione italiana
di idrocarburi all’estero. Si trovano qui alcune delle pagine più belle e affascinanti del
volume: Mattei è convinto che paesi detentori di riserve, compagnie produttrici e paesi
consumatori formino un sistema organico di interdipendenze (doc. 182) e che dunque
l’azione stessa del cartello internazionale del petrolio ponga le condizioni del suo superamento, sia per ragioni tecniche e finanziarie, sia soprattutto per ragioni politiche (doc.
112). Perfettamente consapevole dei caratteri del neocolonialismo, egli conosce l’elemento di dirompente novità dell’azione dell’Eni in Iran e in nord Africa, cioè la possibilità
offerta ai paesi in via di sviluppo di diventare «soggetti dell’economia» su un piede di
parità (doc. 147). Anticipando di vent’anni le coordinate del dialogo nord-sud, Mattei
sa così far giocare all’Italia un ruolo significativo nell’ambito di un sistema internazionale
caratterizzato dalla coesistenza competitiva. I successi ottenuti fanno emergere le ragioni
etico-politiche sottese alla strategia industriale, col presidente dell’Eni che arriva a proporre esplicitamente l’Italia come esempio della non ineluttabilità del sottosviluppo e
della possibilità di affrancarsi con successo dai vincoli esterni sulle proprie risorse (doc.
205). L’Italia, infatti, era riuscita a trasformarsi da paese che allevava ed esportava uomini
a paese che esportava il loro lavoro (doc. 166).
In conclusione, questo volume è una ben curata iniziativa editoriale, che si offre sia
come strumento per lo storico sia come preziosa testimonianza civile. Nel primo caso esso
richiama l’attenzione sull’importanza della comunicazione pubblica, specialmente entro
un contesto democratico, bilanciando la tentazione della ricerca archivistica di concentrarsi sull’inedito assoluto. Nel secondo caso, tanto più oggi, è importante il messaggio di
ottimismo dato da Mattei, non solo come interprete del boom industriale, ma soprattutto
come istanza di un uomo che aveva una visione del futuro: «credo che noi dobbiamo
guardare all’avvenire veramente con fiducia e con tranquillità. Abbiamo delle possibilità
immense davanti a noi» (doc. 158, p. 779).
rassegne e letture
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Guri Schwarz
Memorie della Repubblica
Robert S. C. Gordon, The Holocaust in Italian Culture 1944-2010, Stanford, Stanford UP,
284 pp., US$ 80,00
Philip Cooke, The Legacy of the Italian Resistance, New York, Palgrave Macmillan (2011),
263 pp., US$ 42,00
La memoria, i suoi meccanismi e il suo rapporto con la storia costituiscono da tempo
un terreno di riflessione appassionata, tanto da rappresentare uno degli snodi ineludibili
per la riflessione storiografica. Sebbene con un certo ritardo rispetto ai trend di sviluppo
del dibattito internazionale, anche gli studi sul caso italiano hanno messo a fuoco sia gli
aspetti teorici e metodologici connessi al rapporto storia-memoria, sia le modalità con
cui fare la storia della memoria (o meglio delle memorie), e negli ultimi due decenni
sono fioriti vari ricerche e contributi – di valore diseguale – che hanno messo a fuoco una
molteplicità di temi e questioni connesse con il ricordo del fascismo, della guerra e della
guerra civile.
Ciononostante, mancavano ancora studi capaci di valorizzare la grande mole di dati
e spunti analitici raccolti, per dar vita a narrazioni capaci di coprire tutto l’arco del dopoguerra repubblicano, illustrando come, in che modi e in che fasi, si siano articolati
ricordo e commemorazione della seconda guerra mondiale. In questo senso i due recenti
contributi di Philip Cooke sul retaggio della Resistenza nell’Italia repubblicana, e quello
di Robert Gordon sull’Olocausto nella cultura italiana del dopoguerra costituiscono importanti e benvenuti punti di approdo di una stagione di studi. Si tratta di due studi ricchi
e importanti che testimoniano della vitalità e della qualità degli Italian Studies nella scuola
britannica, e che sicuramente costituiranno dei punti di riferimento ineludibili per coloro
che vorranno riprendere e approfondire le varie questioni toccate. Ciò detto va però sottolineato che si tratta di opere diverse, per impianto e struttura narrativa, oltre che per la
scelta dei temi (pure tra loro connessi, e su questo punto torneremo in seguito).
Cooke ricostruisce i diversi modi in cui la Resistenza ha influenzato la politica, la
società e la cultura del 1945 ad oggi. Sul piano metodologico l’opera riflette la sensibilità
dell’a., storico ma con una forte attenzione agli studi letterari: nell’introduzione è rivendicata, infatti, la complementarietà dei due piani di analisi e si afferma di voler proporre un
«holistic approach that bridges the gap between historical and cultural analysis». Ne deriva uno studio che indaga dinamiche e funzioni di diversi «vettori della memoria» (p. 3):
questi includono fonti letterarie, memorie, film, monumenti, canzoni, ma anche partiti
politici, associazioni, biografie di figure chiave, dibattito storiografico. Il lavoro si articola
in otto densi capitoli che seguono un filo cronologico, e in ciascun capitolo troviamo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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rassegne e letture
l’analisi dei suddetti vettori collocati in uno specifico contesto storico. In questo modo
il testo rende disponibile al lettore una notevole mole di informazioni opportunamente
contestualizzate, il che lo rende una risorsa preziosa. Non è il primo testo che tenti di offrire un quadro delle diverse stagioni della memoria della Resistenza nell’Italia repubblicana;
tuttavia rispetto ai contributi precedenti – il più sistematico è quello proposto da Filippo
Focardi (La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad
oggi, 2005) – qui l’attenzione non si limita alla sola dialettica tra i principali partiti politici, e l’interesse per la sfera della cultura – nelle sue diverse manifestazioni – rappresenta un
arricchimento e un passo avanti significativo. Sebbene non sempre i due piani di analisi,
quello politico e quello culturale, risultino integrati felicemente – talora infatti appaiono
semplicemente giustapposti – il testo offre un quadro ricco e sfaccettato dei molteplici
significati e usi che sono stati fatti dell’epopea resistenziale nel lungo dopoguerra.
Tra i passaggi più efficaci si possono segnalare la decostruzione del mito di un passato – quello resistenziale – egemonizzato dai comunisti, e la ricostruzione convincente
della retorica della «nuova Resistenza» tipica degli anni ’70. Meno convincente risulta
l’ultima parte del libro, gli ultimi due capitoli dedicati alla crisi della cosiddetta «prima
Repubblica» e poi alla stagione berlusconiana. Qui è più evidente e problematica che
altrove l’assenza di una riflessione sulle interrelazioni – i contrasti e la complementarietà – tra la memoria della Resistenza e altre memorie connesse alle vicende della seconda
guerra mondiale (la Shoah in particolare). Inoltre una maggiore attenzione ai riti pubblici, all’evoluzione del rito del 25 aprile e al suo rapporto con le altre ricorrenze civili della
Repubblica (dal 4 novembre al 2 giugno fino alla più recente introduzione del 27 gennaio e del 10 febbraio), avrebbe giovato al testo. Infine, colpisce l’assenza di riferimenti
all’intenso lavorio svolto dal presidente della Repubblica Ciampi nel rilanciare la retorica
patriottica giocando proprio sul ricordo della Resistenza.
Nella trattazione di Gordon invece l’interesse per il tema della memoria è filtrato,
come suggerisce il titolo, primariamente attraverso la lente della produzione culturale.
Anche qui pesa la sensibilità dello studioso che è primariamente un critico letterario, già
distintosi come uno dei migliori studiosi di Primo Levi. La sfera politico-istituzionale
risulta tutto sommato secondaria; emerge soprattutto nel secondo, dedicato all’erigendo
museo della Shoah di Roma, presso Villa Torlonia, e nel decimo e ultimo capitolo, che
inquadra genesi e caratteristiche della nuova stagione e si apre con l’introduzione della
Giornata della memoria nel calendario repubblicano. Il libro è dedicato, come afferma l’a.
nel primo capitolo, alla descrizione dei circuiti di produzione e ricezione di informazioni
e rappresentazioni dell’Olocausto in Italia. La memoria è considerata nelle sue mutevoli
manifestazioni, e nella sua gestazione dall’alto e dal basso, considerando tanto l’attivismo
delle associazioni di deportati e delle comunità ebraiche, quanto i più diversi prodotti
dell’industria culturale (dai romanzi ai film alle canzoni). L’approccio scelto pone l’enfasi
sulla formazione di un discorso, «a shared cultural conversation» (p .8), che riguarda vari
aspetti del passato. L’a. si richiama alla teoria dei «campi» di Bourdieu e chiarisce nel terzo capitolo quale sia il metodo scelto: mettere a fuoco le dinamiche proprie del sistema
rassegne e letture
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culturale, considerato come luogo di intersezione delle spinte di attori, forze e linguaggi
diversi (associazioni, istituzioni, sistema editoriale e alta cultura, letteratura e cinema). Ne
consegue l’intento di collocare ciascun prodotto connesso alla rappresentazione di quel
passato nel suo contesto, che non è solo l’immediato contesto storico ma rinvia alla sua
posizione e al suo ruolo negli intricati meccanismi e nelle dinamiche del «campo».
Il libro non si sviluppa secondo un ordine cronologico. A una prima parte che serve
a definire oggetto e impostazione del lavoro, ne segue una seconda. Questa si apre con
un capitolo che illustra il livello di conoscenze e la ricezione delle informazioni riguardo
lo sterminio nell’immediato dopoguerra e si chiude con un capitolo sul contesto attuale,
quale si è generato con l’introduzione della Giornata della memoria. Tra i due vi sono
cinque capitoli che affrontano temi diversi e, pur senza trascurare il contesto storico, prestano attenzione soprattutto ai particolari schemi e alle configurazioni del sistema della
produzione culturale che ciascun tema consente di mettere a fuoco. Tra i più convincenti
ci paiono il quinto e l’ottavo. L’uno è dedicato alla figura di Primo Levi e indaga in
maniera acuta il sistema di riferimenti storici, filosofici e culturali del chimico-scrittore
a partire dalla ricostruzione della sua biblioteca. L’altro, intitolato Grey Zones and Good
Italians, illustra con straordinaria efficacia genesi e funzione del «mito del bravo italiano»,
analizzandone la forza e la persistenza nel clima culturale post-ideologico venutosi a formare a partire dagli anni ’80. Pur non introducendo elementi di novità, il testo organizza
in modo intelligente le informazioni disponibili offrendo un brillante inquadramento dei
principali temi e problemi.
I due testi presentati possono essere considerati complementari tra loro. Una lettura
parallela suggerisce la necessità di compiere un ulteriore passo avanti, procedendo a ricostruzioni che non seguano soltanto un tema (la Resistenza o la Shoah), ma sappiano
integrare e leggere criticamente gli intrecci e i contrasti tra diverse memorie. Ciascuna
narrazione infatti si è articolata anche in rapporto alle altre, ed è la relazione tra queste –
nelle sue forme mutevoli – ciò che forse risulta più interessante.
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
rassegne e letture
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Riccardo Brizzi
Media e potere in Italia
Pierluigi Allotti, Giornalisti di regime. La stampa italiana tra fascismo e antifascismo (19221948), Roma, Carocci, 278 pp., € 23,00
Francesca Anania, Potere politico e mass media. Da Giolitti a Berlusconi, Roma, Carocci,
185 pp., € 15,00
Mauro Forno, Informazione e potere. Storia del giornalismo italiano, Roma-Bari, Laterza,
298 pp., € 22,00
Andrea Sangiovanni, Le parole e le figure. Storia dei media in Italia dall’età liberale alla
seconda guerra mondiale, Roma, Donzelli, 371 pp., € 22,00
In Italia la storia politica e la storia dei media sono state a lungo caratterizzate da
scarse interazioni. Si tratta di una specificità che ha distinto il contesto storiografico italiano non solo rispetto a quello anglo-sassone, in cui gli studi sui media hanno una tradizione decisamente consolidata, ma anche rispetto a quello francese, dove la storia dei media
è stata parte integrante del rinnovamento della storia politica che si è realizzato dalla
metà degli anni ’80. Nel corso dell’ultimo decennio, tuttavia, un certo numero di studi
in Italia – per quanto eterogeneo e non riconducibile a una «scuola» (come ad esempio è
avvenuto in Francia, dietro Jean-Noël Jeanneney) – ha progressivamente iniziato a colmare questa lacuna ed è all’interno di tale movimento che si collocano i volumi in oggetto.
Quattro testi che, pur nelle inevitabili differenze di approccio metodologico e di fonti
utilizzate (gli studi di Allotti e, soprattutto, Forno si fondano su un ampio lavoro d’archivio, mentre Anania e Sangiovanni forniscono essenzialmente un’originale risistemazione
bibliografica), sono accomunati da alcuni aspetti. Il primo è l’ambizione sistemica delle
analisi proposte: se su alcuni di questi temi esiste una cospicua bibliografia (cfr. storia del
giornalismo), nella maggior parte dei casi essa si limita a uno studio settoriale che isola la
stampa scritta dai media audiovisivi, la radio dalla televisione. Anania, Sangiovanni, Forno (e in una certa misura anche Allotti), uscendo da questa logica riduttiva, individuano
invece legami di continuità storica che hanno unito i vari mezzi d’informazione nello sviluppo della politica e della società italiane. Essi mostrano come la storia dei media copra
un terreno immenso che riguarda la vita politica, l’evoluzione delle mentalità collettive,
l’attività economica, gli equilibri sociali e le trasformazioni tecnologiche.
Il secondo aspetto comune ai quattro volumi è l’attenzione verso la dimensione
comparativa. In particolare è Anania – il cui testo riprende in parte saggi già scritti in ri-
rassegne e letture
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viste o in volumi come Davanti allo schermo. Storia del pubblico televisivo (Carocci, 1999)
– ad attuare una costante comparazione tra Stati Uniti e Italia, con qualche accenno ad
altri paesi europei, a partire da Francia e Gran Bretagna (e proprio questa operazione
comparativa rappresenta l’aspetto maggiormente innovativo del suo studio).
Infine i quattro libri sono accomunati dall’ambizione di proporre analisi di lungo
periodo (fa parzialmente eccezione il volume di Allotti, che comunque non resta confinato all’esperienza fascista, ma spinge l’indagine sino al 1948). Significativa a questo
proposito la scelta di Anania, Forno e Sangiovanni di avviare i rispettivi lavori a partire
dall’età liberale, sino a oggi relativamente meno indagata sul fronte dei legami tra media
e potere (e su quello – strettamente connesso – degli strumenti attivati dal secondo per
condizionare ai propri obiettivi il primo) rispetto al ventennio fascista o ai primi decenni
di storia repubblicana.
Con l’unificazione del 1861 la piemontesizzazione riguardò anche la stampa e la
legislazione sabauda in materia fu estesa all’intero territorio nazionale, «garantendo a tutti
gli organi di stampa del paese l’assenza di censure preventive o di specifici interventi
fiscali sulle pubblicazioni» (Forno, p. 22). Anania, Sangiovanni e Forno illustrano come
nonostante questo il livello di condizionamento subito dalla stampa nei decenni postunitari (con una sostanziale continuità tra Destra e Sinistra storica) fu elevatissimo, anzitutto per il rilievo che i governi attribuivano ai giornali, cui avevano affidato il compito
di enfatizzare gli sforzi della classe dirigente nell’ammodernamento del paese. La guerra
avrebbe trasformato i termini della questione: propaganda e comunicazione si sarebbero
identificate l’una nell’altra e lo spartiacque individuato dagli autori è sostanzialmente
la guerra di Libia. Forno – che fonda la propria indagine su documentazione in buona
parte inedita proveniente da svariati archivi («Corriere della Sera», «Gazzetta del Popolo»,
«Giuseppe Canepa», Azione cattolica italiana, ecc.) – e Allotti in particolare sottolineano
l’esistenza, nei rapporti tra potere politico-economico e mondo giornalistico, di una prassi
di lungo periodo di controllo dei canali di informazione, declinata dal fascismo in forme
estreme, ma ad esso preesistente (e successiva, non pienamente rimossa dalla transizione
alla democrazia).
Nell’Italia fascista si realizzò una sorta di complementarietà tra i diversi media, asserviti alle esigenze del regime. Il cinema fu sviluppato e utilizzato per presentare l’immagine di un’Italia del consenso, pacificata, dalla quale era scomparso ogni conflitto sociale,
senza tuttavia che il grande schermo celebrasse direttamente la politica estera italiana. Al
contrario, la radio era il mezzo di sostegno più diretto e immediato di cui Mussolini si
serviva per celebrare la propria figura e le ambizioni «imperiali» del regime. A partire dal
1935 – ci ricorda Anania (p. 43) – con lo scoppio della guerra d’Etiopia l’utilizzo della
radio a fini propagandistici conobbe un’estensione. La necessità di rafforzare il consenso
spinse il regime a moltiplicare le iniziative per diffondere l’ascolto collettivo nei luoghi
pubblici. Le nuove direttive riguardarono tutti i settori dei media: cinema, radio, giornali.
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rassegne e letture
La creazione del Sottosegretariato per la stampa e la propaganda, alle dirette dipendenze
di Mussolini, nel settembre del 1934, confermò il crescente rilievo politico dei media, che
sarebbe uscito accresciuto dal secondo conflitto mondiale.
L’indagine di Sangiovanni – che prende le mosse dai corsi tenuti presso la Facoltà
di Scienze della comunicazione dell’Università di Teramo – si chiude proprio nel 1946,
anno in cui in Italia si ricostruiva la rete radiofonica e prendeva il via la straordinaria
esperienza cinematografica del neorealismo. Una scelta che può sorprendere, ma che è
motivata dal fatto che il successivo arrivo del piccolo schermo (tra il 1949, anno delle
prime trasmissioni sperimentali, e il 1954, varo del servizio regolare) sancisce – nell’ottica
di sistema adottata dall’a. – un sostanziale cambio di paradigma dell’intero panorama
mediatico italiano.
Proprio l’avvento del mezzo televisivo e le trasformazioni che esso ha determinato
sul fronte della comunicazione politica rappresentano il cuore del volume di Anania, che
sottolinea come l’Italia sia a lungo parsa in controtendenza rispetto al processo di crescente mediatizzazione della scena pubblica che dal secondo dopoguerra ha caratterizzato le
principali democrazie occidentali. L’immagine dell’uomo politico è rimasta lungamente
nascosta dietro agli slogan e ai simboli dei partiti, che sino alla fine degli anni ’70 sono
rimasti gli incontrastati padroni della scena pubblica ed elettorale. Un’evoluzione significativa era tuttavia alle porte. All’origine di questo radicale cambiamento delle forme, dei
luoghi e dei protagonisti della comunicazione politica si trovano due grandi trasformazioni tipiche delle società contemporanee che, a differenza di altri contesti, in Italia si sono
manifestate in maniera ritardata ma congiunta. Da un lato il tramonto di una società caratterizzata da forti appartenenze ideologiche e da un elevato livello di divisività politica,
dall’altro lo sviluppo dei mass media e il rapido decollo di un sistema radio-televisivo «misto». In questo scenario il sistema dei partiti, che aveva controllato rigidamente il medium
televisivo negli anni del monopolio, a partire dagli anni ’80 è stato sfidato dall’emergere
di attori privati in grado di rivaleggiare con il servizio pubblico e dalla logica commerciale
di cui si sono fatti portatori.
Con gli anni ’90 si concludono le indagini di Forno (che pure lancia qualche spunto
sulla digitalizzazione dei media e lo sviluppo di internet nel corso del decennio successivo)
e di Anania, che illustrano come l’ultimo decennio del secolo scorso non abbia sancito
soltanto il recupero, da parte dell’Italia, di uno storico ritardo sul fronte della spettacolarizzazione della politica e dell’informazione, ma ne ha fatto un inedito caso di studio per
analizzare la progressiva simbiosi che è venuta creandosi nelle democrazie contemporanee
tra mass media e politica.
MEMORIE E dOcumentI
Pier Luigi Ballini, L’Assemblea Toscana del 1859-60, Firenze, Polistampa, 271 pp., € 22,00
Tra i meriti del 150° anniversario dell’Unità va annoverata la riflessione storiografica
e la valorizzazione di documenti relative alla transizione di singole realtà nella compagine
unitaria. Particolarmente significativi furono i tempi e i modi con i quali, sotto l’accorta
regìa di Bettino Ricasoli, la Toscana scelse la via dell’unione – non dell’annessione – al
Piemonte sabaudo. Grazie all’informativo e ben articolato saggio di Pier Luigi Ballini
vengono contestualizzati i documenti pubblicati in questo volume promosso dal Consiglio regionale toscano: i risultati, sin qui inediti, delle elezioni dei deputati dell’Assemblea
Nazionale toscana, che si svolsero il 7 e l’8 agosto del 1859; quelli, parimenti inediti, del
plebiscito di unione al Piemonte dell’11 e 12 marzo 1860; l’utile ristampa anastatica di
una serie di documenti, soprattutto proclami e decreti, relativi al passaggio dal governo
granducale alla formalizzazione dell’inserimento nello stato sardo. Ballini agevola la lettura sociale e geografica dei dati elettorali in appendice ricostruendo il divorzio incruento
ma irrevocabile della società toscana dal governo lorenese, a partire dalla rivoluzione pacifica del 27 aprile 1859, allorchè il Municipio di Firenze proclamò la formazione di un Governo provvisorio, passando per il dibattito interno alla classe moderata sull’autonomia
toscana e approdando alla via unitaria, nella persuasione indotta dalle vittorie militari dei
franco-piemontesi e dalle insistenti manovre diplomatiche, soprattutto di matrice francese, volte a realizzare quel regno dell’Italia centrale tanto caro a Napoleone III.
Paure e speranze dei Nation builders toscani emergono dai carteggi privati, tra i quali si
segnala quello Peruzzi-Ridolfi edito nel 2011, e spiegano l’esigenza e l’urgenza di legalizzare
il destino del paese attraverso il voto di un’assemblea di rappresentanti: una legittimazione dal basso, seppur abilmente diretta dal notabilato, che mettesse al riparo dalle derive
estreme, tanto quella dei rossi che quella dei neri, e sancisse, nella semplicità delle parole di
Ricasoli, che «non vi furono violenze; ma il Principe chiaritosi austriaco, ed il paese volendo
rimanere italiano, ciascuno prese la sua via» (p. 23). Consapevoli che il tempo dei piccoli
Stati era finito, Ricasoli e i moderati unitari combatterono il legittimismo dinastico così
come il rinascente toscanismo: l’unione al Piemonte sembrava la sola prospettiva in grado
di offrire un futuro non marginale nella penisola e in Europa. Erano tempi nuovi: per i Toscani i quali, nelle parole di Ricasoli, volevano costituire «un’Italia non austriaca né francese»
(p. 58), la missione del Municipio poteva essere solo una, trasfondersi nella nazione. Operazione non certo indolore, questa della Finis Etruriae, ma forse costellata di minori nostalgie
dell’analoga operazione a Settentrione, la Finis Longobardiae.
Arianna Arisi Rota
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memorie e documenti
Luca Sandoni (a cura di), Il Sillabo di Pio IX, Bologna, Clueb, 192 pp., € 16,00
Decisamente ben curato e con alcune interessanti proposte interpretative, questo lavoro di Luca Sandoni, giovane storico della Scuola normale superiore di Pisa, è preceduto
da un’ introduzione di Daniele Menozzi che mette in relazione il celebre elenco di 80 «errori» del mondo moderno, promulgato da Pio IX insieme all’enciclica Quanta Cura, con
le vicende della Chiesa contemporanea. L’introduzione, che dà decisamente il passo alla
lettura del libro, si apre e si chiude con un richiamo al pensiero e al magistero di Joseph
Ratzinger: all’inizio Menozzi rimanda alla parole usate dall’allora cardinale prefetto della
Congregazione per la dottrina della fede in un volume del 1982, allorché questi sosteneva
che la Dignitatis humane e la Gaudium et Spes, i noti documenti del Concilio Vaticano II,
erano da intendersi come una revisione del Sillabo, e anzi come una sorta di contro-Sillabo; poi, lo storico conclude con queste parole: «iniziato negli anni Settanta come auspicio
avanzato dai ristretti circoli del tradizionalismo cattolico, il rilancio del Sillabo pare oggi
approdato al magistero papale» (p. 22): in discussione sono evidentemente anche i limiti
e la portata della recezione del Vaticano II.
Sandoni ha premesso ai testi un paio di interessanti capitoli che rileggono, anche
con l’ausilio di un’ampia e opportuna lettura della storiografia sul tema, rispettivamente
la questione del lungo e controverso processo redazionale del Sillabo e quella della sua
accoglienza nelle cancellerie e nell’opinione pubblica europee, e all’interno dello stesso
mondo cattolico. Si tratta di una ricostruzione molto equilibrata, capace di dare conto
di una pluralità di posizioni e di una coralità di voci: ma, come avverte l’a. specialmente
nel capitolo in cui offre al lettore alcune riflessioni conclusive, è la voce di Pio IX quella
che si impone su tutte. E non è un caso: il Sillabo è da leggersi alla luce «di quel processo
di rafforzamento pontificio e di accentramento romano» che è cifra fra le più importanti
delle vicende ecclesiastiche ottocentesche e specialmente del pontificato di Pio IX (p. 85),
e viene promulgato tra la proclamazione del dogma dell’Immacolata concezione di Maria,
pure fortemente voluto da Mastai Ferretti, e quello dell’infallibilità papale. D’altra parte,
se la Quanta Cura richiama molti scritti ed encicliche dei papi dei secoli XVII e XVIII,
a testimonianza di una continuità del magistero, il Sillabo riprende testualmente molti
interventi precedenti dello stesso Pio IX. Sotto quest’ultimo profilo, l’apparato critico
composto da alcune annotazioni di carattere storico-filologico a cui è dedicata l’ultima
parte del lavoro di Luca Sandoni, consente di cogliere i legami tra le proposizioni del
Sillabo e i documenti dai quali esse sono tratte.
Il lettore di questa riedizione del Sillabo e delle riflessioni che l’accompagnano certamente tornerà a interrogarsi sul rapporto tra Chiesa cattolica e modernità. In questo
senso, però, dovrà forse fare i conti anche con la clamorosa svolta impressa alla storia del
Papato dalle dimissioni di Benedetto XVI e dall’ascesa di Francesco al soglio pontificio,
avvenute dopo la pubblicazione del volume.
Marco Leonzio
memorie e documenti
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Cecilia Tasca, «Spedalità rurale». I registri degli infermi dell’Ospedale Managu di Siddi
(1860-1890), Milano, FrancoAngeli, 219 pp., € 29,00
Di assistenza ospedaliera in Sardegna l’a. si era già occupata, in un progetto di riordino del fondo archivistico dell’Opera pia «Ospedale Civile G. Managu» e in diverse
pubblicazioni. Qui, ripartendo dallo stesso corpus documentario, ricostruisce le sorti di
un piccolo ospedale rurale. Le prime cinquanta pagine del volume, distribuite in tre capitoli di taglio storico, ricostruiscono l’assetto ospedaliero sardo nell’800, indugiando sulle
difficili vicende giuridico-amministrative che portarono alla fondazione dell’Ospedale
Managu, fino all’organizzazione del servizio sanitario presso l’omonimo nuovo Ospedale
Civile. Le pagine successive, di taglio assolutamente archivistico, constano di una lunga
e dettagliata scheda relativa alle fonti privilegiate in questo spazio d’indagine: i Registri
generali degli infermi, 16 unità archivistiche che, insieme ai fascicoli relativi ai Ricoveri, ai
Medicinali, alle Parcelle di somministrazione viveri e dei Quaderni di visita e degli alimenti,
aprono la corposa serie Assistenza.
Unico esempio d’istituzione benefica nel mondo rurale isolano, lontano dai grandi
centri cittadini, l’Ospedale Managu, nonostante l’esiguità dei posti letto (11 in tutto) e
l’apparente inadeguatezza di strutture e organizzazione sanitaria svolse un ruolo di una
certa rilevanza. L’istituto, gestito prima dalla Congregazione di Carità, poi dall’Eca, a
causa di ripetute mancanze amministrative e di un generale stato di abbandono sul piano
sanitario, fu commissariato dal prefetto di Cagliari nel 1861. «Soltanto 12 ospedali assicuravano l’assistenza all’intera Sardegna quando, nel 1860, grazie alla bontà e al coraggio
di Luigi Giuseppe Managu, nel cuore del mondo rurale della Marmilla venne inaugurato
il piccolo ospedale di Siddi, che alleviò per almeno 30 anni i disagi e le sofferenze di
una popolazione non tanto numerosa quanto penalizzata da sempre dall’isolamento e
dalla lontananza dai maggiori centri cittadini» (p. 40). Per ciascuno degli ammalati censiti (circa 700) nel periodo 1860-1890, con una media di 20-25 ricoveri all’anno, sono
state raccolte informazioni riconducibili ai vari aspetti sanitari legati a ricoveri, tempi di
degenza, diagnosi e terapie, ma anche a quelli di natura demografica e sociale: il sesso
(prevalentemente donne); l’età, mediamente compresa tra i 20 e i 40 anni; la professione
(rappresentata quasi esclusivamente dalle categorie meno abbienti – braccianti, carpentieri, mendicanti, pecorai, zappatori – e da un esiguo numero di ospiti paganti); l’origine ed
il luogo di nascita, spesso assai distanti dalla Marmilla. Le malattie più diffuse (ne sono
state catalogate almeno 295) coincidevano con quelle note in tutta Italia, mentre le prescrizioni terapeutiche, tra preparati chimici e naturali, trovano riscontro nelle farmacopee
ufficiali dell’epoca. Ne deriva uno spaccato di storiografia regionale che bene si coniuga
con un quadro più ampio d’intervento sanitario nazionale e che, partendo dalla segnalazione di un fondo archivistico, apre a diverse piste di ricerca (storia economica, sociale e
demografica, della medicina, dell’alimentazione).
Rossella Del Prete
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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memorie e documenti
Fulvio Conti, Firenze massonica. Il libro matricola della Loggia Concordia 1861-1921, Firenze, Polistampa, 344 pp., € 25,00
L’interesse rivestito dall’edizione integrale, curata da Fulvio Conti, del registro degli
iscritti alla loggia massonica fiorentina Concordia, dal momento della sua costituzione
fino alla vigilia dell’avvento del fascismo, risiede innanzi tutto nella sua completezza.
Il repertorio presenta infatti l’elenco accurato degli affiliati, in ordine di iniziazione, di
cui oltre a essere indicate le generalità (stato civile, domicilio, professione, provenienza
geografica), sono annotate le notizie rispetto agli avanzamenti interni o le sospensioni
all’interno dell’istituzione massonica. Si tratta di quasi un migliaio di nomi, tra i quali
sono appunto rappresentati diversi gradi e cariche, diversi mestieri e professioni e diverse
provenienze geografiche oltre a quella fiorentina, che non solo costituiscono uno spaccato
di grande importanza per un’indagine interna al mondo liberomuratorio, ma formano un
tassello essenziale per la ricostruzione del tessuto associativo di una città come Firenze,
a partire dalla vita sociale ricca di intrecci con la dimensione culturale e politica, e con
robusti nessi con gli snodi cruciali della vita nazionale.
La curatela di Fulvio Conti consente di inquadrare le vicende della Concordia nel
contesto dell’istituzione massonica, ricostruendone i rapporti con le principali fasi della
vita politica nazionale. La loggia Concordia infatti è stata fondata nel 1861, all’indomani
della nascita del Regno d’Italia, ponendosi subito come centro di addensamento delle
appartenenze massoniche del capoluogo toscano, e stabilendo immediatamente un canale
di accesso alla politica nazionale, che con la successione a Cavour vedeva il moderatismo
toscano giocare un ruolo chiave. Dopo il passaggio della capitale e la presa di Roma, i
rapporti con la politica centrale si sono allentati, ma la Concordia è rimasta al centro della
vita politica locale, di cui diviene subito un attore importante: dallo sforzo modernizzatore dei primi anni postunitari, alle prime scissioni, all’attività filantropica e all’impegno
sociale di fine secolo, al forte protagonismo nella giunta bloccarda di età giolittiana, fino
al deciso impegno nel patriottismo interventista e al coinvolgimento nelle lotte politiche
del dopoguerra. La matrice unitaria, nazionale e modernizzatrice, che ne ha improntato
l’azione, e la vocazione di polo di mediazione e di aggregazione di tendenze diverse, pur
nel progressivo spostamento, negli anni a cavallo dei secoli, verso posizioni di sinistra
democratica ne hanno consolidato il ruolo preminente nel mondo massonico fiorentino. I brevi ma utili profili biografici che Conti ha ricostruito per una parte degli affiliati
mostrano come la Concordia risultasse un centro di intersezione di culture e di percorsi
politici non univoci, e per questo di grande interesse.
Laura Cerasi
memorie e documenti
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Robert A. Maryks, “Pouring Jewish Water into Fascist Wine”. Untold Stories of (Catholic)
Jews from the Archive of Mussolini’s Jesuit Pietro Tacchi Venturi, Leiden-Boston, Brill, 376
pp., € 99,00
Pregio essenziale del volume è l’edizione di fonti inedite provenienti dall’Archivio
privato del gesuita Pietro Tacchi Venturi, figura chiave nei rapporti fra regime fascista e
Santa Sede nel corso del ventennio.
L’introduzione, oltre a dettagliare la tipologia delle fonti presentate lungo il volume,
fornisce anche una sintetica biografia del gesuita intrecciando le vicende storiche che
coinvolsero l’Italia dal 1922 al 1943 con l’evoluzione personale di Tacchi Venturi che
vide accrescere il proprio ruolo di mediatore fra le istanze politiche del fascismo e quelle
politico-religiose e istituzionali della Chiesa.
Come lo studioso americano ricorda in questa sezione introduttiva, il numero di
ebrei residenti in Italia secondo i dati riportati nel censimento razzista del 22 agosto 1938
era pari a 46.656 persone. Di queste: 9.415 erano stranieri e 37.241 italiani, rappresentando appena lo 0,1 per cento dell’intera popolazione italiana. Sempre secondo il censimento, le coppie razzialmente miste (cioè formate da due persone che potevano avere
anche la medesima religione ma erano state classificate dal censimento l’una «ariana» e
l’altra «ebrea») erano circa 5.000 di cui il 77 per cento risultava avere figli di religione non
ebraica. Ebrei risultati cristiani sin dalla nascita e dunque nati da matrimoni misti costituivano circa 7.000 unità. Infine, le coppie razzialmente miste e religiosamente omogenee
si aggiravano erano 6.935, mentre le abiure dall’ebraismo avvenute fra il 1938 e il 1941
furono fra le 4.500 e le 5.000 unità.
Il corpo principale dell’opera, intitolato Primary sources, offre una serie di medaglioni biografici riguardanti quei cattolici che secondo la normativa antisemita fascista vennero considerati a tutti gli effetti ebrei perché nati da almeno un genitore di origine ebraica.
Le 44 biografie pubblicate attestano non solo lo spaesamento individuale di chi «si scoprì»
ebreo essendo nato e cresciuto nella religione cattolica, ma testimoniano pure la contorsione ideologico-politica di una macchina persecutoria il cui fine ultimo si sostanziava nel
perseguitare il più alto numero possibile di cittadini italiani e stranieri reputati inferiori
perché appartenenti o presumibilmente appartenenti a una «razza» ritenuta inferiore e
dunque da espellere dal corpo «sano» della nazione italiana e fascista.
Fanno seguito due appendici: nella prima vengono riportati e trascritti i documenti
originali citati lungo il volume, nella seconda sono indicizzati quei documenti relativi agli
accordi, incontri e trattative intervenuti fra Mussolini e Tacchi Venturi dal 1922 al 1943.
Ciò che resta inevaso nel libro sono, nel parere di chi scrive, le ombre che hanno
circondato la politica religiosa di Tacchi Venturi rispetto al fascismo e all'antisemitismo
di Stato varato nel '38. Le posizioni assai più sfumate e reticenti del gesuita – così come
dell'apparato ecclesiastico – davanti alla persecuzione che colpì gli «altri» ebrei, ovvero gli
ebrei non convertiti, sono assenti nell'analisi che l'a. compie su quel tragico capitolo della
storia italiana.
Elena Mazzini
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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memorie e documenti
Nino Contini (1906-1944): quel ragazzo in gamba di nostro padre. Diari dal confino e da
Napoli liberata, a cura di Bruno e Leo Contini, Firenze, Giuntina, 324 pp., € 20,00
A quasi settant’anni dalla morte di Nino Contini i figli ne pubblicano i diari, affidati
loro nel 1957 dalla madre Laura Lampronti, moglie di Nino. Introducono il testo due
scritti rispettivamente di Alessandra Minerbi su Nino nella Ferrara ebraica e Gloria Chianese su Nino giovane antifascista e azionista nel Regno del Sud. Completano il volume,
arricchito da molte fotografie, alcune pagine di diario di Laura scritte dopo la morte di
Nino, tre lettere (gennaio-aprile 1944) di Nino al fratello Paolo negli Usa e una breve
postfazione di Clotilde Pontecorvo.
Il testo dei Diari – in parte limitato a frettolose annotazioni non strutturate sintatticamente, in parte redatto in una forma discorsiva che lo rende più fruibile – si apre a
Ferrara il 7 novembre 1939 e si chiude a Napoli il 5 settembre 1944, poco prima dell’improvvisa morte di Nino per un’ulcera emorragica. Nel mezzo scorrono le località in cui
dal giugno 1940 fino al luglio 1943 è confinato come ebreo antifascista (Urbisaglia in
provincia di Macerata, le isole Tremiti, Pizzoferrato in provincia di Chieti, Cantalupo
del Sannio), quelle in cui si rifugia dopo l’8 settembre per sfuggire alla cattura, quelle che
attraversa prima di riuscire a raggiungere avventurosamente il Regno del Sud.
Le pagine ferraresi trasmettono il senso di impotenza in cui le leggi razziali hanno
precipitato Nino: la sua carriera di avvocato è troncata e i suoi tentativi di reinventarsene
una come imprenditore nella manifattura dei cugini Temin sono frustranti. Nelle pagine
centrali predominano gli affetti privati (Laura e i bimbi, che dopo un anno di dolorosa
separazione lo raggiungono a Pizzoferrato), i minuti casi dell’esistenza al confino, le privazioni e le difficoltà della vita materiale, le riflessioni su di sé e sul mondo. Lo spazio
dedicato agli eventi pubblici si fa maggiore dopo l’8 settembre, e più nei mesi napoletani
in cui Nino torna a fare l’avvocato lavorando come prosecutor nella locale Corte militare
alleata, si impegna attivamente nell’ala moderata del Partito d’Azione ed è coinvolto in
una fitta rete di rapporti politici e istituzionali con esponenti di altri partiti, dell’Allied
Military Government e del governo Badoglio, prima e dopo la svolta di Salerno. Si appassiona al tema dell’epurazione, su cui stende un progetto di legge, e collabora con Charles Poletti preparandogli i discorsi. Si impegna nell’assistenza ai correligionari profughi,
come a suo tempo a Ferrara nei confronti degli ebrei tedeschi. Ebreo credente e sionista,
medita l’aliyah (immigrazione nella Palestina mandataria): un progetto che, rinviato a
Ferrara nel 1939 per complicazioni finanziarie e giudiziarie, ora gli sarà reso impossibile
dalla morte.
Nino è fine intenditore di musica (come la moglie, dotata pianista) e grande lettore.
Dispiace siano state soppresse le sue riflessioni sui libri letti, di un certo interesse a giudicare dal poco rimastone (su Pascal, Spinoza, Bergson). A qualche errore nella trascrizione
del manoscritto si deve forse la poca chiarezza di alcuni passi del testo (es. pp. 253 e
254).
Carla Forti
memorie e documenti
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Franz Neumann, Herbert Marcuse, Otto Kirchheimer, Il nemico tedesco. Scritti e rapporti
riservati sulla Germania nazista (1943-1945), edizione a cura di Raffaele Laudani, Bologna, il Mulino, 559 pp., € 40,00
Sottolineare rilievo e interesse degli scritti di Neumann, Marcuse e Kirchheimer
pubblicati nel presente volume, e quindi l’importanza dell’opera curata da Raffaele Laudani, studioso di Storia delle dottrine politiche, è giudizio quasi superfluo, se non scontato. Anche perché i saggi qui raccolti sono alla prima edizione italiana e fra questi solo
pochi erano stati già editi in tedesco o in inglese, in una versione comunque non integrale
e, nell’edizione tedesca, in forma anonima, per la difficoltà di individuarne l’autore effettivo o principale. Una difficoltà che risiede nella natura dei testi in questione: non saggi
teorici e di speculazione politico filosofica, come il profilo degli autori potrebbe indurre a
pensare, ma rapporti riservati che, elaborati fra il 1943 e il 1945 dalla Central European
Section del Research and Analysis Branch dell’Office of Strategic Services (OSS), erano
circolati appunto in forma anonima. I tre autorevoli esponenti della Scuola di Francoforte, rifugiatisi negli Stati Uniti dopo l’avvento del nazismo, facevano parte della Sezione,
alla quale poterono offrire non soltanto il loro contributo di studiosi ma anche la diretta
conoscenza ed esperienza della società tedesca.
Aspetto principale dell’opera è quindi il carattere «operativo» dei rapporti, volti a un
obiettivo politico concreto, il supporto cioè all’azione di intelligence dell’OSS nell’ultima
fase del conflitto. L’importanza attribuita dal governo statunitense alla Sezione emerge
dal fatto che, malgrado alcune riserve verso l’emigrazione europea e un’impostazione più
burocratica che critica, i criteri di scelta degli analisti politici erano lungimiranti ed escludevano ogni preclusione rispetto agli orientamenti politici individuali, anche marxisti,
almeno fino allo scoppio della guerra fredda.
Oltre ad aver individuato la paternità di ciascun contributo, incrociando fra loro
fonti archivistiche, relazioni, lettere e bollettini, Laudani traccia nell’introduzione un quadro esaustivo del contesto politico e sociale in cui operava il gruppo, fornendo anche utili
indicazioni biografiche. Essenziali, ma non meno rigorose e significative le note introduttive e di commento ai testi.
I rapporti sono divisi in tre sezioni tematiche, che rispecchiano uno svolgimento nel
contempo logico e cronologico: la prima di carattere conoscitivo sulla Germania nazista,
dedicata all’Analisi del nemico (1943-44), la seconda già volta al dopoguerra e quindi allo
studio della Costruzione di una nuova Germania (1944-45), mentre la terza raccoglie i
contributi del gruppo per l’istruzione dei processi di Norimberga (luglio-agosto 1945).
L’opera presenta quindi più piani di interesse: come raffinato e ancora valido strumento
conoscitivo per la comprensione del fenomeno nazista, come documento storico della
percezione e consapevolezza dei contemporanei – di un’élite, certo – rispetto al nazionalsocialismo e ai suoi obiettivi, e non meno come testimonianza della complessità degli
scenari per la ricostruzione della Germania nel dopoguerra.
Monica Fioravanzo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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memorie e documenti
Joyce Lussu, L’uomo che voleva nascere donna. Diario femminista a proposito della guerra, a
cura di Chiara Cretella, Camerino, Gwynplaine, 154 pp., € 13,00
Né estranee né innocenti titolava Chiara Saraceno l’introduzione all’edizione italiana, del 1991, di Women and War di Jean Bethke Elshtain, che metteva in discussione la
supposta equivalenza fra «donne e pace» e «uomini e guerra» per restituire una realtà più
complessa, al di là della storica esclusione delle donne dalle forze armate. Joyce Lussu
aveva anticipato – a suo modo e con la sua particolare verve – quell’analisi in questo libro
del 1978 che ora si riedita. Fin dal titolo, che mette in scena un uomo per nulla preso
dall’ardore delle armi. Perché non sono tanto gli uomini in sé, quanto il contesto in cui
sono inseriti a deciderne le sorti.
Il testo si sviluppa, non in forma di diario, come il sottotitolo potrebbe far pensare,
bensì di memorie autobiografiche intercalate da ragionamenti e informazioni più generali
sulle guerre, i sistemi militari e politici e sul diritto internazionale soprattutto del ’900.
La vita di J. Salvadori Lussu è stata, sappiamo, straordinaria. Qui approfondisce
aspetti taciuti o appena accennati nel bel libro di memorie che è Fronti e frontiere che,
inoltre, si arrestava all’autunno del 1943. È il caso della sua partecipazione, da adolescente
(era nata nel 1912), alla Fellowship School, gestita in Svizzera da quel mondo pacifista
e nonviolento cui rimarrà legata ma da cui prenderà anche le distanze per abbracciare la
causa del socialismo terzomondista; dei suoi rapporti paritari con Emilio Lussu; della sua
partecipazione a un corso di addestramento militare in Inghilterra agli inizi degli anni ’40
(unica donna fra antinazisti di mezza Europa occupata). E, poi, è ovviamente il caso delle
esperienze successive al 1945. La sua partecipazione al Movimento mondiale della pace
la condurrà a stringere rapporti di amicizia con esponenti di movimenti di liberazione e
perseguitati politici, da Agostinho Neto ad Amilcar Cabral, a Nazim Hikmet (va ricordato che sia di Neto sia di Hikmet sia di Ho Chi Minh ella è stata la traduttrice in lingua
italiana degli scritti poetici). Il suo impegno anticolonialista la porterà nei luoghi stessi
della guerriglia, come in Guinea-Bissau e in Iraq, presso i curdi, di cui dà conto in pagine
molto vive (pp. 80-86 e 119-132).
J. Lussu stabilisce una linea di continuità fra la Resistenza contro il nazifascismo e le
lotte antimperialistiche del secondo dopoguerra, accomunate da un’identica concezione
dell’essere umano e del futuro e alle quali, significativamente, prendono parte civili in
armi, non soldati di eserciti o corpi militari più o meno tradizionali. A differenza da
questi ultimi, tra i civili in armi si trovano anche delle donne che, pur sentendo, come lei
stessa, una «ripugnanza profonda per le armi», rifiutano il ruolo subalterno di spettatrici
o di incitatrici dei loro uomini o di vittime dei conflitti e responsabilmente decidono di
scendere direttamente in campo. Per un futuro paritario e senza più guerre. Da qui la sua
critica a quante non comprendono il peso dell’istituzione militare nella società e nella
politica contemporanee e nella definizione delle stesse relazioni di genere.
Dianella Gagliani
memorie e documenti
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Karen Taieb (a cura di), Abbiate pietà di mio figlio. Le lettere ritrovate dei deportati ebrei al
Velodromo di Inverno, Milano, Sperling & Kupfer, 210 pp., € 17,00
Il 16 e 17 luglio 1942 a Parigi, per ordine del governo di Vichy e ad opera della solerte polizia francese, furono arrestate circa 12.000 persone, fra cui più di 4.000 bambini.
Obiettivo della retata sarebbero dovuti essere solo ebrei stranieri e apolidi, ma questa
consegna non fu rispettata poiché la maggioranza dei bambini era nata in Francia. Gli
adulti senza figli vennero direttamente mandati nel campo di Drancy, mentre le famiglie
vennero inviate nel Velodromo d’Inverno, nel XV arrondissement della capitale. Il 22
luglio il velodromo fu evacuato e i detenuti trasferiti in altri campi di transito e da qui
ad Auschwitz. La storiografia ha ormai ricostruito in modo esaustivo la cornice politica
e ideologica di questo giro di vite nelle persecuzioni antiebraiche che in Francia è assurta
a simbolo stesso della politica di memoria della Shoah. Infatti, il 16 luglio è stato scelto
nel 1993 come il Giorno nazionale della memoria per le vittime della politica di Vichy.
Due recenti film francesi hanno parlato di questo tema: La chiave di Sara (2010) e Vento
di Primavera (2010).
Nell’archivio del memoriale della Shoah di Parigi sono state trovate e pubblicate in
questo volume diciotto lettere scritte da ragazzi e adulti arrestati in quell’occasione. Sono
altrettanti squarci di vita che richiamano vicende familiari e umane – ben ricostruite dalla
curatrice – assai diverse fra loro. Per la prima volta al centro dell’attività persecutoria si
trovano donne e bambini. In molte lettere è prevalente lo sbigottimento; gli arrestati
chiedevano inoltre a parenti e vicini di mandare pacchi, indicando con dovizia di particolari dove trovare le cose richieste negli appartamenti appena abbandonati. Fino a quel
momento le vittime erano vissute nell’incertezza e nella paura, ma pur sempre in casa propria e con i propri cari, mentre ora le famiglie sono smembrate; si trovano espressi nelle
lettere l’ansia per il destino dei propri cari, il tentativo di avere notizie e di attivare chi è
ancora fuori, per ritessere una rete di legami improvvisamente devastata, il terrore che le
cose possano peggiorare: «La cosa più terribile è che abbiamo paura di essere separati dai
nostri figli» (p. 122). L’incertezza è la nota dominante: «Se potete trovate dei piccoli dolci
per Liliane. Sul pacco mettete il vostro indirizzo, perché, se non siamo più qui, possano
restituirvelo» (p. 76). Chi scrive sa che dovrà partire a breve, ma non sa né quando né
per dove: «Fallo al più presto perché dobbiamo andarcene da qui verso una destinazione
ignota». Solo una volta, nella lettera di una giovane polacca, si trova un cenno esplicito al
destino che attende tutti gli internati: «Credo che mi manderanno in Polonia, vi supplico,
prendete con voi il mio bambino, chiedete alla portinaia le nostre cose e prendete tutto
quello che potete. Non voglio che mio figlio muoia da qualche parte in Polonia, voglio
morire senza di lui» (p. 90).
Il presente volume costituisce un piccolo, ma ben curato tassello da aggiungere alla
storia della Shoah, restituendoci alcune fra le tante voci di coloro che furono di lì a poco
sterminati.
Alessandra Minerbi
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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memorie e documenti
Mario Mazza, Diario di un educatore durante l’occupazione nazifascista. Roma 1943-1944,
a cura di Pino Agostini e Mario Gecchele, Milano, FrancoAngeli, 480 pp., € 50,00
Mario Mazza, uno dei principali fondatori e animatori del movimento scoutista
cattolico, inizia a scrivere il suo diario il giorno dopo la caduta di Mussolini e lo termina
il giorno dopo la liberazione di Roma. Estremi cronologici dettati dunque dalle vicende
belliche per un diario che però è ben più di una cronaca di guerra; è prima di tutto la
riflessione di un pedagogo sul suo lavoro, i suoi principi educativi e il futuro organizzativo
delle attività da lui promosse. L’a., nato a Genova nel 1882, all’epoca in cui scrive il diario
aveva ormai alle spalle una lunghissima carriera d’insegnante e organizzatore di movimenti giovanili. Dopo l’avvento del fascismo e lo scioglimento delle associazioni giovanili, egli
aveva cercato di trasferire nelle scuole in cui lavorava i suoi principi educativi; dunque
ampio spazio aveva continuato a dare alle attività di gruppo, all’iniziativa dei giovani, alla
partecipazione convinta e mai forzata dei ragazzi.
Queste pagine sono un’inestricabile mescolanza degli aspetti più importanti nella
vita di Mazza: la scuola, il lavoro, l’impegno teorico e pratico, ma anche il più generale
contesto politico, l’evolversi della situazione e la riflessione sugli affetti più cari: i tanti
amici e soprattutto la moglie Lina. Mazza è molto critico nei confronti di casa Savoia e
dei vertici dell’esercito che hanno lasciato il paese allo sbando, ma al contempo assai negativo è il giudizio verso la politica degli Alleati che non sembrano avere a cuore la sorte
dell’Italia e che di fatto favoriscono l’estremismo della resistenza partigiana, considerata
portatrice di spaccature politiche e rischi per la futura integrità della nazione. Quotidiana
è in queste pagine anche la presenza della guerra nei suoi aspetti più concreti: la fame e il
razionamento dei viveri, la paura per i bombardamenti, la città piena di giovani sbandati
che implorano abiti civili: «La città è ormai nelle mani dei tedeschi» (11 settembre 1943).
La morte di tanti amici e conoscenti, spesso giovani, vittime delle bombe, ma anche della
violenza dilagante, accrescono l’amarezza quotidiana.
Mazza continua a gestire regolarmente la scuola e annota le difficoltà organizzative
legate alle urgenze della guerra, ma anche le numerose riunioni, discussioni, riflessioni sul
futuro del proprio lavoro. Ogni lettura è annotata e ragionata, ogni incontro commentato. Eppure il carattere dominante di queste pagine non è nella descrizione pur particolareggiata della quotidianità, ma nella riflessione sul futuro, nella volontà di ripensare, per il
dopoguerra, le strutture associazionistiche cui ha dedicato la sua vita; il suo sforzo è quello
di mantenere quello che di positivo si è riusciti a tenere in piedi in questi difficili anni,
portando nuova linfa in un futuro che Mazza si augura di unione, al di là delle divergenze
politiche con una monarchia stabile e garante di equilibrio.
Alessandra Minerbi
memorie e documenti
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Michele Affinito, La storia della Missione esplorativa dell’UNRRA in Italia (1944-1945),
con, in appendice, il volume di Spurgeon Milton Keeny, A Mission is born. Italy July 1944May 1945, Napoli, Università degli studi Suor Orsola Benincasa, 324 pp., € 15,00
Su «Contemporanea» n. 1/2011 Silvia Salvatici ha pubblicato una interessante riflessione costruita a commento di una lettera-documento di Spurgeon M. Keeny, responsabile della Observer Mission della United Nations Relief and Rehabilitation Administration
(Unrra) in Italia. Il lavoro di Affinito pare proseguire in questa direzione. Il volume, infatti, focalizza nuovamente l’attenzione su questo singolare pioniere dell’umanitarismo internazionale e sull’intera Missione. Nella prima parte del libro (pp. 13-122), che inaugura
la collana «Documenti di storia moderna e contemporanea» dell’Università Suor Orsola
Benincasa, l’a., servendosi in gran parte della documentazione dell’Unrra, in particolare le
carte dell’Archivio Lehman conservate presso la Columbia University, analizza le origini
della Missione dall’angolo prospettico «degli intrecci politico-diplomatici che sono alla
base dell’esperienza dell’Unrra nel nostro Paese» (p. 122) ripercorrendo, in tal modo, il
difficile lavoro che consentì anche all’Italia di poter accedere agli aiuti dell’Unrra. Molti
e complessi, infatti, furono gli attori e i fattori che portarono anche la penisola, all’inizio
esclusa, a beneficiare degli aiuti dell’Unrra. E determinate fu il ruolo della Missione esplorativa, sbarcata a Napoli nel luglio del 1944, con il compito di raccogliere informazioni e
redigere un programma d’intervento per l’Italia; quello stesso programma che poi sarebbe
stato discusso a Montreal dal Consiglio dell’Unrra nel successivo settembre, occasione in
cui si decise di estendere il soccorso anche alla «cobelligerante» Italia, benché limitandolo
a specifiche categorie di persone (bambini e donne incinte o puerpere, reduci e profughi).
Nella seconda e più corposa parte del testo, l’a. propone la traduzione del volume A
Mission is Born che raccoglie in modo organico le lettere «informali» di Keeny scritte fino
ai primi giorni di maggio del 1944, quando la Missione Unrra incomincia in concreto a
funzionare. Il libro è un documento prezioso per chi si accosta allo studio di questi temi
per un duplice motivo. In primo luogo perché dalle lettere di Keeny affiora un quadro
schietto, puntuale e un’analisi introspettiva intenta a comprendere i reali bisogni della
popolazione italiana, un quadro, inoltre, visto «da fuori», che lascia affiorare le drammatiche condizioni della penisola, specie quella centro-meridionale progressivamente liberata
dagli Alleati. In secondo luogo, poi, le lettere consentono di guardare al funzionamento
dell’Unrra anche «dall’interno» evidenziando le difficoltà operative, le scelte programmatiche, i contrasti, i bisogni e la fitta rete di relazione intessuta con le forze militari (in particolare con l’Allied Control Commission e gli Allied Force Headquarters). Emergono, in
tal modo, come scrive lo stesso Keeny, una serie di elementi «utili a far rivivere qualcuno
degli aspetti più intensi della vicenda, assenti nei rapporti ufficiali» (p. 125).
Domenica La Banca
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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memorie e documenti
Mario Pannunzio, Leo Valiani, Democrazia laica. Epistolario, documenti, articoli, a cura e
con introduzione di Massimo Teodori, Torino, Aragno, 2 voll., XL-459 pp., € 30,00
Il primo volume comprende l’introduzione, una nota ai testi e l’epistolario Pannunzio-Valiani 1951-1966. Nel secondo sono raccolti quattordici articoli di Valiani pubblicati sul «Mondo», documenti di Valiani sul Partito radicale, lettere di Ernesto Rossi (soprattutto a Valiani). Se, da una parte, i libri sono un utile strumento di lavoro per gli studiosi (sebbene gli articoli del «Mondo» siano facilmente reperibili), dall’altra le modalità
attraverso le quali il progetto è stato realizzato lasciano perplessi. Teodori non cita alcuna
monografia o saggio sui protagonisti dei libri (persone, partiti, movimenti, riviste). Non
si possono elencare qui tutti i lavori che sarebbe stato opportuno considerare, basti dire
che il curatore (che accompagna i testi con note ripetitive e talvolta imprecise) non tiene
conto di alcuno studio, anche recente. Non si capisce quanto volutamente Teodori ignori
i vari autori non citati o se, fidandosi solo della propria memoria, egli non abbia svolto
quelle ricerche che, in casi simili (come, tra gli altri, ha dimostrato Elisa Signori nel curare
i carteggi di Gaetano Salvemini con Carlo Rosselli e Angelo Tasca), sono indispensabili
e si configurano come l’unica maniera per valorizzare i documenti, contestualizzandone
adeguatamente il contenuto. Nel 2010 Teodori aveva ragionato nello stesso modo curando il carteggio Pannunzio-Salvemini. Ora egli presenta lettere e documenti provenienti
dai fondi Pannunzio, Valiani e dal suo archivio privato, ma non prende in considerazione
il fondo Rossi scrivendo, a più riprese, di proporre nei due volumi materiali inediti (ad
eccezione degli articoli e di una relazione di Valiani al I convegno nazionale del Pr del febbraio 1956). Questa convinzione, guardando soprattutto all’ultima sezione del secondo
volume (con particolare riferimento alle lettere di Rossi a Valiani, 1954-1963), esprime
al meglio i limiti di una pubblicazione che non può che lasciare dubbiosi quei non pochi
studiosi che si dedicano (o si sono dedicati) con rigore e passione a temi e figure centrali
del ’900. Sono eloquenti le parole con cui Teodori descrive la propria iniziativa: «i testi
proposti portano alla superficie un tratto della vita di Valiani ignorato dai più anche
perché, ad eccezione degli articoli del «Mondo», appaiono qui materiali inediti del tutto
trascurati dalla pur vasta storiografia che lo riguarda» (p. XII). E ancora: «non è nota
alcuna ricerca sull’opera del leader politico e del mâitre à penser radicale nel periodo
che va dal 1949 alla seconda metà degli anni Sessanta» (p. XIII). Questa infondata tesi,
visto il discutibile apparato scientifico, sembra valere per tutti i protagonisti delle lettere
e dei documenti inclusi nei volumi che, comunque, portano il lettore a riflettere sul
rapporto politico e personale di Valiani con Pannunzio e Rossi, sul complesso mondo
laico-socialista italiano (a cominciare dal Pr), sull’evoluzione del quadro politico nazionale e internazionale durante la prima metà della guerra fredda, sull’antitotalitarismo e
sull’anticomunismo democratico.
Andrea Ricciardi
memorie e documenti
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Mimmo Franzinelli, Alessandro Giacone (a cura di), Il riformismo alla prova. Il primo
governo Moro nei documenti e nelle parole dei protagonisti (ottobre 1963 – agosto 1964),
Milano, Annali della Fondazione G. Feltrinelli, XLVI-752 pp., € 65,00
«Da oggi ognuno è più libero»: con questo memorabile titolo l’«Avanti!» del 6 novembre del 1963 annunciava la nascita del primo governo di centrosinistra «organico»,
al termine di un lavoro di paziente tessitura che aveva tenuto impegnati Aldo Moro, presidente del Consiglio incaricato, e Pietro Nenni. Fra attese, diffidenze, lacerazioni (al Psi
l’entrata nella «stanza dei bottoni» costò la scissione a sinistra dei cosiddetti «carristi» che
avrebbero costituito un nuovo partito, il Psiup), il nuovo ministero avrebbe avuto subito
vita difficile. Il programma riformatore, bollato dagli avversari come «libro dei sogni», si
sarebbe rivelato tale a causa delle profonde lacerazioni all’interno dei singoli partiti e fra i
quattro alleati di governo. Divisioni ideali, rancori personali, la dura opposizione del Pci
e, sullo sfondo ma incombente, la prima recessione economico-finanziaria del dopoguerra. Tutto questo è storia nota. Ciò che ora il lettore ha di fronte è una straordinaria documentazione di prima mano, in larga misura inedita: atti ufficiali, carteggi, diari, veline dei
servizi, report d’ambasciate estere, disposti in ordine cronologico e preceduti da essenziali
note. I curatori aiutano così il lettore a orizzontarsi nei convulsi otto mesi di un governo
consegnato alla storia più per le attese suscitate che per le sue realizzazioni. E ricordato
soprattutto per l’intreccio di manovre anche oscure (il famoso «tintinnio di sciabole» forse
agitato soprattutto per intimorire Nenni) che ne hanno segnato le sorti.
Gli interrogativi che il volume propone sono molti, a partire da quello sulla caratura
politica di Aldo Moro, insuperabile nel destreggiarsi fra le opposte correnti del suo stesso
partito, le pressioni del presidente Segni, i segnali del Vaticano e quelli che gli arrivavano
dall’America, ma forse meno brillante come uomo di governo. È un tema che, proprio
partendo dai materiali qui raccolti, dovrebbe essere ripreso e rielaborato con occhi più
distaccati. Così come quello dell’effettivo rischio che la democrazia italiana avrebbe corso
in quei mesi cruciali.
L’impressione che si ricava dalla lettura dei documenti è duplice. Da un lato, sembra
che in quella stagione si sia persa un’occasione irripetibile per accompagnare la modernizzazione economica del paese con una politica di riforme sociali e politiche, la cui mancanza avrebbe pesato sui decenni a venire (elenco brevemente alcuni dei nodi irrisolti: i
legami mafia-politica, i costi della politica, la crescita esponenziale della spesa pubblica,
il peso della burocrazia...). Dall’altro, come suggeriscono gli stessi curatori, non si deve
dimenticare che l’esperienza pur breve e contrastata di quel governo contribuì ad allargare
le maglie della classe dirigente e soprattutto pose all’ordine del giorno temi che avrebbero
trovato una faticosa risoluzione nel corso del successivo decennio (dallo Statuto dei lavoratori al nuovo diritto di famiglia). Confesso però che alla fine della lettura mi è tornato in
mente il titolo di un vecchio film di Wim Wenders, Falso movimento. Sarà solo un caso?
Giorgio Bigatti
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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memorie e documenti
Roberto Tremelloni, Un progresso possibile. Scritti e discorsi (1945-1973), a cura di Mattia
Granata, Milano, Biblion, 290 pp., € 18,00
«Non vi parlo, compagni, di grosse questioni finalistiche; e non mi intendo di elegante tecnica di partito. Vi confesso che sono molto ignorante in tutte queste cose, e che
ne ascolto parlare con sommessa ammirazione anche perché si tratta di un linguaggio che
per me non è abituale» (p. 35). È l’incipit del discorso di Tremelloni al congresso di Palazzo Barberini, da cui si evince quale fu il suo atteggiamento nell’intero arco della militanza
partitica. Laureato in Scienze economiche, egli fu un tecnico prestato alla politica, concreto, poco interessato a questioni dottrinarie e a dinamiche di corrente. Il suo pensiero,
lontano da progetti di alternativa di sistema, ruotò fin dall’immediato secondo dopoguerra intorno a temi forti: «l’accettazione piena delle logiche del mercato, la militanza nel
fronte occidentale, un ruolo statale dell’economia interpretato in maniera protagonista
ma non totalitaria» (p. 6). Così scrive Granata nella breve introduzione, individuando tre
fasi nella attività di Tremelloni: la ricostruzione, quando fu ministro dell’Industria, presidente del Fondo industrie meccaniche, autore del Piano a lungo termine e protagonista
nella gestione del Piano Marshall in Italia; la preparazione del centro-sinistra (fu ministro
del Tesoro del IV governo Fanfani); il «socialismo di governo», cioè il centro-sinistra di
Moro, durante il quale fu ministro delle Finanze e ministro della Difesa, con Saragat al
Quirinale e allo scoppio dello scandalo Sifar-Piano Solo. Negli scritti scelti, elaborati «per
essere presentati all’uditorio del partito» (p. 5), egli è concentrato su concetti e variabili
che con la politica pura hanno poco a che fare. È preoccupato dell’inflazione, del tasso di
produttività e della competitività del sistema, della politica industriale, delle inefficienze
del fisco e della burocrazia, della spesa pubblica improduttiva, pur sottolineando (in un
discorso del ’46) che per un partito socialista sarebbe «errore gravissimo o peggio colpa
inescusabile […] rifiutare di vedere, nella politica economica, i costi e i ricavi “sociali”
rappresentati dalle sofferenze o dal benessere di larghe masse lavoratrici» (p. 26). Vari i
riferimenti al clientelismo, al frazionismo, al trasformismo, alla necessità di una politica
seria. Colpisce quindi che il 31 gennaio ’72, in una memoria a Saragat e Tanassi (pp.
271-274), Tremelloni insistesse sulla politica fiscale e monetaria, sui rischi di inflazione
e sulla perdita di produttività del sistema, non menzionando il grave stato in cui versava
il Psdi e la profonda crisi del centro-sinistra, certificata dalle dimissioni di Colombo e
dalle elezioni anticipate, in cui non sarebbe stato rieletto e che lo avrebbero allontanato
dalla politica. Nel maggio ’63, sul nuovo quadro politico, aveva detto: «La chiave di volta
d’un governo di centro-sinistra è e sarà la sua capacità effettiva, e non soltanto libresca o
elettorale, di affrontare uno sviluppo economico reale […] senza quelle premesse sarebbe
l’anticipazione d’un dissesto e non il prodromo del benessere dei lavoratori: sarebbe una
svolta non a sinistra, ma in un abisso senza fondo» (p. 260).
Andrea Ricciardi
memorie e documenti
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Angelo Gaudio (a cura di), Illich. Un profeta postmoderno, Brescia, La Scuola, pp. 124, €
8,50
L’antologia, introdotta da un approfondito quadro di posizionamento culturale del
«caso Illich», con alcune rilevanti notizie bibliografiche, presenta una selezione di cinque scritti (1967-1991) precedentemente editi in italiano e attinenti alla sfera educativa,
trattata nell’ambito di una più comprensiva critica delle moderne ingegnerie di pianificazione dell’umano. Il rovescio della carità (1967) testimonia l’analisi socio-politica del
primo Illich, all’epoca impegnato sul fronte latinoamericano: sotto accusa i programmi
di inculturazione religiosa, strumentali all’esportazione di ideologie sviluppiste e politiche imperialiste. Da Deschooling Society (1971) Gaudio sceglie un capitolo irrinunciabile:
Rinascita dell’uomo epimeteico, l’uomo capace di sfatare le aspettative del consumo «prometeico» di servizi e valori eteroprodotti, inabilitanti all’esercizio della virtù umana. Il
testo successivo, Il mito dell’istruzione, da Ivan Illich in Conversation (1992), è presentato
a specchio di Deschooling cui esplicitamente si riferisce. Oggetto della critica illichiana
non è ormai più il monopolio istituzionalizzato dell’apprendimento bensì «l’aula universale» indotta dai nuovi canali dell’informazione e dell’intrattenimento. Retrocedendo al
1979, Gaudio riprende quindi La sfera educativa: Illich storicizza il paradigma dell’homo
educandus attraverso la ricognizione delle tradizionali modalità vernacolari dell’apprendimento, linguistico e non solo. Negli anni ’80 Illich introdurrà l’importante tema della
mente «alfabetizzata», segnalando la differenziazione basso-medievale della cultura testuale dalla cultura religiosa. In questa area va situato l’ultimo saggio Testo e università (1991),
vero gioiello della raccolta per alcune salienti riflessioni sull’interazione tra tecniche di
scrittura/lettura e modalità di apprendimento caratterizzanti la forma mentis alfabetizzata: cultura del testo biblionomico e universitas studiorum esordiscono assieme e saranno
ugualmente corrotte dalla progressiva spersonalizzazione della mente occidentale. L’etologia della lettura confluisce nella storia della carnalità dove incontriamo il grande tema
di Illich – non evidenziato da Gaudio – della «perdita dei sensi». La critica illichiana della
modernità non sostiene o auspica la reversibilità della storia (ciò che invece sembra a tratti
ipotizzare lo stesso Gaudio), così come la «profezia» post-moderna si distingue da quella
postmodernità a cui Illich rivolge la sua apocalittica ironia. Illich guarda a una sorta di
presente infrastorico e infratecnologico, un’ultramodernità che riprenda il suo cammino
là dove era iniziato, ai primordi dell’homo textualis. Ciò significa: «autocomprensione
dell’uomo in quanto essere capace di pensiero, un pensiero oggettivabile e tuttavia esistenzialmente incarnato»; e «rispetto per l’originalità di un sé individualistico» (p. 118),
ma radicato, al pari della caritas dei primi cristiani, nella conspiratio di «intense relazioni
faccia-a-faccia» (p. 119), nicchie di integrale presenza umana dove celebrare la sobria
ebrietas della ricerca.
Giovanna Morelli
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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memorie e documenti
Miriam Focaccia (a cura di), Dizionario biografico delle scienziate italiane (secoli XVIIIXX) Vol. 1 architette, chimiche, fisiche, dottoresse, Bologna, Pendragon, 304 pp., € 20,00
Sandra Linguerri (a cura di), Dizionario biografico delle scienziate italiane (secoli XVIII-XX)
Vol. 2 matematiche, astronome, naturaliste, Bologna, Pendragon, 366 pp., € 20,00
Per quanto divisa in due volumi l’opera costituisce di fatto un unico prodotto organico, in cui sono presentati i profili biografici di oltre un centinaio di donne che a vario
titolo sono state protagoniste della scienza italiana dal ’700 a oggi. Le curatrici dei due
volumi, nonché autrici della maggior parte delle biografie ivi raccolte, appartengono al
gruppo di ricerca di Storia della scienza dell’università di Bologna diretto da Raffaella
Simili, che da oltre dieci anni dedica particolare attenzione al tema della presenza femminile all’interno della comunità scientifica, curando in particolare il sito on-line «Scienza a
due voci», un ricco database relativo a oltre 1200 nominativi di donne scienziate, da cui
sono state selezionate le circa centoventi voci che compongono i due volumi. Il lavoro si
inserisce nel filone degli studi di genere, che pur avendo alle spalle una storia ormai consolidata in altri paesi si sono sviluppati solo recentemente per quanto riguarda il caso della
comunità scientifica italiana; di queste ricerche una utile e ampia rassegna bibliografica è
fornita nei saggi introduttivi ai due volumi.
All’interno di ogni raggruppamento disciplinare le biografie sono presentate in successione cronologica; per ogni donna/scienziata viene anzitutto data una descrizione dei
motivi che la rendono meritevole di attenzione («famosa per»), seguita da un profilo
biografico-scientifico, da una scelta, laddove possibile, di giudizi e riferimenti alla sua
persona reperibili in letteratura («cosa dicono di lei»), da una selezione degli scritti e da
una bibliografia. Sono presenti personalità di primo piano della nostra cultura scientifica
e figure minori, marginali tanto nell’attività di ricerca quanto nella traccia lasciata nella
memoria collettiva delle loro discipline. Come si può facilmente comprendere, le diverse
voci sono largamente disomogenee quanto a peso relativo e completezza delle informazioni disponibili. Mentre non sorprende la relativa abbondanza di fonti nel caso di figure del
livello e della visibilità di una Margherita Hack o, per andare a tempi più lontani, di una
Eleonora Fonseca Pimentel, nella maggior parte dei casi la documentazione disponibile
risulta scarsa quando non quasi del tutto assente, il che rende tanto più pregevole il lavoro
certosino di scavo che ha reso possibile ricostruire i profili e i contributi di personalità,
magari di spessore scientifico minore, ma comunque significative per ricomporre il panorama di un mondo, quello della comunità scientifica italiana, che salvo rare eccezioni non
si è mai mostrato almeno fino a tempi molto recenti ben disposto ad accogliere a pieno
titolo la sua componente femminile.
Giovanni Battimelli
le riviste del 2012
(a cura di Arturo Marzano)
Anche quest’anno la rassegna della letteratura periodica propone un quadro, sintetico, della
produzione storiografica apparsa su 35 riviste (33 italiane e 2 straniere dedicate alla storia
italiana) nel corso del 2012. Lo spoglio e le segnalazioni hanno riguardato esclusivamente gli
articoli di ricerca, ben 342. Non abbiamo invece preso in considerazione rassegne, dibattiti,
recensioni lunghe, commenti e presentazioni di fonti e documenti. Gli articoli sono raggruppati innanzitutto secondo un ordine cronologico – il lungo ’800, il periodo tra le due guerre e il
periodo che va dalla fine della guerra ai nostri giorni – e, all’interno di ciascun blocco, tematico. Alla fine di ciascuna sezione i lettori troveranno l’elenco completo degli articoli citati.
elenco delle riviste spogliate e delle abbreviazioni1
CnS:
Cont:
CS: Dep: DPRS:
Gen: IC: IS: JMIS: MC: Me:
MI: MR: «Cristianesimo nella storia»
«Contemporanea: Rivista di storia dell’800 e del ’900»
«Le carte e la storia»
«DEP. Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria
femminile»
«Dimensioni e problemi della ricerca storica»
«Genesis. Rivista della Società italiana delle storiche»
«Italia Contemporanea»
«Imprese e Storia» [2011]
«Journal of Modern Italian Studies»
«Mondo Contemporaneo»
«Meridiana»
«Modern Italy»
«Memoria e Ricerca: Rivista di storia contemporanea»
1. Quando non diversamente indicato, lo spoglio riguarda l’annata 2012.
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NRS: «Nuova Rivista Storica»
NSC: «Nuova Storia Contemporanea»
PP: «Passato e Presente: Rivista di storia contemporanea»
Quest: «Quest. Issues in Contemporary Jewish History»
QS: «Quaderni Storici»
RSC: «Rivista di Storia del Cristianesimo»
RSE: «Rivista di Storia Economica»
RSI: «Rivista Storica Italiana»
RSP: «Ricerche di Storia Politica»
RSR: «Rassegna Storica del Risorgimento» [2011 e 2012]
S-N: «Snodi»
SdS: «Storia della Storiografia»
SE: «Studi Emigrazione»
SeS: «Società e Storia»
SpC: «Spagna Contemporanea»
SS: «Studi Storici»
Stor: «Storica»
Storic: «Storicamente»
Storiog: «Storiografia»
SU: «Storia Urbana»
VS: «Ventunesimo secolo»
Zap: «Zapruder»
le riviste del 2012
le riviste del 2012
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1. Il lungo ’800
a cura di Salvatore Adorno, Arianna Arisi Rota, Maria Pia Casalena,
Barbara Curli, Massimo De Giuseppe, Valeria Galimi, Roberta Garruccio,
Andrea Giuntini, Catia Papa, Carmine Pinto, Adriano Roccucci
La ricerca sull’800 e il primo ’900 continua a privilegiare temi tradizionalmente cari alla
storiografia italiana, specificamente il Risorgimento e la costruzione dello Stato nazionale, in particolare il ruolo dei ceti dirigenti e dell’amministrazione nei processi di state- e
nation-building. Si conferma un certo interesse per la storia urbana, economica e culturale, principalmente per quanto concerne la realtà italiana, anche se aumenta l’attenzione
per l’Europa e i paesi extra-europei, con la presenza di alcuni saggi che utilizzano un
approccio di Global History.
L’Europa nella prima metà dell’800
Un primo gruppo di articoli si focalizza sulla storia degli Stati italiani a cavallo dell’esperienza napoleonica. Su SeS Levati indaga i rapporti tra politica ed élite militare nella Repubblica cisalpina attraverso gli scritti di un ufficiale del nuovo esercito napoleonico italiano,
Andrea Milossevitz. Un esame utile a comprendere il profilo delle forze protagoniste di
una nuova esperienza statuale e, allo stesso tempo, il percorso di integrazione delle élite dei
vecchi Stati nella Italia napoleonica. Sempre su SeS Bobbi si confronta con la storia dell’amministrazione dei lavori pubblici nel Regno d’Italia napoleonico (la progettazione del Naviglio di Pavia) mettendo in luce la poderosa eredità lasciata all’amministrazione asburgica e
svelando al contempo la trama di interessi imprenditoriali, obiettivi politici e logiche interne
agli stessi apparati. D’Angelo analizza per RSR il percorso formativo di ingegneri e architetti
a cavallo tra ’700 e ’800 per comprendere la trasformazione di quelle élite professionali italiane che per l’a. entrarono a pieno titolo nell’avventura intellettuale europea. Bubbi, infine,
ricostruisce l’istituzione dell’ordine di San Giuseppe, uno dei tentativi di sopravvivenza delle
istituzioni dei vecchi Stati italiani nel mondo napoleonico.
Quattro articoli riguardano l’Italia della Restaurazione. Due di questi, apparsi su
Storic, si concentrano sulla realtà bolognese. Casanova studia la relazione tra l’azione di
polizia e i costumi sociali dopo l’età napoleonica. Le fonti testimoniano una politica ben
più tollerante verso abitudini e comportamenti che violassero la morale comune rispetto
ai reati politici. Solo dopo il 1848 i due livelli finirono per intrecciarsi, perché la polizia
accomunò liberalismo e libertinaggio. Angelozzi utilizza i documenti della polizia bolognese per indagarne i tentativi di influenzare le relazioni interfamiliari e in particolar
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le riviste del 2012
modo quelle tra figli e genitori, con un’utopistica visione di paternalismo sociale. Utilizzando le fonti processuali, Bellabarba parla invece della pubblica violenza nelle aree rurali
dell’Italia asburgica, mettendo in luce come l’azione repressiva rispondesse all’esigenza
di pacificare gli ambienti contadini ed evitare una contrapposizione con i proprietari
terrieri insoddisfatti della giustizia austriaca. Al centro dell’articolo di Petrizzo ci sono poi
i parlamenti del 1848, indagati attraverso la prospettiva della storia culturale. La ricerca
di nuove forme di legittimazione fu uno degli elementi chiave tanto della pubblicistica
liberale quanto delle scelte simboliche dei governi. La carica retorica che accompagnò le
nuove istituzioni finì per palesare la loro debolezza nei primi momenti di crisi del movimento quarantottesco. Allo stesso tempo, però, contribuì a una legittimazione politica e
simbolica che avrebbe pesato in forme decisive nel decennio successivo e nella crisi degli
antichi Stati.
Infine, tre contributi allargano la prospettiva alla Restaurazione nel contesto europeo. Jolicoer indaga su RSR come l’Austria e la Francia si misurarono nel 1849 con la
restaurazione del potere temporale del Papa. Il complesso equilibrio giocato dalle due
potenze europee e dal Pontefice servì sia a mantenere inalterati i rapporti di forza sia a
conquistare il poderoso valore simbolico che questi rappresentava agli occhi del mondo
cattolico europeo. Inarejos Munoz cerca, invece, di capire la complicata politica della
monarchia spagnola, stretta tra legami familiari, spinte legittimiste e forza del liberalismo
spagnolo. Su NRS Di Rienzo esamina il golpe bonapartista del 2 dicembre 1851, sottolineando come questo non fu il frutto di una semplice azione militare, ma di una attenta
strategia per consolidare la base di consenso del regime. Il successo di partecipazione dei
plebisciti fu in larga misura spontaneo, testimoniando un sostegno trasversale che comprendeva gruppi politici diversi: il notabilato industriale e provinciale, il mondo delle
campagne e quello della piccola borghesia cittadina.
Il Risorgimento
Quest’anno, le questioni di storia culturale del Risorgimento hanno meritato grande attenzione, investendo temi vecchi e nuovi. Talora gli articoli hanno approfondito
questioni già note, talaltra si sono invece posti come confutazione di acquisizioni precedenti.
Su MI, Falchi affronta il nodo del pensiero di Mazzini riguardo alla condizione
femminile, concentrandosi sul periodo londinese, quando frequentazioni come Stuart
Mill e Emilie Ashurst andarono a sviluppare un pensiero egualitario che l’a. riconduce in
ultima analisi all’ambiente familiare del genovese. Emerge un Mazzini simpatetico con
il movimento delle donne e un ideale di democrazia senza discriminazioni di genere.
Sempre su MI Ferlito indaga le conseguenze fisiche dell’impegno patriottico di Cristina
di Belgiojoso. Basandosi sul carteggio tra Cristina e il suo medico, l’a. individua una concatenazione causale tra il ruolo di «irregolare» di Belgiojoso e i frequenti attacchi di isteria
le riviste del 2012
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che la colpivano. A conferma che la malattia derivasse dalla battaglia patriottica vi sarebbe
il fatto che essa scomparve durante un soggiorno di riposo in Oriente.
Lyttelton su JMIS analizza le correnti di pensiero alla base dell’opera più famosa di
Sismondi, l’Histoire des Républiques italiennes du Moyen-Age, mettendo in luce le numerose influenze dell’ambiente britannico, ma anche le distanze che separavano il cantore delle
libere città dall’Inghilterra monarchica e industrializzata dei primi dell’800. Sismondi
ritorna anche nell’articolo dedicato da Rao al repubblicanesimo napoletano dall’Illuminismo al Risorgimento. L’a. analizza l’accelerazione intervenuta durante il Triennio «giacobino», quando il repubblicanesimo nuovo si distinse dal vecchio per essere democratico,
sull’esempio della Costituzione francese. Più tardi si diffuse il mito sismondiano dei Comuni, intesi come libere repubbliche sorte dall’incontro tra l’energia dei barbari del Nord
e il civismo degli abitanti del Sud.
Rimanendo al Regno delle Due Sicilie, mentre Stolfi fa il punto sulla posizione dei
ministri delineandone una condizione di subalternità e dipendenza rispetto al potere assoluto del monarca, tanto più significativa quanto più in contrasto con quello che avveniva
nel Regno di Sardegna, Palamara su RSR ripropone il giudizio liquidatorio di Musolino
e della sinistra antimazziniana sulla spedizione di Sapri, considerata come la dimostrazione del tramonto dell’astro di Mazzini e del Partito d’azione. Sempre su RSR, Fonovich
presenta la figura di Josip Juray Strossmayer, vescovo delle zone di confine, la cui vicenda
dimostra come il sentimento d’italianità si fosse affermato anche presso il clero, pur facendo i conti con complesse questioni giurisdizionali. Su SE, invece, Franzina fornisce un
ampio affresco dell’emigrazione e dell’esilio in America Latina, collegandolo alle iniziative
per il Risorgimento italiano. Il sentimento nazionale accompagnò popolazioni emigrate
ed esuli nella terra d’arrivo, facendone dei protagonisti delle aspirazioni unitarie.
Assai originale è la prospettiva di Morachioli, che segue la poco studiata figura del
caricaturista nel Regno di Sardegna. Soprattutto nell’orizzonte costituzionale aperto dal
Proclama di Moncalieri, l’attività dei caricaturisti poté dispiegarsi con vigore, accompagnando la ricezione pubblica dei fatti più rilevanti dell’attualità.
Due articoli sono dedicati all’opera come veicolo di messaggi patriottici. Senici
analizza le rappresentazioni rossiniane, alcune delle quali considerate ad alto contenuto
politico per via delle parole contenute nei libretti. Tuttavia, secondo l’a. le messinscene
rossiniane difficilmente potevano veicolare forti contenuti, per la prevalenza della musica
sulla parola. Parker si sofferma sul mito di Verdi, concludendo che prima del 1859 fu
assai difficile stimare la portata del suo messaggio patriottico in termini di impegno e di
udienza. Sebbene le opere verdiane contenessero fin dai primi anni ’40 toni e sottintesi
che potevano facilmente essere interpretati in chiave patriottica – e rispondere a quella
che Alberto M. Banti ha definito la «morfologia» del discorso sulla nazione – il mito di
Verdi fu in gran parte una costruzione dell’età post-unitaria.
Due articoli, infine, fanno i conti con l’uso pubblico della storia. Musi si sofferIl mestiere di storico, V / 2, 2013
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le riviste del 2012
ma sulle recenti interpretazioni della storia d’Italia come «occasioni mancate», a partire
dall’età comunale per giungere sino al tentativo murattiano. Bersaglio polemico è soprattutto la voce «Italia» di Wikipedia, la più assertiva nel fare della storia italiana fin dall’Impero romano una prefigurazione fallita del Risorgimento. Casalena affronta gli autori del
«canone antirisorgimentale», neoborbonico, cattolico intransigente e leghista. L’articolo
segue le dinamiche di una produzione che da estremamente localizzata è divenuta in anni
recenti un fenomeno di portata nazionale, addentrandosi anche nella narrativa in questione per portarne in luce le argomentazioni tautologiche e le premesse profondamente
antidemocratiche.
L’Italia liberale: istituzioni, carriere, identità
I notabili costituiscono una categoria sulla quale la storiografia italiana ha avviato
solo in tempi recenti un’attenta riflessione in un’ottica di smantellamento dello stereotipo che li vede nemici dei processi di modernizzazione. Relativamente al caso italiano in
epoca liberale, Camurri propone su RSP una riflessione che va in questa direzione. Sulla
stessa epoca sono i lavori rispettivamente di Ricci per JMIS, grazie al quale appare in una
luce più chiara il funzionamento della Camera dei Deputati italiana tra il 1861 e il 1922,
e di Pacifici per RSR, che invece si concentra sulla nomina dei senatori, formalmente di
spettanza sovrana, ma concretamente molto spesso appannaggio dei vari governi, da Cavour a Giolitti. Funaro presenta su CS un tipico esponente di notabile locale, l’avvocato
livornese Rignano, attivo nell’amministrazione e in varie iniziative di natura politicosociale, portatore di idee politiche liberali e grande sostenitore dell’emancipazione ebraica
anche nello Stato unitario. La biografia di Antonio Manno è ricostruita da Benedetti su
RSR: oltre ad amministrare il proprio ingente patrimonio, Manno si dedicò agli studi,
pubblicando a cavallo del secolo una serie di volumi di storia principalmente volti a mettere in luce i meriti della dinastia sabauda. Nata in ambienti cattolici alla fine del 1888, la
Società antischiavista di cui tratta Ettorre su SS proviene sostanzialmente dallo stesso ambito sociale e resta attiva per un lungo arco di tempo, distinguendosi per il sostegno concesso al primo imperialismo italiano e poi all’avventura coloniale fascista, mantenendosi
favorevole all’espansione oltremare come gran parte dei cattolici. Fumian si confronta,
invece, su RSI con il movimento Technocracy, sviluppatosi negli Stati Uniti degli anni ’30,
appassionato propugnatore della supremazia della tecnica pianificata, in un intreccio fra
utopia e profezia, proiettata verso la visione di un governo efficiente basato su competenze
e gestione razionale e produttivista.
Destinata al consumo culturale dei ceti socialmente più avanzati era l’attività teatrale, al centro delle ricerche di Sorba e Toelle su JMIS. Entrambe le aa. descrivono il forte
incremento del settore – in particolare l’opera – a partire dagli ultimi anni del XVIII seco-
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lo, quando il teatro era visto come un irrinunciabile elemento di promozione e sociabilità.
Si spiega in tal modo la proliferazione di nuovi teatri in tutta la penisola, in particolare
nella Lombardia austriaca della prima metà dell’800. L’impresario fu il vero protagonista
dello sviluppo del teatro, poiché intorno a lui ruotavano tutte le questioni economiche e
organizzative; tuttavia, con il nuovo secolo mutò progressivamente la prospettiva professionale, fino alla sparizione di questa figura anche per l’emergere del ruolo degli editori.
Nell’ambito della storia delle istituzioni si collocano poi una serie di contributi. In
un corposo intervento per RSR, Marongiu analizza le politiche fiscali della Destra storica
finalizzate al raggiungimento del pareggio di bilancio, mettendo in luce in particolare
il ruolo di Quintino Sella. All’interno del filone di studi relativi alla storia dell’Arma
dei Carabinieri si pone il saggio di Carbone su RSR, in cui viene ricostruito il percorso
biografico di Eugenio Monaco, al comando della Gendarmeria cretese tra il 1903 e il
1906. Bellandi ripercorre su CS la storia dei vari comitati militari, che operarono in Italia
dall’Unificazione fino al 1945. Tranne quello dettato dalle circostanze belliche del 1915,
svolsero tutti attività di natura politica in collegamento con gli organi costituzionali, offrendo un proprio contributo al processo decisionale della politica di difesa nazionale.
Sulla medesima lunghezza d’onda, spostati sul fronte della giustizia, si situano i lavori di
Venturini e Rovinello, sempre in CS. Il primo ruota intorno alla convinzione che le radici
della magistratura italiana fossero rintracciabili nello Statuto albertino, che concedeva
all’ordine giudiziario un ruolo costituzionale, introducendo il principio dell’applicazione uniforme della legge e superando arbitrio e discrezionalità dominanti in precedenza.
L’altro nota come il susseguirsi dei vari codici penali militari in vigore in epoca liberale
spieghi compiutamente il ruolo della giustizia militare in Italia. Su RSR, D’Urso utilizza
il filtro dei travagliati rapporti tra Carducci e due prefetti – Luigi Prezzolini, padre di Giuseppe, di stanza a Firenze, e Giuseppe Cornero, basato a Bologna – per sottolineare la pervasività del potere governativo nelle varie provincie. Due articoli apparsi anch’essi su RSR
vertono sulla storia del brigantaggio post-unitario. Alla luce di alcuni documenti inediti,
Manica si sofferma sulla legislazione speciale adottata contro il brigantaggio negli anni
’60, mentre Clemente indirizza la propria attenzione sulla Commissione parlamentare
di inchiesta – che fu nominata nel dicembre 1862 e terminò i propri lavori nel maggio
1863 – sottolineando, grazie a una vasta documentazione archivistica, tra cui il carteggio
tra due dei membri della Commissione, Nino Bixio e Aurelio Saffi, e le rispettive mogli,
«l’entusiasmo e le delusioni» (p. 14) che accompagnarono l’inchiesta e la mancata ricezione da parte del governo di quanto da essa proposto. Infine, ancora su RSR, Dentoni
ricostruisce sulla stampa cattolica dell’epoca e documentazione contenuta nell’Archivio
Segreto Vaticano gli attacchi della Chiesa contro l’operato del governo italiano in occasione del tragico terremoto di Messina del dicembre 1908, non tanto per le inadempienze e
i ritardi dei soccorsi, quanto per i silenzi governativi rispetto all’operato del clero a favore
delle vittime e per le decisioni prese da Roma riguardo alla sistemazione degli orfani.
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le riviste del 2012
Dinamiche variabili – da un dialogo fattivo a una successiva separazione motivata
da una propria pretesa autonomia – connotano la realtà italiana fino alla Grande guerra.
Alla costruzione dell’identità italiana contribuì, oltre all’amministrazione, anche la scuola,
come ritroviamo nelle riflessioni di Causarano su Zap e di Geuna e De Giorgi su RSC.
Il primo ritiene che il cammino della scuola italiana abbia proceduto in mancanza di
progetti culturali condivisi e costanti nel tempo e rappresentativi delle dinamiche sociali.
I caratteri originali hanno così resistito, senza che le riforme del secondo dopoguerra potessero mutarne il disegno, in un’ottica di forte continuità. Per Genua uno degli obiettivi
del sistema scolastico ottocentesco consisteva nella formazione morale. Imperniata sulla
dottrina cattolica, l’impostazione della legge Casati negli anni successivi venne rimessa
in discussione e sostituita dal principio di «prime nozioni dei doveri dell’uomo», cui fu
affidato il compito di educare a una religione del soprannaturale, come si evince anche
dai manuali scolastici del tempo. Infine, secondo De Giorgi, uno dei campi in cui il sistema educativo italiano ha conosciuto e conosce livelli di particolare eccellenza, è quello
della scuola dell’infanzia, caratterizzato da una forte influenza esercitata dall’elemento
religioso a partire dal Risorgimento: dal cattolicesimo liberale di Ferrante Aporti ai filoni
dell’agazzismo e del montessorismo, il cammino è stato segnato da articolate e durevoli
vicende di grande intensità, la cui eredità può essere rintracciata oggi nell’esperienza di
Reggio Children.
Infine, Pombeni svolge su Stor un ampio ragionamento sull’analisi del sistema politico dell’Italia liberale prendendo in considerazione l’ipotesi che nel nostro paese vi sia
stato un orientamento sostanzialmente inclinato verso il costituzionalismo liberale senza,
però, che questo abbia consentito l’elaborazione di una precisa dottrina politica di riferimento.
Le città nell’Italia unita
SU pubblica un numero monografico dedicato alla dismissione delle cinte murarie e
delle fortificazioni cittadine che coprono le principali aree territoriali del paese attraverso
l’analisi dei casi di Milano, Brescia, Roma, Napoli, Crotone e Messina. Il saggio introduttivo di Oteri, curatrice del volume, propone un approccio multi-prospettico per indagare le dinamiche socio economiche, demografiche, politiche, giuridico amministrative
e simboliche che portarono alle dismissioni, individuando la categoria del conflitto (tra
istituzioni, interessi, ceti) come chiave per leggere il nesso tra abbattimento della mura e
trasformazioni urbane. In questa prospettiva emerge una serie di temi di ricerca strategici:
i processi di sdemanializzazione delle mura e il rapporto tra interessi pubblici e privati che
ne deriva, la funzione fiscale delle cinte fortificate e la ridefinizione sia dei confini fisici e
amministrativi, sia delle politiche finanziarie dei Comuni determinata dall’abbattimento,
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la riconversione a fini civili delle mura e la ridefinizione delle funzioni urbane, la costruzione di un immaginario modernizzante che nasce dalla demolizione dei vecchi bastioni,
il ruolo della cultura igienista come matrice culturale e legittimazione retorica della distruzione, le politiche urbanistiche legate ai processi di espansione, infrastrutturazione e
ridefinizione del ruolo dalla rendita. I saggi riprendono e approfondiscono i diversi temi.
Le problematiche igienico-sanitarie conseguenti al sovraffollamento dei vecchi nuclei urbani sono messi in rilievo da Girelli per Brescia; le pressioni per la lottizzazione delle aree
dismesse da parte di imprenditori e speculatori emergono nei casi di Milano (Pertot) e
Crotone (Mussari); le motivazioni simboliche nei casi di Roma (Mancini), Napoli (Pane
e Russo) e Messina (Todesco). In questi ultimi casi emerge un ulteriore elemento di complessità: a una prima fase di dismissioni, attuate senza particolari criteri che non fossero
quelli legati alla rimozione di un passato da obliare, seguì una politica di conservazione e
valorizzazione delle vestigia monumentali.
Colonialismo «interno» ed «esterno»
Quattro articoli di questa breve sezione sono dedicati al colonialismo «interno»
alla penisola italiana, e si focalizzano sui processi migratori interni e le politiche di controllo esercitate sulla popolazione nell’Italia liberale. Su Me, esaminando alcuni progetti
sperimentali in Sardegna, Basilicata e a Ostia, Gallo mette in luce gli esiti fallimentari
delle politiche di colonizzazione rurale nell’Italia tra ’800 e ’900, effettuate provando
a «esportare» nel Meridione un modello basato sul legame tra saperi agronomici e cooperazione sociale che pure in Romagna era stato efficace. Sempre su Me. Nani conduce un’analisi statistica delle migrazioni interne nel territorio ferrarese durante il XIX
secolo. Pur in presenza di un bilancio migratorio in pareggio, le opere di bonifica e la
transizione dalla boaria al bracciantato innescarono fenomeni migratori in cui la mobilità residenziale prevalse su quella insediativa, dando all’a. lo spunto per teorizzare un
«modello d’area» basso-padana di mobilità. Harris, seguendo il filone interpretativo della
rappresentazione e costruzione identitaria, analizza su JMIS i retroterra culturali della fotografia otto-novecentesca di soggetto rurale, animata da un primitivismo teso a costruire
un’immagine idealizzata della nazione, oppure a denunciare le misere condizioni delle
campagne. Schettini poi conferma su Zap l’importanza del positivismo come retroterra
scientifico-culturale per analizzare la società e «categorizzarla». Analizzando l’evoluzione
delle logiche di identificazione a partire sin dal Medioevo e le influenze dell’antropologia
criminale sulle tecniche di schedatura dei sospetti e dei potenziali sovversivi, l’a. traccia
un continuum che dalla creazione del Casellario politico centrale con Crispi, attraverso
il fascismo, porta a suo avviso alle procedure seguite attualmente nei Centri d’identificazione e espulsione.
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le riviste del 2012
Due articoli apparsi su JMIS si soffermano sulle politiche coloniali dell’Italia liberale. Mentre Troilo indaga il ruolo dell’archeologia come giustificazione culturale della
missione civilizzatrice italiana nel contesto della guerra italo-turca del 1910-11 leggendo
l’intreccio tra archeologia, riscoperta del passato, tutela dei monumenti e politica a partire dai binomi distruzione/risurrezione e barbarie/civiltà, Greene si occupa della Mostra
Etnografica Siciliana del 1891-92 curata da Pitrè, e propone un parallelismo tra la «riscoperta» del folklore isolano e la messa in scena della vita «reale» di un villaggio abissino.
Entrambi gli allestimenti suscitarono nei commentatori giudizi stereotipati e di stampo
«coloniale», che rimandavano ai concetti di «civilizzazione» e «alterità».
L’Europa tra ’800 e ’900
L’attenzione della storiografia nei confronti degli elementi di continuità nella storia
europea in età contemporanea è una caratteristica degli studi dell’ultimo ventennio, forse
quale riflesso delle disillusioni nei confronti delle utopie rivoluzionarie novecentesche.
Arno J. Mayer era stato a suo modo anticipatore con la nota tesi della persistenza dell’antico regime fino alla prima guerra mondiale. Il paradigma della continuità appare particolarmente fecondo nell’illuminare aspetti significativi della stagione in cui arrivarono a
maturazione la crisi dei sistemi liberali e l’avvento della società di massa, sanzionato dalla
Grande guerra, vero punto di arrivo, esplicito o implicito, di tutti i saggi di questa sezione.
Il passaggio alla società di massa e a una nuova concezione e pratica della politica fa da
sfondo agli studi sul notabilato, di cui Cioli, trattando in controluce la questione del suo
declino nella Germania guglielmina, e Briquet, mettendo in discussione la tesi, avvalorata
da una storiografia consolidata, di una sua fine in Francia con l’avvento della terza Repubblica, non mancano di evidenziare su RSP le dinamiche di continuità che caratterizzavano i fenomeni di trasformazione dei notabili, antichi e nuovi. Cigliano con due saggi
prosegue la sua accurata e acuta analisi di uno dei principali fattori di fragilità dell’impero
russo alla vigilia della prima guerra mondiale, la questione nazionale. La focalizzazione
del dibattito all’interno dei circoli politici e intellettuali del liberalismo e conservatorismo
russo, se è motivo di pregio degli articoli, permette anche di cogliere la dialettica decisiva,
e sovente misconosciuta, tra la novità della nuova categoria politica della nazione e la continuità di una autocoscienza russa che non rinunciava a misurarsi con il concetto antico di
impero, non senza rivelarne le capacità di declinazione secondo interpretazioni moderne,
come l’esperienza sovietica avrebbe ampiamente dimostrato. Elementi di continuità della
storia politico-istituzionale della Russia sono analizzati dall’excursus di Valle su NRS,
che esamina pratica e teoria del colpo di Stato dalla morte di Pietro il Grande all’ottobre
1917. A un aspetto di novità delle società europee in trasformazione a cavallo tra i due
secoli è dedicato, infine, il saggio di De Graaf su Zap, che analizza l’utilizzo del dispositivo
di sicurezza dell’Internazionale nera in Olanda.
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L’antisemitismo in Europa
Il n. monografico di Quest, curato da Werner Bergmann e da Ulrich Wyrwa, entrambi ricercatori del Zentrum für Antisemitismusforschung di Berlino, raccoglie ben 16
contributi sul tema The Making of Antisemitism as a Political Movement. Political History
as Cultural History (1879-1914). Al centro, secondo i curatori, si trova l’antisemitismo
politico sul continente europeo in una prospettiva comparata. Non sembra condivisibile
l’assunto dei curatori, che nell’Introduzione affermano che «la storiografia non ha ancora
chiarito quanto sia stato forte l’antisemitismo come movimento politico, quanto impatto
abbiano avuto sulla società le agitazioni politiche degli antisemiti, che tipo di sostegno
l’antisemitismo abbia avuto nei vari gruppi sociali, e fino a che punto le posizioni antisemite siano state condivise e assorbite da campi politici affini» (p. 2), dal momento che
non si tiene conto della vasta letteratura disponibile sull’affermazione dell’antisemitismo
politico tra gli ultimi decenni del XIX secolo fino allo scoppio della prima guerra mondiale (si pensi, solo per menzionare un solo esempio, alle analisi oggi disponibili del «momento antisemita» provocato dall’affare Dreyfus). Nondimeno, il n. presenta alcuni casi
di studio interessanti, segnatamente quelli relativi ai paesi dell’Europa orientale.
Tre saggi riguardano la Polonia. Buchen analizza le modalità con cui le parole d’ordine dell’antisemitismo viennese propugnato da Karl Lueger trovarono ampia diffusione
negli ambienti clericali della città di Cracovia, non solo allo scopo di agitazioni a carattere propagandistico, ma anche come strumento per il voto nelle elezioni del 1897. Weeks presta attenzione alle relazioni sempre più difficili fra polacchi e ebrei relativamente
all’Impero russo e alla crescita del nazionalismo. Al centro dell’analisi di Moszyński è
invece un foglio d’opinione, il settimanale «Rola», che divenne ben presto uno strumento
per la diffusione dell’antisemitismo politico in Polonia.
Per quanto concerne altri paesi dell’est Europa, Kulenska si occupa di Bulgaria, analizzando la mobilitazione in chiave antiebraica della stampa e della pubblicistica antisemita alla fine del XIX secolo. Il contributo di Marton si sposta poi sul piano del dibattito
politico, prendendo in esame le discussioni svolte dall’Assemblea costituente in Romania
nel biennio 1867-69 sull’articolo 7 della costituzione, che escludeva i non cristiani dai
diritti politici creando di fatto una «questione ebraica», nonché sulle misure del governo
in materia razziale. Ancora sulla Romania è l’intervento di Onac, che prende in esame
i dibattiti parlamentari sulle decisioni del Congresso di Berlino negli anni 1878-1879 a
partire dalla questione della naturalizzazione della minoranza ebraica. La discussione acquisì rapidamente un carattere antisemita, riflettendo anche il dispiegamento propagandistico in tal senso della stampa e della mobilitazione di alcuni ambienti di intellettuali
e di politici. Il caso della Russia è al centro dell’articolo di Wiese sui pogrom scoppiati
a Zhitomir nella primavera del 1905 e sulle responsabilità dell’organizzazione Centurie
nere. Gli articoli di Richter e Szabó si occupano rispettivamente di Lituania e di UngheIl mestiere di storico, V / 2, 2013
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ria. Il primo ricostruisce la diffusione degli stereotipi antisemiti, in particolare dell’ebreo
mercante e sfruttatore, negli ambienti rurali in Lituania e il modo in cui furono utilizzati
e diffusi dai movimenti delle cooperative nella rivendicazione dei diritti dei contadini.
Il secondo analizza le trasformazioni dell’antisemitismo politico intorno al 1900, che
trovarono ampia diffusione, oltre che negli ambienti ristretti degli antisemiti più fanatici,
anche fra le lobby agrarie e i nazionalisti dell’alta Ungheria, l’attuale Slovacchia.
Sull’area balcanica vi sono due contributi. Nel primo, Margaroni si sposta sul piano
delle pratiche antiebraiche, soffermandosi sull’omicidio di una ragazza ebrea a Corfù nel
1891. L’episodio fu al centro di molte voci sull’isola, che alludevano al fatto che potesse
essere stato un omicidio rituale, e provocò un’esplosione di violenza contro la minoranza
ebraica anche al di fuori dell’isola. Nel secondo, Vulesica ricostruisce la campagna elettorale del 1897 in Croazia-Slavonia, che per la prima volta assunse tratti antisemiti, con
l’utilizzo dello strumentario antiebraico da parte dei movimenti cattolici.
All’insieme dei contributi dedicati all’Europa orientale, si aggiungono tre articoli
sulla Svezia, l’Italia e la Gran Bretagna. Nel primo, Leiska analizza la partecipazione degli
ebrei nella società svedese negli ultimi tre decenni dell’800, a partire dal case study della
citta di Gothenburg. Nel secondo Wyrwa ricostruisce l’attività antiebraica promossa dagli
ambienti cattolici a Mantova intorno al 1900, segnatamente il ruolo del foglio cattolico
«Il cittadino di Mantova», e l’uso dello strumentario antiebraico dispiegato nella campagna delle elezioni locali del 1903. Nel terzo, Terwey si dedica alla disamina del discorso
antiebraico dalla seconda guerra anglo-boera alla conclusione della Grande guerra, notando come, nonostante il discorso contro gli ebrei fosse utilizzato in funzione nazionalista,
non vennero messi in discussione i loro diritti civili acquisiti con l’emancipazione. Chiude il numero di Quest il contributo di Rürup, un’interessante messa a punto a carattere
metodologico, che discute limiti, rischi e prospettive che comporta la lente dell’antisemitismo politico, preso in esame nei decenni a cavallo tra ’800 e ’900.
Infine, Dahl analizza su MI la diffusione della propaganda antiebraica in Italia nella
seconda metà del XIX secolo a partire dalla rivista dei Gesuiti «La Civiltà Cattolica»,
prestando particolare attenzione al ruolo attribuito all’antisemitismo nella formazione
dell’identità del nuovo Stato italiano, dell’idea di «nazione» costruita e percepita come
cattolica.
Oltre l’Europa
I mondi extraeuropei, tra immaginario, migrazioni, colonialismo, circolazione di
idee, esperienze, beni, suoni e suggestioni hanno occupato un discreto spazio nei saggi
dedicati al lungo ’800. Il tutto all’insegna di una marcata predilezione per un approccio
di Global History, nelle sue diverse accezioni.
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Procedendo in ordine cronologico, due interventi su QS, di Fyson e Garneau, si
concentrano sul caso del Québec francofono dopo la conquista britannica, in una fase (tra
fine ’700 e primi dell’800) particolarmente significativa per la comprensione delle mutazioni negli equilibri atlantici da un lato e americani dall’altro. In entrambi i casi, il prisma
utilizzato per rileggere processi di scontro, sovrapposizione e riadattamento è quello dei
cambiamenti negli impianti giuridici in vigore nella provincia.
Spostandoci più a Sud, due articoli cercano di dare conto della circolazione di idee e
della costruzione di miti attraverso due esperienze, una pubblica e una privata, di latinoamericanizzazione di frammenti di italianità. Su JMIS Walton, concentrandosi sulle fantasie italiane trasportate oltre-oceano dalla musica operistica, si colloca esplicitamente nel
solco degli studi di Osterhammel e Robertson, più volte evocati nel testo. Dopo gli studi
su Garibaldi in Perù e in Nicaragua, su RSR Cowie invece torna su un tema a lui caro,
l’ombra centroamericana dell’eroe dei due mondi, filtrata attraverso la prospettiva personale di un altro migrante, Edoardo Reta, testimone dell’apertura degli uffici consolari del
Regno di Sardegna nella regione.
Tre articoli di SE, in un numero monografico curato da Fabio Baggio, cercano di
cogliere nessi di lungo periodo, attraverso alcune esperienze migratorie dell’Europa latina
(italiana e spagnola) nel Sudamerica di fine secolo. Brandao, in un denso saggio sull’origine dell’imprenditoria industriale di Ribeirão Prieto, nell’entroterra di São Paulo, offre
un’interessante prospettiva storiografica. L’a. segue infatti il processo di trasformazione dei
migranti poveri provenienti da diverse regioni d’Italia, prestando attenzione allo spostamento di saperi e alle dinamiche di mobilità sociale, collegando storia industriale, urbana
e delle migrazioni. Anche Irianni cerca di comprendere il processo di trasformazione di
migranti europei in cittadini, questa volta argentini, specificamente nella regione della
pampa bonaerense. Marquiegui segue invece il tragitto, tutt’altro che lineare, di gruppi
poveri che si trasformano in «alienati» nell’Argentina di fine ’800. Le fonti, originali e
ricche, sono i libri di storia clinica della Colonia nacional de alienados, fondata dallo psichiatra argentino Domingo Cabred a Open Door, nella provincia di Buenos Aires.
Su Zap Iurlano analizza le tesi pedagogiche dell’anarchico catalano Francisco Ferrer
Guardia, debitrici di Kropotkin, Bakunin e Robin, ma al contempo originali nel definire
una razionalizzazione educativa dell’etica intorno al nesso sociale tra ingiustizia e ignoranza,
ricostruendone l’approdo oltre oceano, con la Harlem Liberal Alliance prima, la Country
School di Stelton e le tesi del primo Dewey. Infine i saggi di Pallaver e Cristofori su Storic tornano a ragionare di immaginari, identità e colonie, attraverso una serrata analisi del
rapporto tra religione e capitalismo in due esperienze missionarie. Pallaver riprende il caso
dell’entroterra tanzaniano per descriverne l’inserzione nei mercati globali, ricostruendo le
funzioni commerciali dei carovanieri musulmani tra nuove forme di produzione e dinamiche religiose e devozionali. Cristofori parte invece dai diari dei Padri bianchi per ricostruire
forme economiche, religiose e politiche della colonizzazione del Ruanda.
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Storia economica
Intrecciando storia economica e storia urbana tra ’700 e ’800, Sori si interroga su
SU sul legame tra ciclo edilizio e architettonico del neoclassicismo e congiuntura economico-sociale nelle Marche, le cui città hanno esattamente un «volto neoclassico» (p. 27).
Seguendo fonti diverse tra cui atti parlamentari, stampa coeva e documenti conservati
nell’Archivio Segreto Vaticano, Fiorentino approfondisce su CnS i risvolti economicosociali della politica ecclesiastica inaugurata a Roma dopo la Breccia di Porta Pia, cioè
la soppressione delle corporazioni religiose e gli effetti dell’azione di espropriazione per
pubblica utilità del loro patrimonio mobiliare e immobiliare. Colmando la lacuna nella
storiografia economica relativa al peso della Santa Sede nella storia del sistema finanziario
nazionale e internazionale, Pegrari sempre su CnS studia lo scandalo della Banca Romana,
intrecciando tre temi: l’affarismo politico-finanziario nella percezione dei contemporanei;
l’analisi della storia della Banca Romana ex Banca dello Stato pontificio; le trattative che
portarono alla liquidazione dell’istituto.
Come da tradizione, è la RSE a raccogliere, con quattro articoli, i contributi più
quantitativi e formalizzati relativi alla storia economica. Ciccarelli si occupa di consumo
di tabacco tra 1870 e 1913, arco temporale che registra una riduzione del consumo procapite ma un aumento della spesa pro-capite, e avanza considerazioni a sostegno dell’analisi dell’andamento dei cicli dell’economia dell’Italia postunitaria, contribuendo così al
dibattito sulla crisi degli anni ’80 dell’800. Piermattei elabora un modello econometrico
(su dati annuali 1890-2008) a verifica di un’ipotesi di partenza: nella storia dell’Italia
unita la produttività totale dei fattori (marcatamente in declino negli ultimi 20 anni) e i
ritmi della crescita dipendono dall’azione congiunta di quattro fattori determinanti: equilibrio della finanza pubblica; adeguatezza delle infrastrutture; intensità della concorrenza;
dinamismo dimensionale delle imprese. In un articolo che considera gli anni tra l’Unità
e la prima guerra mondiale, Fenoaltea prosegue nel suo laborioso lavoro critico riguardo
i dati della contabilità nazionale, producendo nuove stime che riguardano in particolare
il lato della spesa. Al Deposito di Mendicità del Dipartimento del Taro tra 1810 e 1814
è infine dedicata la ricerca di A. De Luca: l’istituzione esemplifica gli effetti della politica
napoleonica nei confronti di mendicità e marginalità, facendo convergere le modalità
dell’assistenza con l’impiego dei ricoverati su attività produttive artigianali (se non protoindustriali), in particolare quella tessile.
Sono i temi del credito, dei sistemi locali e in generale delle «alternative alla produzione di massa» i temi più ricorrenti della storia d’impresa che indaga le specificità del
capitalismo italiano. L’ultimo numero di IS ne raccoglie tre esempi. Fornasari rimette a
fuoco la polarizzazione della geografia del credito, manifestatasi a fine ’800, tra grandi
banche private e associazioni senza fine di lucro: attorno a questo secondo polo, emerge infatti, specie nell’Italia centrale, un’organizzazione del settore imperniata su casse di
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risparmio, banche popolari e casse rurali; di queste no profit studia i rapporti impieghi/
depositi. Menzani propone un’analisi economico-quantitativa in prospettiva storica della
meccanica strumentale, della quale è indiscussa l’importanza rivestita oggi nel sistema
competitivo italiano. Con l’obiettivo di arricchire la letteratura sul ruolo che delle piccole
imprese a conduzione famigliare nel modello di sviluppo domestico, Agnoletto propone
infine il caso della ditta specializzata nel commercio internazionale di materiali non-ferrosi guidata dalla famiglia Gerli per cinque generazioni a partire dal 1867 in una continuità
più che secolare nella linea proprietaria e nel controllo delle funzioni direttive.
Cultura, identità e percorsi storiografici
Nel solco della sensibilità storiografica della Global History, si registrano interessanti
contributi dedicati, come ha scritto Giuliani su Zap, a «un sapere posto in movimento su
traiettorie transnazionali» (p. 38). Ricadute e ricezioni di idee, teorie, modelli in contesti
diversi rispetto a quelli di produzione, ossia il tema della circolazione di prodotti culturali dall’Europa verso altri continenti seguendo rotte oceaniche, accomuna le riflessioni
sull’influenza delle teorie di Cesare Lombroso nell’Australia di fine ’800 (Giuliani su Zap)
e quelle sulla fortuna di Guglielmo Ferrero negli Stati Uniti di inizio ’900 (Ciglioni su
Storiog). Nel primo caso, si dà conto dell’impatto delle teorie lombrosiane su medici,
scienziati, funzionari statali nella fase di nation-building/costruzione antropologica australiana, nutrita di pregiudizi che avrebbero colpito proprio l’immigrazione dall’Italia
oltre che la comunità aborigena. Nel secondo, il tema quasi inesplorato dell’esperienza
americana di Ferrero, già collaboratore nonché genero di Lombroso, ispira un’ottima contestualizzazione del successo editoriale e del dibattito scientifico sui cinque volumi di Greatness and Decline of Rome, autentico best-seller per il grande pubblico, meno apprezzato
da una comunità accademica che stava proprio allora affrancandosi dalle scuole europee.
Due articoli sulla storiografia imperiale di John R. Seeley (Behm su Storiog e Tagliaferri
su SdS) propongono anch’essi il tema della trattazione e divulgazione di una storia che
dall’Europa si dilata in altri continenti attraverso il potente veicolo dell’idea di «Greater
Britain» negli anni ’80 dell’800, quando Seeley compì un pionieristico tentativo di mediazione tra Imperial history, scienza della politica e teologia cristiana, caratterizzata tuttavia dall’esclusione di spazi quali l’Irlanda e l’Africa. Più circoscritto lo spazio culturale al
centro dell’articolo di Luseroni su RSR, che ci riporta alla parte iniziale del lungo ’800: il
1788 in cui Buonarroti varò il «Journal Politique», un’iniziativa editoriale dalla breve vita
(di cui viene trascritto un numero rinvenuto a Faenza), ma che riuscì a inserirsi con una
certa originalità nel già saturo mercato gazzettistico della Firenze di Pietro Leopoldo.
Di taglio differente, il saggio di Venturi su MC: l’a. rilegge le pagine dedicate all’Italia
ottocentesca nella monumentale Storia dell’Europa occidentale in età moderna (1892-1917)
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le riviste del 2012
di Nicolaj Kareev e il testo sull’Italia moderna del più giovane Evgenij Tarle, ospitato nella
collana divulgativa di storia dei paesi europei promossa dallo stesso Kareev a inizio ’900. Una
rilettura della storiografia russa sul Risorgimento italiano da cui emerge il forte radicalismo
politico che permeava la cultura «ufficiale» e la vita accademica ed editoriale nella Russia del
tardo zarismo. La rilevanza della riflessione storica nel dibattito pubblico ottocentesco affiora nei saggi di Pozzi su SeS sulla parabola politica del sansimoniano Laurent de l’Ardèche e
di Palazzolo sulla Congregazione dell’Indice nell’800. Laurent fu tra quanti contribuirono
a disseminare la dottrina sansimoniana nei decenni seguenti al dissolvimento della scuola,
approdando al bonapartismo in ragione di una consolidata visione illiberale della democrazia. Palazzolo su DPRS ricostruisce l’azione censoria e riformatrice della Congregazione
dell’Indice nel quadro dei processi di secolarizzazione, rilevando un ampliamento dell’«orizzonte del proibito» (p. 60) dalla nuova storiografia ai periodici popolari e, al contempo,
un’implicita ammissione della libertà di stampa, il cui effettivo controllo venne delegato ai
vescovi. Di libri si occupa anche Antonelli su RSR, in particolare delle raccolte librarie del
Quirinale regio, di cui l’a. restituisce formazione, natura e consistenza e fra le quali risalta il
fondo d’equitazione e veterinaria, specchio delle inclinazioni culturali dei Savoia. La collaborazione di Gaetano Salvemini a «La Cultura» (1901-05) è, invece, ricostruita da Bucchi
su RSI. Pur essendo un episodio minore della sua biografia intellettuale, tale esperienza è
tuttavia interessante perché coincise con lo spostamento dei suoi interessi storiografici dalla
storia medievale a quella contemporanea.
Infine, di tutt’altro segno è il saggio di Schettini su Gen, che prosegue le sue ricerche
sulla costruzione binaria delle identità sessuate affrontando il tema della medicalizzazione
dell’ermafroditismo, dalla prassi degli interventi chirurgici «correttivi» nella seconda metà
dell’800 sino alla svolta degli anni ’50 del secolo scorso, quando proprio nel trattamento
dell’intersessualità – come ormai è chiamata – cominciarono a trovare spazio quelle dimensioni culturali, sociali e soggettive ricomprese nel concetto di «identità di genere».
La prima guerra mondiale
I pochi articoli comparsi quest’anno sulla prima guerra mondiale si inseriscono prevalentemente in filoni di ricerca attenti agli aspetti politico-culturali del conflitto. Alcuni
saggi trattano il rapporto tra pacifismo e femminismo, restituendo il clima di passioni,
esaltate dalla guerra, che animò quella generazione di intellettuali europei. Marchese su
Gen presenta un breve carteggio tra l’emancipazionista catalana Carme Karr, direttrice
della rivista «Feminal» dal 1907 al 1917, e Romain Rolland, trascinato in una polemica
interna tra intellettuali catalani sulle posizioni da assumere nei confronti della guerra europea. M.S. De Luca, che in Dep (a) inquadra in generale il pacifismo femminista tedesco
tra fine ’800 e prima guerra mondiale, in Dep (b) segue in particolare l’esperienza delle
le riviste del 2012
87
femministe tedesche Anita Augspurg e Lida Gustava Heymann, dalle speranze riposte
nel movimento pacifista internazionale delle donne, del quale esse contribuiscono alla
nascita e ai primi sviluppi, alla partecipazione all’esperimento sovietico di Monaco del
1918, alla delusione nei confronti di Wilson e Versailles. Ai sentimenti «popolari» sono
invece dedicati gli articoli di Wilcox su MI e di Baroncini su MR. Wilcox incrocia gli
studi sui soldati nella Grande guerra con le più recenti suggestioni della storiografia delle
«emozioni». Attraverso lettere e memorie (tratte da raccolte già pubblicate) dei fanti
contadini italiani, l’articolo si sofferma sulla «paura» (della morte, del dolore, delle punizioni), nascosta per evitare accuse di disfattismo, scarsa virilità o fragilità psicologica.
Baroncini analizza il linguaggio con cui la stampa locale raccontò le vicende della «settimana rossa» del giugno 1914 in Romagna, tra forme di folklore popolare, vandalismi
anticlericali, richiami ad alberi della libertà di cisalpina memoria, insinuando come i
rumors da allora tramandati si siano potuti a volte anche trasformare in storiografia. Di
diversa impostazione è, infine, il saggio di Vander su IC, in cui l’a. rilegge la battaglia
di Caporetto alla luce della novità strategica militare che questa introdusse. Secondo il
generale Giulio Douhet, fortemente critico della strategia di Cadorna, fu con Caporetto
che venne ad affermarsi la «guerra di posizione» come modalità principale che avrebbe
caratterizzato la guerra nel ’900.
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Pogroms of 1905 in Tsarist Russia, Quest, n. 3, pp. 241-266.
Wyrwa, Ulrich, Antisemitic Agitation and the Emergence of Political Catholicism in Mantua
around 1900, Quest, n. 3, pp. 227-240.
2. Tra le due guerre
a cura di Enrico Acciai, Olindo De Napoli, Andrea D’Onofrio, Steven Forti,
Eros Francescangeli, Alessio Gagliardi, Arturo Marzano, Enrico Palumbo,
Andrea Ricciardi, Adriano Roccucci, Elisa Signori
Anche quest’anno la ricerca si è sostanzialmente concentrata sui temi tradizionalmente
oggetto di studio della storiografia italiana: fascismo e anti-fascismo, nazismo, seconda
guerra mondiale. Sebbene ancora una volta sia stata privilegiata la realtà italiana, hanno
rappresentato oggetto di interesse anche la Spagna, la Russia negli anni dopo la Grande
guerra e, in misura minore, il Medio Oriente. Molti sono i contributi di storia intellettuale, sebbene anche in questo caso l’attenzione verta essenzialmente sull’Italia.
Il biennio rosso
Presentando un quadro completo della storiografia esistente sul primo dopoguerra
italiano, Natoli riflette su SS sul periodo 1917-22 a partire dall’apprezzato volume Le oriIl mestiere di storico, V / 2, 2013
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le riviste del 2012
gini della guerra civile di Fabio Fabbri, di cui mette in discussione l’utilizzo della categoria
interpretativa di «guerra civile», preferendo quella di «controrivoluzione preventiva» e di
«riorganizzazione autoritaria dello Stato e della società» (p. 236) rivolte contro il socialismo e la democrazia. Su Cont Madrignani analizza la breve vita della Regia guardia per la
pubblica sicurezza, creata da Nitti nell’ottobre del ’19 e sciolta da Mussolini nel dicembre
del ’22, il primo tentativo (fallito) nella storia dell’Italia liberale di dotarsi di un corpo di
polizia efficiente alle dipendenze del Ministero dell’interno. All’atteggiamento dei prefetti
di fronte ai moti per il caroviveri è poi dedicato l’articolo di Dentoni su RSR. Sulla base
di fonti di diversa natura e alla luce della produzione storiografica sull’argomento, seppur non aggiornata, l’a. analizza le rivolte annonarie dell’estate del ’19, in particolare in
relazione con il potere politico. Infine, Baragli esamina ancora su Cont la partecipazione
del Partito popolare alla tornata elettorale amministrativa torinese del ’20, un’esperienza
paradigmatica poiché a Torino i cattolici si schierarono con il Blocco nazionale.
L’Italia fascista e il fascismo all’estero
Il nucleo più corposo degli articoli sull’Italia fascista è quello sulla politica estera e
l’analisi del fascismo come fenomeno internazionale. Su NRS Lefebvre D’Ovidio prende
in esame l’azione di Dino Grandi – sottosegretario (1925-1929) e poi ministro (19291932) degli Esteri – nella riorganizzazione del dicastero: un’azione che non riuscì a conseguire una piena fascistizzazione del personale diplomatico. Attraverso le carte di Michael MacWhite, dal gennaio 1938 ambasciatore d’Irlanda a Roma, Sommella ricostruisce
l’andamento delle relazioni tra i due paesi alla vigilia della seconda guerra mondiale ma
anche il modo in cui, attraverso il proprio rappresentante, l’Irlanda guardò alle vicende
italiane. Su MC Basciani si sofferma sui rapporti con l’Albania dalla fine degli anni ’20 al
1939, di cui analizza non solo gli aspetti diplomatici e militari ma anche l’azione culturale condotta dall’Italia (soprattutto in campo scolastico e linguistico). La politica estera
culturale e la propaganda del fascismo all’estero sono esaminati anche da Marzano e Pane.
Grazie a un’imponente ricerca condotta in archivi italiani, francesi, inglesi, marocchini e
statunitensi, il primo ricostruisce su Cont la «guerra delle onde» che ebbe luogo tra Italia,
Francia e Gran Bretagna nella seconda metà degli anni ’30. La decisione dell’Italia di dare
vita a una stazione radiofonica per la propaganda nel mondo arabo, Radio Bari, indusse
i governi di Londra e Parigi a mettere in piedi iniziative analoghe per bilanciare i successi
dell’iniziativa fascista. Su MR Pane analizza invece le «Case d’Italia», istituite in diverse
nazioni a partire dalla fine degli anni ’20 come evoluzione del progetto dei fasci all’estero,
per coordinare le iniziative assistenziali, culturali, propagandistiche e dopolavoristiche,
soffermandosi in particolare sull’esperienza francese. Infine, confrontandosi con la storiografia internazionale, Rodrigo si interroga su Stor sulla scomparsa del caso spagnolo dagli
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studi sul fascismo in Europa. L’articolo invita da un lato a reinserire la dittatura franchista
nella storia del fascismo europeo e dall’altro a riflettere sul nesso tra affermazione dei movimenti fascisti, guerra civile e violenza.
Diversi articoli si occupano di rappresentazioni e politiche culturali. Analizzando le
raffigurazioni della Sardegna offerte dai documentari e dai cinegiornali dell’Istituto Luce,
Pisu individua su MC il passaggio, alla metà degli anni ’30, tra una rappresentazione centrata sul richiamo alla tradizione e una proiettata nella modernità, raccontata soprattutto
come risultato della missione «civilizzatrice» del fascismo nelle sue periferie. La collaborazione cinematografica tra Italia e Spagna tra fine anni ’30 e primi anni ’40 è studiata
da Monguilot Benzal, che da un lato ne delinea il quadro istituzionale e dall’altro prende
in esame i 25 film realizzati in coproduzione. Salvatori ripercorre su SS il contributo di
Giacomo Boni, archeologo di ampia fama e studioso della Roma antica, all’elaborazione
degli elementi dell’apparato simbolico e liturgico del fascismo derivanti dal culto della
romanità, a partire dall’uso del fascio littorio. Un contributo originale alla storia del colonialismo italiano è poi offerto da Troilo, che, attraverso l’analisi della creazione (nel 1914)
e del successivo sviluppo del museo archeologico di Rodi, mette a fuoco in PP il ruolo
delle istituzioni conservative e dell’uso delle testimonianze storiche del passato nella costruzione delle relazioni di dominio coloniale. Le conseguenze delle politiche scolastiche
del fascismo sono prese in esame da Martinelli e Giorda. La prima, attraverso l’analisi dei
quaderni e dei diari esposti alla Mostra della Scuola tenutasi a Pistoia nel 1929, esamina
su SeS le relazioni tra scuola e tradizioni popolari, mettendo in luce l’attenzione selettiva
tributata al folklore, che privilegiava abitudini e tradizioni più funzionali al regime. Giorda conduce invece un’indagine sui manuali di storia delle scuole secondarie dagli anni ’20
a oggi, per verificare continuità e cambiamenti nel racconto agli studenti del rapporto
tra cattolicesimo, Chiesa e costruzione dell’identità nazionale. Il tema dei rapporti tra
fascismo e Chiesa cattolica è affrontato anche da Medved, che su SS studia la figura di
Antonio Santin, vescovo di Fiume dal 1933 al 1938. Per l’a. appare poco condivisibile
l’idea, sostenuta a lungo dalla storiografia, di una responsabilità diretta di Santin nella
politica di snazionalizzazione nei confronti di croati e sloveni.
Cinque articoli si confrontano con dinamiche economiche e sociali. Cecini analizza
su DPRS l’intervento del fascismo per l’elettrificazione delle linee ferroviarie, dovuto in
buona parte alla necessità di incrementare il consumo di energia elettrica per sostenere le
imprese del settore, e ampiamente esaltato dalla propaganda. Villani delinea su IC le caratteristiche della composizione operaia impiegata nella fabbrica d’armi Breda di Roma, la
realtà industriale a più alta concentrazione operaia della città negli anni tra le due guerre.
Attraverso un’analisi accurata dei registri aziendali, offre un contributo originale allo studio di un tema, la storia industriale e operaia della capitale, largamente sottovalutato dalla
storiografia. Su Me Ermacora affronta il tema delle migrazioni interne concentrandosi sul
caso friulano. L’articolo analizza il fenomeno sia in termini aggregati sia concentrandosi
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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le riviste del 2012
su specifiche direzioni e professioni, per sottolineare alla fine la scarsa coerenza della politica fascista. Brivio presenta la storia della migrazione italiana nella colonia britannica
della Costa d’oro sottolineando come due fossero i gruppi principali: i «piemontesi»,
impiegati principalmente nei lavori edili, e i «bergamaschi», che invece lavoravano nelle
miniere. Infine, Sacchetti ci presenta su S-N uno squarcio della quotidianità lavorativa di
contadini e minatori nel Valdarno Superiore in Toscana negli anni ’20 e ’30.
L’antifascismo e il dissenso
Grazie a fonti archivistiche rivelatrici Guasco ricostruisce con finezza su CnS il dialogo
che di fronte al delitto Matteotti intercorse tra la diplomazia vaticana, Papa Ratti, «Civiltà
Cattolica», da un lato, e il Partito popolare italiano, dall’altro. Ne emerge la linea della S.
Sede volta a minimizzare le ricadute politiche della crisi, per consolidare il governo Mussolini, baluardo del caos, e scongiurare l’alleanza antifascista dei popolari con gli antagonisti
storici, i socialisti. A un contesto cronologico successivo e alla «legge sui fuorusciti» del 31
gennaio 1926 è dedicato il saggio di Serventi Longhi su MC, ove l’a. analizza con acume, nei
suoi presupposti giuridici e sviluppi concreti, l’apolidia sui generis inflitta dal fascismo agli
esuli politici e la controversia al riguardo suscitata in seno alla Società delle Nazioni. La debolezza e inefficacia di quest’ultima è messa a fuoco da Suriano per Dep. La scelta originale
di assumere l’ottica della Women’s International League for Peace and Freedom, impegnata a
promuovere sul piano politico-diplomatico, culturale e pedagogico il pacifismo e la nonviolenza, consente di ripercorrere dibattiti significativi e cogliere intrecci interessanti con
l’emigrazione antifascista e antinazista in Europa. Un taglio di approfondimento biografico
accomuna tre contributi. Nel saggio di Alano su MI l’analisi della fiaba del gallo Sebastiano,
eroe dell’anticonformismo, diventa chiave di lettura per la peculiare battaglia antifascista
dell’a., Ada Gobetti, che, con le armi della rappresentazione metaforica e dell’ironia, corrode
l’impalcatura ideologica del regime e mette alla berlina l’Italia fascista. Vittori ripercorre su
IC l’intensa attività antifascista clandestina cui diede vita Ernesto Rossi, approfondendone
il periodo bergamasco e dimostrando lo scarso coordinamento tra apparati speciali e polizia
ordinaria nella investigazione e repressione dell’antifascismo. Biocca (b) si sofferma in NSC
sull’atteggiamento tenuto dai comunisti incarcerati durante il fascismo di fronte alla possibilità di ottenere la libertà condizionale secondo quanto stabilito dall’articolo 176 del codice
penale allora in vigore, e analizza l’iter della domanda inoltrata alle autorità da Antonio
Gramsci con esito positivo e quelli di altri detenuti politici comunisti ai quali il beneficio
fu rifiutato. Infine, sempre in tema di polizia, ma con uno sguardo di lungo priodo esteso
all’Italia liberale e postfascista, Dilemmi analizza per Zap metodo e prassi della sorveglianza
poliziesca sul fenomeno anarchico, a partire da un campione di dossier intestati a «pericolosi» veronesi.
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L’Europa tra le due guerre
Dei 14 articoli di questa sezione, ben sei sono dedicati alla storia spagnola. Soffermandosi sui colpi di stato del 1923 e dell’estate 1936, Cruz offre su NRS interessanti
spunti di riflessione sul ruolo dell’esercito, dimostrando come questo fosse uno dei tanti
attori sul palcoscenico politico spagnolo, ma contribuì in maniera decisiva a diffondere la
cultura di guerra all’interno della società iberica. Su MR, Del Palacio propone un’analisi
diametralmente opposta riflettendo sulle categorie di destra e di sinistra negli anni della
Seconda repubblica. Prendendo le mosse da una comparazione a tratti forzata tra questa
e la transizione alla democrazia degli anni ’70, l’a. sostiene come sia stata l’intransigenza
delle forze pro-repubblicane a favorire la radicalizzazione della Seconda Repubblica e,
conseguentemente, ad aprire la strada ai conflitti sociali che avrebbero preceduto la guerra
civile. Sul medio/lungo periodo si muove l’analisi di Inarejos Muñoz su RSP, dedicata al
ruolo dei notabili nello scacchiere politico della Spagna liberale. L’a. dimostra come cacicchismo governativo e cacicchismo locale non agissero come rigidi compartimenti stagni,
ma come due realtà complementari. Su SpC, Rodríguez Lago analizza l’eco della rivoluzione russa nella Spagna degli anni ’20. Utilizzando fonti dell’Archivio Segreto Vaticano,
l’a. dimostra come la retorica anti-comunista che avrebbe contraddistinto il discorso delle
destre spagnole durante tutti gli anni ’30 provenisse anche dalla convinzione che la civiltà cristiana fosse in pericolo per l’esistenza stessa della Russia sovietica. Tébar Hurtado
su SpC sposta il focus in avanti sino alla conclusione del secondo conflitto mondiale,
sottolineando come il regime franchista abbia finito per proteggere numerosi criminali
di guerra, pur consegnandone alcuni agli alleati, come nel caso di Pierre Laval, il principale responsabile della politica di collaborazione della Francia di Vichy con la Germania.
Infine, sempre su SpC, Tomasoni dedica un breve e interessante saggio allo spoglio della
rivista «Igualdad», pubblicata a Valladolid nel 1932-33 per iniziativa di Onésimo Redondo, uno dei padri fondatori del nazional-sindacalismo spagnolo, e finora ignorata dalla
storiografia, inserendola nel variegato universo ideologico delle destre spagnole.
Spostandoci dalla Spagna al resto d’Europa, Rapini su Storic prende le mosse dalla
crisi economica del 1929 per analizzare la nascita del welfare state in Europa, rilevando
come il conflitto fascismo-antifascismo si sia combattuto anche sul piano dello Stato sociale. Botrugno, invece, si sofferma sulla figura di Roncalli in qualità di nunzio apostolico
in Bulgaria e, facendo ricorso a documentazione inedita, sottolinea il ruolo che questi
ebbe nel matrimonio tra l’ortodosso Boris III e la cattolica Giovanna di Savoia, nonché
nel battesimo della primogenita Maria Luisa.
Infine, cinque articoli sono dedicati alla Russia dopo la prima guerra mondiale. La
storiografia ha da qualche decennio evidenziato come la Grande guerra abbia modificato
non solo gli equilibri geopolitici, ma anche la società, la politica, la cultura e gli universi
mentali. Per le ricerche sulla Russia contemporanea, a lungo centrate sugli eventi rivoluIl mestiere di storico, V / 2, 2013
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le riviste del 2012
zionari del 1917, tali trasformazioni culturali, sociali, politiche, antropologiche rappresentano un campo di studio ancora da arare. Su questo solco si muove Dogo su PP, che
si sofferma sulla comunicazione visuale di carattere politico nella Russia rivoluzionaria e
coglie come la «lotta per il monopolio del simbolo» (p. 57) si sia consumata nell’appropriazione e reinterpretazione degli stilemi iconografici codificati negli anni del conflitto.
Si conferma la validità dell’orientamento storiografico che rileva la centralità della guerra,
quale crogiuolo del bolscevismo, del suo progetto politico, del suo habitus mentale e
della sua cultura politica, come ha rilevato Ferretti su SS ricostruendo la genealogia del
Gulag. In una società pervasa dalla violenza, in guerra senza soluzione di continuità dal
1914 al 1921 – come evidenziato riguardo al case study del governatorato di Archangel’sk
da Novikova su RSI –, non poteva trovare spazio il pacifismo radicale della Women’s
International League for Peace and Freedom analizzato da Cohen su Dep. Tuttavia dalla
cesura del 1917 non sono derivate solo linee di separazione ma anche nuove connessioni
transnazionali come quelle stabilitesi in seguito al notevole fenomeno dell’emigrazione
intellettuale russa durante il periodo sovietico, trattato da Strada in VS.
Il Medio Oriente
Scarantino su PP si sofferma sul ruolo che Lawrence d’Arabia giocò all’interno della
strategia britannica in Medio Oriente nell’immediato dopoguerra, mettendone in luce
tanto i limiti, quanto la lungimirante visione politica, «fare degli arabi il nostro primo
dominium – e non la nostra ultima colonia – di pelle bruna» (p. 72). Altri due saggi hanno
invece un taglio più prettamente culturale. Su Quest, Miccoli mette bene in luce come
nell’Egitto degli anni ’20 e ’30 gli ebrei egiziani, lungi da una contrapposizione rigida con
la popolazione araba, fossero riusciti ad allacciare con essa relazioni solide e proficue, contribuendo attivamente allo sviluppo culturale di cui beneficiò l’Egitto tra le due guerre. E
in quegli stessi anni, come ricostruisce su MC Piras, il Libano e la Siria furono testimoni
della nascita di una fiorente stampa che, nonostante una serie di ostacoli politici ed economici, diede vita – ospitandolo – a un dibattito pubblico molto intenso.
Storia intellettuale
Numerosi articoli approfondiscono figure del panorama culturale italiano e internazionale. Per quanto concerne il secondo ambito, Kay discute su Dep il rapporto tra
femminismo e pacifismo negli scritti della scozzese Chrystal Macmillan della prima parte
del ’900, che si rivelò un’appassionata sostenitrice dell’estensione del voto alle donne e
promosse campagne internazionali per la pace e per la risoluzione politica delle contro-
le riviste del 2012
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versie tra stati. Cento su RSP ricostruisce, invece, il percorso intellettuale dei cosiddetti
Southern Agrarians (in particolare J.C. Ransom e A. Tate), studiosi conservatori che promossero una cultura ruralista intrisa di populismo, e svela l’origine europea del loro bagaglio ideologico con riferimenti mitizzati al Medioevo cristiano e posizioni antiscientifiche
e antirelativistiche.
Decisamente più ampia la parte dedicata agli intellettuali italiani. In riferimento a
una collana di letteratura per l’infanzia, Rebellato indaga su SeS il difficile rapporto tra
intellettuali (nella fattispecie Vincenzo Errante e Fernando Palazzi) ed editori (soprattutto
Mondadori e Utet), annosa questione dell’intreccio tra esigenze commerciali e progetto
culturale. Biocca (a), invece, propone su NSC l’ipotesi che l’italo-tedesco Mario Passarge,
che aveva collaborato come spia per l’Italia nella prima guerra mondiale, fosse d’accordo
con le autorità fasciste nell’ospitare a casa propria il leader comunista Gramsci, con il quale ebbe eccellenti rapporti personali. Il filosofo sardo ritorna anche nel saggio di Savant su
SS, che ricostruisce il rapporto tra Gramsci e Luigi Einaudi, le cui lezioni di scienza delle
finanze era uso frequentare a Torino da studente. Nonostante l’iniziale apprezzamento, le
conseguenze della prima guerra mondiale e in primis la rivoluzione russa fecero cambiare
ottica a Gramsci, che criticò senza appello i liberali e i teorici del liberismo compreso
Einaudi, duro con il gruppo di «Ordine Nuovo».
Quattro saggi ruotano attorno al gruppo di Giustizia e Libertà. Panizza dedica un
interessante saggio su MR all’esperienza di Nicola Chiaromonte, quando, uscito da Gl
nel suo esilio parigino, tentò di ricostruire un percorso politico e intellettuale seguendo
Malraux nella guerra civile spagnola, ma ne rimase deluso quando, in contrasto con i
comunisti, ritenne che fosse in atto la «separazione della rivoluzione dalla guerra» (p.
168). Alla figura di Rosselli sono dedicati tre saggi. Sia Battini su JMIS, sia Bresciani su
SS, affrontano pur in maniera diversa il rapporto tra Rosselli e Halévy. Se il primo mette
in luce come la ricerca di giustizia sociale e di salvaguardia delle libertà politiche avesse
spinto Rosselli a guardare al movimento laburista, che aveva posto a proprio riferimento
centrale il nucleo delle riflessioni di Halévy, Bresciani si sofferma sull’amicizia tra i due
personaggi. Confrontandosi con le riflessioni di Garosci e Venturi e le più recenti considerazioni di Pertici e Battini, l’a. sottolinea come, sebbene la prospettiva del socialismo
liberale, con l’Europa in crisi, allontanasse Halévy e Rosselli, le osservazioni di Halévy
sul nesso tra tirannie e guerre li avvicinasse, come testimonia l’intensificarsi della loro
amicizia nel febbraio-aprile ’37. Pipitone, infine, ricostruisce il contesto nel quale Garosci, storico e intellettuale militante, parte integrante della parabola di Gl, concepì e
stese la prima biografia di Rosselli. Il libro, uscito in una prima edizione nel ’46 dopo la
pubblicazione di vari articoli a partire dal ’37, viene analizzato non soltanto a proposito
delle modalità della sua genesi e delle fonti utilizzate, ma anche in rapporto agli inevitabili
limiti metodologici, spiegabili con la volontà dichiarata di Garosci di fare di Rosselli un
«eroe dell’antifascismo», non solo un oggetto di ricerca scientifica.
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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le riviste del 2012
Allo storico Piero Treves è dedicato il saggio di Franco su Storiog, che si muove
tra dimensione scientifica e politico-culturale, mentre il periodo dell’esilio di Einaudi in
Svizzera è ricostruito da Munari su SS grazie all’analisi della corrispondenza con Ernesto
Rossi, anch’egli rifugiato in Svizzera e già conosciuto da Giulio, che condivise con lui
l’impegno federalista in linea con le istanze del padre Luigi. L’a. sottolinea come i due
divergessero proprio sulla «idea di Europa che avrebbe dovuto ispirare e nutrire» la federazione europea (p. 951), finché l’adesione di Einaudi al Pci lo allontanò dalle istanze
politiche di Rossi. Infine, Giordanelli spiega su NSC l’importanza dell’esperienza genovese dello scrittore e volontario di Fiume Giovanni Comisso, introdotto nell’alta società
ligure dal giornalista nazionalista Mario Maria Martini, col quale instaurò un proficuo e
complesso rapporto di amicizia.
La seconda guerra mondiale
Sette articoli, in maniera differente, si occupano degli anni della seconda guerra
mondiale, con un taglio prevalentemente di storia politica e diplomatica. Due saggi,
scritti a quattro mani da Di Rienzo e Gin, sono apparsi su NRS. Nel primo (a) gli aa.
analizzano, alla luce anche di recenti ricerche archivistiche, il significato e le implicazioni
geopolitiche del patto Hitler-Stalin del ’39: dal tentativo vero o presunto di Hitler di una
Welt-Koalition anti-occidentale a guida nazi-sovietica al ruolo svolto dall’Italia, fino alla
rottura dell’accordo e al costituirsi della controversa alleanza tra Urss, Inghilterra, Usa.
Nel secondo (b), i due aa. riflettono invece sulla possibilità di interpretare l’attentato
del 20 luglio ’44 contro Hitler, capeggiato dal generale von Stauffenberg, e la connessa
«operazione Valchiria» come iniziative a matrice nazional-bolscevica. Fattore esamina in
NSC la missione di Carlo Scorza in Libia, a partire dall’ottobre ’40, per risolvere i molti
problemi della corrispondenza di guerra italiana sul fronte africano. La missione fu un totale fallimento vista la decisione di Scorza di far tacere qualsiasi corrispondenza dei «suoi»
giornalisti sulle catastrofi italiane sul fronte libico. Le varie fasi che portarono alla dichiarazione di guerra italiana al Giappone, il 15 luglio ’45, sono analizzate da Fracchiolla in
NSC attraverso l’attività dell’ambasciatore negli Usa Alberto Tarchiani sullo sfondo del
riposizionamento italiano sul piano internazionale e alla luce delle divergenze in merito
tra il diplomatico e il governo di Roma. Infine, l’analisi di Garavaglia in NRS s’incentra
sulle esitazioni e contraddizioni della politica di neutralità svizzera nella seconda guerra
mondiale, sotto il profilo militare, politico ed economico. In seguito ai risultati della
Commissione Bergier, tra il 2001 e il 2002, sono inoltre esaminati la questione dell’accoglienza dei profughi, soprattutto ebrei, e il dibattito storiografico tuttora in corso.
Due articoli fanno invece ricorso a fonti e approcci differenti. Ferrari analizza su IC,
con l’ausilio di un ampio materiale fotografico, la mostra «Unione sovietica – Bolscevismo
le riviste del 2012
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senza maschera», allestita dalle forze di occupazione naziste a Trieste e Udine nel giugno
e luglio ’44. La testimonianza sia orale (interviste) sia memorialistica di donne inglesi impiegate nella zona di occupazione britannica in Germania è invece al centro della ricerca
di Easingwood su MR, che si chiede in che modo il disorientamento alla vista dei danni
provocati dai bombardamenti sulla Germania abbia mutato l’atteggiamento dei testimoni
inglesi nei confronti dei tedeschi.
L’occupazione nazi-fascista e la Repubblica sociale italiana
All’interno di questa sezione, due articoli si occupano dell’Italia come potenza di
occupazione dei Balcani. Con riferimento al volume collettaneo I partigiani jugoslavi nella Resistenza italiana, Colantuono ricostruisce su IC la presenza in Puglia sia di membri
dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia sia di internati militari slavi sfuggiti
alla prigionia dopo l’8 settembre. Niglia invece si occupa su NSC della vicenda dei gruppi armati albanesi e dei vari aspetti della politica italiana nei loro confronti nel periodo
dall’occupazione tra il ’39 e l’8 settembre ’43 per spiegare il successivo accerchiamento e
la caccia cui furono sottoposti i soldati italiani dopo l’armistizio.
Riguardo la presenza nazista in Italia, Rossi su NSC s’interroga sul repentino cambio di comportamento dopo l’eccidio di Marzabotto della 16ª divisione SS, famosa per
le stragi e la brutalità contro i civili, ipotizzandone la causa nel cambio ai vertici della
divisione a fine ottobre ’44. Il contributo delle forze armate italiane alla guerra di liberazione viene da Nello ricostruito in NSC con tono particolarmente enfatico e in senso
agiografico, pur con puntuali e ampi riferimenti storiografici. Rimanendo alle vicende
delle forze armate italiane, Sgueglia della Marra fornisce su NRS una nuova lettura della
cattura del Col. Cordero di Montezemolo alla luce di nuove rivelazioni che indicherebbero nel parlamentare monarchico Enzo Selvaggi l’autore della delazione che portò alla
sua cattura nel gennaio 1944 e l’importanza che essa avrebbe assunto come moneta di
scambio nella richiesta di un’amnistia da parte del Col. delle SS Herbert Kappler.
Alla Rsi sono dedicati quattro saggi. Grilli su NRS sostiene come, nel tentativo di
accreditare un ruolo autonomo del neonato Stato fascista, il Ministro della giustizia della
Rsi Pisenti abbia sostenuto un progetto di giustizia mite e legalitaria contrapponendosi
all’ala intransigente e totalitaria del fascismo repubblicano e contro le intromissioni del
pressante alleato tedesco. D’Urso segnala su IC gli scarsi risultati dei Tribunali provinciali
straordinari istituiti dalla Rsi attraverso la ricostruzione del processo al comunista Walter
Audisio e a Livio Pivano del Partito d’azione, che si risolse con una sentenza di proscioglimento. Ancora su IC Ghirardini si confronta con la vicenda della Rsi in Valtellina,
finora mai oggetto di specifiche ricerche, mettendo a fuoco le diverse anime del fascismo
repubblicano e la loro dialettica, i rapporti con l’occupante tedesco e il ruolo e la natura
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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le riviste del 2012
del movimento partigiano locale. Infine, Niglia ripercorre su DPRS in maniera schematica le vicende della questione sudtirolese, dall’annessione all’Italia all’accordo De GasperiGruber, con una particolare attenzione all’influenza politica esercitata dall’Austria e poi
soprattutto dalla Germania nazista sulla minoranza sudtirolese.
Anti-semitismo, Shoah, deportazione e stermini
Dei dieci articoli che compongono questa sezione, tre vertono sulla realtà concentrazionaria. Su IC Mira sottolinea con enfasi la scarsità di studi sui lavoratori coatti italiani
deportati in Germania dopo l’armistizio, criticando come si sia affermata una definizione
del fenomeno ristretta ai deportati nei campi di concentramento e di sterminio (p. 85).
Sempre su IC, Tenconi descrive in un breve saggio le condizioni di vita nel campo per
prigionieri di guerra di Grupignano, basandosi sulla relazione di due medici australiani.
Infine, Pisarri indaga in Dep l’opera umanitaria svolta da Diana Budisavljević (si riportano stralci del suo diario), che attraverso l’organizzazione «L’azione» salvò migliaia di
bambini serbi dal progetto di sterminio dello Stato indipendente Croato.
Al rapporto tra Chiesa ed ebrei negli anni delle persecuzioni razziali sono dedicati
due articoli. Su NSC Minerbi pone la questione, tra le più discusse nella storiografia, del
ruolo delle gerarchie vaticane e particolarmente della Segreteria di Stato nella razzia degli
ebrei romani dell’ottobre 1943, di cui fu egli stesso vittima. Secondo l’a., l’aiuto che molti ricevettero fu frutto dell’iniziativa spontanea dei religiosi, mentre le gerarchie furono
inerti mirando più che altro all’autoconservazione. Rigano analizza su CnS l’ostilità delle
gerarchie (e meno della base del clero) verso la rivista «La Difesa della razza». La chiave
di lettura è quella di un «paganesimo» razzista (p. 244), che sembrò contagiare molti
giovani cresciuti con i miti di Nietzsche e del duce. Sull’esperienza della rivista «Il Diritto
Razzista», tralasciata sinora dalla storiografia, si sofferma su CS De Napoli: l’a. mette in
luce come questa non fosse prodotta da centri di potere politico ma sia stata «frutto di
una iniziativa nata dal basso, da un esponente della cosiddetta “società civile”» (p. 112),
l’avvocato Stefano Mario Cutelli, che già dal 1934 aveva espresso apprezzamento per le
leggi razziali della Germania nazista.
Dei rapporti tra fascismo ed ebrei stranieri si occupano due saggi. Mentre Pignataro
racconta su NSC il prodigarsi delle autorità italiane nel soccorso dei profughi ebrei del
battello Pentcho appartenenti all’organizzazione sionista Betar, Saban riproduce su MC
una circolare ministeriale di Ciano, che sospendeva la revoca della cittadinanza agli ebrei
del Dodecaneso da applicarsi in forza delle leggi razziali.
Infine, nel filone dei cultural studies troviamo i saggi di Lichtner e Wagenhofer. Su
MI il primo, analizzando l’uso dei bambini come voci narranti in due noti film italiani
sulla Shoah, La vita è bella e Concorrenza sleale, sottolinea come tale uso sia volto a ras-
le riviste del 2012
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sicurare il pubblico sul buon carattere del «bravo italiano». Il secondo ospita per Quest
un’interessante analisi del dibattito (non solo storiografico) attualmente in voga in Marocco intorno alla figura del sultano Mohammed V, il «sultano tollerante» proposto come
«Giusto tra le nazioni» per essersi opposto alla politica razzista attuata sotto l’influenza
di Vichy.
Articoli citati:
Alano, Jomarie, Anti-fascism for children: Ada Gobetti’s story of Sebastiano the rooster, MI,
n. 1, pp. 69-83.
Baragli, Matteo, Il «dovere dei cattolici». Il Partito popolare e le elezioni amministrative
torinesi del 1920, Cont, n. 4, pp. 623-650.
Basciani, Alberto, Tra politica culturale e politica di potenza. Alcuni aspetti dei rapporti tra
Italia e Albania tra le due guerre mondiali, MC, n. 2, pp. 91-113.
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Piras, Mauro, La stampa politica in Libano e Siria negli anni Trenta fra sopravvivenza e
formazione dell’opinione pubblica, MC, n. 1, pp. 35-66.
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le riviste del 2012
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campi di sterminio ustascia, Dep, n. 18-19, pp. 22-45.
Pisu, Stefano, Luce in periferia: rappresentazioni della Sardegna negli audiovisivi del fascismo, MC, n. 3, pp. 5-30.
Rapini, Andrea, I «cinque giganti» e la genesi del Welfare State in Europa tra le due guerre,
Storic, n. 8.
Rebellato, Elisa, Vincenzo Errante, Fernando Palazzi e ‘La Scala d’Oro’: due letterati-editori
all’origine di una collana per ragazzi negli anni trenta, SeS, n. 135, pp. 89-119.
Rigano, Gabriele, Romanità, cattolicità e razzismo. La Santa Sede e La Difesa della razza,
CnS, n. 1, pp. 45-88.
Rodrigo, Javier, Violenza, fascismo e fascistizzazione: alcune riflessioni comparative dall’esperienza spagnola, Stor, n. 52, pp. 49-85.
Rodríguez Lago, José Ramón, ¡Salvemos los niños rusos! La Iglesia española y la campaña
pontificia en la URSS (1922-1924), SpC, n. 2, pp. 27-47.
Rossi, Andrea, Le SS dopo Marzabotto. Le vicende della 16ª divisione SS Reichsfürer [sic]
dopo le stragi dell’autunno 1944, NSC, n. 5, pp. 65-73.
Saban, Giacomo I trattati di pace della prima guerra mondiale, il problema della cittadinanza e le leggi razziali fasciste, MC, n. 3, pp. 149-159.
Sacchetti, Giorgio, Le mani, la fronte... Lavoro e quotidianità nelle miniere di lignite, S-N,
n. 10, pp. 32-47.
Salvatori, Paola S., Liturgie immaginarie: Giacomo Boni e la romanità fascista, SS, n. 2,
pp. 421-438.
Savant, Giovanna, Antonio Gramsci e Luigi Einaudi, SS, n. 3, pp. 645-669.
Scarantino, Sergio, Lawrence dopo l’Arabia, fra sionismo e nazionalismo arabo, PP, n. 87,
pp. 55-79.
Sgueglia della Marra, Sabina, Uno scambio fallito. Nuovi documenti sulla cattura di Giuseppe Cordero di Montezemolo, NRS, n. 1, pp. 255-280.
Serventi Longhi, Enrico, Gli italiani «senza patria». La denazionalizzazione degli esuli
antifascisti: ideologia del fascismo e politica internazionale (1925-1932), MC, n. 1,
pp. 5-34.
Sommella, Valentina, Pretending to be neutral. La politica estera italiana alla vigilia della
Seconda Guerra Mondiale dalle carte di Michael Mac White, NRS, n. 2, pp. 531579.
Strada, Vittorio, Dal rifiuto al dissenso: il contributo dell’emigrazione intellettuale, VS, n.
29, pp. 31-39.
Suriano, Maria Grazia, Prove di diplomazia femminista tra le due guerre mondiali, Dep, n.
18-19, pp. 199-214.
Tébar Hurtado, Javier, “Unos viejos amigos en horas difíciles”. La derrota del Eje y la persecución aliada de los fugitivos de guerra en la Barcelona de 1945, SpC, n. 2, pp. 49-64.
Tenconi, Massimiliano, Note sul campo per prigionieri di guerra n. 57 di Grupignano
(1941-43), IC, n. 266, pp. 96-102.
le riviste del 2012
107
Tomasoni, Matteo, Alcune considerazioni su “Igualdad”, il settimanale delle JON-S castigliane (1932-1933), SpC, n. 2, pp. 79-89.
Troilo, Simona, Pratiche coloniali. La tutela fra musealizzazione e monumentalizzazione
nella Rodi «italiana» (1912-1926), PP, n. 87, pp. 80-104.
Villani, Luciano, La fabbrica d’armi Breda di Roma. Composizione e mobilità operaia 19361943, IC, n. 268-269, pp. 405-435.
Vittori, Rodolfo, ‘All’assalto del Monte Bianco armato di uno stuzzicadenti’. Ernesto Rossi e
la cospirazione antifascista in Italia 1925-1930, IC, n. 268-269, pp. 359-381.
Wagenhofer, Sophie, Contested Narratives: Contemporary Debates on Mohammed V and the
Moroccan Jews under the Vichy Regime, Quest, n. 4, pp. 145-164.
3. Il post ’45
a cura di Andrea Becherucci, Emmanuel Betta, Maddalena Carli, Barbara Curli,
Massimo De Giuseppe, Andrea Di Michele, Eros Francescangeli, Domenica La
Banca, Antonio Lenzi, Arturo Marzano, Paolo Mattera, Andrea Micciché, Francesco Petrini, Paola Pizzo, Ilenia Rossini, Barbara Spadaro
Anche per quanto concerne il periodo post ’45, si conferma la prevalenza di temi concernenti la storia italiana, in particolare la transizione e la storia politica e sociale. Le vicende
italiane, nello specifico la politica estera, sono oggetto di attenzione anche della maggior
parte dei saggi di storia delle relazioni internazionali. Per quanto riguarda la storia europea, prosegue l’interesse per la Spagna, mentre rispetto all’anno passato maggiore è lo spazio dato ai temi extra-europei, in particolare l’America Latina, l’Africa e il Medio Oriente,
seppure con i limiti di un eccessivo schiacciamento sull’attualità. Numerosi, infine, gli
articoli con un taglio di storia culturale e di genere.
La transizione
Nove articoli si soffermano sugli anni della transizione dalla monarchia alla repubblica. Anche se «alcuni interventi fossero avvenuti questi non avrebbero potuto cambiare in
ogni caso l’esito della votazione» (p. 511): è questo il risultato a cui giunge il bel saggio di
Mengotto e Venturini, che – attraverso l’applicazione della legge di Benford ai risultati del
referendum istituzionale del giugno 1946 – chiude l’annosa questione sui possibili brogli.
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
108
le riviste del 2012
Su NSC Ferraris si sofferma sulla mancata epurazione a carico del personale del Consiglio
di Stato e sulla nomina dei nuovi consiglieri, scelti tra persone che si erano distinte nella
lotta o nel pensiero antifascista e antinazista. Su SU Pertot propone, invece, un bilancio
delle richieste di autorizzazione per opere edilizie eseguite dal Comune di Milano tra il
1945 e il 1947. Ne affiora una ricostruzione a due velocità, sottoposta ad altrettante forme
di controllo e caratterizzata da un ampio uso della «concessione in precario», paradigma
della Milano che sarà (p. 89). Cocchiara ricostruisce su SeS il dibattito alla Costituente
sulla disciplina dell’istituto familiare, che restò vittima della tradizione clerico-patriarcale
italiana, non riuscendo ad accogliere le innovative istanze provenienti dalle «costituenti».
Proposte che, se accettate, avrebbero consentito di rendere la disciplina della famiglia
meglio adattabile all’evoluzione dei tempi. Sul dibattito alla Costituente si sofferma anche
Salvati, che fa di questo momento la terza tappa (dopo il periodo di antifascismo liberale
radicale e gli scontri tra gli aderenti di Giustizia e Libertà in esilio e il socialismo) dell’analisi relativa al declino del repubblicanesimo durante il fascismo e del motivo che indusse i
pensatori repubblicani a cambiare il loro progetto di libertà.
Quattro articoli affrontano il periodo della transizione con un taglio di storia culturale. Mondini su Stor. invita a riconsiderare la tesi della «scomparsa di eroi» che ha dominato lo scenario culturale successivo alla seconda guerra mondiale, momento in cui si situerebbe il passaggio all’«età posteroica» (o postmilitare), dipinta dai suoi sostenitori come
una stagione di progressivo ripensamento del senso della guerra nella cultura europea (p.
98). Tre saggi si occupano invece della costruzione del topos retorico della Resistenza e
della sua mitizzazione. Cooke esamina su PP la strumentalizzazione retorica del Risorgimento tra cultura fascista e antifascista e il costituirsi del binomio «Resistenza – Secondo
Risorgimento» non solo nella retorica politica ma anche grazie al contributo culturale e
artistico, dalla toponomastica, ai mass media, in particolare nel cinema. O’Rawe su MI si
occupa del film Avanti a lui tremava tutta Roma – girato da Gallone nel ’46 con attori del
calibro di Magnani e Gobbi e incentrato su un episodio di resistenza popolare nella Roma
occupata durante una rappresentazione della Tosca – sostenendo come il coinvolgimento
emotivo del pubblico sul tema della Resistenza si sia realizzato anche grazie all’uso di un
registro melodrammatico e non solo neorealistico. Infine, Adduci ricostruisce su SS le fasi
e le forme della mitizzazione di Dante di Nanni, un giovane partigiano torinese appartenente al Gruppo di azione patriottica, ucciso nel maggio ’44.
L’Italia repubblicana. Storia politica
Degli articoli che compongono questa sezione, la metà focalizza la propria attenzione sui tre principali partiti politici del dopoguerra. Su IC Leoni tratta dell’evoluzione
della Federazione giovanile del Pci, rileggendone il travaglio nel seguire le dinamiche di
le riviste del 2012
109
cambiamento che si affacciarono nella società italiana, in particolare tra i giovani, tra la
seconda metà degli anni ’50 fin quasi alla fine dei ’60. Ne esce il ritratto di un’organizzazione che, nonostante gli sforzi, non riuscì a seguire e tanto meno a precorrere e intercettare quei bisogni emergenti. Nencioni analizza su IC quella che è ritenuta l’unica vittoria
di Lelio Basso nel periodo in cui tenne la segreteria del Psi (gennaio 1947-giugno 1948) e
cioè la confluenza della maggioranza del Partito d’azione nelle file socialiste. Sedita ripercorre sulle pagine di NSC il ruolo svolto da Giulio Andreotti e dall’Ufficio centrale per la
cinematografia. Ne emerge il quadro di un utilizzo spregiudicato delle risorse finanziarie e
della censura da parte della Dc per combattere la propria battaglia anticomunista. Infine,
su CnS Velati parte dall’analisi testuale del discorso preparato da Giovanni XXIII in occasione della visita del Presidente del Consiglio Fanfani in Vaticano l’11 aprile 1961 per poi
approfondire il rapporto politico e umano tra Roncalli e il politico aretino.
Due articoli ruotano attorno al passaggio dalla prima alla cosiddetta «seconda Repubblica». Fabbrini presenta su JMIS un contributo di taglio politologico sui mutamenti
che hanno sconvolto il quadro politico italiano in quegli anni. Secondo l’a., solo il ruolo
dell’Italia come «cerniera» tra i due blocchi permise al paese di sopravvivere per quarantacinque anni guidato da esecutivi la cui capacità di assumere decisioni era quantomeno
compromessa. Il passaggio da una democrazia del consenso a una democrazia competitiva
si è realizzato compiutamente solo con le elezioni del 1994. Santucci su MC prende, invece, in esame la stampa quotidiana nel periodo di gestazione di Forza Italia, mettendo in
evidenza il modo in cui i giornali trattarono i maggiori temi d’interesse emersi nel corso
della campagna elettorale della primavera 1994.
Tre articoli allargano la prospettiva, affrontando la storia politica dell’Italia repubblicana con un taglio più ampio o comparatistico. Vesperini su CS riprende, sotto un profilo
essenzialmente giuridico, il tema della potestà legislativa delle regioni e i suoi progressivi
cambiamenti, mentre Ridolfi passa in rassegna su MR i fattori che hanno contribuito a
definire le identità partitiche e le appartenenze culturali tra destra e sinistra nell’Italia repubblicana. Infine, Cheles si occupa su MR della comunicazione dei movimenti di destra
in Francia e Italia, rilevando la tendenza di questi movimenti a imitare le forme comunicative dei più famosi e accreditati partiti di sinistra, col principale scopo di legittimarsi
agli occhi dell’opinione pubblica mediante un’iconografia già nota e riconosciuta.
L’Italia repubblicana: storia economica e sociale
In un lungo saggio su SS, Barucci ripercorre in sintesi la politica economica della Dc
dal 1945 al 1992, sottolineando in particolare la differenza di impostazione – e quindi di
risultati – fra il governo Fanfani e i governi Moro: mentre il primo riuscì a raggiungere
obiettivi concreti, i secondi miravano a risultati di più ampio respiro, forse troppo ambiIl mestiere di storico, V / 2, 2013
110
le riviste del 2012
ziosi. Rimanendo nell’ambito della politica economica, Scatamacchia su Cont si occupa
dei tentativi di introdurre in Italia un sistema di vigilanza pubblica sulle banche nel lungo
periodo (dal 1894 al 1974). Il saggio illustra la tensione tra i propositi di intervento della
Banca d’Italia e le resistenze delle banche private, con uno Stato che, pur di proteggere i
risparmiatori, ha adottato talvolta regole molto severe, correndo anche il rischio di comprimere la libertà imprenditoriale delle banche private. Entrambi i contributi mettono
in luce come individuare i limiti nelle politiche economiche non debba far dimenticare
i meriti di lungo periodo di scelte che hanno trasformato l’Italia da paese agricolo a economia industriale.
Proprio alla situazione dell’Italia prima del miracolo economico sono dedicati tre
saggi, sebbene molto diversi nell’impostazione. Usando come fonte privilegiata le Relazioni della Banca d’Italia, Strangio traccia su RSE un quadro delle difficoltà di approvvigionamento di grano nel secondo dopoguerra, soffermandosi particolarmente sugli aspetti
finanziari dell’intervento pubblico in materia. Baglioni presenta su SU la situazione della
Val Trompia negli anni ’40, caratterizzata da uno stile di vita estremamente frugale, una
morale molto tradizionale, e un valore dominante, che univa tutti i gruppi sociali, il senso
e l’orgoglio del lavoro che sarebbe stato alla base del successivo decollo economico. Infine,
A. Zanini si sofferma su SeS su un tema poco affrontato dalla storiografia, la ricettività
alberghiera. Con un approccio di lungo periodo, l’a. concentra la propria attenzione sugli
sforzi dell’associazione degli imprenditori alberghieri per creare corsi di formazione sebbene alla vigilia del miracolo economico la situazione risultasse ancora insoddisfacente,
confermando anche in questo campo il quadro di arretratezza dell’economia italiana.
Quando poi il decollo industriale arrivò, grande fu la meraviglia di molti osservatori
(non a caso il termine «miracolo»). A questa meraviglia, segnatamente negli Stati Uniti, è
dedicato il saggio di Ciglioni su MC. Con una documentazione molto varia, dai rapporti
del Dipartimento di Stato ai quotidiani, l’a. presenta sia le ragioni della crescita economica italiana nelle analisi degli osservatori statunitensi, sia i (molti) pregiudizi e le (poche)
speranze dell’opinione pubblica su un alleato cruciale nella Guerra fredda. Alle vittime del
miracolo economico – operai e migranti interni – sono dedicati due saggi. Margotti su
Cont si concentra sul rapporto tra mondo cattolico e «questione operaia», sottolineando
come, di fronte alla paura che la crescita della classe operaia potesse favorire il Pci, le organizzazioni cattoliche svilupparono molte iniziative dirette ai lavoratori, fornendo un’ulteriore base di consensi alla Dc. Focalizzando l’attenzione sulla città di Torino, Di Giacomo
su MR analizza le politiche dei sindacati cattolici, Cisl e Acli, nei confronti dell’immigrazione; accomunate dall’intento di favorire l’integrazione degli immigrati, tradizioni
ideologiche differenti svilupparono crescenti affinità che costituirono la base dell’unità
sindacale degli anni ’70. Invece, passando all’analisi del modo in cui i torinesi reagirono
all’arrivo dei migranti, Capussotti sceglie su Zap un angolo di visuale particolare, un movimento autonomista ante-litteram, il Marp. Studiando le rappresentazioni che a Torino
le riviste del 2012
111
si svilupparono sugli immigrati e, per contrasto, sui piemontesi stessi – raffigurati come
vittime del sistema nazionale perché privati dei propri averi, mentre l’autonomia avrebbe
permesso di trattenere il gettito fiscale nei confini regionali – l’a. mette in luce come la
Lega Nord non sia emersa delle macerie della «prima Repubblica», ma sia «il prodotto di
tensioni e identificazioni con lo spazio regionale che carsicamente riemergono» (p. 44).
Gli studi sui flussi migratori si confermano uno dei filoni più ricchi della storiografia
italiana degli ultimi anni. Su SE Sanfilippo compie un’analisi di lungo periodo sulla reazione dei francesi alle periodiche immigrazioni di italiani, mentre Campanini, sempre su
SE, esamina le lettere inviate nel 1947 da un emigrato in Argentina alla moglie, offrendo
così un affresco della vita quotidiana dell’epoca. Tre sono i saggi sulla più recente immigrazione in Italia dall’estero. Colucci su Zap individua nella recente crescita dell’immigrazione straniera in Italia la causa principale del recente revival di studi sull’emigrazione,
sottolineando però i rischi di appiattimento della ricerca storica sulle sensibilità provenienti dall’attualità. Diverse le prospettive scelte da Angeletti e Mosca. Il primo, ancora
su SE, si occupa del campo profughi di Latina, dove dal 1957 al 1989 transitarono verso
altre destinazioni immigrati soprattutto dall’Est Europa. Il secondo riflette su Zap sulla
«costruzione di una vera e propria Castelvolturno africana» (p. 86), sottolineando come
tale case study sia utile a comprendere il modo in cui italiani e stranieri percepiscono e
definiscono se stessi rispetto agli altri e organizzano lo spazio fisico e sociale.
A chiudere questa parte della rassegna due articoli che, pur rimanendo nell’ambito
della storia sociale, hanno un contenuto differente da quelli finora esposti. Marmo propone su Me un’analisi di lungo periodo sulla dimensione sociale e politica della criminalità
organizzata, imperniata soprattutto sugli aspetti organizzativi. Michelutti, invece, tratta
su IC delle servitù militari in Friuli, indagandone soprattutto le ripercussioni sulla popolazione civile.
Politica estera italiana e storia delle relazioni internazionali
I nove saggi presi in esame in questa sezione spaziano dalla seconda guerra mondiale agli anni ’70. Sei sono dedicati alla politica estera italiana. Fonzi analizza su IC il
ridefinirsi dei rapporti tra Italia e Grecia tra ’43 e ’48 alla luce delle parallele politiche
di ricostruzione di un’identità nazionale, del ri-orientameto delle relazioni internazionali dei due paesi, dell’immagine molto negativa degli italiani in Grecia nell’immediato
dopoguerra e della questione della punizione dei crimini di guerra italiani contro i greci. Berardi si occupa del dibattito interno al Partito repubblicano riguardo alle colonie
nell’immediato secondo dopoguerra, documentando le divisioni tra chi era a favore della
continuazione dell’esperienza oltremare sotto forma di mandato Onu e chi invece voleva
una rottura netta col passato. Dal saggio di Campus su La Pira e la crisi di Cuba emerge
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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le riviste del 2012
l’attivismo «telegrafico» del sindaco di Firenze: un’azione sostanzialmente ininfluente, una
testimonianza a favore della pace, ma anche un catalizzatore di ostilità e malumori interni
alla Dc sul difficile passaggio politico del centro-sinistra. Basandosi essenzialmente sulle
carte Moro e l’Archivio del Mae, Soave illustra la politica del doppio binario adottata
dalle autorità italiane nei confronti della Grecia dopo il colpo di Stato del 1967: in Europa, isolamento della giunta in nome della difesa della democrazia; in ambito atlantico,
tolleranza della presenza greca nelle strutture Nato in nome della sicurezza. Infine, due
saggi sono dedicati ai rapporti bilaterali tra Italia e Germania occidentale. Sulla base di
una ricca documentazione primaria, ancorché esclusivamente italiana, Triola ripercorre
su MC i rapporti economici e politici tra i due paesi negli anni 1945-50, mettendo in
risalto il precoce atteggiamento filotedesco dei vertici politici italiani, ben consci dell’importanza della rinascita tedesca per l’economia e la posizione geopolitica della penisola.
Zilio, invece, utilizzando fonti primarie sia italiane sia tedesche, si dedica ai primi anni
’70. Superando i cliché, dominanti soprattutto la storiografia straniera, riguardo alla passività della politica estera italiana, l’a. mostra come il sostegno italiano alla Ostpolitik,
temperato da preoccupazioni circa un possibile indebolimento dell’alleanza occidentale,
derivasse da un’attenta valutazione degli interessi del paese e non fosse semplicemente
imposto dalle circostanze.
Nel campo della storia delle relazioni internazionali, rimanendo sul cruciale passaggio dei primi anni ’70 Guasconi analizza su MC i tentativi di cooperazione politica tra
la Cee e la Lega araba scaturiti dalla crisi energetica. Basandosi su una ricerca archivistica
plurinazionale, l’a. inscrive il dialogo euro-arabo entro quell’effervescenza politica che
caratterizzò l’Europa comunitaria in questo periodo, in concomitanza con l’indebolirsi
dell’egemonia statunitense e l’ascesa del Terzo Mondo, per concludere che, nonostante gli
scarsi risultati concreti, esso rappresentò un’utile «palestra» per la cooperazione politica
comunitaria. Su Cont Petrini si occupa della crisi petrolifera in quegli stessi anni, analizzando, sulla base di archivi aziendali e governativi, la dialettica tra paesi produttori e
grandi multinazionali. La tesi di fondo è che le compagnie riuscirono a cavalcare l’onda,
scaricando sui consumatori i maggiori costi derivanti dalla richiesta da parte dei produttori di una fetta più grande della torta petrolifera. Lorenzini, infine, offre su Stor un’utile sintesi del dibattito storiografico sull’intreccio tra Guerra fredda e sviluppo, nonché
un’efficace rassegna dei diversi significati che i concetti di «sviluppo» e «modernizzazione»
hanno assunto nel corso del XX secolo.
Gli anni ’70
Le proteste di fine anni ’60 chiesero l’applicazione dei diritti sociali al lavoro e
all’istruzione. De Cristofaro descrive su S-N come le proteste dei comitati di base unitari
le riviste del 2012
113
autorganizzati imposero alle istituzioni riforme nelle relazioni industriali che, come lo
Statuto dei lavoratori, provarono a modificare i rapporti tra capitale e lavoro. Malavasi
analizza per Zap l’esperienza fiorentina di «Scuola e quartiere», attraverso cui comunisti
e cattolici organizzarono doposcuola e scuole popolari che garantivano sia la conoscenza
dei programmi scolastici, sia una formazione politica e sociale, sia lo sviluppo di forme
di cultura dal basso.
Lussana, sviluppando un capitolo del suo volume Il movimento femminista in Italia,
affronta su SS la questione del difficile rapporto tra femminismo e orientamenti sindacali
negli anni ’70, giungendo all’amara conclusione che, di fatto, il sindacato fu insensibile
verso le aspettative delle donne e non solo. Su MI Clifford sposta invece il baricentro
dell’analisi sulle emozioni, indagando attraverso interviste a 50 ex militanti la sfera emotiva e i discorsi di genere in relazione a ribellione, violenza e liberazione nel ’68 italiano. Purtroppo, l’essenzialità della bibliografia e l’uso acritico di talune categorie indeboliscono il
risultato di una ricerca che si presenta foriera di sviluppi, data l’importanza dell’emotività
nelle testimonianze orali.
Francescangeli propone su Zap una riflessione sulla labile categoria di «violenza
politica» in merito all’attività della sinistra rivoluzionaria negli anni ’70, fornendo una
cronologia (il 1974 come cesura), una geografia (principalmente urbana) e una mappa
politica (riconducibile prevalentemente all’operaismo). Attraverso l’analisi delle evoluzioni del linguaggio dei comunicati prodotti dalle Brigate rosse, Re propone su NSC una
lunga disamina del percorso del gruppo armato. Nel far questo, tuttavia, non si confronta
con la storiografia sull’argomento e non tralascia giudizi di merito sulle azioni delle Br.
Ricostruendo i lavori pionieristici pubblicati sulla lotta armata in Italia da Della Porta
nella metà degli anni ’80, Ceci sottolinea su Storiog come l’utilizzo di strumenti della
ricerca sociale fece emergere i percorsi dei protagonisti della lotta armata analizzandone
la complessità, così da giungere a una maggiore comprensione di un fenomeno fino ad
allora poco studiato. Infine, ragionando sulla morte di Francesco Lorusso avvenuta nel
marzo 1977 a Bologna, Hajek vuole far emergere su MI quanto sia difficile costruire una
memoria condivisa fino al punto di rendere le commemorazioni annuali oggetto di scontro ideologico e finanche fisico.
L’Europa
Dei dodici contributi che compongono la presente sezione, cinque sono dedicati
alla Francia. Il saggio di Ostenc su NSC, privo di note e riferimenti alle fonti utilizzate,
riassume le vicende dell’eterogenea maggioranza parlamentare denominata «Terza forza»,
composta da socialisti e democristiani e al governo in Francia dal novembre 1947 al luglio
1952, evidenziando i successi sul fronte economico, ma anche i limiti nella promozione
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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le riviste del 2012
di riforme istituzionali e in materia di decolonizzazione. Della politica francese in campo
coloniale tratta il lavoro di Soutou su NSC, che ricostruisce nel dettaglio le differenti
valutazioni espresse dalle cariche politiche e militari circa l’esito dell’operazione militare
contro l’Egitto nel ’56, per alcuni un totale fallimento, per altri un parziale successo
capace di arrestare l’avanzata sovietica in Medio Oriente. Di Ciommo Laurora su DPSR
traccia un’analisi di lungo periodo della pratica dell’asilo concesso dalla Francia ad attivisti
e terroristi politici italiani, sottolineando la continuità tra accoglienza degli esuli antifascisti e la cosiddetta «dottrina Mitterand» inaugurata nel 1985. Ancora più prossima alla
stretta attualità è l’analisi condotta da Dieci su SU riguardo alla politica pubblica francese
d’intervento su quartieri popolari definiti «da risanare» al fine di ridurre le disuguaglianze
territoriali. Infine, Moisset affronta su CnS il tema, assai poco frequentato dalla storiografia, dello stato delle finanze delle diocesi francesi nel corso del XX secolo. La ricerca
mette in luce le crescenti difficoltà finanziarie delle diocesi specie a partire dagli anni ’60,
ma anche la necessità di proseguire con le indagini a partire da fonti nuove non ancora
consultate.
Al rapporto tra Chiesa, Stato e finanza si dedica anche Hausberger, sempre su CnS,
che traccia un excursus storico delle modalità con cui in Germania, e soprattutto in Baviera, si è proceduto con la pratica dei contributi statali alla Chiesa dalla secolarizzazione
del 1803 ad oggi.
Tre saggi su MR sono dedicati alla correlazione tra le famiglie politico-culturali di
destra e sinistra nello spazio politico europeo e puntano a ricostruire le modalità attraverso cui è mutato il significato di tale dicotomia politica attraverso diversi casi nazionali.
Cruciani e Piermattei leggono le vicende delle due grandi culture politiche attraverso la
lente del processo di integrazione europea, che le ha costrette a un parziale superamento
della forma organizzativa a livello nazionale. Marantzidis e Rori mostrano come in Grecia
si sia strutturato il sistema dei partiti attorno alla dicotomia destra/sinistra, entrato oggi
in crisi a seguito delle misure di austerità imposte al paese che vede favorevoli e contrari
disporsi lungo nuove linee di demarcazione dello spazio politico. Nella Croazia indagata
da Costantini, dopo la dissoluzione della Jugoslavia e l’inserimento di Zagabria nel processo d’integrazione europea, si è imposto un modello politico di matrice simile a quello
dell’Europa occidentale, al cui interno la divisione destra/sinistra ha acquistato maggiore
importanza.
Anche Fonzi su RSP affronta il tema dell’unificazione europea, ponendosi da un’interessante prospettiva economico-istituzionale capace di evidenziare inaspettati elementi
di continuità tra il progetto d’integrazione economica europea immaginato dal nazionalsocialismo per l’Europa conquistata e l’Unione europea dei pagamenti che gli stati
dell’Oece costituirono nel 1950. Il saggio di Grancelli su VS riprende la più recente
e significativa letteratura storico-politologica che ha indagato le modalità del passaggio
in Russia dalla dittatura sovietica a una nuova forma di autoritarismo, con particolare
le riviste del 2012
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attenzione ai comportamenti degli attori economici e alla permanenza della centralità
economica e socio-istituzionale dello Stato. Schemmer su S-N, infine, analizza il processo
di trasformazione del porto di Amburgo sulla base delle narrazioni di due generazioni di
operai portuali.
La Spagna
La Transizione spagnola è stata oggetto in questi ultimi anni di numerosi studi, contribuendo a darne un’immagine meno edulcorata e più problematica. Tra questi, si segnalano anche i lavori di alcuni giovani studiosi italiani. Sui sette articoli che compongono
questa rassegna, quattro sono dedicati proprio alla Transizione spagnola. Quaggio su SpC
si concentra sul rimpatrio in Spagna dell’intellettuale anti-franchista Francisco Ayala e
sul ruolo da questi giocato nel processo di socializzazione dei valori democratici, avviatosi nella società spagnola degli anni ’60. Anche i due articoli di Treglia ruotano attorno
alla transizione, presentata come un processo di più lungo periodo. Su VS, l’a. descrive
l’evoluzione politica del Pce a partire dagli anni ’50 e ne accredita un’immagine meno
vincolata a Mosca, progressivamente più moderata e democratica. Su RSP lo stesso Treglia
riprende la cronologia e il tema di fondo del primo articolo, ma analizzando il rapporto
tra Pce e le Comisiones Obreras, l’organizzazione sindacale controllata dai comunisti. Di
movimento operaio si occupa anche Tappi in un interessante articolo pubblicato su SpC,
soffermandosi sull’insediamento catalano dell’Olivetti.
Miccichè propone su SpC una riflessione sull’importanza dei flussi migratori del
dopoguerra per la ridefinizione in senso democratico e inclusivo dell’identità nazionalista
basca. Di diverso tenore è il lavoro pubblicato sempre su SpC da Vilanova, che analizza la
visione franchista della politica italiana del dopoguerra, intrepretata alla luce dell’anticomunismo e delle analogie con il recente passato repubblicano spagnolo. Infine, Caruana,
Larrinaga e Matés propongono su IS un interessante contributo di storia economica sul
ruolo delle piccole e medie imprese all’interno del miracolo economico spagnolo.
Storia extra-europea
Se i saggi dedicati ai paesi extraeuropei nel lungo ’800 sono articolati nell’uso di
fonti e categorie storiografiche, non altrettanto si può dire di quelli relativi al post ’45.
Una parte dei contributi si muovono, infatti, al limite di quella storia immediata che
ha conosciuto un nuovo sussulto nel corso dell’ultimo decennio. Emblematico risulta
il fitto dossier di VS intitolato L’America latina dopo la guerra fredda (1989-2009). Se la
ricerca di transizioni offre alcuni spunti di rilievo, va rilevato che a tratti la dimensione
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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le riviste del 2012
storica sconfina eccessivamente nell’analisi geopolitica. Uno degli articoli più attenti alle
cesure storiografiche è quello introduttivo di Gajardo Soto che parte dalla rilettura della
decada perdida degli anni ’80 per cercare di individuare elementi di rottura e continuità
con l’immediato post-guerra fredda nella sua accezione latinoamericana. Nocera indaga
la ridefinizione delle relazioni tra Stati Uniti e paesi latinoamericani da G. Bush a Obama, cercando di evidenziare specificità e continuità e ridimensionando il peso della fine
dello scontro bipolare. Resta però forse troppo sullo sfondo l’articolazione profonda ed
extra-statuale (dalla criminalità alle reti finanziarie e commerciali) di quei rapporti in
evoluzione. Mentre Cintra si concentra sul Brasile del boom economico, cercando di
razionalizzarne il mito e analizzarne le contraddizioni, Armenti rilegge la genesi del Venezuela chavista, partendo dalla crisi dei partiti tradizionali, per approdare all’avvento del
socialismo bolivariano. Re e Azcona seguono poi le evoluzioni dei tupamaros uruguagi,
tratteggiando una periodizzazione: la stagione della guerriglia (1966-1973), quella della
diaspora (1973-1985), della rinascita (1985-2010) e del governo, dall’elezione a presidente di José «Pepe» Mújica nel marzo del 2010. Il saggio che più creativamente si muove su
un orizzonte di lungo periodo è probabilmente il lavoro di Zanatta su Cuba. Il fenomeno
castrista e della rivoluzione viene smontato e riletto all’insegna di due categorie: quella di
populismo e di nazionalismo. Di notevole interesse è in particolare il rimando a un precedente poco considerato dalla storiografia europea (marxista e non), il Messico cardenista,
in cui un modello autoritario si fondava sul perno della coesione sociale e lo Stato, pur
non abdicando all’equilibro tra capitale e lavoro, cercava la sua cifra in una dimensione
nazionalista e pedagogica. Tempi e forme diverse dall’esperienza della rivoluzione cubana
ma utili a mutare prospettiva e a rompere alcuni schemi forse precocemente invecchiati.
Anche alcuni dei saggi dedicati all’Africa sembrano caratterizzati da uno schiacciamento sulla storia immediata. Tre di questi, pubblicati su Storic, vertono sull’Africa
orientale e in particolare su Eritrea, Somalia e Somaliland. Basandosi su fonti d’archivio
e secondarie, e sulla scia degli studi sul rapporto tra salute e politica coloniale, Bruzzi
ricostruisce le vicende della tomba dello sheykh Hāshim Mirghanī, in Eritrea, divenuta meta di pellegrinaggio ma anche centro di assistenza medica e sociale. A partire da
un’analisi sul campo, Saggiomo verifica il noto schema secondo cui le Ong islamiche
abbiano favorito la nascita di un sistema di welfare nei paesi in via di sviluppo. Nel caso
somalo, tali Ong islamiche sono cresciute a partire dal 1979 a causa delle crisi umanitarie
nell’area e in concomitanza con il successo della Rivoluzione islamica iraniana. Zizzola si
sofferma, invece, sulla situazione economica, politica e sociale del Somaliland, mostrando
come negli ultimi anni l’intervento di finanziamenti stranieri, grazie alla presenza di attori
non istituzionali che hanno garantito sostegno e protezione, abbia portato a un notevole
sviluppo economico. Infine, il Sud Africa è oggetto di due contributi. Denis presenta su
CnS un lavoro sulle Chiese indipendenti, mostrando l’abilità nell’autofinanziamento dei
responsabili missionari, all’interno di una visione di un benessere spirituale che si deve
le riviste del 2012
117
accordare con quello materiale. Partendo da una ricerca sul campo, Pellizzoli su Cont
presenta le politiche di riforma agraria nel Sud Africa post apartheid, volte alla riduzione
della povertà e allo sviluppo economico, con un’agricoltura che tende a diventare commerciale e non solo di sussistenza. Analizzando modalità e conseguenze nei rapporti tra
contadini e autorità locali, l’a. sottolinea il rischio che tali progetti producano ulteriore
emarginazione.
In modo diverso, due saggi riguardano gli Stati Uniti. Romani su RSE analizza il
modo in cui gli economisti hanno letto e interpretato il comportamento dei consumatori
americani nel corso degli anni ’70, caratterizzati da alti tassi di inflazione e disoccupazione, finalizzato a mantenere gli standard di vita cui erano abituati. Su Cont Godet
pubblica un saggio molto approfondito sulla figura di Irving Kristol, che a partire dagli
anni ’70 fu protagonista della diffusione di idee conservatrici all’interno del Partito repubblicano tanto da diventare un vero e proprio «padrino» della destra americana. L’a.
sostiene come il suo «neo-conservatorismo» sia stato «troppo reazionario per meritare il
prefisso di “neo” e troppo contraddittorio e nebuloso per essere considerato una “sintesi”
efficace» (p. 44) della visione «neo-con» che avrebbe caratterizzato la presidenza americana di G.W. Bush.
Infine, su Dep Bristot presenta il dibattito relativo alla prostituzione in Cina, sottolineando come anche a livello lessicale sia ancora piuttosto diffusa la visione per cui
le prostitute sono persone corrotte e deviate, come il termine «donne traviate» (p. 72),
diffusamente utilizzato, lascia intendere.
Il Medio Oriente
Rispetto agli scorsi anni, si segnala un aumento della produzione relativa al Medio
Oriente che – complice, forse, l’attualità politica – è oggetto di ben nove articoli. Due di
questi, sulla Siria, sono apparsi su Dep. Neidhardt presenta una ben documentata ricerca
sul campo effettuata tra Siria e Iraq, analizzando le condizioni di vita dei migranti iracheni
a Damasco, con particolare attenzione alla condizione femminile (che ne rappresenta il
50%) e all’appartenenza confessionale. In un lavoro di taglio socio-antropologico, Ferreri
prende invece in esame, nella sua componente femminile, la seconda comunità di migranti presente in Siria, quella somala, sottolineando come nella diaspora si formi un senso di identità legato a fattori culturali, come la lingua, ma resti centrale il ruolo dell’islam
nel forgiare il senso di appartenenza di questa comunità.
Due lavori concernono il Libano. Nel primo, Di Peri su Me si concentra sulla dimensione
locale dell’amministrazione, sottolineando come sin dal 1943 si sia preferito un modello
di governo accentrato e come proprio il livello locale rappresenti invece un laboratorio da
cui partire per la nuova costruzione dello Stato libanese, dal momento che è a livello loIl mestiere di storico, V / 2, 2013
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le riviste del 2012
cale che emerge il risveglio del tessuto associativo e della società civile. Basandosi su fonti
d’archivio recentemente declassificate, Tondo su NSC si sofferma sul ruolo che Kissinger
e, più in generale, l’amministrazione Nixon ebbero nella stipulazione degli accordi firmati al Cairo nel 1969 tra Libano e Olp, rivedendo l’idea che gli Usa fossero scarsamente
interessati al Libano, la cui salvezza era invece ritenuta molto importante per contenere
l’influenza sovietica nell’area.
Alla politica statunitense in Medio Oriente è dedicato anche il lavoro di Pagliarulo
che su MC presenta una lettura critica della letteratura sulle due guerre del Golfo, concentrandosi sull’interrogativo maggiore su cui hanno riflettuto gli a. presi in esame, se cioè
i conflitti del 1990-91 e del 2002-03 siano da considerarsi un capitolo della stessa storia
o seguano percorsi e motivazioni diverse.
Sulla Palestina segnaliamo tre contributi che partono da approcci diversi. P. Zanini
analizza su MC la vicenda della Milizia di volontari cattolici che si tentò di organizzare e
inviare in Terra Santa nell’estate del 1948. L’episodio contribuisce a far luce sull’atteggiamento del mondo cattolico italiano verso la nascita dello Stato di Israele, all’interno del
quale convivevano sensibilità diverse. Salemi su SS propone una rilettura in chiave gramsciana delle dinamiche interne al movimento nazionale palestinese, a partire da Edward
Said che inaugurò gli studi post-coloniali secondo le categorie interpretative del pensatore
sardo. Esu, infine, sottolinea su Quest come in Israele/Palestina «spazio e memoria siano
intrinsecamente legati» (p. 128) mettendo in luce i meccanismi attraverso i quali israeliani
e palestinesi hanno elaborato narrazioni alternative e interconnesse della stessa terra.
Conclude questa parte della rassegna lo studio teorico di Vezzadini su Storic, in cui
l’a. propone una rassegna storiografica sulla relazione tra islam, capitalismo e modernità e
si interroga sull’impatto di studiosi come Weber, Gellner ed Eisenstadt sulla comprensione della storia del Medio Oriente.
Gli «ebrei arabi»
Alle vicende degli «ebrei arabi», per utilizzare la definizione di Ella Shohat e Yehouda
Shenhav, vale a dire gli ebrei fuggiti o espulsi dai paesi arabi in seguito alla nascita dello
Stato di Israele nel 1948 sono dedicati sei saggi, pubblicati nel numero monografico
di Quest curato da Rossetto e Trevisan Semi, dal titolo Memory and Forgetting among
Jews from the Arab-Muslim Countries. Contested Narratives of a Shared Past. Tre articoli
si soffermano sulle vicende degli ebrei emigrati in Israele. Attraverso l’analisi di alcuni
romanzi, Rossetto si focalizza sul non facile arrivo di circa 800.000 ebrei, la stragrande
maggior parte dei quali soggiornò nei vari campi profughi (ma‘abarot) creati sul territorio
del neonato Stato ebraico. Moreno si occupa dell’associazione Mabat, che raccoglie gli
ebrei emigrati da Tangeri, con l’obiettivo di valorizzare il loro specifico patrimonio storico
le riviste del 2012
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e culturale, su tutti il dialetto giudeo-spagnolo Hakitia. Trevisan Semi, infine, sottolinea
come alla nostalgia con cui la maggior parte degli ebrei marocchini immigrati in Israele
ricorda la propria vita in Marocco prima della partenza corrisponda solo in minima parte
un atteggiamento simile da parte degli arabi rimasti nel paese nord-africano riguardo allo
stesso passato di coesistenza pacifica. Nella gran parte della popolazione araba marocchina, infatti, non c’è traccia di tale nostalgia e a questa si sostituisce, per usare le parole di
Aomar Boum, «un silenzio storiografico post-coloniale» sulla centenaria presenza ebraica
in Marocco (p. 56).
Gli altri tre saggi si concentrano sulla costruzione della memoria individuale e collettiva degli ebrei arabi emigrati in altri paesi, principalmente Francia e Canada. Cohen-Fournier mette in luce come, in una narrazione dominata dalla memoria degli ebrei
ashkenaziti sopravvissuti alla Shoah, la memoria degli ebrei originari di Iraq, Algeria ed
Egitto caratterizzata da paura, rabbia e insoddisfazione sia stata a lungo rimossa. Cohen
e Messika, che si concentrano sugli ebrei di origine marocchina residenti a Montreal e a
Parigi, sottolineano come una variabile imprescindibile nella costruzione della memoria
individuale sia l’età al momento della partenza. Gilzmer, invece, sceglie di soffermarsi
sulle vicende di due donne, la scrittrice Eliette Abécassis e la regista Michka Saäl, emigrate rispettivamente in Francia e in Quebec, per dimostrare come il passato venga da loro
utilizzato per una «(de)-costruzione della propria identità» (p. 86).
I muri in età contemporanea
Introducendo il fascicolo n. 39 di MR, De Nicolò osserva come, pur nella varietà
delle esperienze storiche, i «muri» in età contemporanea esprimano in definitiva uno
«slittamento semantico del concetto di patria» (p. 26), svolgendo funzioni di difesa da
«avversari reali o immaginati» (p. 7), costruzione di alterità e identità, confini della guerra
e della pace, e divisioni – ma anche interpenetrazioni – simboliche e culturali. Elementi che si ritrovano, mescolati in misure diverse, nella «tecnicità visionaria» della linea
Maginot di cui parla Beurier (p. 30), figlia dell’utopia moderna di poter fare la guerra
affidandola alla tecnologia salvando vite umane – senza mai riuscirci, dalla Francia del ’40
fino ai droni di oggi. Ma anche nella storia del Secure Fence al confine tra Messico e USA
su cui si sofferma Pretelli, che vorrebbe impedire l’ingresso «in occidente» come a Ceuta
e Melilla. O, infine, nella barriera in Cisgiordania, che è anche un «muro dentro», tanto
per gli israeliani quanto per i palestinesi, come affermano lo storico Confino e il fotografo
Wigoder, in una singolare riflessione in forma di dialogo.
Ancora più densi di significati di «cittadinanza», reale o simbolica, sono i muri che
dividono le città: la Green Line di Nicosia, l’ultima «capitale divisa in Europa», di cui
tratta Rappas (p. 79); o le Peace lines di Belfast, che continuano a segnare la «irriducibilità
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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le riviste del 2012
di identità etnico-religiose» tra cattolici e protestanti, su cui invece si focalizza Gheda
(p. 103). E poi, naturalmente, ci sono i muri della guerra fredda: quello, per eccellenza,
di Berlino – nel saggio di Poesio – o quello della «piccola Berlino di casa nostra», come
Paolo Rumiz definì Gorizia, cit. nel bel saggio di Škrlj (p. 52). A separarla da Nova Gorica era in realtà un «muretto» con sopra una rete, eppure sufficiente a trasformare la vita
quotidiana delle persone dividendo cortili, strade, affetti, «perfino il cimitero» (p. 51). E
anche se smantellato in seguito all’ingresso della Slovenia nell’UE nel 2007, quel «muretto» avrebbe dimostrato come le divisioni mentali possono durare ben più dei reticolati,
se a Gorizia per la piazza della stazione non si è trovato un nome condiviso, e una parte
si chiama ancora Transalpina (come la ferrovia asburgica), e l’altra, quella ex comunista,
Europa (pp. 52-53).
Intellettuali, storia culturale e storiografia
Come illustra il titolo di questa sezione, sono tre i nuclei principali attorno ai quali
ruotano gli articoli dedicati all’universo culturale postbellico.
Cinque saggi sono dedicati a intellettuali italiani, indagati attraverso aspetti trascurati e/o liminari delle relative carriere e dei relativi corpus dottrinali. Su SS, Bowersock si
occupa del rapporto tra Arnaldo Momigliano e i suoi critici. Coniugando analisi testuale
e conoscenza personale dello storico piemontese, l’a. ci restituisce la figura di un intellettuale attento allo stato dell’arte nel proprio campo di studio e, di conseguenza, assai
esigente in fatto di discussioni pubbliche, che avrebbe voluto improntate alla correttezza
e a criteri condivisi, primo tra tutti il rispetto per la produzione altrui. Anche Vittorio, su
MI, si concentra su uno scambio critico, quello tra Benedetto Croce e John Dewey. L’esame dell’affaire è un’occasione per riflettere sulle differenze tra l’idealismo e il pragmatismo
dei due filosofi, come sulla difficile circolazione del pensiero crociano negli ambienti –
fortemente anti-hegeliani – statunitensi. Sempre su MI, Perry ricostruisce i 14 mesi che
Giovanni Guareschi passò in prigione a Parma tra il 1954 e il 1955, per aver diffamato
l’ex presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. Il saggio analizza non solo la produzione
carceraria dello scrittore, ma anche la natura politica della sua pena, scontata dopo aver
rifiutato di ricorrere in appello e con piena consapevolezza delle implicazioni antigovernative del proprio gesto. Su Storiog, Amico racconta la storia della rivista «Quaderni di
Roma», pubblicata tra il 1947 e il 1948 e animata da Gaetano De Sanctis, importante
per interrogare ruolo e funzione dello storico romano nei primi anni della repubblica.
Carillo su CnS si sofferma sull’architetto Raffaello Fagnoni, la cui opera, ispirata a Rudolf
Schwarz e in costante dialogo con il teologo Romano Guardini, testimonia del fermento
preconciliare che attraversò anche gli ambienti artistici implicati nella progettazione del
sacro e nel ripensamento dei suoi luoghi. Due articoli sono invece dedicati a intellettua-
le riviste del 2012
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li francesi, grazie alle considerazioni di Isaiah Berlin su Joseph De Maistre precursore
moderno del fascismo, analizzate con lucidità da Della Casa su SS; e allo studio di De
Franceschi (SdS) sull’influenza esercitata da Alphonse Dupront sui filosofi d’oltralpe del
secondo dopoguerra – Raymond Aron, Jean-Paul Sartre e Maurice Merlau-Ponty in particolare – in virtù del suo lavoro di riabilitazione dell’evento come dimensione fondante
della temporalità della ricerca e della narrazione storica.
Due articoli sono dedicati al mondo del conservatorismo italiano. Bordas su NSC
parla del raffreddamento dei rapporti tra Mircea Eliade e Julius Evola dopo la guerra,
quando lo studioso italiano veniva sempre più associato al regime fascista e alle teorie
razziste, mentre Eliade cercava di fugare ogni ombra sul proprio passato. Desmazières
dedica un bel saggio su Cont a padre Gemelli, utilizzando la psicanalisi come «lente
particolarmente suggestiva per osservare e interpretare l’ambivalenza del rettore della Cattolica a proposito del progresso, tanto scientifico che sociale» (p. 423). Nel ’56, infatti,
Gemelli insorse contro la propaganda comunista verso la psicanalisi, con motivazioni in
cui si intrecciavano preoccupazioni scientifiche, scommesse intellettuali e considerazioni
religiose.
Gli articoli più specificamente storiografici intrecciano notazioni di ego-storia, preoccupazioni epistemologiche e letture incentrate sui fenomeni di transfert culturale. Il
tratto comune è l’impegno delle riviste esaminate a diffondere e far circolare tra i lettori
italiani autori, contenuti e parametri del dibattito internazionale. Su VS Maier istituisce
un meta-dialogo con Victor Zaslavsky ed Elena Aga-Rossi per provare a tratteggiare punti
di convergenza e divergenze interpretative sulla guerra fredda, partendo dalla convinzione
che nelle rispettive letture della seconda metà del ’900 pesarono non solo gli orientamenti
metodologici ma anche l’aver istituito a oggetto di studio un’esperienza vissuta. Anche
Mazzei prospetta su VS un confronto virtuale tra due storici, facendo interagire le riflessioni di Gabriele De Rosa e quelle di Pietro Scoppola sulla questione Sturzo. L’interesse
del saggio, oltre che nel percorso analitico proposto, è nell’istituzione di un legame tra le
posizioni storiografiche sul passato e il presente politico degli a. indagati, portatori di differenti visioni sulla Democrazia cristiana postbellica che si rispecchiano nei relativi giudizi
sul popolarismo sturziano. Quattro articoli sono concepiti essenzialmente come rassegne
di studi. Foro su MC elenca i principali lavori francesi sulla storia italiana, concentrandosi
in particolar modo sull’800 e sul ’900 e testimoniando del crescente interesse d’oltralpe
per la nostra contemporaneità. Franco ripercorre per Cont gli studi – accademici e non
– che contribuirono nella prima metà degli anni ’50 alla nascita della sociologia in Italia,
attraverso continuità e rotture con il periodo fascista e il contributo, tutt’altro che scontato, dei nuovi soggetti politici e sindacali. Bondì espone su Storiog i tentativi della più
recente storia culturale anglo-americana di superare la frammentazione degli studi indotta
dalla crisi dell’obiettività della rappresentazione storiografica e prospetta al pubblico italiano
un’utile sintesi dei lavori di Allan Megill, Jonathan Gorman, Mark Bevir e Aviezer Tucker.
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le riviste del 2012
E, sempre su Storiog, Cattaruzza fa il punto sugli studi relativi al rapporto tra storia e
memoria a partire dai lavori di Maurice Halbwachs sulla memoria collettiva, passando
per quelli di Pierre Nora, Pierre Vidal-Naquet e Josef Jerushalmi, per finire con il «caso
argentino», cioè la messe di studi che dalla seconda metà degli anni ’80 si è sviluppata in
particolare sul periodo della dittatura.
Infine, il numero monografico di MR ci permette di riflettere sulla storia culturale.
Arcangeli ne indaga lo statuto disciplinare ed epistemologico, ricostruendo le origini e i
momenti principali dell’ampio dibattito scientifico internazionale che si è aperto con gli
anni ’90, e sottolinea come la capacità di autoriflessione critica, elemento epistemologico
determinante della storia culturale, fornisca diverse possibilità euristiche. Salomoni si confronta con la semiotica sovietica, in particolare con la scuola di Tartu-Mosca e con la figura
decisiva di Jurij M. Lotman, discutendone nel merito il modello, le fortune internazionali e
la differente ricezione avuta in Germania e in Italia, per rimarcare quanto un confronto più
compiuto con queste teorie semiotiche sia fecondo anche per la ricerca storica. Lo sguardo
su una realtà intellettuale extraeuropea torna nel saggio di Scarfone, che legge le influenze
gramsciane sui fondatori dei Subaltern studies a metà degli anni ’80, ne ricostruisce le trasformazioni teoretiche, per poi tracciare i percorsi di diffusione nel resto del mondo dei
Subaltern studies e l’articolata ricezione che ebbero nei postcolonial e cultural studies. Un altro
aspetto del rapporto con il politico è fornito dal saggio di Brice, che propone una panoramica degli studi che hanno considerato il dato culturale come elemento decisivo dell’agire
politico; ne osserva le diverse declinazioni e nel concentrarsi sull’esperienza intellettuale
e scientifica francese analizza le nuove piste di ricerca emerse per la storia politica. Petri
considera una delle declinazioni più fortunate dell’approccio storico culturalista, la storia
delle emozioni, prima ricostruendone le diverse tendenze poi problematizzandone la natura
esclusivamente culturalista a fronte di un approccio interdisciplinare considerato più capace
di far dialogare i diversi saperi che indagano i meccanismi cognitivi. Tomassini tratta infine
dell’impatto dei visual studies sul lavoro degli storici italiani, innanzitutto analizzando i motivi della crescente attenzione della recente ricerca storica verso lo studio delle immagini, poi
offrendo una rassegna di studi italiani che hanno usato la fotografia come fonte, che mostra
una netta prevalenza di lavori storico-politici.
Storia di genere
Inserendosi in un vasto e articolato dibattito internazionale, il numero di Genesis
Culture della sessualità, curato da Enrica Asquer e composto da otto articoli, fornisce un
ottimo esempio del potenziale trasformativo degli studi di genere e sessualità su narrative
storiografiche (incluse quelle femministe, gay e lesbiche), epistemologie, ed approcci disciplinari: un atteso e brillante esercizio queer sulla storiografia.
le riviste del 2012
123
Prearo affronta proprio l’impatto della legittimazione accademica e mediatica sulle
teorie queer e il loro potenziale epistemologico, problematizzando l’attuale canonizzazione
alla luce dell’approccio esperienziale vissuto da Mario Mieli e altri esponenti della galassia
queer anche in Italia. La tensione tra pratiche di liberazione, ricerca e canoni identitari
emerge anche da Milletti e Pintadu, che presentano nuovi aspetti dell’impatto di Carla
Lonzi sulla scena politica e culturale dell’Italia degli anni ’70, stimolando l’esplorazione
di ulteriori ricadute della circolazione della critica dell’eterosessualità tra diversi gruppi
Lgbqt. Perinelli, dal canto suo, recupera l’esperienza della Sexual Freedom League di San
Francisco, un movimento pioniere della stagione della «liberazione sessuale» rimosso dai
canoni della storiografia femminista e dei gay and lesbian studies. Una preziosa raccolta
di interviste rivela la fluidità di forme e significati politici della sessualità rivoluzionaria,
esplorati e agiti sia da uomini che da donne. Al contrario, Gusmano porta un esempio di
addomesticamento del potenziale sovversivo dell’omosessualità sui legami sociali e produttivi, evidenziando i nessi tra strategie manageriali attivate da gay bianchi, e il rafforzamento di modelli di maschilità egemonica e rispettabilità ispirati a valori neoconservatori
e neoliberisti. De Nardi si concentra su un altro potente e profondo meccanismo eteronormativo sviluppato fin dagli inizi del ’900, quello espresso da principi e pratiche della
medicina fondata sul dimorfismo sessuale, analizzati nel contesto di un ospedale torinese.
Spostando lo sguardo sul Medio Oriente, ma tenendolo ben saldo sulle connessioni con
l’Europa e l’eredità delle sue culture giuridiche, Tolino accosta due diversi esempi di criminalizzazione dell’omosessualità, riconducibili all’intreccio di fattori storici e culturali,
prima ancora che religiosi. L’a. problematizza anche gli effetti dell’acquisizione di visibilità
nei due contesti, tra violenze reazionarie, mutamenti nell’immaginario sociale, e mobilitazione sui diritti umani. Biltekin mette al centro della propria indagine il modo in cui mogli di diplomatici svedesi tra gli anni ’60 e ’80 del ’900 percepirono il loro ruolo e vissero
la partnership con i loro mariti, supplendo all’assenza di fonti nell’archivio diplomatico
svedese con le memorie raccolte dall’organizzazione Sophia Albertina Klubben, nata nel
1961 proprio per dare voce alle consorti dei diplomatici svedesi, e facendo ricorso alla
storia orale. Infine, Garbagnoli ripercorre dibattiti e metodologie di questi studi, sottolineandone il carattere tutt’altro che marginale e minoritario, e al contrario continuamente
intrecciato a vari altri percorsi di relativizzazione critica di «leggi naturali», soggetti «universali» e sistemi simbolici che si trovano a fondamento dei processi di gerarchizzazione e
razzializzazione delle differenze nello spazio sociale.
Centralità e invisibilità delle asimmetrie di genere e sessualità nei sistemi simbolici
e normativi degli italiani risaltano anche dalle tiepide reazioni registrate al termine del
faticoso iter della legge Merlin: richiamandole su S-N, Casalini invita allo studio dei nessi
tra regolamentazione della prostituzione e trasformazioni degli scenari politici italiani sul
lungo periodo. Le declinazioni cinematografiche dell’uso pubblico della storia muovono
invece l’analisi di Guaiana, che analizza i mutamenti nelle rappresentazioni femminili
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
124
le riviste del 2012
di quattro film sull’epopea nazional-patriottica al suo primo centenario. Su Cont Gori
parte dalle fonti su una serie di casi giudiziari confinati nell’angolo più buio delle memorie e rappresentazioni degli anni 1943-45 – i processi a donne della Rsi e a torturatrici,
truffatrici, spie, «amanti del nemico» – mostrando la trasversalità degli immaginari di
genere circolanti tra Destra e Sinistra, aule di tribunale e sale cinematografiche dell’Italia
repubblicana. Infine Bracke giustappone in MI narrazioni coeve e interviste recenti di un
importante laboratorio del femminismo e dei movimenti di rivolta degli anni ’70, esplorando con originalità un tema già al centro della riflessione femminista di quegli anni: i
nessi tra emozioni, utopie identitarie, e processi di costruzione di comunità politiche.
Articoli citati:
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Treglia, Emanuele, Dall’ostracismo alla legittimazione. Il Partito comunista di Spagna e la
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Vezzadini, Elena, Islam and Capitalism Considerations on the Construction of the Idea of a
Western ‘Modernity’, Storic, n. 8.
Vilanova, Francesco, Después de Mussolini y el rey. Miradas franquistas a la Italia republicana y postfascista (1945-1953). Del frente popular italiano a las trampas de la Democrazia Cristiana (1948-1953), SpC, n. 1, pp. 99-112.
Vittorio, Massimo, Reflections on the Croce-Dewey exchange, MI, n. 1, pp. 31-49.
Zanatta, Loris, Populismo cubano. Storia e bilancio del castrismo, VS, n. 27, pp. 73-92.
Zanini, Andrea, Formazione professionale e sviluppo: gli esordi dell’istruzione alberghiera in
Italia, SeS, n. 136, pp. 355-386.
Zanini, Paolo, La Milizia di Terra Santa dell’estate 1948, MC, n. 1, pp. 67-89.
Zilio, Francesca, Le relazioni fra Roma e Bonn durante il primo governo Brandt fra Ostpolitik e Csce, MC, n. 2, pp. 5-34.
Zizzola, Daria, Health, Islam and Alternative Capitalism. Three possible Key Factors in Developing Somaliland, Storic, n. 8.
i libri del 2012 / 2
COLLETTANEI
Linguaggi e culture della politica
Giovanni Ruocco, Luca Scuccimarra (a cura di), Il governo del popolo. 1-Dall’antico regime
alla Rivoluzione, Roma, Viella (2011), 428 pp., € 40,00
Giovanni Ruocco, Luca Scuccimarra (a cura di), Il governo del popolo. 2-Dalla Restaurazione alla guerra franco-prussiana, Roma, Viella, 435 pp., € 40,00
I due volumi sono i primi prodotti di un Prin pluriennale sulla politica del popolo (partecipazione, consenso, esclusione) dall’età moderna al XX secolo, coordinato da
Luca Scuccimarra. Il primo volume (che si compone di sedici saggi) analizza attraverso
tre categorie-chiave (alto/basso, dentro/fuori, parte/tutto) l’affermarsi nella storia politica
moderna (e quindi, secondo i curatori e gli autori, soprattutto prima, durante e subito
dopo la Rivoluzione francese) del ruolo del «popolo» (e il suo irrompere) nel discorso
politico occidentale. Non a caso ogni intervento mette in rilievo un tassello di un discorso
pubblico che ancora oggi dibatte intorno all’idea di popolo-unità (e in quale senso?) e
popolo-parte, grazie anche all’ambiguità prodotta dal termine stesso e insita nella maggior parte delle lingue europee (e non). Ripercorrendo soprattutto gli snodi concettuali
e giuridico-istituzionali legati all’Europa pre-rivoluzionaria, il primo volume esamina il
sentiero intellettuale che porta alla Rivoluzione del 1789 e al lungo e non univoco cammino tracciato dalla sua eredità. I saggi conclusivi (di M. Valvidares e di R. Car) aprono
idealmente a un più ampio respiro europeo (attraverso le esperienze spagnole e tedesche)
del secondo volume, decentrando e rendendo più policentrica l’attenzione degli aa. verso
il passaggio dal «governo del popolo» di antico regime al «governo del popolo» alla radice
del discorso democratico contemporaneo.
Nel secondo volume (composto da diciannove saggi) «attraverso il passaggio rivoluzionario il “governo del popolo” si annuncia come un campo non omogeneo, di tensione
e di conflitto di forze politiche contrapposte o in “contrasto”» (p. IX). Si delineano così
due nuovi poli di condensazione del discorso: la cittadinanza (e il voto) e la nazione.
Ancora una volta la radice del cambiamento è in Francia (anche se non solo lì) ed è legata
a un’altra data simbolo della storia del continente: il 1848, che proietta la nozione di «popolo sovrano» in contesti e percorsi politico-culturali che si svilupperanno per i successivi
trent’anni, durante i quali essa si dovrà confrontare con le nuove idee-chiave della politica
europea: nazione, razza e classe. L’intrecciarsi in modo poliedrico e contrastante di questi
nuovi concetti condurrà a sviluppi spesso politicamente inconciliabili i nuovi soggetti
statali che si stanno creando in quello scorcio di secolo XIX.
Sheyla Moroni
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - collettanei
Diana Thermes (a cura di), Tocqueville e l’Occidente, Soveria Mannelli, Rubbettino, 594
pp., € 29,00
Il volume raccoglie gli atti di un convegno tenutosi all’Università della Calabria nel
2006, che ha visto coinvolti, insieme ad alcuni eminenti specialisti europei di Tocqueville,
diversi studiosi italiani, in maggioranza storici del pensiero politico. Per Occidente, secondo l’interpretazione attualizzante che ne dà la curatrice, bisogna intendere quello spazio
ideale collocato nella triade democrazia, cristianesimo e libertà che di fatto si articola nei
due continenti europeo e americano. È dunque una lettura pre-weberiana di Tocqueville
quella che viene proposta in questo volume, anche se poi essa si stempera all’interno dei
saggi dovuti alla penna dei diversi autori.
Rispecchiando l’originaria partizione del convegno, il tema dell’Occidente tocquevilliano viene analizzato secondo tre direttrici. La prima, intitolata a Tocqueville e la democrazia, affronta diversi temi, che vanno dalle capacità euristiche delle categorie da lui
elaborate per lo studio della politica e della società attuale, alla disanima puntuale di
alcuni temi cruciali della sua riflessione, quali, ad esempio, gli usi politici della tirannia
della maggioranza, il rapporto tra religione e libertà, il tempo della storia, la tensione tra
aristocrazia e democrazia, la riflessione istituzionale. A questa prima sezione, se ne accompagnano altre due, dedicate rispettivamente agli interlocutori americani ed europei di
Tocqueville, che rivisitano questi stessi temi attraverso un confronto ravvicinato con testi
e realtà a lui contemporanei o posteriori. Vengono così passati in rassegna i rapporti tra
Tocqueville e il trascendentalismo americano, le differenze che intercorrono tra lo sguardo
che egli rivolge al Nuovo Mondo con quelle dei molti europei che lo avevano preceduto,
e ci si sofferma in particolare su Gustave de Beaumont, Michel Chevalier, Harriet Martineau. Si analizza poi, sul versante europeo, la complessità con cui egli affronta l’analisi del
Vecchio Mondo, il dialogo che intrattiene con alcuni classici (Machiavelli) o con autori a
lui contemporanei (François Guizot, Mme Swetchine, Hippolyte Taine), la distanza che
lo separa da altri fautori della democrazia (Mazzini, Montanelli) o la sua fortuna postuma
(Benedetto Croce, Raymond Aron, Michel Gauchet).
Nel complesso siamo in presenza di una rilettura di alcuni tasselli fondamentali della
biografia intellettuale di Tocqueville, riproposti in questo caso dall’esigenza di chiarire
quale sarà il futuro destino della democrazia occidentale.
Francesca Sofia
i libri del 2012 / 2 - collettanei
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Gastone Cottino, Gabriela Cavaglià (a cura di), Amici e compagni con Norberto Bobbio
nella Torino del fascismo e dell’antifascismo, Milano-Torino, Bruno Mondadori, 246 pp.,
€ 20,00
Cottino, alludendo a Leone Ginzburg, Alessandro Galante Garrone, Giorgio Agosti,
Massimo Mila e all’Einaudi, così spiega il «senso» del libro: «cinque frammenti di storia
italiana tra l’antifascismo militante […] e la costruzione del nuovo ordine repubblicano
e democratico» (p. 1), nati in seno alle iniziative per il centenario della nascita di Bobbio. I cinque capitoli del volume, privo di indice dei nomi, sono di notevole interesse e
restituiscono al lettore il particolare clima politico-culturale del contesto torinese, sempre
centrale nella storia d’Italia. Tutti gli scritti, pur caratterizzati da apparati scientifici non
omogenei tra loro, presentano riflessioni utili ad approfondire i diversi oggetti del libro. I
capitoli su Agosti (Borgna, Alessandrone Perona, Colombini) e Galante Garrone (Cottino, Agosti, Borgna, Marchis) sono i più densi, soprattutto rispetto a quello su Ginzburg
(Brunazzi, Casalino, Béghin). Tra gli altri contributi, si segnalano lo scritto di Soddu
su Mila (La passione democratica di un musicologo, pp. 143-153) e il saggio di Scarpa
sull’Einaudi (Il nome invisibile. Leone Ginzburg e la casa editrice Einaudi, 1933-1944, pp.
186-218).
Andrea Ricciardi
Pietro Finelli, Gian Luca Fruci, Valeria Galimi (a cura di), Parole in azione. Strategie comunicative e ricezione del discorso politico in Europa tra Otto e Novecento, Firenze, Le Monnier,
194 pp., € 19,00
La storiografia contemporaneistica ha tradizionalmente trascurato lo studio dei processi di accoglimento e rielaborazione del discorso politico, limitandosi il più delle volte
a presentare il pubblico come una massa passivamente inserita nel processo di sviluppo
delle industrie culturali. L’intento del volume è quello di collocarsi all’interno del «linguistic turn» e dei recenti studi sulla ricezione sviluppatisi in particolare negli Stati Uniti
e in Francia, con l’obiettivo di porre la partecipazione attiva e composita dei pubblici al
centro del processo di mediatizzazione delle relazioni sociali. Il volume analizza una serie
di casi di studio compresi tra la prima metà dell’800 e gli anni ’40 del ’900, situandoli
lungo tre linee di analisi: la costruzione retorica in rapporto con le culture dei pubblici
di riferimento (è il caso del saggio di Hautebert sul discorso di Mussolini a Udine del 20
settembre 1922); l’analisi dei circuiti comunicativi e dell’impatto dei discorsi sui destinatari (si segnala il contributo di Camurri sulla comunicazione politica nell’Italia liberale);
le strategie discorsive volte al favorevole accoglimento del messaggio politico (il saggio di
Galimi sul discorso radiofonico di Thorez ai francesi).
Riccardo Brizzi
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i libri del 2012 / 2 - collettanei
Risorgimento, nazione, identità
AA.VV., Insorgere per risorgere. La storia d’Italia tra speranze e conflitti, Roma, Donzelli,
143 pp., € 19,50
Massimo Baioni, Fulvio Conti, Maurizio Ridolfi (a cura di), Celebrare la nazione. Grandi
anniversari e memorie pubbliche nella società contemporanea, Milano, Silvana, 442 pp., s.i.p.
Matteo Truffelli (a cura di), Fare l’Italia, fare gli italiani. Cattolici nel paese unito, Roma,
Ave, 271 pp., € 12,00
Nella loro diversità – Insorgere per risorgere è un mosaico di saggi su vari momenti
della storia d’Italia; Fare l’Italia, fare gli italiani si sviluppa attorno alla questione della presenza e del ruolo politico e sociale dei cattolici nell’Italia postunitaria; Celebrare la nazione
offre una riflessione comparata dei modelli e degli eventi celebrativi di grandi anniversari
nazionali – i tre volumi hanno un tema che li accomuna: l’idea di nazione, come si è consolidata in culture politiche anche diverse, e l’idea di nazione italiana, come è cresciuta
e si è affermata in 150 anni di storia unitaria. Alle manifestazioni e forme della cultura è
dedicato Insorgere per risorgere: la poesia e la prosa di letterati romantici che sanno spesso
trasformarsi in uomini d’azione sono analizzate da Isnenghi; i giornali (Ceccuti) contribuiscono al formarsi di un’opinione pubblica che si alimenta anche attraverso le arie del
melodramma verdiano (Sorba), patrimonio comune dell’Italia colta e di quella popolare.
I teatri sono d’altronde luoghi di esaltazione di ideali, riproposti anche (Ridolfi) attraverso simboli come il tricolore e le canzoni. Come le donne partecipino a questo processo
formativo di un’identità culturale e nazionale è il tema che sviluppa Soldani analizzando
la scrittura per le donne e la scrittura delle donne. Infine, la questione del raggiungimento
dell’unità linguistica, fortemente e a lungo perseguita (De Mauro), e che sarà raggiunta
solamente nell’età della Repubblica. Politica, cultura economia, società sono anche i temi
conduttori di Fare l’Italia, fare gli italiani, sulle modalità attraverso le quali i cattolici hanno declinato il loro essere partecipi della vita della nazione. Una presenza che si traghetta
da movimenti a partiti tra Risorgimento e Repubblica (Canavero), che ha molteplici voci
(Margotti) e si realizza in strutture scolastiche o associative (Gaudio, Monticone, Caimi).
Celebrare la nazione è, tra i tre volumi, il più complesso, sia per l’articolazione in quattro
parti cronologicamente definite, sia per la molteplicità dei contributi (24) che intrecciano storia e storiografia, storia delle idee e storia politica. Il volume solleva alcune grandi
questioni della società contemporanea: l’affermarsi di valori unificanti legittimati o, a
volte, frantumati anche in maniera traumatica dallo svolgersi degli eventi; il ruolo della
memoria e il mutare, nel processo storico di una nazione, degli strumenti e dei linguaggi
della sua trasmissione.
Fiorenza Tarozzi
i libri del 2012 / 2 - collettanei
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Giampietro Berti (a cura di), La Sinistra risorgimentale nel Veneto austriaco, Padova, Il
Poligrafo, 183 pp., € 24,00
Edoardo Greppi, Enrica Pagella (a cura di), Sir James Hudson nel Risorgimento italiano,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 355 pp., € 22,00
Il volume curato da Berti raccoglie gli atti dell’omonimo convegno padovano del 16
novembre 2011 occasionato dal 150° dell’Unità. Pur nel variegato e difforme spessore dei
contributi, la rivisitazione di figure e di eventi dell’ambiente mazziniano e garibaldino veneto aiuta a ridimensionare e a disarticolare il paradigma di un Veneto monoliticamente
«moderato» o monopolio del moderatismo: ne esce confermata la difficoltà del mazzinianesimo a far presa nel territorio e la più efficace penetrazione del garibaldinismo, che
a livelli di militanza e volontariato conquistò durevolmente alcune aree significative, in
primis il Polesine, come ben ricostruito in particolare nel saggio di Eva Cecchinato. Fare i
conti col moderatismo e con l’emigrazione veneta è tra Villafranca e il 1866 la sfida maggiore per i gruppi e i singoli che nelle file democratiche cercano soluzioni più largamente
condivisibili, tra traumi e sussulti quali Aspromonte nel 1862 e la rivolta mazziniana in
Friuli del 1864. Dal punto di vista metodologico, alcuni contributi confermano la fertilità
delle fonti provenienti dagli ambienti reducistici: sia il coté prosopografico, sia il coté della
memoria – con le sue inevitabili rimozioni e censure nei casi di individuali conversioni
o approdi al moderatismo ‒ offrono uno spaccato dei modi di essere del Veneto «rosso»,
dove le società dei reduci svolgono di fatto un’azione di stemperamento e di amalgama per
la «normalizzazione» all’interno della compagine unitaria monarchica.
Frutto anch’esso di un convegno, svolto a Torino nel novembre 2010 nel bicentenario della nascita del personaggio, il volume curato da Greppi e Pagella compie un
meritorio recupero della figura e dell’opera di Sir James Hudson nella sua doppia veste
di diplomatico e di collezionista d’arte. Plenipotenziario britannico a Torino dal 1852
al 1863, Hudson fu testimone attivo di un decennio cruciale per il destino politico del
Regno di Sardegna e della penisola: i saggi declinano efficacemente il contesto operativo
dei rapporti bilaterali anglo-piemontesi in età cavouriana, con attenzione per le specificità
dell’osservatorio diplomatico torinese ma anche per persistenze di più lungo periodo.
Informazioni sulle carte Hudson nei fondi archivistici londinesi e torinesi e un inquadramento dell’attività del diplomatico come «mediatore culturale» ‒ in particolare in quanto
estimatore di dipinti del XVI secolo ‒, grazie alla quale egli contribuì all’arricchimento
delle raccolte della National Gallery e di privati, completano il quadro di una poliedrica
e intensa esperienza umana prima ancora che professionale. Peccato per la mancanza
dell’indice dei nomi.
Arianna Arisi Rota
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i libri del 2012 / 2 - collettanei
Agostino Bistarelli (a cura di), La storia della storia patria. Società, Deputazioni e Istituti
storici nazionali nella costruzione dell’Italia, Roma, Viella, 324 pp., € 32,00
È un libro utilissimo, quello che deriva dal convegno sulle deputazioni e società
di storia patria tenutosi a Venaria Reale in concomitanza con il centocinquantenario.
Utilissimo perché fa una storia completa di questi luoghi del sapere storico dalle origini
ai giorni nostri, restituendo un vivace affresco della cultura della storia locale nel nostro
paese. Anticipati da un’introduzione di Paolo Prodi, nella quale è denunciata la situazione
di gravissima indigenza di queste strutture, vittime dei tagli alla spesa culturale dello Stato lamentati anche nei saluti di Andrea Merlotti, cinque saggi ricostruiscono le vicende
delle deputazioni di tutta Italia facendo uso di un’abbondante documentazione e preziosi
aggiornamenti. Si tratta della Deputazione di storia di Torino (G.S. Pene Vidari), della
Società storica ligure (D. Puncuh), delle deputazioni e società dell’Italia meridionale (R.
De Lorenzo), della Deputazione di storia patria per le Marche (G. Piccinini), della Società
storica lombarda (C. Capra). Nello stesso gruppo di saggi è compreso uno scritto di F.
De Giorgi sulle forme di coordinamento periodicamente intraprese dalle deputazioni di
storia patria, mentre in chiusura Bistarelli documenta l’attività attuale delle trenta deputazioni e società esistenti, avanzando ipotesi sulla loro organizzazione futura.
Ma il volume tratta anche di altre istituzioni. In particolare, degli istituti storici e
dei congressi degli storici italiani a fine ’800, con saggi di M. Miglio, R. Ugolini, G.M.
Varanini, E. Tortarolo. Si fa strada l’immagine di un paese in bilico tra centralizzazione
e spinte centrifughe, che nell’età liberale ha visto i primi tentativi di costruzione di una
rete nazionale di istituzioni, mentre con il fascismo è stato costretto a subire una centralizzazione schiacciante, subito smentita dalla rinascita repubblicana. Per quanto spesso
considerati in subordine rispetto alle università, gli istituti storici e le deputazioni di storia
patria contribuiscono dalla prima fila alla formazione della comunità storiografica nazionale, anche se i sempre più frequenti tagli ai finanziamenti paralizzano molte delle attività
previste. Integrano il panorama due riflessioni sugli istituti storici stranieri esistenti a
Roma, a firma di R. Lill e di J.G. Sánchez, utili ad aprire il panorama ad una comparazione europea.
Il convegno mostrava, come ora mostra il libro, la volontà di denunciare la penalizzazione che questo settore dell’organizzazione degli studi storici sta incontrando da un
decennio a questa parte. L’intento è pienamente riuscito.
Maria Pia Casalena
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Giovanna Angelini (a cura di), Nazione democrazia e pace. Tra Ottocento e Novecento, Milano, FrancoAngeli, 248 pp., € 32,00
Il volume è il risultato del lavoro di un gruppo di ricerca, che presso l’Università di
Pavia ha condotto uno studio sulla connessione tra nazione, democrazia e pace nel XIX e
XX secolo. Il filo rosso che lega i differenti contributi è quello della fecondità dell’eredità
del pensiero risorgimentale sulla nazione, e in modo particolare di quello di Giuseppe
Mazzini, la cui anima è individuata proprio nel nesso necessario e ineliminabile tra i tre
concetti. La tesi del volume ripropone il motivo, ricorrente nella storiografia italiana,
della distinzione netta del concetto di nazione di derivazione mazziniana, dalla sua deformazione a opera del nazionalismo di inizio ’900, e della valenza univocamente liberaldemocratica e pacifista del filone di pensiero di estrazione mazziniana. I saggi su Mazzini
(G. Angelini), sulla nazione dei nazionalisti (R. D’Alfonso), su Ernesto Teodoro Moneta
(A. Castelli), sulla rivista Coenobium (C.G. Anta), sulla Società delle Nazioni (E. Costa
Bona), sull’interessante dibattito sul governo mondiale all’indomani della seconda guerra
mondiale (P.C. Pissavino), su Riccardo Bauer (A. Colombo), approfondiscono pagine
diverse di tale itinerario.
Adriano Roccucci
Stefano Quirico (a cura di), L’Italia liberale di Giuseppe Saracco e Maggiorino Ferraris, prefazione di Corrado Malandrino, Firenze, Centro Editoriale Toscano, 229 pp., € 22,00
Il panorama degli studi sul periodo liberale si è arricchito, negli ultimi decenni, di
varie indagini su singoli protagonisti. Il volume raccoglie i saggi su Giuseppe Saracco e
Maggiorino Ferraris, esponenti rilevanti del liberalismo, svolti nell’ambito di un ampio
progetto di ricerca promosso dall’università del Piemonte Orientale. La prima parte del
volume, dedicata a Saracco (Marucco, Ziruolo e Fraschini), getta luce sulla sua attività di
presidente della provincia di Alessandria negli anni ’70 dell’800 e di organizzatore delle
finanze pubbliche nei ruoli ricoperti di presidente di commissione ministeriale e parlamentare, e di segretario generale delle finanze. La seconda parte del volume, dedicata a
Ferraris (Quirico, Carini, Bagnoli, Ingravalle e Marchese), si sofferma sulla sua formazione e anche sui tratti salienti della sua lunga attività di pubblicista, di deputato, ministro e
senatore del Regno. Pur notando qualche lacuna bibliografica, il volume è un valido strumento per conoscere la storia politica di due importanti figure del liberalismo italiano.
Antonio Scornajenghi
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - collettanei
Marina Tesoro (a cura di), La memoria in piazza. Monumenti risorgimentali nelle città
lombarde tra identità locale e nazionale, Milano, Effigie, 197 pp., € 30,00
Il volume raccoglie gli interventi, integrati da un ricco apparato fotografico, del
convegno svoltosi a Pavia sul tema della monumentalità pubblica risorgimentale. Fatta
eccezione per i saggi di apertura e chiusura, di carattere generale, i restanti passano in
rassegna casi relativi a specifici contesti urbani. La costruzione di una memoria collettiva
del Risorgimento costituisce il filo conduttore dei contributi, a partire dall’assunto che
il monumento costituisca un «indicatore politico» (Brice, p.14) non neutro, capace di
svelare le strategie delle classi dirigenti locali in riferimento ai luoghi, al cerimoniale e allo
stesso oggetto monumentale, nonché il livello di maturazione di una memoria condivisa. La casistica conferma tale assunto e mostra una varietà di situazioni che vanno dalla
rappresentazione di singole personalità, su cui spiccano le figure di Vittorio Emanuele,
considerato il punto di incontro delle diverse istanze risorgimentali (Colombo, Ziglioli),
e di Garibaldi, fonte al contrario di forti contrapposizioni ideologiche (Arisi Rota, Morandi, Roda), fino ai meno politicizzati monumenti commemorativi (Bertolotti, Credaro
e Ciapponi Landi, Laforgia, Tesoro).
Fabrizio La Manna
Lucia Tonini (a cura di), Rinascimento e antirinascimento. Firenze nella cultura russa fra
Otto e Novecento, Firenze, Leo. S. Olschki, XIV-236 pp., € 27,00
Firenze ha rappresentato nella cultura russa «non soltanto un particolare topos topografico, ma anche un vero e proprio punto focale» (Sokolov, p. 17) per alcune correlazioni tipiche dell’universo culturale russo: Rinascimento e antirinascimento, cultura
classica e tradizione cristiana, Europa e Russia (Garzaniti). La cultura russa, connotata da
un’acuta sensibilità spaziale, è attratta da topoi, ai quali con altrettanto acuta disposizione
al simbolismo attribuisce un valore metaspaziale: topos e utopia sono connessi secondo
il paradigma antinomico. Firenze ha assegnato a tale connessione una cifra estetica – fu
probabilmente a Firenze che Dostoevskij coniò il celebre aforisma «la bellezza salverà il
mondo». E l’estetica non ha mancato di influire anche sulle vicende del ’900 sovietico per
tanti versi antiestetico: il realismo socialista trasformò «tutta la Russia in un sorprendente
“stato di parvenza estetica”» (Sokolov, p. 27), mentre tratti della città rinascimentale si
riscontrano nell’architettura sovietica degli anni ’30 che realizzava la «rekonstrukcija socialista di “Mosca – terza Roma”» (De Magistris, p. 205).
Adriano Roccucci
i libri del 2012 / 2 - collettanei
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Società italiana
Saverio Battente (a cura di), Sport e società nell’Italia del ’900, Napoli, ESI, 501 pp., €
50,00
La storiografia dello sport in Italia è oggi a un passaggio delicato, di cui questo
volume – che raccoglie 27 saggi più l’introduzione del curatore – mette bene il luce le
potenzialità e le criticità. Si possono riassumere le prime nell’oggettivo rilievo del sistema
sportivo nella società del ’900 e le seconde nell’eterogeneità dei cultori della storia dello
sport (accademici, professionisti sportivi e giornalisti). Il volume di fatto propone due
percorsi. Il primo presenta 13 saggi che intendono suggerire riflessioni o aprire questioni
significative sulle diverse pratiche sportive. Il secondo illustra, attraverso casi di studio,
il rilievo sociale, istituzionale e politico dello sport nel ’900, con le necessarie premesse
ottocentesche. Si spazia così dai mass media all’imprenditoria sportiva, dalla fotografia
all’onomastica, dal Coni agli ultras, dai consumi di massa ai rapporti tra sport e violenza,
dalle istituzioni militari alla medicina sportiva. Nel complesso, emergono alcuni snodi
nel ’900, in particolare il fascismo e gli anni ’70, ovvero i momenti in cui l’Italia si misura
con cambiamenti strutturali, di cui lo sport è indicatore e vettore privilegiato. E proprio
alla messa a punto del nesso tra sport, modernizzazione e società di massa il volume offre
un contributo persuasivo.
Francesco Bonini
Francesca Tacchi (a cura di), Professioni e potere a Firenze tra Otto e Novecento, Milano,
FrancoAngeli, 236 pp., € 30,00
Il volume ricostruisce le dinamiche del radicamento dei professionisti nella realtà fiorentina tra la fine del XVIII secolo e la caduta del fascismo. Incrociando dati numerici e
traiettorie biografiche, la ricerca si propone di sondare il grado di interazione e osmosi tra
professioni e potere, dalle forme più blande di politicizzazione all’arruolamento nell’amministrazione locale, fino alle collusioni col fascismo. La scelta di includere nel volume due
studi sui magistrati e sugli insegnanti secondari, affiancandoli a quelli sulle professioni con
una precisa connotazione ordinistica, permette di ricostruire un quadro sociale articolato,
capace di rendere conto del coinvolgimento del ceto giuridico fiorentino nel processo risorgimentale, dei limiti della riforma Gentile, ma anche dello status dei medici nel lungo ’800 e
del ruolo di ingegneri e architetti nell’effervescenza edilizia legata ai lavori pubblici per l’approntamento della Capitale. Firenze appare dunque «un buon campo di sperimentazione
nell’integrazione di interessi sociali, politici, economici e professionali assai diversi» (p. 68)
e offre agli aa. la possibilità di misurarsi con la storia delle professioni su scala locale, strada
ancora poco battuta in Italia per quanto riguarda l’età contemporanea.
Valentina Cappi
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - collettanei
L’Italia e il mondo
Andrea Di Michele, Emanuela Renzetti, Ingo Schneider, Siglinde Clementi (a cura di),
Al confine. Sette luoghi di transito in Tirolo, Alto Adige e Trentino, Bolzano/Bozen, Edition
Raetia, 431 pp., € 24,90
L’area meridionale e orientale dell’ex Tirolo austriaco, Trentino incluso, è stata attraversata nel ’900 da instabili linee di demarcazione statali e provinciali, raggruppata o
frammentata in distretti giudiziari, ecclesiastici e scolastici, in un dinamico e complesso
rapporto con i suoi confini storici, geografici e culturali. Questo è il terreno di analisi
dei dodici pregevoli saggi di taglio storico e antropologico presentati in questo volume.
La discussione corre lungo i confini tra Italia e Austria e all’interno di questi due stati,
investendo questioni politiche, economiche e culturali, senza soffermarsi in particolar
modo, e questo è un dato interessante, sulle faglie linguistiche, che comunque non sono
trascurate da queste ricerche, tutte ben documentate e puntuali. Affiora quindi la complessità di questi luoghi di transito e di scambio, e i diversi modi in cui hanno utilizzato,
attraversato e percepito questi spazi di frontiera gli abitanti, ma anche i turisti e i residenti
non permanenti, con un occhio anche ad alcuni osservatori, politici e amministratori,
dal carinziano Franz Franziszi al tirolese orientale Natalis Obwexer al trentino Ettore
Tolomei. Le analisi si soffermano soprattutto su alcuni «luoghi» confinari, ossia Brennero,
Resia e Prato alla Drava/Arnbach, Salorno e Ala, ma anche i tunnel dei Tauri in Tirolo
orientale e quelli della Val di Non in Trentino, offrendo al lettore plurimi livelli di lettura
e ampie suggestioni tra la storia e l’ormai consolidata letteratura sulle aree di confine.
I diversi autori si interrogano su come gli attori locali abbiano vissuto queste aree di
frontiera nelle congiunture politiche che ne hanno modificato la storia, come il trattato
di Saint Germain e la «dolorosa» divisione del primo dopoguerra, il passaggio dall’Italia
liberale al fascismo, il nazismo, la seconda guerra mondiale, i nuovi accordi italo-austriaci
sul confine e sull’autonomia, la lunga e travagliata integrazione europea dell’Austria con
la conseguente scomparsa delle barriere confinarie e doganali. L’italianizzazione, le «opzioni» italo-tedesche del 1939, gli attentati tra le due guerre e soprattutto quelli degli anni
’60, il turismo e i fenomeni migratori si incrociano a problemi e opportunità creati dalla
creazione, scomparsa o sopravvivenza di confini e passaggi ai coltivatori, a chi gestiva o
arrivava per lavorare in ristoranti, alberghi e negozi, a chi doveva controllare il territorio e
i flussi di merci e persone, a chi praticava il contrabbando. I saggi, tutti molto interessanti, sono accompagnati da un numero cospicuo di immagini (fotografie, cartine e alcuni
manifesti e prospetti pubblicitari), che aggiungono prospettive e piani di lettura, anche
se manca una cartina e legenda con tutti i luoghi citati, e non sempre è facile orientarsi
nell’intricato spazio dei molteplici territori, confini e passaggi analizzati.
Vanni D’Alessio
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Pier Luigi Ballini (a cura di), La politica estera dei Toscani. Ministri degli Esteri nel Novecento, Firenze, Polistampa, 124 pp., € 12,00
Il volume nasce da un ciclo di conferenze promosse dal Consiglio regionale della Toscana in occasione del 150° dell’Unità. Esso raccoglie cinque saggi su altrettanti ministri
degli Esteri italiani: Francesco Guicciardini (Salleo), Sidney Sonnino (Monzali), Galeazzo Ciano (Di Nolfo), Carlo Sforza (Bagnato), Amintore Fanfani (Nuti). Naturalmente
la «toscanità» dei politici in questione non può rappresentare una chiave interpretativa,
semmai offre l’occasione per una carrellata della politica estera del Paese. Nel complesso
il libro, pur eterogeneo e in assenza di un saggio di inquadramento interpretativo generale, offre spunti preziosi di riflessione attorno alla questione continuità/discontinuità
nella politica estera italiana. Da un lato emerge la continuità dettata dalla collocazione
geopolitica del paese e dal suo status di media potenza; dall’altro si evidenzia il radicale
mutamento di alcune concezioni di fondo: si passa, nel volgere di pochi anni, dal colonialismo senza remore di Sonnino, fondato sull’idea di supremazia della civiltà occidentale,
alla concezione mazziniana di Sforza, ben più in sintonia col nuovo clima determinato
dall’ascesa del wilsonismo, per giungere all’attenzione di Fanfani verso il Terzo Mondo,
le cui aspettative di sviluppo egli vedeva come l’arena decisiva su cui vincere il confronto
col comunismo.
Francesco Petrini
Paolo Frascani (a cura di), Nello specchio del mondo: l’immagine dell’Italia nella realtà internazionale, Napoli, Università degli studi di Napoli «L’Orientale», 443 pp., s.i.p.
Il volume, che raccoglie le relazioni del convegno «Lo specchio spezzato», tenutosi
nel novembre 2011, riprende il filone di studi sull’immagine dell’Italia in ambito internazionale, che risale ai lavori di Ernesto Ragionieri, Franco Venturi nel terzo volume
della Storia d’Italia Einaudi, e più recentemente Stuart J. Woolf per l’Italia repubblicana.
Due aspetti di particolare interesse emergono tra i contributi del libro. Il primo è il gioco
di condizionamenti reciproci tra azione politica e percezioni del paese nella trama delle
relazioni internazionali, dal Mediterraneo indicato con le sue dinamiche geopolitiche e
politico-istituzionali come spazio decisivo per la formazione dello Stato unitario (Mascilli
Migliorini), alla «cauta inimicizia» (p. 95) con la Russia cui è dedicato il pregevole saggio
di Bettanin arricchito anche da documentazione inedita degli archivi sovietici. La percezione della cultura italiana in universi culturali altri costituisce il secondo aspetto notevole
del volume, con attenzione precipua a contesti extraeuropei, dal mondo arabo (Corrao)
al Giappone (Amitrano).
Adriano Roccucci
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Cattolici, tra fede e politica
Andrea D’Arrigo (a cura di), Cristiani inquieti tra fede e politica. La figura e le carte di
Ettore De Giorgis, Torino, Edizioni Seb, 144 pp., € 14,00
Stefano Trinchese (a cura di), Giuseppe Spataro. Tra popolarismo e democrazia cristiana,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 252 pp., € 16,00
Paolo Trionfini (a cura di), Armida Barelli e padre Enrico Mauri. Un’amicizia spirituale per
un progetto apostolico, Roma, Ave, 141 pp., € 10,00
Il fil rouge che lega questi volumi è il comune riferimento al movimento cattolico
e ai rapporti tra fede e politica. Come molti atti di convegni, i volumi dedicati a Giuseppe Spataro e a Ettore De Giorgis sono diseguali, presentano contributi di carattere
storiografico assieme a testimonianze e, cosa senza dubbio pregevole, ad alcune relazioni
di carattere archivistico. De Giorgis, giornalista ed educatore, fu una figura non particolarmente centrale nella vita politica e culturale italiana della seconda metà del ’900, ma
interessante perché intreccia elementi tipici di una parte della sua generazione: l’impegno politico e culturale di un intellettuale cattolico, sensibile al cattolicesimo francese
di matrice personalista, alla ricerca di un dialogo con la cultura moderna, che vive le
sue esperienze nell’associazionismo cattolico e nella Dc. Il ritratto che il volume offre è
però decisamente troppo in filigrana. Ad eccezione del profilo biografico tratteggiato dal
curatore, l’archivista Andrea D’Arrigo, nessuno degli aa. utilizza le carte dell’archivio personale (depositate presso l’Istituto piemontese per la storia della resistenza e della società
contemporanea di Torino) e i vari contributi – di Margotti sulla Torino preconciliare, di
Campanini sul mounierismo in Italia, di Parola sul Concilio Vaticano II e di Zanini sulle
riviste cattoliche – sono utili contestualizzazioni, ma da essi non emerge il significato reale
della produzione intellettuale di De Giorgis. In questo senso, il volume rappresenta uno
strumento iniziale per chi vorrà analizzare e comprenderne la personalità.
Diverso il discorso del volume su Spataro, figura assai nota del cattolicesimo politico
italiano, sia per la stagione popolare sia per quella democristiana. Un fedele sturziano,
massimo esponente della Dc abruzzese e più volte impegnato come sottosegretario e ministro nei governi dell’Italia postfascista, è considerato generalmente come una sorta di
punto di raccordo tra Sturzo e De Gasperi. Il volume comprende contributi costruiti
sulla base delle carte personali di Spataro, depositate presso l’archivio storico dell’Istituto
Sturzo. Particolarmente utili sono il saggio sulla formazione giovanile di Della Penna e
quello sulla vicenda popolare di Malgeri, assieme al lavoro di Gentiloni Silveri sull’attività
come ministro dell’interno (nel 1960 nel governo Tambroni) – definita «la più drammatica della sua lunga carriera politica» (p. 177) – a quello di Forcellese sul ruolo di ministro
delle Poste e delle telecomunicazioni (dal 1950 al 1953 e di nuovo dal 1959 al 1960) e
a quello di Bonini sugli anni della presidenza Rai (dal 1946 al 1950). I saggi di Bonini e
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Forcellese ne sottolineano la centralità nel promuovere quel processo di modernizzazione
del cruciale settore delle comunicazioni, che meriterebbe una maggiore attenzione da
parte degli storici.
Il volume dedicato ad Armida Barelli e a padre Enrico Mauri, più e oltre che proporre un contributo di carattere biografico, offre una lettura degli avvenimenti che portarono
alla creazione della Gioventù femminile dell’Azione cattolica e non è privo di spunti
di interesse di più ampio respiro. Come sottolinea Miano, iniziative come le Settimane
sociali per la promozione della donna si rivelarono «un’occasione irripetibile di presa di
coscienza del proprio ruolo pubblico» (p. 13). Senza esagerarne l’impatto sulle strutture
tradizionali della società e pur sottolineando l’assenza di un femminismo rivendicativo,
questo progetto permetteva alle giovani generazioni femminili cattoliche di inserirsi, pur
con molte peculiarità, all’interno di un processo di modernizzazione. Le poche pagine di
Monticone dedicate all’impatto della prima guerra mondiale sulla Chiesa cattolica e sulla
società italiana consentono di inquadrare la tematica associativa nella nuova realtà della
società di massa. Questa connessione emerge nel contributo di Trionfini sul progetto
della gioventù femminile negli anni 1917-1921; è il saggio più ricostruttivo in termini
associativi, assieme a quello di Diliberto sulle origini dell’organismo. Qui appare evidente
il travaglio di un modello associativo che si andava affermando secondo modalità nuove
(l’associazionismo di massa) e che incontrava le resistenze di un mondo legato a modelli
tradizionali. L’insistenza della Barelli sulla diffusione di un’identità associativa comune a
tutta la «nazione cattolica» ne era uno dei tratti più evidenti, su cui sarebbe utile una più
approfondita analisi.
Paolo Acanfora
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Sinistre
Maurizio Antonioli, Franco Bertolucci, Roberto Giulianelli (a cura di), Nostra patria è il
mondo intero. Pietro Gori nel movimento operaio e libertario italiano e internazionale, Pisa,
BFS, 351 pp., € 24,00
Fiamma Chessa (a cura di), Giovanna Caleffi Berneri e la cultura eretica di sinistra nel
secondo dopoguerra, Reggio Emilia, Biblioteca Panizzi-Archivio famiglia Berneri-Aurelio
Chessa, 229 pp., € 10,00
Il volume su Pietro Gori raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Pisa in occasione del centenario della morte del grande anarchico di origini toscane. Grande perché,
come ricordano opportunamente i curatori nell’introduzione, Gori fu negli anni a cavallo
tra ’800 e ’900 uno degli anarchici italiani internazionalmente più noti. A dispetto del
progressivo oblio seguito alla sua morte, è stato oggetto di venerazione da parte delle
masse popolari, spesso a prescindere dal loro orientamento politico, anche per la sua
straordinaria capacità di porsi in sintonia con la cultura popolare, come dimostrato dal
successo delle sue canzoni. Come capita spesso nelle pubblicazioni scaturite da occasioni
celebrative, i molti saggi si presentano piuttosto diversificati per qualità e originalità. Fra
pagine e notizie che ripetono considerazioni già note, non mancano interventi che approfondiscono le nostre conoscenze e riflessioni su questo versatile esponente del movimento
libertario. Il bel contributo di Minuto mette in luce l’abilità dell’avvocato Gori nell’utilizzare le aule di tribunale e i processi penali, oggetto di un grande seguito «mediatico»
nell’Italia di fine ’800, come arene e occasioni di propaganda politica. I saggi di Di Paola
e Testi, rispettivamente su Gori a Londra e negli Stati Uniti, analizzando alcuni momenti
della lunga errabonda esistenza oltreconfine approfondiscono un aspetto ancora troppo
poco conosciuto della sua biografia, così come di quella di molti anarchici italiani: l’esperienza transnazionale dell’esilio e dell’emigrazione. In assenza di un epistolario, un certo
interesse riveste infine la raccolta di 44 lettere pubblicate in Appendice da Bertolucci.
Frutto degli atti della giornata di studi del 2008 è il libro dedicato a Giovanna Caleffi Berneri. Si tratta del tentativo di far conoscere, attraverso saggi che ne testimonino
la ricca personalità e prestino attenzione alle intersezioni fra pubblico e privato, le vicende della figura ad oggi poco conosciuta della compagna del ben più noto Camillo. La
gran parte dei contributi presenti nel testo illustrano il progressivo passaggio della Caleffi
all’impegno politico attivo all’indomani dell’assassinio nel 1937 a Barcellona del marito,
un impegno condito da importanti frequentazioni intellettuali e caratterizzato da iniziative educative e giornalistiche libertarie da lei promosse nel secondo dopoguerra.
Marco Manfredi
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Maurizio Antonioli (a cura di), Per una storia del sindacato in Europa, Milano, Bruno
Mondadori, 256 pp., € 20,00
Silvia Berti (a cura di), Crisi, rinascita, ricostruzione. Giuseppe Di Vittorio e il Piano del
lavoro (1949-50), Roma, Donzelli, 125 pp., € 25,00
Il volume a cura di Antonioli affronta la storia dei movimenti sindacali di cinque
Paesi europei (Italia, Gran Bretagna, Francia, Germania e Spagna) con un taglio sintetico
che tiene tuttavia conto delle articolazioni politiche e dei relativi modelli organizzativi
in ciascuna vicenda nazionale. Il saggio introduttivo di Antonioli fornisce un’importante mappatura comparativa dei diversi modelli organizzativi susseguitisi tra ’800 e ’900,
delineando le specificità nazionali e i possibili tratti comuni del sindacalismo europeo.
Il «caso italiano», presentato nelle sue linee essenziali, si presta a una comparazione con
gli altri Paesi studiati, alla luce di alcuni elementi comuni: dimensione politica, rapporti
con i partiti, frammentazione organizzativa e della rappresentanza, identità territoriali e
specificità organizzative, tema della conflittualità e del lavoro, rapporto con le istituzioni
statali, sistema delle relazioni industriali e di welfare. Ne emerge un quadro in cui, pur
in presenza di singole peculiarità nazionali, le organizzazioni sindacali hanno costituito
l’occasione storica per i lavoratori europei di affermare i propri diritti e rivendicare livelli
di vita e di lavoro più dignitosi, e si offre l’occasione per riflettere sulle difficoltà comuni
in cui si trovano ormai da oltre vent’anni i sindacati in Europa.
Il libro curato da Berti raccoglie gli interventi del convegno organizzato dall’associazione «Casa Di Vittorio» (Foggia, 2010) in cui storici, economisti, giuristi e sindacalisti,
partendo dal Piano del lavoro della Cgil, si sono confrontati sulla proposta lanciata da
Giuseppe Di Vittorio nel 1949-50 – e sul suo impegno sindacale – e sull’attuale validità di
promuovere una nuova stagione di programmazione all’interno della cornice dell’Unione
Europea. Di particolare respiro le riflessioni di Fabrizio Barca avanzate nella tavola rotonda (e riprese nell’introduzione), volte ad una riaffermazione del principio della programmazione come strumento per tenere assieme una visione della cosa pubblica (o di bene
comune) con obiettivi a medio/lungo termine e le pratiche da seguire per raggiungerli
(partecipazione, informazione e democratizzazione dei decision makers).
Nei saggi raccolti il Piano del Lavoro da una parte è affrontato in sede storica nelle
sue principali peculiarità, calandolo nel contesto sindacale ed economico-politico in cui
fu promosso e con particolare riguardo agli assetti produttivi con cui si confrontava la
Cgil (industrie a Nord e campagne nel Mezzogiorno); dall’altra è visto come modello per
contrastare (come al tempo si proponeva lo stesso Di Vittorio) l’aumento delle diseguaglianze mediante politiche di concertazione economica e sociale.
Roberto Bruno
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Giuliano Amato (a cura di), Antonio Giolitti. Una riflessione storica, Viella, Roma, 279
pp., € 25,00
Frutto di interventi svolti da autori molto diversi per origini e formazione, il libro
tiene fede al sottotitolo e rappresenta un importante tentativo di sottrarre la figura di Antonio Giolitti dalla polemica politica o dalla cronaca, per studiarla in prospettiva storica.
Lo spirito di fondo dell’operazione viene spiegato nel saggio di Mariuccia Salvati: «spostare sul terreno della ricerca documentaria, bibliografica e archivistica, l’insieme di memorie, corrispondenze, testimonianze che sono già state rese pubbliche» (p. 13). Il limite
del volume è nella eterogeneità, con interventi molto differenti per struttura e profondità
d’analisi. Tuttavia, il libro presenta l’indubbio merito di sviluppare l’analisi in modo articolato, lungo tre direttrici: la prima è quella biografica; la seconda, strettamente connessa
alla prima, è quella del profilo intellettuale di Giolitti; la terza è nel ruolo che egli svolse
nella storia politica dell’Italia, nella sua qualità di dirigente politico (prima del Pci, poi del
Psi) e di ministro. Il volume riesce così a offrire spunti di riflessione molto interessanti,
che potranno diventare la base per nuove ricerche da svolgere in futuro.
Paolo Mattera
Gianvito Mastroleo (a cura di), Giuseppe Di Vagno (1889-1921) e il socialismo italiano, prefazione di Alessandro Leogrande, Manduria-Roma-Bari, Piero Lacaita, 280 pp.,
€ 18,00
Il volume è diviso in quattro parti: presentazione di un libro sul processo Di Vagno
e convegno su Socialismo, diritti e democrazia del Lavoro: in Europa e non solo (2011);
commemorazione del 90° anniversario dell’assassinio e mostra storico-documentaria sugli
atti del processo, che non portò a condanne. Vi è poi un’appendice: il dibattito Socialismo
nella contemporaneità, ospitato da «Il Riformista» tra il 2011 e il 2012 e del tutto slegato
dalle vicende del deputato del Psi, avversario prima dei mazzieri di Giolitti e poi degli
squadristi fascisti, che lo assassinarono al terzo tentativo con quattro colpi alla schiena
nel settembre 1921 a Mola di Bari, impedendogli pure di conoscere suo figlio. Leogrande
chiarisce che la Fondazione Di Vagno «lavora tenacemente non al recupero della mera
memoria, bensì al recupero storiografico dell’opera intellettuale e politica del deputato
pugliese». Scrive che, a tre precedenti libri (dal 2004), si aggiunge «questo nostro volume
in cui sono raccolti gli atti delle manifestazioni per il novantesimo anniversario dell’assassinio» (pp. 9-10). Un’iniziativa meritoria che tuttavia, pensando alla non omogenea
struttura del libro, pur in presenza di alcuni contributi interessanti, non raggiunge del
tutto l’obiettivo della fondazione ricordato da Leogrande.
Andrea Ricciardi
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Storia della scuola
Gianfranco Bandini (a cura di), Manuali, sussidi e didattica della geografia, una prospettiva
storica, Firenze, Firenze University Press, 281 pp., € 17,90
Luciana Bellatalla, Giovanni Genovesi, Elena Marescotti (a cura di), La scuola nell’Italia
unita. 150 anni di storia, Padova, Cluep, 213 pp., € 16,00
Angelo Bianchi (a cura di), L’istruzione in Italia tra 700 e 800. Da Milano a Napoli: casi
regionali e tendenze nazionali, Brescia, La Scuola, CX-1002 pp., € 45,00
La storia della scuola è un cantiere di ricerca che richiede sempre più il lavoro organizzato di gruppi di studiosi di diversa competenza disciplinare e collocazione accademica
in cui, in varia misura, si intrecciano la dimensione del metodo storico, quella dell’oggetto indagato e anche l’uso pubblico della stessa storia della scuola nella formazione degli
insegnanti. In questo contesto si collocano i tre volumi in questione. Il libro curato da
Bandini offre un buon esempio di storia di una disciplina, la geografia, resa possibile dalla
collaborazione tra storici della scuola e specialisti di una disciplina che, per consolidata
tradizione, non è ignara né della propria storia né della propria dimensione specificamente scolastica (basti pensare a figure come quella di Arcangelo Ghisleri). Queste ricerche
si inseriscono in particolare nel filone di storia delle discipline che è un frutto dell’ormai
ampia tradizione anche italiana di storia dell’editoria scolastica, consolidata dai volumi
curati da Giorgio Chiosso (Milano, 2003 e 2008) e da Paolo Bianchini (Torino, 2010). I
saggi qui raccolti sono prevalentemente dedicati al periodo compreso tra ’800 e ’900. Una
seconda sezione è invece frutto del lavoro di un gruppo di geografi che si richiamano alla
specifica tradizione della storia della geografia. L’ultima parte del volume è infine dedicata
a saggi di didattica della geografia.
La scuola nell’Italia unita raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Ferrara in occasione dei centocinquant’anni dell’unificazione e di tale circostanza risente inevitabilmente. La cornice, per così dire pedagogica, ma si sarebbe tentati di dire di uso pedagogico
della storia della scuola, riflette infatti una sensibilità che lo storico è portato a definire
come radicalmente non storicistica, che porta a giudicare la storia sulla base di categorie
politico-pedagogiche dello storico della pedagogia di matrice strettamente pedagogica.
Questa sensibilità è fortemente presente nel saggio di Genovesi, che arriva ad affermare
che «la civiltà occidentale non ha avuto scuole, ma solo pseudo-scuole che […] sono riuscite a farsi passare per tali nell’immaginario collettivo» (p. 23). Questo non impedisce
agli altri contributi di inserirsi nel già ricordato filone della storia delle discipline con
risultati, nel complesso, convincenti.
Il volume curato da Bianchi dà conto invece di una parte – quella concernente
Lombardia, Sardegna, Toscana, Umbria, Lazio e Mezzogiorno continentale – dei risultati
di un Prin del 2005 per un Atlante storico dell’istruzione. Questo fa seguito ai due precedenti volumi – a cura dello stesso Bianchi (Brescia, la Scuola 2007) e di Fabio Pruneri
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e Filippo Sani (Milano, Vita e Pensiero, 2008) – e sviluppa le proposte di Julia sulla
geografia storica dei collegi. Riprende anche la tradizione italiana, tanto di storia degli
antichi Stati quanto della scuola di Carlo Cipolla di storia socioeconomica dell’istruzione, come interpretata da Xenio Toscani e dai suoi continuatori, che ritroviamo anche
tra i collaboratori del volume, e si innesta inoltre sulla strada tracciata dall’ormai classico volume curato da Luciano Pazzaglia (Brescia, La Scuola 1993). La ricca appendice
cartografica è solo un assaggio di quello che potrà rendere il database tuttora in corso di
realizzazione. Inevitabilmente i singoli saggi risentono del diseguale stato degli studi sulle
aree specifiche. Tra i risultati più originali del volume sono da evidenziare la scoperta delle
dimensioni e caratteristiche del fenomeno delle maestre private del Lombardo-Veneto, e
un quadro della realtà meridionale molto più articolato di quello ancora influenzato dalla
polemica liberale degli anni immediatamente preunitari. Aspettando il terzo volume non
si può non constatare come la formula dei Prin abbia potuto, nei casi migliori, portare alla
formazione di autentiche esperienze collettive di ricerca.
Angelo Gaudio
Simonetta Polenghi (a cura di), La scuola degli Asburgo. Pedagogia e formazione degli insegnanti tra il Danubio e il Po (1773-1918), Torino, Sei, 300 pp., € 15,50
Il volume presenta i risultati di una ricerca sull’evoluzione del sistema scolastico e del
reclutamento del personale insegnante nell’Impero asburgico nel lungo ’800. Lo spettro
geografico trattato è ampio: la Transilvania (Sima sull’herbartismo nella seconda metà
dell’800), l’Ungheria (Németh sulla pedagogia universitaria, Pukánski sulla professionalizzazione degli insegnanti), la Slovenia (Protner sull’herbartismo e la formazione degli
insegnanti), il Lombardo-Veneto fra Restaurazione e unificazione italiana (con i saggi
sui maestri di Polenghi per la Lombardia e di Gecchele per il Veneto, e di Chierichetti
sulla pedagogia accademica a Pavia). L’Austria ovviamente fa la parte del leone, sia riguardo le politiche istituzionali generali (Aichner e Mazhol sulla riforma scolastica di ThunHohenstein a metà ’800), sia con i saggi dedicati al reclutamento degli insegnanti dopo
la soppressione dei gesuiti (Grimm) o alla legittimazione della pedagogia universitaria
(Brezinka). Bianchini apre uno squarcio sulla ricezione del modello pedagogico austrolombardo nel Regno di Sardegna, dando conto dell’importanza avuta nella circolazione
delle idee europee.
Pietro Causarano
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Storia economica, storia d’impresa
Stefano Baietti, Giovanni Farese (a cura di), Sergio Paronetto e il formarsi della costituzione
economica italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino, 539 pp., € 28,00
Giorgio Bigatti (a cura di), Reti di carta. Ferrovie, tecnici e imprese nelle carte degli archivi
aziendali, Bologna, Fondazione Isec-archetipolibri, 184 pp., € 18,00
Augusto Ciuffetti, Roberto Parisi (a cura di), L’archeologia industriale in Italia. Storie e
storiografia (1978-2008), Milano, FrancoAngeli, 366 pp., € 45,00
In occasione del centenario della nascita, nel 2011 la Luiss organizzava un convegno
dedicato a Sergio Paronetto (1911-1945) economista e commis d’état, uno dei protagonisti meno conosciuti della stagione della politica economica italiana tra anni ’30 e anni ’60
del ’900. Di quel convegno, in un periodo di eclisse dell’interesse per l’impresa pubblica
come quello attuale (ma vale la pena ricordare che Aragno ha appena riproposto una nuova edizione in due tomi de I Protagonisti dell’intervento pubblico in Italia, che riprende e
amplia con nuove voci biografiche quella pubblicata nel 1984 dal Ciriec per FrancoAngeli
a cura di Alberto Mortara), il corposo volume a cura di Baietto e Farese raccoglie i 21 contributi (tra gli autori, molte figure istituzionali e tre storici G. Di Taranto, L. D’Antone,
N. De Ianni). Paronetto è una figura al centro di molti circuiti: dalla Fuci montiniana
all’assunzione all’Iri – di cui arriva a essere vicedirettore generale tra l’8 settembre ’43 e la
liberazione di Roma l’anno seguente, e dove svolge una funzione di ponte tra l’ambiente
radical-massonico-nittiano e quello cattolico – alla partecipazione ai lavori che precedono
la fondazione della Dc nel ’42, alla redazione del Codice di Camaldoli nel 1943, alla
stretta frequentazione con De Gasperi e con quella parte della dirigenza democristiana cui
prestò idee originali riguardo all’economia e alla partecipazione dello Stato all’economia.
Nel solco di un rinnovato interesse per i temi della logistica e dei trasporti, e più in
generale della mobilità e delle reti, la Fondazione Isec di Sesto San Giovanni nell’aprile
2012 ha organizzato la giornata di studi di cui il volume curato da Bigatti presenta i
risultati. Fuoco dell’attenzione sono gli archivi degli enti e delle imprese che sono stati
protagonisti della storia ferroviaria italiana, in particolare quelli delle principali società
del settore (Bastogi, Mediterranea, Gruppo FS Italiane) e delle imprese fornitrici (Breda,
Officine di Savigliano, Dalmine). Ma si tratta anche delle biblioteche dedicate (che conservano opuscoli, manuali, monografie e riviste specializzate), e di una altrettanto vasta
e diversificata documentazione aziendale (carte contabili, bilanci e relazioni, ma anche
ordini di servizio, bollettini, regolamenti), e non aziendale (atti parlamentari, disegni,
fotografie e filmati). Materiali prodotti quindi dai soggetti che questa storia l’hanno incarnata (tecnici, progettisti, designer, lavoratori) e utili per un ulteriore versante della storia
del Nation Building, come inquadrati da un saggio di apertura firmato da A. Giuntini.
Il volume curato da Ciuffetti e Parisi (uno storico dell’economia e uno storico delle
città) raccoglie gli atti di un convegno svoltosi nel 2008 presso la sede di Termoli dell’Uni-
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versità degli studi del Molise. L’obiettivo è quello di proporre un bilancio congiunto
dei contributi portati all’archeologia industriale da molteplici, autonome e consolidate
metodologie di indagine, e viceversa dall’archeologia industriale (oggi più correttamente
definitasi come storia del patrimonio industriale) ad altre discipline (la storia dell’industria e del lavoro, la storia della tecnica, dell’architettura, dell’arte, la storia urbana e del
territorio, dell’ambiente e del paesaggio), sottolineandone le contaminazioni. La prima
parte del volume è centrata sugli aspetti storiografici e sul tema della città industriale, la
seconda sui temi della didattica e degli spazi della produzione.
Roberta Garruccio
Pier Paolo Poggio, Marino Ruzzenenti (a cura di), Il caso italiano. Industria, chimica e
ambiente, Milano, Jaca Book, 522 pp., € 38,00
Questo bel volume nasce da un progetto Miur, ed è promosso dalla fondazione
Micheletti di Brescia. In allegato anche un CD – ROM «Un anno di chimica – Elementi
e racconti» a cura di Giorgio Nebbia. Il testo approfondisce importanti punti della storia
industriale e ambientale italiana, individua lacune, propone necessari percorsi di ricerca.
Nella introduzione Poggio sottolinea la deficienza legislativa sul problema, l’assenza di
una matura coscienza civile dei disastri ambientali e ne rileva i tentativi di rimozione
dalla memoria del Paese. Presenti diversi studi dedicati alla nascita della industria chimica
italiana dall’800 in poi: lo sfruttamento delle reti fluviali, l’impennata delle produzioni
legate alla nuova industria bellica fra le due guerre e gli appoggi di vari governi per nascondere o ignorare il problema dell’inquinamento industriale. Sul secondo dopoguerra
vengono presi in esame soprattutto il caso Seveso, le vicende dell’Acna di Cengio, la nube
di Chernobyl; sono qui esaminati anche l’interpretazione e la presa di coscienza dei mass
media di fronte a questi casi, nonché la posizione del Pci sul problema ambientale. Seguono due sezioni dedicate a due pionieri dell’ambientalismo italiano, Giorgio Nebbia e
Laura Conti, dei quali vengono riproposti importanti articoli e saggi.
Luca Platania
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Cinema e storia
Ruth Glynn, Giancarlo Lombardi, Alan O’Leary (a cura di), Terrorism, Italian style: representations of political violence in contemporary Italian cinema, London, IGRS Books, 246
pp., £ 25,00
I curatori di questa raccolta, che esce dopo un’attesa di diversi anni, sono tutti esperti del campo e autori di libri o articoli che hanno avuto il merito di portare gli anni di
piombo e il cinema al centro degli Italian cinema e media studies angloamericani. Il libro è
diviso in quattro macro-sezioni: Terrorism and Genre, Family Motifs and Feminising Terror,
Screening Moro, Terrorism and Ethics, che presentano contribuiti di, oltre agli stessi curatori, Mary P. Wood, Max Henninger, Ellen Nerenberg, Rachele Tardi, Nicoletta MariniMaio, Dana Renga e Leonardo Cecchini.
L’introduzione scritta dai tre curatori ha il pregio della sintesi e della chiarezza, spiegando non solo di cosa tratta il libro, ma in generale di cosa parliamo quando si affrontano temi come cinema e terrorismo in Italia. Benché sia scritto primariamente per un
pubblico universitario anglo-americano, il saggio presenta spunti di interesse anche per
gli storici di altre realtà. Il resto del libro alterna letture dedicate a uno o più film a quadri
più generali, come la discussione sull’estrema destra e il cinema di Wood, quella sulla
televisione di Lombardi, o i tre contributi dedicati a Moro.
Luca Peretti
Fulvio Orsitto (a cura di), Cinema e Risorgimento. Visioni e re-visioni. Da “La presa di
Roma” a “Noi credevamo”, Manziana, Vecchiarelli, 361 pp., € 30,00
Gli autori di questo libro lavorano o stanno conseguendo un dottorato di ricerca
negli Stati Uniti, dove negli ultimi trent’anni sono state pubblicate importanti ricerche
storiche sul cinema italiano. Lo scopo del volume– scrive nell’introduzione il curatore – è
quello di proporre «una obbiettiva e rigorosa serie di riflessioni su come il Risorgimento
sia stato effettivamente rappresentato e descritto sul grande schermo» (p. 22). A meno
che l’a. non si riferisca a lavori come quello di Giovanni Spani sul grado di verità storica
presente in due film su Anita Garibaldi, questa dichiarazione d’intenti lascia perplesso il
lettore: essendo soggettivo, l’atto interpretativo non può mirare all’obiettività. E questo
scopo non sembrano perseguire i migliori fra i diciassette contributi monografici su film
usciti fra il 1934 e il 2009 qui pubblicati (preceduti da un saggio panoramico di Orsitto
sulle opere realizzate nel periodo muto). Pur nei diversi tagli adottati si può rinvenire un
filo rosso: la consapevolezza che dagli anni ’50 in poi – con Germi, Visconti, i Taviani,
ecc. – il cinema italiano, nei suoi esiti più interessanti, ha smesso di celebrare il Risorgimento come mito fondativo per rileggerlo criticamente, influenzato dall’attualità politica
e dal coevo dibattito culturale.
Fabio Andreazza
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i libri del 2012 / 2 - collettanei
Comunismo e dopo
Marco Buttino (a cura di), Changing Urban Landscapes. Eastern Europe and Post-Soviet
Cities since 1989, Roma, Viella, 216 pp., € 25,00
Antonio D’Alessandri, Armando Pitassio (a cura di), Dopo la pioggia. Gli Stati della ex
Jugoslavia e l’Albania (1991-2011), Lecce, Argo (2011), 464 pp., € 30,00
Gizella Nemeth Papo, Adriano Papo, Alessandro Rosselli (a cura di), Chi era János Kádár?
L’ultima stagione del comunismo ungherese (1956-1989), Roma, Carocci, 160 pp., € 16,50
Frutto di un convegno del giugno 2012 il volume Chi era János Kádár? L’ultima stagione del comunismo ungherese si segnala innanzitutto per un pregio: quello di presentare
la controversa figura (ottimamente tratteggiata da F. Argentieri) del leader comunista
ungherese János Kádár ininterrottamente al potere dal 1956 al 1988. Il nome di Kádár è
legato alla repressione, operata dai sovietici, della Rivoluzione ungherese del 1956. Kádár
fu anche protagonista dell’instaurazione di un regime caratterizzatosi agli inizi per un’attività poliziesca piuttosto dura e più tardi per una certa liberalità (sia economica che intellettuale) sconosciuta nel resto del campo sovietico. Proprio sulle varie tematiche legate a
questo secondo aspetto si concentrano gran parte dei saggi contenuti nel volume. Quello
imbastito dal comunismo ungherese negli anni ’70 e ’80 fu un esperimento che non mancò di originalità, ma fu realizzato più che per tracciare una via nuova verso il socialismo
piuttosto per permettere una pacifica esistenza a quel regime. Il risultato fu alquanto controverso, non solo in termini di legittimazione tra gli intellettuali (si veda il saggio di A.
D. Sciacovelli), ma anche nella sua accettazione tra gran parte della popolazione magiara.
Sappiamo, infatti, che quell’Ungheria, conosciuta come la baracca allegra del lager, fece
registrare negli anni dell’apogeo del potere kadariano la più alta percentuale di suicidi tra
tutte le popolazioni dell’Europa orientale.
Risultato di un meditato progetto scientifico lanciato attraverso l’Aissee (l’associazione che raccoglie gran parte dei balcanisti italiani) è il volume curato da D’Alessandri
e Pitassio, che rappresenta l’unico organico contributo offerto dalla comunità scientifica
italiana (con l’apporto di studiosi stranieri) per riflettere venti anni dopo sulla caduta sanguinosa della Jugoslavia e di quella meno sanguinosa, ma altrettanto traumatica, dell’Albania comunista, ultima ridotta stalinista in Europa. Costruito su sette sezioni e trenta
saggi, unico tra i libri qui esaminati contenente un indispensabile indice dei nomi, il volume, pur con delle inevitabili differenze, anche qualitative, tra un intervento e l’altro, riesce
a mantenere e sviluppare un coerente disegno scientifico e storiografico. Da esso scaturisce
una ricostruzione puntuale dei principali snodi degli avvenimenti balcanici di venti anni
fa e delle conseguenze che essi hanno sortito sulle società e i Paesi eredi di quei regimi. Il
volume segna un notevole apporto storiografico destinato a essere un punto di confronto
con quanti vorranno studiare e approfondire i temi legati alla fine della Jugoslavia e alla
storia albanese più recente.
i libri del 2012 / 2 - collettanei
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Frutto di un Prin è invece il volume curato da Buttino. Una delle utopie che avevano
animato i regimi comunisti era stata la ridefinizione degli spazi agrari e di quelli urbani.
Sulla falsariga di quanto si era messo in atto in URSS già a metà degli anni ’30, gli scenari
umani e naturali furono pesantemente trasformati sotto l’impulso dell’ideologia e di una
volontà di cambiamento che voleva essere anche uno strumento per distruggere le passate
esperienze politiche, sociali ed economiche e un mezzo per forgiare un uomo socialista
nuovo. Le città e i villaggi sovietici e, dopo il 1945, dell’Europa centro-orientale, hanno
pagato un tributo enorme alla costruzione di questa utopia e le alterazioni del tessuto etnico di intere regioni ne sono state la prova più evidente. Uno dei meriti di questo volume
è quello di concentrarsi sulle trasformazioni indotte in epoca post-comunista, quando in
un clima da fine impero città e campagne dell’Europa orientale e dell’ex Urss conobbero
la transizione disordinata verso un futuro che ancora oggi per molti dei Paesi trattati dal
libro appare incerto. Un denominatore comune dei contributi è l’analisi che gli autori
fanno, oltre che delle trasformazioni urbane intese nel senso più strettamente architettonico, dei cambiamenti indotti dai movimenti di popolazione che hanno rappresentato la
straordinaria novità sociale – e non solo – procurata dalla fine dei regimi comunisti. Dalle
nuove realtà urbane dell’Asia centrale ex sovietica ai villaggi albanesi i panorami urbani
testimoniano la fine traumatica di un’epoca e l’avvio di una nuova fase che ancora aspetta
di essere ben definita e, in molti casi, anche compresa.
Alberto Basciani
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
i libri del 2012 / 2 - collettanei
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Messico
Tiziana Bertaccini (a cura di), Il tramonto del Regime Rivoluzionario. Messico: 1970-2010,
Torino, Otto Editore, 251 pp., € 20,00
Una riflessione intarsiata sulla storia messicana degli ultimi quarant’anni è lo scopo
di questo volume. Il lavoro si apre con una saggio di carattere generale della curatrice sugli
eventi che hanno portato il Messico dalla «dittatura perfetta» alla pluralità partitica, in un
percorso che si è dipanato dalla nascita del Pri sino al 2000. Di particolare rilievo sono gli
eventi politico-sociali che dagli anni ’70 hanno contraddistinto i mutamenti di leadership
nell’esecutivo. Si passa poi dalla fine del miracolo economico alla década perdida degli
anni ’80, con la drammatica e prolungata crisi del debito, sino a giungere all’apertura
salinista degli anni ’90 con il Nafta e il ritorno alla «crisi del tequila» con l’avvio della
presidenza Zedillo alla fine del 1994, per finire con lo storico cambiamento all’esecutivo
passato dal Pri al Pan nel 2000. Giusta enfasi è posta nella questione gatopardista, che
segna l’ambiguità delle trasformazioni politiche in seno alla continuità del regime e che
caratterizza le trasformazioni del Pri negli anni in oggetto, e nell’impostazione della politica economica, sempre più ispirata alla convinzione – smentita dalla storia – di poter far
vivere il paese su una solida base petrolifera. Interessante è anche il saggio di Carlos San
Juán, incentrato sul 1983 anno che, secondo l’a., segna la fine dello «Stato benefattore»
e l’inizio di una trasformazione politica che vede dialogare in modo diverso sia le parti
sociali all’interno del paese (minando le basi della struttura corporativa attraverso un’alta
conflittualità) sia la politica messicana con il contesto internazionale.
I saggi successivi sono centrati su temi diversi e più specifici, dai movimenti urbanopopolari di Città del Messico alle mutazioni dell’urbanistica della capitale, alle bande
giovanili, fino ai temi più caldi del crimine organizzato, partendo dai delitti efferati di
Ciudad Juárez per estendersi a un’analisi che coinvolge anche l’Italia. Franco Savarino richiama invece l’eredità dell’anticlericalismo messicano, in un saggio in cui si tenta un’analisi delle relazioni Stato-Chiesa in prospettiva storica, giungendo a ricostruire la tradizione
anticlericale che ha contraddistinto la politica regionale e centrale del paese e di cui ancora
oggi si vivono le ripercussioni. Chiude il volume il lavoro di Marco Bellingeri che pone
in luce la frammentarietà della politica e dell’economia messicana nel vortice globalizzante dell’ultimo decennio. Le strutture del sistema politico si scontrano inevitabilmente
con un agire assai più dinamico del contesto economico. Controllare questi meccanismi
appare complicatissimo nel Messico contemporaneo: forze centripete hanno aperto una
spirale di violenza senza precedenti. Solo l’espansione della classe media e un inquadramento politico unitario potranno garantire al paese migliori condizioni di sicurezza nel
lungo periodo.
Veronica Ronchi
i libri del 2012 / 2 - monografie
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MONOGRAFIE
Thabit A. J. Abdullah, Breve storia dell’Iraq, Bologna, il Mulino, 267 pp., € 25,00
Nel 1969, quando preparavo la mia tesi sui partiti politici iracheni, era disponibile
in italiano il solo Iraq di Costanzo Marinucci de’ Reguardati, se non altro utile per aver
attinto all’«Oriente Moderno» dell’Istituto per l’Oriente di Roma, il cui primo numero era
uscito quando l’Iraq diventava formalmente indipendente, sotto la colonialistica forma del
mandato. Oggi la situazione è diversa, come mostra questo volume dedicato al paese che per
decenni ha patito una feroce dittatura e, subito dopo, l’occupazione militare di chi l’aveva
meritoriamente abbattuta, senza saper «vincere» però la successiva pace. Per boriosa ignoranza, presumo. Per rimediare alla quale sarebbe bastato leggere i lavori in inglese di Majid
Khadduri o di Hanna Batatu, purtroppo ignoti a chi gestì quella guerra e quel dopoguerra.
Il libro di Abdullah ‒ indicato qui a mo’ di cognome, malgrado in Iraq, come in Egitto
e altrove, il secondo nome sia quello del padre ‒ è utile, pur con alcuni limiti, solo in parte
attribuibili all’assenza di un direttore di collana capace di valutare nel merito il materiale e di
aiutare il traduttore, costretto a misurarsi con concetti astrusi e in buona parte «alieni». Non
parlo delle traslitterazioni arabe, qui neppure proposte al lettore per non turbarne la lettura, né di alcune goffaggini traduttorie circa generi e numeri di certe parole arabe o all’idea
che «al-Hanafiyya» e il corretto «Ibn al-Hanafìyya» fossero la medesima persona, quasi che
«Tizio» possa equivalere a «figlio di Tizio». Mi riferisco alla esposizione storica di Abdullah,
specie riguardo le scaturigini arabo-islamiche dell’Iraq. Il che induce a chiedersi ancora una
volta quali siano le ragioni che spingono l’editoria italiana a cercare all’estero ciò che l’Italia e
i suoi studiosi saprebbero e potrebbero offrire con non minore ‒ e, a volte, assai maggiore ‒
competenza. Se può apparire veniale definire «tribù» quello che era invece il «clan» dei Banu
l-‘Abbàs, più grave è attribuire a Ja‘far as-Sàdiq (699~703-765) l’elaborazione del concetto
di «infallibilità» degli Imam sciiti, che si deve invece assegnare alle riflessioni di Hishàm ibn
al-Hàkam (m. 795-6) e a quelle più tarde di Shaykh al-Mufìd (m. 1022). Al di là inoltre
dell’inaccettabile uso di alcune fonti islamiche marcatamente di parte, l’a. sembra ignorare
lo studio del 1951 di Laura Veccia Vaglieri sul termine «kharigiti» e lo stesso lemma dell’Encyclopaedia of Islam curato da Giorgio Levi Della Vida. L’ignoranza del nostro idioma è causa
tra l’altro dalla vistosa assenza nella bibliografia di qualsiasi contributo in italiano.
Il libro è fortemente squilibrato. Il periodo 1238-1534 occupa appena 18 pagine su
244; solo 29 pagine i tre secoli successivi fino al 1831. Maggiore spazio ottiene l’età più
recente, dove Abdullah mette in mostra il suo migliore «mestiere di storico» contemporaeista. Le Conclusioni sono guidate più dall’ottimismo della volontà che dal pessimismo
della ragione.
Claudio Lo Jacono
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Alessandro Affortunati, Fedeli alle libere idee. Il movimento anarchico pratese dalle origini
alla Resistenza, Milano, Zero in Condotta, 191 pp., € 12,00
Nel corso dell’ultimo decennio si è registrato un rinnovato interesse nei confronti
della storia dell’anarchismo. Questo agile volume ripercorre le vicende del movimento
libertario pratese nel periodo compreso tra la fondazione della prima sezione dell’Internazionale, nel 1873, e la conclusione della seconda guerra mondiale. Il testo è diviso in due
parti: la ricerca in senso stretto, che occupa poco più della metà del volume, è seguita da
una ricca e dettagliata appendice biografica che raccoglie brevi profili dei novantatré anarchici pratesi schedati nel Casellario politico centrale. La scelta del case study è tutt’altro
che banale. La Prato di fine ’800 offrì un contesto socio-economico peculiare nel quale si
poté sviluppare un movimento libertario che, pur non arrivando mai alla diffusione del
socialismo, dimostrò un notevole dinamismo sul lungo periodo. I frequenti contatti che
proprio con Prato ebbero figure di primo piano dell’anarchismo come Pietro Gori o Errico Malatesta confermano la centralità della città nella geografia libertaria italiana.
L’a. attinge sapientemente sia dal fondo delle Carte di polizia dell’Archivio di Stato di Firenze (riordinato da Elio Conti ormai più di cinquant’anni fa), sia dalle fonti a
stampa coeve e può così ben ricostruire le frammentate vicende dell’anarchismo pratese,
cogliendo anche l’importanza dell’industria tessile nella nascita e nello sviluppo dell’internazionalismo cittadino. Dalla ricerca emerge un movimento che, formato in buona parte
da tessitori, si mantenne attivo durante gli ultimi decenni dell’800 e che fu in grado di
riaffiorare carsicamente in seguito a ogni inasprimento della repressione poliziesca. Spicca
inoltre un notevole dinamismo durante i primi anni del ’900, in particolare nel 1909,
quando si registrarono le agitazioni contro la condanna a morte del pedagogo spagnolo
Francisco Ferrer, e nel 1914, in occasione della Settimana rossa. Il sesto e ultimo capitolo,
dedicato agli anni tra le due guerre mondiali, è forse il meno riuscito. Le vicende sono
affrontate in maniera sbrigativa e la partecipazione dell’anarchismo pratese tanto all’antifascismo quanto alla Resistenza non è indagata adeguatamente. Terminata la lettura è
inevitabile chiedersi se non sarebbe stato più opportuno chiudere il lavoro con lo scoppio
del primo conflitto mondiale, lasciando così a future e più approfondite ricerche i decenni
successivi.
Per quanto riguarda l’appendice biografica è un peccato che l’a. non abbia deciso di
integrare quanto emerso dallo spoglio del Cpc con altre fonti. Si sente inoltre la mancanza
di un indice dei nomi: non avere a disposizione uno strumento simile rende frustrante
la «fruizione» del testo. In sintesi, prescindendo da questi rilievi finali, ci sembra che l’a.
riesca nel suo ambizioso progetto di realizzare una storia di lungo periodo, almeno fino
alla prima guerra mondiale. Ricerche attente alla dimensione locale, ed è questo il caso,
sono senz’altro utili per arricchire un quadro complessivo che è ormai, come si diceva in
apertura, sempre più articolato.
Enrico Acciai
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Marcella Aglietti, L’Istituto consolare tra Sette e Ottocento. Funzioni istituzionali, profilo
giuridico e percorsi professionali nella Toscana Granducale, Pisa, Ets, 440 pp., € 35,00
La storia diplomatica, con particolare attenzione al ruolo e all’attività dei consoli
nelle città e nei centri mercantili della penisola italiana preunitaria, rappresenta indubbiamente un elemento significativo nell’ambito degli studi comparativi. Giorgio Spini nei
suoi studi pioneristici sui rapporti Italia-Usa indicava le fonti consolari come un nucleo
documentario di straordinaria valenza storiografica: fonti da individuare, setacciare, analizzare, approfondire e indagare nelle varie sfaccettature e nei risvolti economico-commerciali, sociali, diplomatici e culturali.
Lo studio di Aglietti si inserisce in questo flusso storiografico fornendo una vasta
gamma di indicazioni, dati, tabelle, cifre, nomi, che partono dalla presenza delle comunità
straniere in Toscana e nel porto livornese analizzando i tanti e complessi risvolti giuridici,
amministrativi, finanziari legati spesso a direttive, leggi, budget, concordati, accordi tra Stati. Una ricerca importante e dettagliata, arricchita da riflessioni e raffronti incisivi (come
quelli relativi agli apparati simbolici o alle differenze di tariffari e retribuzioni), tabelle ricche
di elementi utili a ogni studioso del settore (come gli elenchi delle agenzie estere in Toscana
prima e dopo l’Unità), che permettono di approfondire la realtà consolare livornese articolata in varie presenze. Tra queste, quella del Consolato spagnolo, un modello emblematico,
come rileva l’a. stessa, sia per l’attenzione di una potenza come la Spagna verso la realtà
marittima locale, sia per l’interesse da parte di élites familiari, mercantili e diplomatiche che
trasmettevano l’ufficio consolare come un patrimonio ereditario.
Un volume che sembra collegarsi idealmente alla serie di studi, saggi e monografie
(purtroppo non citati dall’a.), che il gruppo di studio che fa capo a Rosario Battaglia
dell’Università di Messina ha dedicato in questi anni al Mediterraneo italiano nel trentennio preunitario, con particolare attenzione alla presenza marittima angloamericana
vista attraverso l’analisi inedita e originale dei testi consolari americani (presso i National
Archives a Washington); al centro, il porto di Livorno (strategico per la vendita di marmo,
paglia e stracci), Trieste, i porti siciliani, la Sardegna, ecc.
Nel complesso, tali studi offrono il quadro di un Mediterraneo ottocentesco che,
ribaltando la vulgata storiografica, rappresentava ancora uno snodo e una meta per gli Stati
europei e gli Usa, oltre che per i mercanti stranieri alla ricerca di quella produzione tipica
e identitaria (oggi paragonabile alla produzione enogastronomia di slow-food e alle attività
glocal) che creavano flussi di capitali, navi, merci, idee e culture, beni che da locali diventavano globali (agrumi, vino, olio, seterie, prodotti artigianali come il sale trapanese e quello
«cagliarino»). Prodotti che oggi definiremmo di eccellenza, che i governi consideravano un
unicum per cui investire e dedicare energie, capitali, uomini, professionalità, uno sforzo e
un’attenzione di cui i consoli rappresentavano il terminale prezioso e necessario.
Sergio Di Giacomo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Giaime Alonge, Scrivere per Hollywood. Ben Hecht e la sceneggiatura nel cinema americano
classico, Venezia, Marsilio, 278 pp., € 26,00
Autore poliedrico, sempre al centro dell’attenzione da parte del pubblico e dei media, Ben Hecht sperimentò nel corso della sua carriera molteplici forme di espressione: fu
giornalista, romanziere, commediografo, sceneggiatore, polemista, propagandista politico, ma anche produttore cinematografico indipendente e conduttore televisivo. In questo
libro, l’a., docente di Storia del cinema, non ha inteso fare una semplice analisi della
filmografia di Hecht (operazione che sarebbe risultata piuttosto difficile, data l’indeterminatezza della sua produzione, poiché molti lavori apparvero in forma anonima); piuttosto
ha analizzato l’importanza della sceneggiatura nella Hollywood classica, tra anni ’30 e ’50,
di cui la produzione di Hecht può essere assunta come caso esemplare. Una monografia
nel senso tradizionale del termine avrebbe implicato un principio di coerenza interna
all’opera di Ben Hecht, la possibilità di rintracciare nei suoi testi una forte poetica unitaria, cosa praticamente impossibile non solo per il caso di questo autore, ma in generale
per la maggior parte degli sceneggiatori coevi. Inoltre, non può essere ignorato l’apporto
autoriale che all’opera finita dà il regista, col quale, per la critica contemporanea, molto
spesso l’autore di un film coincide. Tuttavia, l’equilibrio di potere tra regista e sceneggiatore è materia assai variabile perché si possa generalizzare: se nel cinema commerciale il
regista è un primus inter pares, nel cinema d’autore sono i registi (che spesso assommano
in sé anche il ruolo dello sceneggiatore) a dettar legge. «Soltanto uno scrittore eccezionalmente forte e dotato, che si trova a lavorare in una combinazione inusuale di circostanze
favorevoli, può lasciare il proprio segno su un film», ebbe a dire l’antropologa Hortense
Powdermaker (p. 177).
L’a., dopo aver individuato temi e figure presenti nell’immaginario hechtiano, ragiona intorno alla prosa di Hecht, servendosi dell’ampio corpus della sua produzione letteraria, fatta non solo di sceneggiature, ma di articoli di giornale, romanzi e testi teatrali,
individuando l’esistenza di uno «stile Hecht», per quanto discontinuo; e forse, vista la
vastità della sua produzione, sarebbe strano il contrario.
Di particolare interesse è il capitolo dedicato alla combattiva categoria degli sceneggiatori, che da sempre hanno rappresentato il nucleo più agguerrito nell’attivismo
sindacale e politico della comunità hollywoodiana. Sebbene Hecht non sia facilmente
inquadrabile dal punto di vista ideologico (non era un conservatore, ma non prese mai
attivamente parte alla battaglia sindacale), durante la seconda guerra mondiale riscoprì
le proprie origini ebraiche, che l’avrebbero portato a schierarsi con l’Irgun di Menahem
Begin, l’ala destra del sionismo, favorevole alla lotta armata in Palestina, e ciò influenzò
alcune sue produzioni. È questa una di quelle occasioni in cui la ricerca dello storico del
cinema può essere di spunto e di indirizzo per arricchire quella storiografica più tradizionalmente intesa.
Silvia Cassamagnaghi
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Fabrizio Amore Bianco, Il cantiere di Bottai. La scuola corporativa pisana e la formazione
della classe dirigente fascista, Siena, Cantagalli, 321 pp., € 18,00
Anche i recenti studi generali sul dibattito teorico corporativo sviluppatosi negli
anni del fascismo maturo, come quello di Santomassimo sulla «terza via» fascista nelle
riflessioni economiche della grande crisi o quello di Irene Stolzi sulle proposte di rottura
nel campo della teoria giuridica, hanno tenuto conto del valore nazionale dell’esperienza
della Scuola superiore di studi corporativi sorta presso l’Università di Pisa alla fine degli
anni ’20 e destinata a continuare la sua attività fino alla seconda guerra mondiale.
L’istituto venne fondato grazie al diretto interessamento di Giuseppe Bottai, il gerarca fascista che maggiormente puntò sullo sviluppo del sistema corporativo per dare
sostanza alle prospettive rivoluzionarie del regime, e si consolidò grazie a figure di primo
piano dell’accademica toscana, da Giovanni Gentile all’ambizioso rettore Armando Carlini. Nei primi anni ’30 ospitò e protesse dalle ritorsioni degli ambienti più conservatori
del regime i pensatori corporativi più radicali, come Ugo Spirito e Arnaldo Volpicelli,
sebbene il corpo docente non si connotasse mai secondo orientamenti esclusivi e desse
voce anche a spunti programmatici più «moderati». Inoltre, attraverso la forza attrattiva
delle borse di studio del Collegio Mussolini gestito in consorzio con la Scuola normale,
furono educati giovani destinati a raggiungere nel dopoguerra ruoli di primo piano nella
politica, nella pubblica amministrazione e nella gestione d’impresa.
In questo volume, l’a. ricostruisce in modo dettagliato le vicende istituzionali della
Scuola, inserite nel più ampio contesto dei dibattiti intellettuali, che videro protagonisti
docenti e studenti, e soprattutto in quello del più complesso tentativo dell’entourage bottaiano di dare corpo a un concreto ricambio della classe dirigente attraverso la selezione e
la formazione insieme tecnica e ideologica dei giovani destinati a completare l’edificazione
della nuova Italia in camicia nera. Amore Bianco evita, però, di appiattire sul piano esclusivamente politico le dinamiche proprie di un’istituzione accademica. Le alterne vicende
della Scuola – che dall’«età d’oro» del corporativismo negli anni del consenso passarono
attraverso i contrasti tra Bottai e de Vecchi durante la stretta autoritaria determinata dalla
guerra d’Etiopia fino a un possibile rinnovamento del suo ruolo nel dibattito sul «nuovo ordine» durante la guerra mondiale – sono lette anche nella più specifica ottica dei
tentativi (per lo più destinati a scarsi risultati) di mettere in discussione il primato della
tradizionale formazione giuridica nei concorsi pubblici e nelle carriere amministrative
attraverso l’individuazione di un percorso di formazione più spregiudicato sul piano ideologico. Gli anni successivi al 1935, cui è dedicato il capitolo finale, sono trattati forse
in modo più rapido del dovuto, vista l’importanza del tentativo del corpo docente della
Scuola di rinnovare la propria identità dopo il trasferimento di Bottai e di alcune delle
figure intellettuali di maggiore spessore. Si potrà senz’altro tornare su quei temi con studi
più mirati.
Andrea Mariuzzo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Giuseppe Aragno, Antifascismo e potere. Storia di storie, Foggia, Bastogi, 151 pp., € 15,00
Si legge d’un fiato questo volumetto in cui, attraverso le carte di polizia, Aragno
ricostruisce la storia di otto vite coraggiose e sventurate snodatesi tra la fine dell’800 e il
regime fascista: storie di donne e uomini comuni, su cui hanno infierito l’accanimento
dei pubblici poteri e le traversie di un’esistenza segnata dalla miseria, dalla precarietà quotidiana, dalla lacerazione degli affetti, dalla debilitazione del corpo e della mente. Vite di
spiriti ribelli, che si rivoltano allo stesso tempo contro i comandi delle autorità, contro il
conformismo della morale comune, contro le avversità della vita. Soggetti che un destino
beffardo manda a sbattere contro regimi che si ispirano a opposte scale di valori, a nessuna
delle quali riescono ad assimilarsi o a rendersi accettabili.
In quest’ultimo profilo rientra una delle storie più conturbanti: quella di Nicola Patriarca, nato in Russia da famiglia di origine italiana e perciò minacciato nel 1937 dalle repressioni che colpiscono i cittadini sovietici nelle cui vene scorra sangue allogeno: riparato
in Italia, lasciati moglie e figlio in Urss, non abiura i principi originari della rivoluzione,
e puntualmente agli occhi della polizia fascista appare come un comunista impenitente,
meritevole di confino. E dal confino mantiene una struggente corrispondenza con i congiunti a Mosca, che colpisce il lettore con l’immagine di una famiglia spezzata, separata
da migliaia di chilometri e dai fronti di una guerra, disperatamente protesa verso la meta
di una ricongiunzione che nessuno potrà dirci se mai sia stata raggiunta. Altre volte la
repressione politica si salda alla costrizione imposta da pratiche sanitarie che assimilano
devianza socio-politica e anormalità psichica. Altra storia impressionate è così quella di
Renato Grossi, che è stato a Barcellona dalla parte della Repubblica durante la guerra civile e finirà sepolto vivo nel manicomio provinciale di Napoli, con le autorità fasciste che
si opporranno sistematicamente alle suppliche della famiglia affinché venisse restituito a
un ambiente di affetti per essere aiutato nel suo disagio.
La storia è fatta anche di storie come quelle raccontate da Aragno. Per afferrare la
realtà di un’epoca storica in tutti i suoi frammenti non si può non tenerne conto, ed è
bene che si riportino alla luce. Ma non convince che queste storie siano, in definitiva, la
vera storia, la sola in cui si riassuma il senso più profondo della nostra società nazionale.
Singolare è il rimprovero mosso da Aragno agli storici accademici di aver voluto cancellare
queste pagine, completando l’opera di distruzione della personalità avviata dalle agenzie
di repressione politica e sociale, laddove il problema è la ricomposizione dei molteplici
livelli della realtà storica. Una realtà che non si comprende nella sua storicità se la si
dipinge, alla maniera di Aragno, come la notte in cui tutte le vacche sono nere, in cui il
potere attraverso i decenni non sia mai stato altro che repressione, e sempre la stessa repressione, sicché l’Italia sarebbe sempre quella: un paese in cui «la repressione del dissenso
e il pregiudizio sociale si fanno tortura e manicomio e non arretrano nemmeno di fronte
all’omicidio» (p. 113).
Leonardo Rapone
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Fabien Archambault, Le contrôle du ballon. Les catholiques, les communistes et le football en
Italie, Roma, Ecole Française de Rome, 655 pp., € 110,00
Quello di Archambault è un libro importante: per mole, ricchezza documentale e
obiettivo di fondo, ossia evidenziare i profondi nessi esistenti tra storia politica e storia
dello sport. «Les deux étaient compatibles et pouvaient s’enrichir mutuellement» (p. 408),
dice infatti l’a., che descrive la politicizzazione dello sport, analizzando il caso particolare
del calcio nell’Italia del secondo dopoguerra, i suoi legami con alcuni tratti distintivi della
nostra identità nazionale e l’utilizzazione che ne è stata fatta in chiave ideologico-moralculturale da cattolici e comunisti.
Proprio l’aspra dialettica tra «calcio d’oratorio» e «football popolare», che divampò
negli anni ’50, oltre a costituire il tema centrale del ponderoso volume, sembra rappresentarne al contempo il principale limite: quello di una visione d’insieme pressoché integralmente appiattita sullo studio delle forme di collateralismo sportivo alla Dc e alle
organizzazione clericali da un lato, e al Pci dall’altro, senza nemmeno fornirne, peraltro,
un quadro davvero completo. L’a. si limita infatti a ricostruire la «politica calcistica» di
Csi e Uisp, che, pur rappresentando i principali enti di promozione sportiva d’ispirazione cristiana e marxista, non furono certo gli unici. Così, con riferimento alla famiglia
cattolica, appare discutibile la sottovalutazione delle ragioni politiche che portarono alla
costituzione della Libertas e quindi dei centri sportivi Acli; come lo è poi la mancanza
di qualsiasi accenno allo sviluppo di quell’interessante dibattito proprio sui temi dello
«sport popolare» e dello «sport per tutti», che, negli anni ’60, avrebbe condotto alla rottura dell’unità social-comunista in seno alla Uisp, alla crisi dell’Assi e alla nascita dell’Aics,
sotto la guida di Giacomo Brodolini.
Stupisce infine che l’a., pur convinto, a ragione, dell’esistenza di un formidabile
potere di condizionamento culturale e socio-economico esercitato dal calcio, con la decisiva complicità delle nostre principali istituzioni sportive e politiche, non abbia voluto
produrne le prove dirette, attraverso, ad esempio, lo studio dei verbali delle sedute degli
organi collegiali del Coni e della Federcalcio e soprattutto la consultazione degli atti parlamentari. In particolare quelli concernenti l’indagine conoscitiva sulla situazione e le
prospettive dello sport in Italia, un’indagine promossa, nel corso della sesta legislatura,
dalla Commissione Affari interni della Camera, che convocò in audizione i principali
protagonisti dell’universo sportivo. Ampio spazio venne allora dedicato ovviamente al
calcio e al fenomeno del tifo organizzato, di cui l’autore, nel quinto dei sei capitoli in cui
si articola il volume, ricostruisce genesi e sviluppo, sulla base di fonti di taglio esclusivamente sociologico.
Ed è proprio sul fronte metodologico, in conclusione, che sembrano emergere dunque i principali limiti del libro di Archambault, cui va comunque riconosciuto il merito
di aver concorso allo sviluppo di un filone storiografico forse meritevole, in ambito accademico e scientifico, di maggiore considerazione.
Enrico Landoni
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Joshua Arthurs, Excavating Modernity. The Roman Past in Fascist Italy, Ithaca and London,
Cornell University Press, 216 pp., $ 45,00
L’a. è attualmente assistant professor of History alla West Virginia University, specializzato in storia sociale e culturale dell’Italia moderna, dell’Europa e del Mediterraneo.
Come studente undergraduate si è occupato di filologia classica, archeologia e storia antica; successivamente si è concentrato sullo studio della tradizione classica e sulle rappresentazioni moderne dell’antichità.
Il libro è composto da un’introduzione, cinque capitoli e un paragrafo di conclusioni, ed è arricchito da alcune illustrazioni in bianco e nero, da un apparato di note, una
bibliografia e un indice dei nomi e dei concetti salienti.
Il I capitolo (The Third Rome and Its Discontents, 1848-1922) presenta una ricognizione dell’idea di romanità dal Risorgimento all’avvento del fascismo. Il mito fascista
di Roma è invece oggetto dei capitoli successivi: nel II, l’a. sceglie un titolo (Science and
Faith: The Istituto di Studi Romani, 1922-1929) nel quale indica una periodizzazione che
in realtà anticipa di tre anni la data di fondazione dell’Istituto di studi romani. Il III capitolo (History and Hygiene in Mussolini’s Rome, 1925-1938) è una classica analisi delle politiche urbanistiche e architettoniche che interessarono la capitale negli anni ’20 e ’30. Nel
IV (The Totalitarian Museum: The Mostra Augustea della Romanità, 1937-1938) troviamo
una ricostruzione della Mostra augustea della romanità, a partire dal suo primo nucleo
rappresentato dalla Mostra archeologica del 1911. L’ultimo capitolo (Empire, Race, and
the Decline of Romanità, 1936-1945) è dedicato agli esiti estremi della romanità fascista,
con un paragrafo rivolto al consueto confronto tra mito di Roma nel fascismo e mito
germanico nel nazismo.
Il libro è il risultato di una ricerca archivistica e bibliografica ma, come talvolta
accade nelle opere storiografiche straniere (soprattutto anglosassoni) dedicate al periodo
fascista, si deve constatare un uso in parte limitato della bibliografia italiana: sono infatti
citati importanti testi che potremmo ormai considerare classici su questo tema, ma accanto a essi troviamo titoli di opere che non appaiono francamente fondamentali nella
ricostruzione di questa vicenda, mentre non compaiono altri lavori, anche recenti, che
hanno indagato nuovi aspetti della romanità fascista. Sia nella scelta cronologica sia nella
suddivisione tematica, il libro non si discosta da soluzioni analoghe già utilizzate da altri
autori per analizzare questo stesso tema. L’aspetto più originale dell’opera è rappresentato
dalla decisione di dedicare un intero capitolo all’Istituto di studi romani, al quale viene
giustamente attribuita un’importanza strategica nelle politiche propagandistiche fasciste.
È bene però ricordare che il mito fascista della romanità trovò anche altre modalità di
concretizzazione, alcune delle quali non avevano alcun punto di contatto con l’Istituto.
Il libro, insomma, senza apportare elementi di novità nella ricostruzione di un tema
che, invece, possiede ancora ampi margini di indagine, appare una bella sintesi di quanto
in Italia è stato ampiamente dimostrato e – a volte – già ribadito.
Paola S. Salvatori
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Anna Ascenzi, Drammi privati e pubbliche virtù. La maestra italiana dell’Ottocento tra
narrazione letteraria e cronaca giornalistica, Macerata, Eum, 391 pp., € 22,00
Sesto titolo della Biblioteca di «History of Education & Children’s Literature», il
volume ripropone nella prima parte tre saggi usciti fra 2010 e 2012 su quella rivista e volti
a commentare alcuni scritti sulle maestre di M. Serao, A. Fusetti e I. Baccini, oltre alle pagine introduttive alla ripubblicazione, nel 2007, de Il romanzo di un maestro di De Amicis
(1890), in cui si analizzano alcune figure di maestre che popolano quel libro e Cuore. Nella seconda parte l’a. ripubblica Scuola Normale Femminile della Serao (1885) e gli articoli
da lei dedicati nell’estate del 1886 alla vicenda di Italia Donati sul «Corriere di Roma» e su
«L’Istitutore» di Torino, Il romanzo d’una maestra di Annetta Fusetti (1891) e l’omonimo
racconto di Ida Baccini (edito nel 1895-96 su «Cordelia» e nel 1901 in volume).
L’obiettivo è puntato sul decennio segnato dalla irrisolta tensione tra la retorica delle
maestre come «operaie dei cuori» (De Amicis) o come «vestali dell’alfabeto» (Baccini)
e la realtà di una professione che, partita come ultima speranza per ragazze sferzate dal
bisogno, si stava avviando a diventare «il gradino più elevato» per le «donne che lavorano»
(Baccini, Il libro della vita, 1906), ma che conservava ancora – al di là della retorica su
pretese «vocazioni naturali» delle donne ad attività speciosamente assimilate a quelle materne – la durezza di esperienze intessute di indifferenza e solitudine, se non di ingiustizie
e soprusi.
L’apporto della letteratura alla conoscenza della condizione magistrale, che ha ricevuto larga attenzione soprattutto a partire dalla riscoperta fattane da G. Bini nel 1981,
viene ripercorso dall’a. attraverso casi specifici con la consueta competenza, ma anche con
una narrazione che qua e là rischia di scadere in semplice parafrasi dei testi, d’altronde
generosamente citati: anche troppo, vista la loro riproposizione in appendice. Ne esce
confermata l’importanza di queste particolari ma ineludibili fonti documentarie per la
ricostruzione non solo del farsi dell’identità magistrale femminile, ma anche della «gerarchia di rilevanze» agita da un’opinione pubblica alle prese con un fenomeno inedito
e inatteso. Di qui l’interesse che rivestono le pagine in cui l’a. ripercorre la vicenda della
maestra Italia Donati mettendo a confronto il modo in cui essa venne affrontata dal
«Corriere della sera», da un’algida sostenitrice di «astratti principi morali» (p. 116) come
Caterina Pigorini Beri e dalla prosa tanto disincantata quanto partecipe di Matilde Serao,
attenta ai drammi sociali e ai problemi politici messi a nudo da quel suicidio.
Le pagine dedicate alla Serao – più della metà del totale – sono del resto le più curate
e interessanti dell’opera, che altrove (penso in particolare al saggio sulla Fusetti) appare
un po’ stanca ed eccessivamente descrittiva, anche per l’assenza di adeguate considerazioni
metodologiche e di un solido riferimento ai caratteri regionalmente e cronologicamente
articolati della «letteratura di genere» a cui con diversa originalità appartengono gli scritti
di cui ci si occupa.
Simonetta Soldani
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Anna Badino, Strade in salita. Figlie e figli dell’immigrazione meridionale al Nord, Roma,
Carocci, 223 pp., € 24,00
Quanto hanno pesato gli intensi movimenti di popolazione del miracolo economico, non solo nella storia della società italiana del secondo dopoguerra, ma anche e
soprattutto nei destini sociali dei figli del boom? È questo l’interrogativo alla base del
nuovo lavoro di Anna Badino. Le implicazioni dell’altissima mobilità residenziale inter- e
intra-urbana della popolazione durante la «grande trasformazione» sono un aspetto che le
scienze sociali hanno troppo a lungo sostanzialmente ignorato. Strade in salita prova a fare
un primo importante bilancio delle conseguenze del movimento di popolazione interno,
mettendo non a caso Torino, «seconda grande città meridionale d’Italia», sotto la lente
d’ingrandimento dello storico. Ne emerge un quadro sorprendente degli esiti sociali delle
grandi migrazioni: all’origine della fragilità sociale che ancora oggi in gran parte caratterizza le componenti più deboli della società urbana italiana è proprio il peso dell’origine
territoriale nel condizionare i percorsi professionali e sociali delle seconde generazioni. Gli
svantaggi del processo migratorio sono, in altre parole, ereditari: reti di relazioni e meccanismi di esclusione che hanno segnato le storie di vita dei padri si ripercuotono anche sui
percorsi dei figli, marcandone, in primis, il pesante svantaggio scolastico.
Facendo un uso minuzioso di fonti originali e innovative (tesi di ricerca delle assistenti sociali, registri di alcune scuole elementari, schede di famiglia, storie di vita…) l’a.
ricostruisce il quotidiano dei nuovi giovani torinesi ripercorrendone le tappe salienti dei
tortuosi percorsi di vita: dal primo impatto con la città, nella scuola che spesso riserva
un’accoglienza a dir poco difficile ai bambini di origine meridionale, alle costanti penalizzazioni nei percorsi di formazione e di accesso al lavoro, alle peculiarità nei comportamenti matrimoniali e nel bagaglio socio-economico che le nuove famiglie passeranno
alle generazioni successive. Generazioni che così ci appaiono nel complesso penalizzate
dalla vicenda migratoria familiare. In questo quadro a tinte fosche, l’aspetto più limpido e
innovativo emerge dall’utilizzo esperto che Badino fa del genere come categoria di analisi
storica. Nello studio delle traiettorie sociali dei nuovi torinesi, spunta un inaspettato vantaggio femminile nei processi di mobilità professionale rispetto alla componente maschile
dello stesso gruppo. È un fenomeno che può essere compreso appieno non solo nel contesto microsociale delle specifiche reti relazionali femminili, ma anche e soprattutto nel
contesto più ampio dei mutamenti profondi della condizione femminile in quegli anni di
tumultuosi cambiamenti.
Flavia Cumoli
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Marzio Barbagli, Maurizio Pisati, Dentro e fuori le mura. Città e gruppi sociali dal 1400 ad
oggi, Bologna, il Mulino, 443 pp., € 32,00
Il volume ripercorre le vicende «delle grandi città italiane negli ultimi sei secoli, della
loro popolazione, dei ceti, le classi e i gruppi di immigrati che ne hanno fatto parte, dei
loro patrimoni e dei loro redditi, delle loro scelte residenziali, della loro distribuzione
nello spazio» (p. 8). Un progetto vasto e ambizioso, dunque, che si dispiega in un arco
temporale insolitamente ampio, che gli storici non ritrovano spesso nelle analisi dei loro
colleghi scienziati sociali. La citazione di Cattaneo in epigrafe («La condizione delle nostre città è l’opera di secoli e di remotissimi avvenimenti, e le sue cause sono più antiche
d’ogni memoria») non è quindi un generico omaggio a colui che può essere considerato
uno dei fondatori della storia urbana italiana.
Gli sviluppi otto e novecenteschi (industrializzazione e urbanizzazione) e quelli contemporanei (terziarizzazione, deindustrializzazione, globalizzazione), che hanno trasformato e stanno ancora trasformando le nostre città, vengono inquadrati in un prospettiva
plurisecolare che consente di comprendere più in profondità la logica di processi recenti
o tuttora in corso. L’analisi di Barbagli e Pisati riesce così a evitare il rischio di distorsioni
e anacronismi insiti nella consueta contrapposizione fra la città industriale o post-industriale e quella che viene genericamente definita la città «tradizionale» e premoderna, le
cui presunte caratteristiche vengono per lo più ricavate per contrasto da quelle della città
contemporanea. Ad esempio, osservano gli aa., «i pochi sociologi che si sono occupati
di tale questione in una prospettiva diacronica hanno sostenuto la tesi che, nelle città
dei paesi occidentali, la segregazione residenziale secondo il ceto e la classe sociale sia un
fenomeno moderno, nato con l’industrializzazione e l’intervento dello stato» (p. 62). La
verità è che «per secoli, molto prima che il processo di industrializzazione iniziasse, nelle
città italiane vi sono state delle concentrazioni nello spazio di gruppi della popolazione
che avevano in comune qualche caratteristica sociale significativa» (p. 109).
Oltre alla prospettiva di lungo periodo, l’altro elemento caratterizzante è l’approccio
comparativo che evidenzia come, pur nella specificità dei percorsi, nello sviluppo delle
città italiane siano ravvisabili importanti elementi di somiglianza e di convergenza, anche
se non sempre di sincronia. In sintesi, quello che emerge è un modello relativamente
unitario di sviluppo: «Se esaminati nel lungo periodo, molti dei cambiamenti avvenuti
nelle città italiane possono essere raffigurati graficamente con una U rovesciata. Lo sviluppo demografico, la proletarizzazione e la polarizzazione sociale, l’allontanamento, nello
spazio residenziale, fra gli appartenenti ai vari gruppi sono continuati per molto tempo,
ma a un certo punto si sono interrotti ed è iniziata un’inversione di tendenza» (p. 267).
La storia delle città italiane appare quindi il risultato di un bilanciamento di tendenze di
lungo periodo e di discontinuità.
Le oltre cinquanta pagine di appendice metodologica e di tabelle statistiche costituiscono un prezioso arricchimento del volume.
Vittorio Beonio Brocchieri
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Gabriella Barbera, Strategie sociali, lavoro e cittadinanza degli italiani in Argentina. Il case
study dell’emigrazione leofortese in Entre Ríos (1880-1930), prefazione di Emilio Franzina,
Roma, Aracne, 201 pp., € 13,00
Per quanto esistano molti lavori a carattere locale e regionale sull’emigrazione italiana in Argentina nei decenni del «grande esodo», a cavallo tra ’800 e ’900, Barbera
studia un’area di partenza – la Sicilia centrale e in particolare la zona di Leonforte – e di
arrivo – la provincia di Entre Ríos – su cui la bibliografia è scarsa. La ricerca è sorretta
da uno scavo archivistico profondo ai due lati dell’Oceano, che l’a. integra avvalendosi
anche delle fonti orali: un buon numero di interviste a discendenti di emigrati leofortesi
le consente di recuperare attraverso le generazioni preziose memorie familiari. Quello che
ne esce è una ricostruzione a tutto tondo, che da un lato combina analisi del contesto
di partenza, dei meccanismi di espatrio e del processo di integrazione degli emigrati nel
paese di arrivo; e dall’altro tiene assieme scala locale, regionale e nazionale. Cercando
di spiegare innanzitutto perché i leofortesi si orientarono diversamente dalla stragrande
maggioranza dei siciliani, che come noto in quegli anni emigrarono in massa negli Stati
Uniti e in particolare a New York, Barbera lega la specificità delle loro scelte migratorie
alle caratteristiche speciali della zona di partenza, dove, a differenza del resto dell’isola, la
piccola proprietà era piuttosto diffusa e, almeno fino agli anni ’80 dell’800, si era registrata una certa crescita economica.
Come conseguenza della crisi agricola prodottasi in tutta Europa e dell’adozione del
protezionismo in Italia, a partire dagli anni ’90 si registrò l’avvio dei movimenti migratori consistenti, che secondo l’a., più che essere determinati dai classici fattori push/pull,
risposero a motivazioni economicamente razionali. I flussi si alimentarono attraverso la
classica dinamica delle catene di richiamo tra compaseani, dirigendosi laddove, fin dai
primi decenni dell’800, si erano radicati alcuni previous migrants, e in particolare nella
provincia argentina di Entre Ríos.
Sia la fase di insediamento, legata nelle aree rurali al processo di colonizzazione agricola promosso dalle politiche governative argentine, sia quella successiva di integrazione
dei leofortesi nella società locale furono a propria volta favorite dalle reti sociali e da forme
di solidarietà e aiuto tra compaesani. L’ascesa sociale e la stessa «argentinizzazione» degli
emigrati siciliani, che Barbera analizza seguendo le tracce di alcuni percorsi familiari,
furono comunque più rapidi in ambito urbano, specialmente nella capitale entrerriana
Paraná. Qui si verificarono, a partire soprattutto dalla seconda generazione, numerosi
passaggi ad attività imprenditoriali e professionali di successo. Anche a tali esiti, secondo
l’a., si deve probabilmente il fatto che tra i discendenti di leofortesi il legame con la Sicilia,
quando esiste, sia di carattere puramente sentimentale e culturale.
Federica Bertagna
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Giuseppe Barbera, Conca d’oro, Palermo, Sellerio, 155 pp., € 12,00
«I paesaggi conservano sentimenti, passioni, volontà. Conservano la fatica, il coraggio, l’abbandono, le ragioni della fuga di chi li vive». Con questa riflessione l’agronomo
Giuseppe Barbera dà inizio a un viaggio nella memoria storica di uno dei paesaggi un
tempo più celebrati da viaggiatori e poeti: la Conca d’oro palermitana. Dalle remote ere
geologiche che ne hanno segnato i connotati fisici, ai miti dell’antichità greca e romana,
come i ciclopi o la Sibilla Cumana, al susseguirsi delle grandi glaciazioni per giungere
infine alle trecento generazioni umane che hanno modellato il paesaggio mediterraneo.
Fenici, greci, romani, arabi, normanni hanno lasciato i propri segni su questa Conca
chiusa dal Monte Pellegrino, in molte sue parti poco fertile ma col tempo dissodata e
piantata di alberi, generazione dopo generazione. Sono gli alberi e le piante coltivate i
grandi protagonisti di questa narrazione: ulivi, fichi, viti poi soprattutto limoni e mandarini; nespoli, carrubi e insieme cotone, canna da zucchero, gelsi, fichi d’india, pini, palme
e alberi esotici hanno creato nel tempo, per mano dell’uomo, un paesaggio di «giardini»,
sapientemente irrigati con pozzi scavati in profondità nella roccia o con cisterne di raccolta dell’acqua. Orti, frutteti e peschiere erano altrettanti luoghi di delizia per gli arabi provenienti da aridi deserti, ma anche per i loro successori normanni. Un paesaggio d’alberi
divenuto tanto più gradevole quando i palermitani benestanti e potenti cominciarono a
costruire nella Conca residenze estive, «casene», e ville. Anche grazie a questo abitare estivo il paesaggio della Conca d’oro era diventato agli occhi incantati di viaggiatori stranieri
«immagine esemplare di bellezza produttiva e contemplativa» (p. 119).
Il libro si apre con il sofferto racconto autobiografico della distruzione del giardino
e dei pini della villa paterna a Resuttana ai Colli, ad opera delle ruspe che tracciavano nel
1965 un asse stradale nuovo nel mezzo della Conca d’oro. Tutte le terre attorno erano diventate edificabili nei piani urbanistici e dunque iniziava da quel momento la sistematica
distruzione della Conca, ad opera dei palazzi di dieci piani grigi come il cattivo cemento
con cui erano costruiti. La città di Palermo sembrava fuggire dal suo centro devastato
dai bombardamenti e correre incontro alla «modernità» seppellendo di cemento e asfalto
limoni e mandarini, ulivi e piccole e grandi ville. Il varo definitivo del piano regolatore
nel 1963 darà modo alla speculazione edilizia di nutrirsi ancora di mandarini e di nespoli:
palazzi sempre più fitti lasciano appena 30 centimetri di verde per abitante. Tra i protagonisti dello scempio le imprese controllate dalla mafia e l’avvento dell’era di Salvo Lima
e di Vito Ciancimino.
Amara la conclusione di Giuseppe Barbera, che chiama in causa anche intellettuali
e uomini di cultura: «sotto i loro occhi e nel loro silenzio il paradiso della Conca d’oro è
diventato l’inferno del presente. Rimangono solo brandelli di antichi paesaggi» mentre si
continua «a consumare suolo a ritmi insopportabili» (p. 138).
Franco Cazzola
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Matteo Battistini, Una Rivoluzione per lo Stato. Thomas Paine e la Rivoluzione americana
nel Mondo atlantico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 257 pp., € 14,00
Combinando biografia, storia generale ed esame delle dottrine e dei linguaggi politici, il volume ripercorre l’avventurosa esperienza atlantica di Thomas Paine: dagli umili natali nell’Inghilterra «dispotica e imperiale», vincitrice della Guerra dei sette anni e signora
della rivoluzione commerciale, al trasferimento nel Nuovo Mondo nel pieno della crisi
del patto coloniale cui il pamphlet Common Sense sferra un colpo micidiale; dalla partecipazione diretta, così ricca di linee di tensione, alle vicende locali e nazionali che portano
alla costituzione del primo soggetto politico postcoloniale americano alla permanenza
francese, segnata dal disincanto nei confronti delle traiettorie assunte dalla Rivoluzione
e dalla prigionia, fino al ritorno negli Stati Uniti di Jefferson, ove il rivoluzionario «euroamericano», per le sue antiche posizioni, imbocca la via di una sorta di pubblico oblio.
Come si segnala nell’introduzione, l’eredità politico-ideologica di Thomas Paine avrebbe
però svolto negli Stati Uniti un ruolo esemplare sia nell’ambito della tradizione radicale
sia in occasione di situazioni di eccezionale mobilitazione nazionale: è il caso dell’uso
propagandistico della retorica e della figura dell’autore di Rights of Man nel 1942-43
ricordato all’inizio del volume.
Su queste basi, il testo offre un ampio profilo dell’itinerario di Paine nell’epocale
congiuntura atlantica dell’«età delle rivoluzioni». Accogliendo l’invito a studiare il personaggio nel «suo tempo [che] è l’infanzia del nostro» (p. VIII) formulato da Tiziano Bonazzi nella sua premessa, l’a. si è spinto anche più in là, collegando il patrimonio ideologico
di Paine ai futuri svolgimenti dell’Occidente. Si apre così nel testo un’ulteriore «finestra»
che, pur con alcuni inevitabili anacronismi, ci consente di scorgere gli orizzonti globali
del mondo transatlantico post-1830.
Come spesso accade negli studi concepiti «in grande», anche il libro in oggetto non
manca di alcune generalizzazioni e ridondanze, espressione, ad avviso di chi scrive, di una
non sempre pienamente compiuta integrazione fra biografia, esegesi delle categorie e delle
pratiche politiche e storia generale. Quest’ultima, in particolare, risulta talvolta confinata
nella funzione di ancillare, e un poco schematica, cornice di riferimento. Lo studio si
conferma nondimeno lungo tutto il suo sviluppo capace di guidare persuasivamente il
lettore alla (ri)scoperta, «fra fatti e idee», di una stagione memorabile del mondo atlantico
facendo centro sull’esperienza di un protagonista che ne ha attraversato consapevolmente le diverse stagioni, incidendo sulle trasformazioni in essere e intrattenendo rapporti
politico-culturali di altissimo profilo.
Dal momento che Battistini si è proposto di mettere a fuoco le molteplici «facce»,
così le chiama l’a., di Paine, i capitoli del volume possono risultare a tratti discontinui. Il
che non compromette però il valore di un lavoro solido in cui abbondano gli elementi per
futuri approfondimenti e gli spunti per l’apertura di ulteriori linee di ricerca.
Maria Matilde Benzoni
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Margherita Becchetti, L’utopia della concretezza. Vita di Giovanni Faraboli socialista e cooperatore, Bologna, Clueb, 226 pp., € 20,00
Il libro ripercorre in modo accurato la parabola biografica di Giovanni Faraboli,
bracciante e dirigente politico, esponente di rilievo del socialismo riformista, apprezzato
dirigente sindacale, attivo soprattutto nella cooperazione agricola della Bassa parmense.
Sul piano delle fonti l’a. utilizza un materiale ampio e inedito, dalle carte della Questura,
della Prefettura e del Tribunale di Parma ai documenti del Ministero degli Interni; così
come interessante risulta lo spoglio sistematico della stampa locale, in particolare del
periodico «L’Idea». Chiude il volume una ricca appendice di scritti, documenti e foto
d’epoca.
Come risulta chiaramente dalla ricerca, il periodo più significativo dell’esperienza
di Faraboli fu il primo ventennio del ’900, che si aprì in modo esaltante nel 1901 con
la costituzione della Lega bracciantile di Fontanelle, per concludersi tragicamente con il
rogo del 6 agosto 1922, quando i fascisti, in risposta allo sciopero legalitario, distrussero
tutti gli edifici che ospitavano le istituzioni proletarie del paese (cooperative, spacci, cantine) e che ruotavano intorno alla locale Casa dei socialisti. In questi venti anni Faraboli
riuscì a impiantare solidamente nel suo territorio un vero e proprio sistema di «cooperazione integrale» tra produzione, lavoro e consumo, che ebbe come riferimento il modello
reggiano di Prampolini e che puntò a creare, come scrive efficacemente Becchetti, «una
rete economica nelle mani degli stessi lavoratori, alternativa e competitiva con le regole
di mercato dettate dai potenti agrari, […] dove il lavoro fosse equamente pagato, i prezzi sotto controllo e i profitti reinvestiti in beni sociali» (p. 9). Bracciante autodidatta,
Faraboli era interessato esclusivamente a migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e
non fu attratto dalle dispute teoriche. Convinto gradualista, transitato per breve tempo
nelle correnti degli intransigenti e degli integralisti, egli approdò presto al riformismo
socialdemocratico, combattendo di volta in volta le posizioni radicali dei sindacalisti rivoluzionari, dei massimalisti e dei comunisti. La resistenza, secondo Faraboli, era valida
ma non sufficiente; la piena maturità si otteneva solo facendo perno sul «riformismo dei
cooperatori» (p. 75), classista e pragmatico, rafforzato dalla conquista dei Comuni e dal
costante rapporto con i propri parlamentari, la cui azione era decisiva per il finanziamento
di lavori pubblici.
Si trattò, dunque, di un sistema pienamente inserito nei meccanismi giolittiani di
mediazione sociale, utile a ottenere benefici ma incapace di modificare gli assetti di potere. E quando l’Italia liberale crollò sotto i colpi del fascismo, anche a Faraboli, prigioniero
fino all’ultimo dei suoi stessi appelli alla legalità, toccò la via dell’esilio. Egli riparò a Tolosa, dove proseguì un’intensa attività organizzativa e propagandistica, anche questa ben
documentata dall’a., fino al rientro in Italia nel dopoguerra, ormai vecchio e dimenticato.
Resta tuttavia, come sostiene Becchetti, il valore di un insegnamento che oggi appare
«meno anacronistico di quel che si pensi» (p. 12).
Fabrizio Loreto
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Attilio Belli, Gemma Belli, Narrare l’urbanistica alle élite. «Il Mondo» (1949-1966) di
fronte alla modernizzazione del Bel Paese, Milano, FrancoAngeli, 286 pp., € 38,00
Il tema della narrazione è caro agli urbanisti. L’urbanistica ha costruito il corpo dei
suoi saperi tecnici attraverso percorsi multidisciplinari e contemporaneamente ha elaborato strategie retoriche per legittimarsi con il potere politico, le élite sociali ed economiche
e le popolazioni. La trasformazione della città, infatti, mobilita saperi, coinvolge interessi
e poteri, crea conflitti e costruisce immaginari, necessita quindi di narrazioni capaci di
legittimazione: a partire dalle retoriche igieniste tra ’800 e ’900 costruite a supporto degli
sventramenti, per arrivare a quelle storiciste usate – viceversa – per bloccare i cementificatori e gli speculatori negli anni del boom economico. Su queste ultime si sofferma il
libro di Attilio e Gemma Belli prendendo come oggetto la figura di Antonio Cederna
attraverso la sua collaborazione al «Mondo» di Pannunzio.
Negli anni ’50 e ’60, in una fase di bassa legittimazione sociale degli urbanisti (gli
aa. la definiscono una «professione immatura» [p.252]) Cederna afferma la centralità
dell’urbanistica e la necessità di una sua divulgazione come sapere che offre insieme una
chiave di lettura e una misura dello stato di civiltà del paese. Non lo fa attraverso una
riflessione sul dibattito tecnico, bensì attraverso la costruzione di una narrazione basata su
una «strategia dell’indignazione» (p. 100), che ha una forte matrice storicista d’impronta
liberale, una pregnante valenza etica, una radicale intransigenza politica e un potente impatto identitario. È la narrazione del primato intangibile del patrimonio della città storica
sottoposto all’assalto devastante dei «Vandali» cementificatori, che enfatizza il passaggio
dal «mito di Roma» al «sacco di Roma» come paradigma del declino del paese e della
bellezza perduta. La risposta dell’urbanistica doveva essere un «piano coercitivo», capace
di affermare il punto di vista dell’interesse pubblico su quello privato, della storia sulla
modernità, orientato verso l’interdizione piuttosto che verso la proposta. Gli aa. raccontano come dopo una prima fase pluralista e aperta ai contributi dell’urbanistica tecnica e
riformista, la rivista abbia totalmente abbracciato l’impostazione intransigente di Cederna
di cui ricostruiscono analiticamente sia il modello narrativo, sia l’impatto sull’opinione
delle élites del Paese. Così attraverso il filtro dell’urbanistica il libro ci parla del rapporto
tra élites culturali e modernizzazione nell’ambito cruciale del governo della città e del territorio. Ne emerge che le élites italiane si muovono tra una adesione acritica ai processi di
modernizzazione urbana di cui i «Vandali» sono l’emblema, e una chiusura intransigente
che ne impedisce la comprensione degli aspetti positivi, di cui Cederna è l’interprete.
Questa polarizzazione spiega molte delle difficoltà del centrosinistra, come tentativo di
coniugare equità sociale e sviluppo, neocapitalismo e riformismo. Spiega anche la debolezza delle culture riformiste italiane che pure furono attive nell’ambito dell’urbanistica.
Così le narrazioni degli urbanisti sono utili agli storici.
Salvatore Adorno
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Franca Bellucci, La Grecia plurale del Risorgimento (1821-1915), Pisa, Ets, 264 pp., €
23,00
Il volume illustra come la Grecia fosse «vista dall’Italia» attraverso due significative
riviste fiorentine, l’«Antologia» e la «Nuova Antologia». Ne scaturisce un fitto intreccio
tra politica, storia, letteratura, riferimenti linguistici, artistici, archeologici, di critica teatrale e resoconti di viaggi. Si tratta dunque di una ricerca complessa e articolata sulle
tante angolature di Grecia plurale in cento anni di storia europea, in cui risulta centrale il
confronto con la classicità e il suo trasformarsi nel tempo.
L’a. muove da una profonda conoscenza delle questioni storiche evocate, ma testimonia anche il ruolo dei periodici come fonti della storia moderna e contemporanea. Si
segue così un percorso segnato dalle vicende delle due riviste, a loro volta specchio della
storia italiana dal Risorgimento alla prima guerra mondiale. Innanzitutto spicca il profondo filennelismo dell’«Antologia»: un moto culturale che affondava le radici nelle traversie
greche tra le mire europee fin dal ’700, ma «capace di trasformarsi in azioni, in solidarietà
attiva come quella espressa da Lord Byron» (p. 27).
Dal mito della «prova contagiosa» che la Grecia offrì all’Italia nel sentirsi nazione
e farsi Stato, si passa alla sublimazione di quel mito nell’epica carducciana. Gli alterni
atteggiamenti della «Nuova Antologia» verso la cultura classica sono poi bilanciati dal
richiamo al classicismo vitale di Carlo Boito. Mentre l’Italia tentava di superare i tradizionali localismi con le deputazioni di storia patria, si compieva il progressivo passaggio dalle
istanze nazionali a quelle nazionaliste e all’inizio del ’900 cresceva il sospetto generalizzato
verso gli altri paesi europei. Quindi anche verso la penisola ellenica, ormai uno Stato
con aspirazioni di legittimazione diplomatica in Europa. La nuova questione balcanica
avrebbe alimentato la rivalità politica tra Italia e Grecia, affacciate sullo stesso mare ed
entrambe medie potenze. Del resto allora era già emersa la sempre più marcata attenzione
italiana verso il Nord Europa (la data del 1870 con l’unificazione tedesca è indubbiamente nevralgica). Tuttavia in parallelo tornavano a rinnovarsi i richiami al classicismo greco
tanto apprezzato proprio dai nord-europei.
Talvolta l’immagine della Grecia appare quasi un pretesto per un’analisi rivolta a
tutto il continente – chiamando in causa il rapporto con la cultura tedesca o il ruolo
strategico della Russia, ricostruendo cioè gli scambi reciproci dalle imprese nazionali allo
scenario bellico (che con gli sconvolgimenti dei fronti vide Italia e Grecia nello stesso
schieramento). Tra i tanti passaggi si distingue il «soprassalto di filennelismo nel tempo
della Realpolitik» (p. 171). Quando ormai si profilavano le tendenze politiche e culturali
del ’900, nel 1896 la sollevazione di Creta contro l’Impero ottomano risvegliò l’interesse
italiano per la Grecia. Pur condizionata dall’ambizione a confrontarsi con il Nord Europa,
anche la «Nuova Antologia» fornì notizie, quadri storici, analisi diplomatiche, riecheggiando così l’atmosfera del Risorgimento e dell’«Antologia».
Donatella Cherubini
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Annunziata Berrino, I trulli di Alberobello. Un secolo di tutela e di turismo, Bologna, il
Mulino, 156 pp., € 17,00
Il volume è una bella ricostruzione di come un manufatto diventa patrimonio culturale, ottenendo tra l’altro il riconoscimento Unesco di Patrimonio dell’umanità nel 1996
e di come attorno a tale risorsa si costruisca lo sviluppo del settore turistico in una località
che conta appena 11.000 abitanti. Il manufatto di cui stiamo parlando sono i trulli, abitazioni costruite a secco, secondo una tecnica antichissima, e la città è Alberobello, che ogni
anno riceve circa 130.000 turisti. Utilizzando una grande varietà di fonti documentarie
il volume narra quello che potremmo definire un vero e proprio percorso di vita di questo patrimonio culturale a partire dal precoce riconoscimento di monumento nazionale,
ottenuto già nel 1910 (ai sensi della legge del 1909), limitatamente a tutte le costruzioni
a trullo collocate nella parte più antica della cittadina. Accompagnano la vicenda le tensioni e il difficile equilibrio fra le istanze di conservazione e la necessità di garantire una
funzionalità minima delle abitazioni, fra la volontà di non modificare nulla e la necessità
di inserire la luce elettrica, l’acqua potabile e gli altri servizi. Problema reso ancora più
pressante da un contesto socio-economico in cui i proprietari dei beni soggetti a tutela
non appartengono a ricchi casati nobiliari, ma sono la classe popolare di Alberobello. Una
tappa importante è l’arrivo dei primi progetti di valorizzazione turistica non tanto per il
loro impatto concreto sull’economia territoriale quanto per la sensibilità che contribuiscono a creare. Tanto più che spesso non vengono implementati, come quello del 1956
finalizzato a creare un villaggio dei trulli per i turisti, ricavato dal restauro filologico di
quelli affacciati su via Montenero, che però sfuma nel nulla a favore della costruzione di
un nuovo borgo residenziale. Poi arriva la svolta degli anni ’70, quando i trulli vengono
riconosciuti bene pubblico ai sensi della legge del 1939, creando i presupposti per una
serie di incentivi economici al restauro e alla valorizzazione.
La ricerca dell’a., che si snoda fra ’800 e ’900, consente di individuare con chiarezza
gli elementi alla base del profondo legame che si crea fra i residenti e i loro trulli. In primo
luogo la proprietà diffusa, perché gran parte di essi resta nel corso dei decenni di proprietà
di tanti residenti, spesso appartenenti alla fascia sociale più povera, mentre restauro e
valorizzazione sono il risultato dell’impegno di amministrazione comunale e famiglie.
Poi la tutela di antica origine che contribuisce a fare di una caratteristica locale un vero e
proprio elemento identitario. Infine, il fascino esotico che una metodologia costruttiva di
origine preistorica esercita sull’uomo civilizzato, nell’800 sul viaggiatore colto europeo, e
oggi anche sul ceto medio italiano.
A conclusione del volume sarebbe stato interessante comprendere quanto la vicenda
dei trulli di Alberobello sia rappresentativa del rapporto fra residenti e patrimonio culturale e quanto, invece, rappresenti un’eccezione. Ma per rispondere a questa domanda
occorre forse che i percorsi di vita di altri beni culturali vengano narrati.
Patrizia Battilani
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Giampietro Berti, Libertà senza Rivoluzione. L’anarchismo tra la sconfitta del comunismo e
la vittoria del capitalismo, Manduria, Lacaita, 407 pp., € 25,00
L’a. è molto noto negli ambienti accademici e del movimento libertario per due
esaurienti biografie di protagonisti dell’anarchismo italiano (Francesco Saverio Merlino
ed Errico Malatesta) e per aver coordinato l’ampio e fondamentale lavoro collettivo, il
Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani, Pisa, Bfs, 2003-2004, 2 voll. Un filone
cruciale dei suoi studi ruota da tempo attorno alle teorie antiautoritarie, ad esempio con
la poderosa ricostruzione Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Manduria, Lacaita, 1998. Questo Libertà senza Rivoluzione è il risultato di riflessioni pluridecennali e
presenta un ambizioso disegno: ridefinire l’anarchismo, non solo italiano, del XXI secolo.
Berti rievoca la svolta epocale iniziata nel 1989 e le trasformazioni che essa ha procurato
sul contesto politico complessivo con la «completa dissoluzione» (p. 5) del movimento
operaio e socialista. Poiché l’anarchismo si è mosso, dalla sua nascita, all’interno di una
più ampia tendenza anticapitalista, ora deve rivedere le proprie tattiche e teorie per non
farsi travolgere dagli eventi e quindi avviarsi verso un declino irreversibile. Considerando
le caratteristiche della modernizzazione dei secoli recenti, Berti valuta la Rivoluzione, tuttora auspicata dai libertari, sia un «errore teorico» (p. 44) sia una «impossibilità pratica»
(p. 54).
Sorprendono, ma fino a un certo punto, certi giudizi perentori sulle analogie teoriche e pratiche fra Hitler e Lenin, secondo i quali il primo sarebbe un «fratello tardivo»
(p. 144) del secondo. Pur all’interno di una critica delle teorie anarchiche del passato e
soprattutto del presente, l’a. recupera le intuizioni di Stirner, Proudhon e Bakunin che
vedevano nel comunismo preconizzato da Marx un inedito tipo di oppressione sociale
esercitato dalla «nuova classe dominante» (p. 137), il vertice del partito depositario esclusivo del potere economico e politico. Alcune decine di pagine sono poi dedicate a una descrizione, necessariamente schematica, delle tappe storiche del trionfo del capitalismo e in
particolare del «soggetto storico che più di tutti ha veicolato la vittoria del capitalismo: gli
Stati Uniti d’America» (p. 189). Dallo scoppio della bomba atomica in poi si esaminano
le tappe della guerra fredda e della crisi progressiva degli Stati comunisti. In conclusione,
se la storia globale del secondo dopoguerra ha mostrato la coesistenza tra i sistemi economici e politici di Usa e Urss ciò era dovuto a un fatto evidente: «Chi viveva oltre la cortina
di ferro era coattivamente impedito di scegliere un’altra soluzione» (p. 230). Infine, Berti
profetizza che l’affermazione della democrazia liberale nei paesi sviluppati risulterà inevitabile «se continuerà una sostanziale competizione pacifica fra tutte le civiltà» (p. 230).
Il quarto e ultimo capitolo è dedicato ai problemi del futuro dell’anarchismo. La
soluzione risiederebbe nell’ardita (o temeraria?) sintesi fra Kant e Bakunin, in nome del
discutibile principio secondo cui «l’anarchismo supera il liberalismo solo se lo conserva»
(p. 376).
Claudio Venza
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Lorenzo Bertucelli, All’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie Riunite, Milano, Unicopli, 326 pp., € 19,00
Il libro presenta un duplice pregio: di riportare al rilievo che merita la vicenda della
strage di Modena del 1950, spesso relegata (soprattutto nei volumi di sintesi) a una posizione di relativo secondo piano; inoltre – ed è il merito più importante – di inserire la
vicenda locale all’interno delle ampie dinamiche nazionali e internazionali che caratterizzavano la storia dell’epoca.
Il sottotitolo del libro potrebbe infatti trarre in inganno il lettore, evocando la dimensione di uno studio di storia locale concentrato su un particolare, per quanto importante, delle lotte politico-sociali di allora. Ma di inganno appunto si tratterebbe. Perché
al contrario Bertucelli adotta un metodo che si potrebbe definire come di uno zoom, che
parte da una visione dell’insieme per poi stringere progressivamente la lente verso il dettaglio, così da renderne più intelligibile il senso all’interno del contesto.
I primi capitoli del volume sono perciò dedicati – con un ampio apparato di fonti
– ad analizzare l’atteggiamento delle classi dirigenti italiane, nel settore privato e tra gli
organi dello Stato, tutte caratterizzate da «una convinta visione delle masse popolari come
soggetto manipolabile, instabile, irrazionale […] sempre bisognoso di un benevolo patronage che lo sottragga dalle nefaste influenze degli agitatori» (pp. 77-78); ne discendeva
l’idea che «la conflittualità sociale» non fosse «fisiologica» e che la democrazia andasse, più
che «protetta», «limitata» per «difendere prerogative corporative e privilegi tradizionali fra
i ceti medi» (pp. 82-84).
È in tale difficile contesto che si inseriscono le aspre lotte politico-sociali della provincia di Modena. Si entra così nella parte centrale del volume, dove l’analisi dell’a. si
arricchisce di uno stimolante profilo biografico del questore che, inviato da Roma in una
provincia che non conosce, si «sente in terra di frontiera, sulla linea del fronte», pronto
a tutto affinché Modena – per usare le sue parole – «torni nell’assoluta normalità e rappresenti un’oasi di pace fra le turbolenti province emiliane cui fa da cuscinetto» (pp. 105106). Non desta meraviglia, in questo quadro, l’adozione frequente di misure repressive.
Né desta meraviglia che la tensione – sia nel capoluogo che nella provincia – lungi dal
diminuire salga, fino al limite dello scontro.
Illustrate le premesse, il libro arriva così alla parte finale, con le tragiche vicende del
gennaio 1950. Qui l’analisi si fa molto minuziosa, con una descrizione dei fattori che
portano allo scontro, fino a quando, il 9 gennaio, le forze dell’ordine sparano e – come è
noto – lasciano 5 morti sul selciato.
Conclude il libro un interessante capitolo finale, dove Bertucelli segue le vicende
processuali scaturite dalla strage. Qui il lettore troverà una documentazione di notevole
interesse che permette di seguire, dall’angolo di visuale dell’attività giudiziaria, l’evoluzione dei rapporti nei poteri dello Stato e tra lo Stato e i cittadini.
Paolo Mattera
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Silvia Bianciardi, Argentina Altobelli e la “buona battaglia”, Milano, FrancoAngeli, 432
pp., € 48,00
Silvia Bianciardi porta a compimento un lavoro durato anni con una bella biografia
su Argentina Altobelli, alla quale già aveva dedicato una raccolta di scritti. Altobelli è stata
senza dubbio un personaggio di primo piano: dirigente sindacale sin da giovane, entrò
negli organi direttivi del Psi e della Cgdl, guidò un organismo cruciale quale la Federterra
e infine nel 1912 fu la prima donna a entrare in organi istituzionali, nel Consiglio superiore del lavoro. Ve ne sarebbe abbastanza per immaginare una ricchissima produzione
saggistica al riguardo. Invece è il contrario. Sicché, questo lavoro giunge benvenuto a
colmare la lacuna.
Il volume è frutto di un’accurata consultazione delle fonti, sia quelle a stampa, sia
d’archivio: dalle carte di polizia dell’Archivio centrale dello Stato al prezioso fondo della
stessa Altobelli conservato presso la Fondazione Turati. Ne emerge così un quadro molto
ricco, ricostruito in tutta la sua articolata complessità. Come molti altri suoi compagni
di militanza, Altobelli iniziò la sua attività come propagandista. L’a. ne segue meticolosamente i primi passi e la crescita, testimoniandone l’abilità e la crescente popolarità: «le
descrizioni giornalistiche del tempo riescono a trasmettere il clima di attesa e di affettuosa
gratitudine creato dai lavoratori attorno a quelli che consideravano dei veri apostoli della
loro causa, tanto da guadagnarsi, come nel caso della giovane Argentina, addirittura l’appellativo “di madre socialista”» (p. 69). E non doveva certo essere facile emergere in un
mondo dominato dagli uomini. Altobelli però ci riusciva, pur senza sacrificare la propria
condizione, anzi: «nello svolgimento del suo lavoro non ricorreva a nessun espediente per
mortificare il suo essere donna […] nel tentativo di costruire di sé un’immagine sessualmente neutra che servisse a legittimarla» (p. 90). L’inizio del XX secolo e l’età giolittiana
sono la sua stagione più operosa, durante la quale si distinse «per le caratteristiche di
concretezza e di pragmatismo» che ne fecero uno dei principali esponenti della corrente
riformista (pp. 99-100).
Grazie a questo intenso lavoro, a metà dell’età giolittiana Altobelli giunse ai vertici
nazionali delle organizzazioni proletarie: il Psi, la Cgdl appena fondata da Rigola, e la Federterra; scelta che «sanciva di fatto il riconoscimento dell’intensa attività di propaganda
e di organizzazione compiuta negli anni precedenti» (p. 102). La nomina al Consiglio
superiore del lavoro, oltre a essere l’approdo di questo percorso, poteva anche costituire
l’inizio di nuove realizzazioni. Ma il declino dell’età giolittiana segnava parimenti il declino dei riformisti. Seguirono perciò anni difficili, che l’a. segue indagandone anche i riflessi
di natura personale, fino alla scelta del ritiro e alla morte, giunta nel 1942.
Quella di Silvia Bianciardi è insomma una biografia voluminosa e ben documentata,
che costituisce un importante tassello verso una migliore comprensione dell’azione sindacale di inizio ’900.
Paolo Mattera
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Ruth Bondy, Enzo Sereni. L’emissario, Aosta, Le Château, 475 pp., € 28,00
Ben poco si conosce in Italia di Enzo Sereni, figura rilevante dell’emigrazione italiana in Palestina, intellettuale raffinato, politico di primo piano nell’élite dell’yishuv (comunità ebraica residente nella Palestina mandataria), morto nel 1944 a Dachau. A sollecitare
l’attenzione sulla sua figura giunge ora la traduzione dell’ampia biografia che nel 1973 gli
dedicò Ruth Bondy, praghese sopravvissuta a Theresienstadt e ad Auschwitz, scrittrice e
giornalista del quotidiano laburista «Davar». L’accurata traduzione dall’ebraico, a cura di
Sarah Kaminski e Maria Teresa Milano, ben rende l’interesse e la piacevolezza del testo.
Una presentazione dello storico Alon Confino, nipote di Enzo, colloca la biografia nel
contesto dell’ebraismo italiano della prima metà del ’900 e in quello della storia e della
memoria del sionismo degli anni che precedono la formazione dello Stato.
Sereni fu l’unico italiano fra i dirigenti dell’yishuv e questo lo rende un personaggio in qualche modo anomalo nel panorama politico del futuro Stato di Israele. E fu
anche l’unico che abbia scelto, negli anni della guerra, di tornare in Europa. I suoi legami con l’Italia restarono forti nonostante il suo impegno nell’yishuv. Di questo legame
ideale ininterrotto, l’a. cerca le tracce nella storia di Sereni negli anni precedenti all’aliyah (emigrazione nella Palestina mandataria), compiuta nel 1927, nella sua cultura figlia
dell’emancipazione, nelle caratteristiche tanto speciali del sionismo in Italia, fenomeno di
minoranza ma anche intenso momento di ricostruzione identitaria.
La storia della famiglia Sereni è in realtà una storia anomala. Una famiglia della
borghesia ebraica romana, il padre medico del re, i tre fratelli tutti fuori dal comune. Il
primo, Enrico, di convinzioni liberali, morto giovane; poi Enzo, e infine Emilio, prima
sionista poi comunista ortodosso, in totale rottura con l’amato fratello. Ad accomunarli,
l’antifascismo. Il libro si dipana così, dopo essersi soffermato sulla storia giovanile di
Enzo, sulla sua opera nell’yishuv, sulla sua vita nel kibbutz Givat Brenner, da lui fondato,
a fianco della moglie Ada Ascarelli, che dopo la sua morte sarà l’organizzatrice dell’aliyah
clandestina verso la Palestina, sulle sue missioni politiche, inviato dall’yishuv in Germania,
negli Stati Uniti, in Iraq e infine sulla scelta finale di farsi paracadutare in Toscana in mezzo ai nazisti per tentare di salvare gli ebrei italiani dalla deportazione. Il libro ricostruisce
così non solo l’immagine tanto diffusa in Israele dell’eroismo di Sereni, ma anche quella
della sua singolare umanità, della sua fede nella libertà, del suo «umanesimo», come lo
chiama Confino, espresso fra l’altro, oltre che nella sua opera, anche nella sua forte convinzione che ambedue i popoli, quello ebraico e quello arabo, dovessero avere una terra
e uno Stato comune.
Una storia straordinaria, sia in rapporto al mondo ebraico italiano che a quello sionista dell’yishuv e poi di Israele. Una storia tanto anomala da non poter forse essere rappresentativa dei percorsi maggioritari dell’ebraismo e del sionismo, ma per questo tanto
più importante da investigare, da conoscere e da ricordare.
Anna Foa
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Giacomo Borbone, La rivoluzione culturale di Antonio Labriola. L’innesto creativo del marxismo nella tradizione della cultura italiana, prefazione di Francesco Coniglione, Roma,
Aracne, 252 pp., € 15,00
Il libro è una buona sintesi della riflessione di Antonio Labriola, dal suo apprendistato filosofico con il suo primo manoscritto del 1862 (Una risposta alla prolusione di Zeller),
in cui egli affronta il problema della conoscenza proponendo un ritorno a Kant, fino alle
note di risposta in merito alla discussione sulla revisione di Marx nel dibattito avviato da
Tomas Garrigue Masaryk e che in Italia ha per protagonisti Benedetto Croce e Giovanni
Gentile. Con questi ultimi, soprattutto col primo, Labriola ha avuto approfonditi scambi
proprio su Marx e sulla concezione materialistica della storia, condividendo la riflessione
dei saggi sul materialismo storico che scrive tra il 1895 e il 1898. Borgone ripercorre così
tutti i momenti specifici e disciplinari che caratterizzano la riflessione filosofica di Labriola: le prime note sulla filosofia di Socrate e di Aristotele, il problema legato alla filosofia
della storia in cui si propone come critico radicale del pensiero positivistico proponendo
il concetto di epigenesi, che immette nella riflessione sullo «sgomitolamento della storia»,
come poi dirà negli anni ’90, il fattore decisivo della psicologia sociale, proponendo così
l’abbandono della visione evoluzionistica della storia. Un tema, quello dello sviluppo della storia e di come narrare lo stesso sviluppo storico, che ritorna significativamente nel suo
Dell’insegnamento della storia (1876), dove egli sottolinea come la sola esposizione dei fatti
storici non sia capace di promuovere riflessione, né educazione o sensibilità, avendo per
interesse che «la storia che importa insegnare – scrive opportunamente Borgone – deve
presentare all’animo il vivo dei rapporti sociali fuori delle fluttuazioni dell’empirismo
giornaliero; in una parola vuol essere il vario del vivere destinato a suscitare il vario degli
spirituali interessi» (p. 73). È un tema, quello della riflessione sulla storia, che costituisce
il corpo essenziale dei suoi saggi sul materialismo storico e della sua passione politica per
la nascita e la configurazione del Partito socialista in Italia, come testimonia non solo il
suo carteggio con Engels, tra il 1890 e il 1895, ma anche il suo acceso rapporto epistolare
con Filippo Turati. Una ricostruzione dunque complessiva della figura di Labriola a cui,
tuttavia, mi sembra manchi un tassello, ovvero la fase di riflessione e il ripensamento
degli ultimi anni, quelli successivi alla crisi rispetto al marxismo, che accompagnano la
stesura, poi rimasta incompiuta, di Da un secolo all’altro. Un momento che coincide con
l’acutizzarsi della sua malattia, che lo porterà precocemente alla morte nel febbraio 1904.
Quel silenzio non solo dipende dalle sue condizioni di salute ma, come ha ricostruito con
precisione Franco Sbarberi (Ordinamento politico e società nel marxismo di Antonio Labriola, FrancoAngeli, 1986, pp. 120 e ss.), testimonia una profonda crisi politica e culturale,
in cui Labriola rivede profondamente e criticamente sia le sue posizioni sul marxismo, sia
le conclusioni a cui era giunto nel 1898.
David Bidussa
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Giovanni Borgognone, Come nasce una dittatura. L’Italia del delitto Matteotti, Roma-Bari,
Laterza, 265 pp., € 19,00
Sembra incredibile, ma il periodo che va dal delitto Matteotti al 3 gennaio 1925 e
alle leggi cosiddette fascistissime dei mesi successivi richiederebbe di essere ancora approfondito. Poco sappiamo del modo in cui cambiano l’Italia e il rapporto degli italiani con
la politica e le istituzioni, in una fase in cui il governo è già dittatoriale ma esistono ancora
dei margini di azione per le forze di opposizione. Dovremmo sapere di più in particolare
sui rapporti tra centro e periferia e sul modo in cui la società italiana si adattò progressivamente alla dittatura, cercando attraverso lenti diverse da quelle utilizzate dai prefetti e dal
ministero dell’Interno. Purtroppo il libro di Borgognone non riempie questo vuoto e si
limita a ripercorrere quegli anni, raccontandoli in modo chiaro e puntuale, ma senza che
vi sia alcuna ricerca originale né punti di vista o interpretazioni dirompenti. Come nasce
una dittatura ripercorre strade già battute per spiegare le ragioni del delitto Matteotti
(chi ne siano i mandanti e gli esecutori) e ciò che il delitto determinò in particolare nella
scena politica e parlamentare italiana. Percorsi conosciuti e studiati approfonditamente, e
rispetto ai quali siamo debitori soprattutto agli studi di Mauro Canali per quanto riguarda
il delitto, le sue finalità e i suoi attori.
Il libro è diviso in cinque capitoli, dedicati rispettivamente al delitto Matteotti (Il
delitto); alla vita di Matteotti e all’evoluzione politica e istituzionale dell’Italia del dopoguerra (Gli antefatti), con particolare riferimento al periodo tra la nascita del fascismo e
l’inizio della legislatura del 1924, alla scomparsa di Matteotti e alle reazioni all’evento
nel Psu, nel Partito fascista, in Parlamento e nella stampa nazionale (Lo scandalo). Gli
ultimi due capitoli sono infine dedicati alla fase delicata tra il rinvenimento del cadavere
di Matteotti (Un cadavere «gettato tra le gambe di Mussolini») e il 3 gennaio 1925 (Finale
di partita), dal punto di vista dell’azione politica, giudiziaria e parlamentare del governo
e dell’opposizione. Il libro si chiude con la fine dell’inchiesta giudiziaria nei confronti dei
colpevoli del delitto, che rivelò l’ennesimo asservimento della magistratura agli indirizzi
politici del momento, a ulteriore dimostrazione che il rapporto tra politica e giustizia è un
elemento chiave di qualsiasi Stato che voglia essere democratico.
Il titolo del volume è in qualche modo fuorviante. Innanzitutto, la storia dei mesi
trattati da Borgognone ci dice molto del modo in cui si stabilizza una dittatura, ma lo
stesso a. è consapevole – come lo era, e acutamente, Giacomo Matteotti – che, almeno in
parte, quella dittatura era già nata con la marcia su Roma e con le trasformazioni istituzionali e politiche seguite a quell’evento. Ma soprattutto il libro ci dice poco di come fosse
l’Italia di quei mesi, esaurendo il racconto nelle sfere della politica, della vita parlamentare
o della stampa nazionale che, da sole, non possono spiegare l’asservimento degli italiani
al regime fascista.
Giulia Albanese
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Barbara Bracco, La Patria ferita. I corpi dei soldati italiani e la Grande guerra, Firenze,
Giunti, 236 pp., € 16,00
Buon saggio di storia culturale: esistono l’Italia, la storia italiana, persino la storiografia italiana, e non è indispensabile esibire letture e scrivere in inglese. Ci sono inoltre
i fatti, le cifre, e la discussione sui fatti e le cifre (ma un indice dei nomi non altrettanto
curato). E in specifico, la pietà per le vittime, senza l’ossessione unilaterale del «paradigma
vittimario». Barbara Bracco, non nuova alle angolature originali sulla Grande guerra, individua uno spazio proficuo di approfondimento: i mutilati – quasi mezzo milione, in base
alle pensioni per danni fisici o psichici permanenti. Del reticolo informativo sono parte
gli specialisti di una nuova scienza applicata nata dalle dimensioni di massa del fenomeno,
le ricerche, la fabbricazione di protesi, la capacità di far fronte – tecnicamente, socialmente, finanziariamente, in via pubblica o privata: «sussidiarietà» – a centinaia di migliaia di
devastanti ferite di guerra: che vanno affrontate subito, quasi sulle linee, e poi in modi e
luoghi diversificati di apparati medici sempre in crescita. A Bracco riesce congeniale interrogarsi sui problemi di disadattamento–adattamento: l’arto amputato, il volto sfigurato,
la cecità, fors’anche (si mormora) menomazioni orrende che spingono all’occultamento. I
processi culturali promuovono la trasformazione della tradizionale visione sminuente del
menomato civile, in una edificante. Il corpo sociale della Patria ferita si reintegra perché
i suoi giovani uomini hanno saputo dare fisicamente una parte di sé, e perché essi hanno
il diritto di esigere il pagamento di una «cambiale»: vengono curati, accuditi, riabilitati,
riavviati al lavoro. Bracco ricostruisce la mobilitazione diffusa di un vario «interventismo civile» – fitto di presenze femminili – che consegue all’interventismo del ’14-15, e
rappresenta una forma di responsabilità pubblica di coloro che hanno «voluto» la guerra
verso quelli a cui la si è fatta fare. La valutazione è che questo sforzo di immedesimazione
e soccorso collettivo vi sia, idealmente e materialmente. Anche i mutilati si costituiscono
come soggetto associativo «nazionale», di crescenti ambizioni, sindacali e politiche. Contrariamente agli anni di protagonismo storiografico del «non senso» della guerra, questo
libro pone dunque di fronte al ritrovamento di un «senso» anche nelle occasioni di offesa
e violazione del corpo. Una visione concessiva? Non è che non si facciano vedere ritardi e
inadempienze; e anche interrogativi su una mobilità sociale che trova incentivi nel ritorno
al lavoro. A quale lavoro? Mica tutti – da contadini quali spesso erano – possono assurgere
alla condizione impiegatizia di bidelli o telefonisti. Questo è vissuto come rischio (p. 93,
p. 132) non solo da destra, ma anche da sinistra. Per Fabrizio Maffi, socialista, è frivolo
un dirigismo che rieduchi folle di mutilati come calzolai, lavoratori di vimini ecc., ne può
uscire sconvolto il tessuto sociale delle comunità di partenza.
Mario Isnenghi
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Antonio Calabrese, Fascismo e tradizione tra cultura e potere. Il contributo di «Diorama
Filosofico» (1934-1943), Roma, Aracne, 232 pp., € 15,00
Le vicende della pagina diretta da Evola all’interno de «Il regime fascista», dei suoi
collaboratori e dei contenuti propostivi sono poco note. A questa lacuna cerca di porre
rimedio il volume di Antonio Calabrese, che presenta uno studio analitico e non una
mera antologia.
Il giornalismo fascista, con la miriade di testate che ha prodotto, risulta difficile
da mappare integralmente, se si vogliono cercare concordanze di temi e una strategia
comunicativa che ci faccia comprendere caratteristiche ed efficacia di un’azione fiancheggiatrice. La scelta dell’a., nell’affrontare un periodico poco praticato, è precisa: riportare,
ricorrendo ad abbondanti citazioni, il pensiero di un cenacolo di autori che si posizionano
nell’oscura galassia del conservatorismo nazifascista, tradizionalista, elitista, antimoderno
e razzista. Sotto la direzione di Evola «Diorama» ospita nomi noti del pensiero esotericotradizionalista come Guénon, ma anche scrittori di provincia, impegnati nella definizione
di un fascismo gerarchico e antimaterialista, impregnato di culto del Medioevo e della romanità imperiale, ascetismo ed eroismo per contrastare la modernità, la società di
massa, il pacifismo, la democrazia, il bolscevismo. Il capitolo iniziale offre uno spaccato
interessante di quei rivoli culturali su base europea che dalla critica alla modernità e alla
rivoluzione francese si addensano in alcune istanze condivise all’interno del fascismo.
Chiude un capitolo dedicato al razzismo, non solo all’antisemitismo ma più in generale al
richiamo di Mussolini al fascismo come baluardo contro le «razze nere» e «gialle».
Le principali perplessità sul libro le registriamo sul terreno dell’esistenza di un progetto politico dichiarato relativamente a «Diorama», nel senso che ci sfugge non solo il reale
peso di queste posizioni, ma finanche l’autorappresentazione degli autori come gruppo in
antitesi a qualcos’altro. In effetti lo studio si limita a riportare contributi ospitati dal foglio
senza porli in relazione con quanto pubblicavano altre testate e senza farli dialogare con la
politica fascista. Ne consegue un’enunciazione di temi attraverso il pensiero di autori dalla
biografia spesso oscura ma che, a una serie di verifiche, risultano collaborare a molte altre
riviste del fascismo. In realtà i temi trattati su «Diorama» non sono una sua specificità,
ma risultano comuni a molta stampa di partito e dei Guf. Inoltre molte delle riflessioni
proposte, più che rappresentare un pungolo per il riposizionamento del fascismo secondo
le istanze tradizionaliste, sono omogenee alle politiche ufficiali del regime (dalla critica a
Ginevra e alla democrazia, al culto dell’impero, alla polemica antiborghese, al razzismo).
Nel salutare l’interesse per un volume che fornisce voci poco conosciute della pubblicistica fascista, va ricordato che gli studi specialistici, se non sono supportati da un’adeguata conoscenza della storia generale del fascismo, rischiano di smarrirne la complessità
e di considerare come peculiari di determinati ambienti punti di vista e credenze in realtà
maggiormente diffusi.
Simone Duranti
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Luca Cangemi, L’elefante e la metropoli. L’India tra storia e globalizzazione, Bari, Dedalo,
144 pp., € 16,00
Nel 1978 Edward Said pubblicava il suo famoso libro Orientalism. Da allora il tema
del rapporto tra conoscenza e potere nella costruzione della relazione tra colonizzati e
colonizzatori è stato al centro del dibattito storiografico e ha portato allo sviluppo di studi
importanti tra i quali, con particolare riferimento al subcontinente indiano, non si può
fare a meno di ricordare quello del gruppo di Subaltern Studies. Cercando di inserirsi in
questo filone, l’a. propone una serie di saggi che trovano un possibile filo conduttore nel
venire in primo piano delle varie voci di una «subalternità» umana che, nel caso specifico, troverebbe in alcune elaborazioni culturali un canale privilegiato. Il primo esempio
proposto è quello del cinema indiano o, per meglio dire, di quello in hindi dell’India del
nord, Bolliwood, di cui vengono descritti e commentati alcuni film fra quelli più noti
anche al pubblico occidentale. A partire da questi spunti l’a. offre la sua analisi su alcuni
temi rilevanti di ordine storico-culturale e socio-economico, in particolare i rapporti fra
società indiana e mondo occidentale. Sempre seguendo il filone della subalternità, Cangemi cerca esplicitamente di fornire una rielaborazione dei temi cari al gruppo di Ranajit
Guha e Gayatri Chakravorty Spivak, concentrandosi sulla rivalutazione del ruolo delle
rivolte contadine e dei movimenti dal basso nella individuazione di una voce autonoma
di gruppi tradizionalmente ignorati dalla storiografia occidentale come nazionalisti. Sulla
stessa linea, viene affrontato il tema della costruzione di una immagine dell’India funzionale al dominio coloniale, specialmente in rapporto alla letteratura britannica. Così, da
Forster a Kipling, l’a. ripercorre l’imperialismo culturale della metropoli colonizzatrice
teso a definire una caratterizzazione del paese colonizzato che ne giustificasse e permettesse le forme di colonizzazione.
Se questa è sostanzialmente la linea di argomentazione del libro, non è possibile
non notare come tenere insieme in meno di 150 pagine «l’antica narrazione vedica e i
film di Bollywood, le rivolte contadine contro il potere coloniale e le proteste contro
la precarietà globale dei call center e delle multinazionali» (p.7) è forse impresa un po’
troppo ambiziosa. Così l’impressione che il lettore ne ricava è di una certa frammentarietà, non bilanciata da una ricerca critica e originale che faccia da baricentro a una serie
di conoscenze che, altrimenti, risulterebbero essere di seconda mano. Il problema forse
più grande del volume è, a mio avviso, l’unilateralità dell’impostazione che, rinunciando
a occuparsi delle critiche pur rivolte al filone dei Subaltern Studies, o cercando almeno di
rievocare il senso del più ampio dibattito di cui questi sono parte, finisce per far perdere
di interesse a una argomentazione che si limita a ripercorrere le conclusioni di altri autori.
In questo modo la parte più «viva» del libro è il calore e la partecipazione con cui vengono
affrontati, a partire da questa molteplicità di spunti, le questioni relative a modernizzazione e modernità.
Rita Paolini
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Eleanor Canright Chiari, Undoing Time. The Cultural Memory of an Italian Prison, Oxford-Bern-Berlin-Bruxelles-Frankfurt am Main-New York-Wien, Peter Lang, XXXII-243
pp., € 53,50
Questo volume, di cui si consiglia la traduzione in italiano, introduce nella storiografia sul carcere la dimensione della cultural memory, ossia «il campo della negoziazione
culturale attraverso la quale narrazioni differenti si contendono un posto nella storia»
(Marita Sturken, p. XXI). Sulla base di interviste a trentanove tra ex detenuti, ex agenti
di custodia, ex funzionari dell’amministrazione penitenziaria, volontari carcerari e all’ex
cappellano, l’a. esplora le rappresentazioni relative ad alcuni eventi-chiave della storia de
Le Nuove di Torino (attive dal 1870 al 2003), e i processi attraverso cui tali memorie
vengono costruite, narrate e talvolta rimosse. La prospettiva metodologica, legata alla
storia orale e alla microstoria, dà rilievo alla spazialità e alla temporalità carceraria. Le
memorie dei protagonisti sottolineano l’importanza degli spazi interni alla struttura penitenziaria, e il volume è organizzato «in capitoli che seguono la geografia fisica del carcere»
(p. XXII): la cella, il muro di cinta, il tetto, la chiesa, l’ingresso principale. In ciascuno
di questi luoghi si sedimentano storie, ricordi e tracce che i protagonisti selezionano e
riorganizzano, disegnando percorsi di memoria irriducibilmente individuali. Ne risulta
una decostruzione della temporalità lineare capace di restituire quella complessa dialettica, tipica della storia carceraria, tra apparente immobilismo e sotterranee discontinuità
e tra tendenziale chiusura dell’istituzione in se stessa e sostanziale porosità tra dentro e
fuori. Le memorie individuali si concentrano su alcuni momenti specifici: i mesi finali
della seconda guerra mondiale – la detenzione dei partigiani, la deportazione, la sorte dei
condannati a morte – e i «lunghi anni ’70» – l’uccisione degli agenti Giuseppe Lorusso
e Lorenzo Cotugno e le rivolte del 1969, 1971 e 1976. Nell’ultimo capitolo l’a. indaga
altresì le dinamiche attraverso cui ex edifici penitenziari entrano a far parte (o meno) del
patrimonio culturale. Il riferimento principale è alle narrazioni del comitato «Nessun
uomo è un’isola», impegnato a preservare Le Nuove come luogo della memoria, la cui
esperienza è opportunamente comparata a quelle di altri ex-penitenziari, da Carandiru
(Brasile) ad Alcatraz (Stati Uniti).
A fronte del convincente quadro d’insieme delineato dall’a., va segnalata la problematica assenza dei detenuti comuni, ossia della maggioranza dei reclusi. Nella ricostruzione sono assenti le loro voci, potenzialmente portatrici di geografie e cronologie alternative
de Le Nuove – come è risultato evidente negli studi sui lager nazisti e sui gulag sovietici
quando l’attenzione storiografica si è allargata dagli internati politici a quelli comuni.
Manca inoltre una riflessione sul perché i detenuti comuni siano assenti nelle memorie
degli intervistati, così concentrate sull’esperienza della detenzione politica. Una rimozione che è utile indagare, perché rivelatrice del più generale meccanismo di costruzione
della memoria collettiva in virtù del quale «alcuni passati sono più preminenti di altri»
(p. XXV).
Christian G. De Vito
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Alessandra Cantagalli, Tra economia e Stato. La professione del ragioniere dall’Unità ad oggi,
Bologna, Bononia University Press, 216 pp., € 18,00
Con questa monografia l’a. prosegue nel proprio lavoro di ricerca sulla storia delle
professioni in età contemporanea, una tematica che ha attirato in tempi recenti l’interesse della storiografia nazionale. Il volume ricostruisce le vicende dei ragionieri in Italia
dal primo ’800 sino al 2005 (anno dell’istituzione della professione unica) e indaga tale
figura sotto diversi punti di vista, evidenziando soprattutto la correlazione tra i processi di
sviluppo e modernizzazione economica dello Stato italiano e le trasformazioni subite dalla professione contabile, nonché lo status politico-sociale progressivamente assunto dalla
categoria nell’ambito della società.
La ricerca si apre con una esaustiva disamina del processo di professionalizzazione
del ragioniere. L’accento viene posto sul periodo dell’esperienza napoleonica, con l’emanazione del Regolamento per l’abilitazione all’esercizio di pubblico ragioniere, sulle varie
forme di rappresentanza assunte dalla categoria nel corso degli anni e sul riconoscimento
giuridico del 1906, di cui viene descritto nei dettagli il relativo dibattito parlamentare e
l’impianto generale del testo della legge. Benché significativo, il raggiungimento di un
simile traguardo non condusse alla risoluzione di tutte le problematiche: la composizione
degli albi, l’organizzazione dei collegi in ambito locale, il conflitto tra ragionieri diplomati
e provetti e il contrasto con gli altri ordini professionali.
Gli anni della guerra e il fascismo furono piuttosto complicati a causa della crisi
del mercato contabile e l’introduzione di provvedimenti arrecanti tagli agli onorari. È in
questa fase che nasce un vero e proprio sindacato di categoria e giunge a maturazione lo
sdoppiamento della professione contabile tra liberi professionisti e ragionieri impiegati;
non solo, si assiste al duro scontro tra i ragionieri e i dottori in scienze economiche e
commerciali; l’a. riserva ampio spazio a tale aspetto, così come al mercato dei servizi
contabili e all’approvazione da parte del governo di due distinti regolamenti professionali
nel 1929.
La fine della dittatura favorì la definitiva affermazione della libera professione del
ragioniere, il suo ruolo sociale e l’importante contributo fornito dalla categoria al processo di modernizzazione del paese. L’evoluzione della normativa tributaria e societaria e il
nuovo ordinamento dei ragionieri e periti commerciali, approvato dal Parlamento nell’ottobre del 1953, attribuirono, infatti, più complesse funzioni ai professionisti contabili.
Tuttavia, lo stesso ordinamento fece riaffiorare la vecchia diatriba, peraltro mai sopita,
del rapporto tra i ragionieri e i dottori commercialisti. Una diatriba caratterizzata spesso
da scontri polemici, destinata a durare diverso tempo ancora e che si concluderà soltanto
con l’istituzione della professione unica nel 2005, per molti considerata una sconfitta per
la figura del ragioniere.
Massimiliano Paniga
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Franco Cardini, Gerusalemme. Una storia, Bologna, il Mulino, 311 pp., € 16,00
Esistono forse – come scrive Cardini – città più belle di Gerusalemme. Certo è che
non esistono città delle quali sia più difficile scrivere la storia. A Gerusalemme infatti, più
che in qualsiasi altra città, ci si trova a dover fare i conti con un «passato che non passa».
Qualsiasi lettura, anche delle fasi più remote della sua storia, ha implicazioni che investono i conflitti politici e religiosi attuali. Nella Città Santa per ebrei, cristiani e musulmani,
anche «l’eseguire uno scavo archeologico può essere un atto politico, anzi ideologico: il
privilegiare gli strati della Gerusalemme biblica, per esempio, obbliga a rimuovere e in
parte quindi a eliminare […] quelli della Gerusalemme coloniale, ottomana, mamelucca,
crociata, araba, bizantina, romana, ellenistica» (pp. 32-33). «Troppi liberatori e troppi
dominatori», scrive Cardini. Si potrebbe dirlo di molte altre città storiche, ma il fatto
sconcertante è che nel caso di Gerusalemme le due categorie troppo spesso si confondono
e si scambiano i ruoli a seconda delle prospettive. Davide (che la strappò ai Gebusei),
Ciro, ‘Umar, Goffredo da Buglione, Saladino, Selim I, Allenby e Lawrence, Moshe Dayan
e altri l’hanno liberata o conquistata? La risposta dipende naturalmente dai convincimenti
di ciascuno circa l’appartenenza legittima di Gerusalemme. «Ma ha poi un senso chiedersi
se una città che è stata per secoli al centro della storia e della fede possa davvero appartenere a qualcuno, al di là della politica e delle istituzioni, dei confini e delle convenzioni?» (p.
15). Il fatto che Gerusalemme sia una città santa plurale, al centro di progetti spirituali,
politici e identitari contigui, ma incompatibili fra loro e aspramente conflittuali, rende
quindi più arduo scriverne una storia ragionevolmente condivisa. Nello stesso tempo la
dimensione storica è essenziale alla comprensione del significato profondo della sua stessa
sacralità. Le tre religioni abramitiche che hanno in Gerusalemme il loro Luogo Santo (o
uno dei loro Luoghi Santi) infatti «si distinguono da tutte le altre per essere caratterizzate
non dalla compresenza della realtà e del mito, bensì dall’irruzione del divino nella storia.
La sacralità specifica di Gerusalemme non si intende se di essa non si traccia appunto la
storia» (p. 33).
Quella che Cardini propone in questa pagine non può essere pertanto una semplice
biografia urbana, un compendio autorevole di quasi cinquemila anni di storia. O meglio,
è anche ma non solo questo. É soprattutto un atto d’amore per quella che in fondo, scrive
ancora l’a. riprendendo Amos Oz, «non è una città. Questa è la vita di ciascuno di noi, che
a volte c’illude e a volte ci fa disperare, a volte ci sembra irreale, a volte inutile. La nostra
avventura interiore, il nostro eterno viaggio, la nostra vera crociata…» (p. 261). In questa
prospettiva occorre vedere anche le Proposte di visita suggerite nell’ultimo capitolo. Non
certo generici suggerimenti turistici, ma la proposta di un vero e proprio pellegrinaggio,
di un’aliyah, un’«ascesa», certo «cristianocentrica», come l’a. ammette esplicitamente, ma
che può essere accolta anche dai fratelli separati delle altre fedi che guardano a Gerusalemme o da chi di fede non ne ha.
Vittorio Beonio Brocchieri
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Cinzia Capalbo, Storia della moda a Roma. Sarti, culture e stili di una capitale dal 1871 a
oggi, Roma, Donzelli, VIII-211 pp., € 30,00
Il fenomeno della moda è caratterizzato, forse da sempre, ma certamente negli ultimi
tre secoli dall’identificazione di un determinato stile con una metropoli, centro creativo
e produttivo, di quel particolare stile: metropoli che sono diventate capitali della moda.
La storia della moda è infatti la storia delle capitali del gusto, delle capitali della moda.
Il libro di Cinzia Capalbo propone una di queste storie, quella di Roma, che ha conteso
alle altre città della moda italiane – Milano, Firenze, Napoli – la leadership in ambito
nazionale. La proclamazione di Roma capitale segnò l’inizio del processo che portò alla
sedimentazione di un fitto tessuto di attività artigianali che operavano nei vari ambiti del
settore della moda per rispondere alle crescenti sollecitazioni della domanda articolata
e sofisticata dell’alta società romana. Tuttavia il monopolio del buon gusto in fatto di
eleganza continuava a essere detenuto da Londra per la moda maschile e, soprattutto, da
Parigi per la moda femminile. Si dovettero attendere gli anni successivi alla prima guerra
mondiale affinché il «saper fare» delle sartorie romane cominciasse ad avvertire la necessità
di affrancarsi dalla sudditanza culturale nei confronti dell’alta moda parigina. L’avvento
del fascismo non poteva che dare ulteriore slancio a tale orientamento e fu infatti durante
il ventennio che iniziarono ad affermarsi sartorie che assursero a visibilità nazionale. Ma
fu con il secondo dopoguerra che Roma si consacrò come una delle emergenti capitali
della moda. Sullo sfondo della ripresa economica mondiale post-bellica, Roma divenne
rapidamente un polo di attrazione internazionale sfruttando il combinato disposto dello
straordinario patrimonio storico-artistico di cui disponeva, che ne faceva una meta con
poche rivali per il rinascente turismo, e dello sviluppo di Cinecittà come sede di lavorazione scelta da molte majors cinematografiche americane. Questo scenario rese possibile il
dispiegarsi delle energie creative della moda romana, l’opportunità di intercettare le star
del cinema come testimonial e il dischiudersi delle porte del ricco mercato americano. Si
imposero allora nomi destinati a fare la storia della moda: dalle Sorelle Fontana a Emilio
Schuberth, da Brioni a Litrico per la moda maschile, per fare solo qualche nome. Nei
decenni successivi il sistema produttivo della moda avrebbe cambiato pelle: l’avvento
degli stilisti avrebbe spostato il baricentro degli equilibri economici della moda a Milano:
Roma rimase fedele alle proprie origini, cercando di rivitalizzare la propria tradizione nel
segno dell’alta moda.
Il volume di Cinzia Capalbo rappresenta un contributo storiografico fondamentale
da almeno due punti di vista. Innanzitutto offre una ricostruzione completa della vicenda
di una delle capitali mondiali della moda: per quanto riguarda l’Italia, di Firenze ci ha
parlato Valeria Pinchera, ma ancora attendiamo lavori di sintesi su Milano e Napoli. In
secondo luogo, la storia della moda a Roma è un importante capitolo della più ampia
storia del made in Italy, che è come dire un importante capitolo della storia economica
italiana.
Marco Belfanti
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Valerio Castronovo, Il gioco delle parti. La nazionalizzazione dell’energia elettrica in Italia,
Milano, Rizzoli, 341 pp., € 20,00
Un titolo calzante per uno studio che, a cinquant’anni dalla costituzione dell’Enel,
ricostruisce l’articolata partita a scacchi che in meno di nove mesi condusse all’unica (e
tardiva) nazionalizzazione dell’Italia repubblicana. La partita, come è noto, andava ben
oltre gli assetti del settore elettrico: «in gioco» era il nuovo assetto economico e politico
del paese. Se è vero che la nazionalizzazione elettrica fu una scelta di carattere politico
che voleva sancire l’ingresso del Psi nell’area governativa inaugurando la fase dei governi
di «centro-sinistra», i suoi destini potevano sembrare già scritti in partenza. La conferma
sembra venire dalla rapidità dell’iter: la nazionalizzazione annunciata all’insediamento
del IV governo Fanfani (febbraio 1962) approdò in Parlamento in estate e fu legge entro
l’anno. Questa, almeno a grandi linee, è la «vulgata» in linea di massima recepita dalla
storiografia.
Il merito dell’a. è quello di ricostruire in dettaglio le posizioni dei diversi attori
e le reciproche strategie adattive onde spuntare le condizioni migliori nell’esito finale.
La resistenza delle imprese elettriche private, sostenute dalla stampa amica («Corriere»),
fu accanita e il dibattito tra avversari e fautori del provvedimento cadde anche a livelli piuttosto rozzi. L’ipotesi dell’assorbimento delle elettrocommerciali nella galassia Iri
parve a un certo punto il compromesso migliore anche per l’ostilità al radicalismo degli
elettrici, all’interno di Confindustria, dei principali industriali (Fiat-Valletta e Montecatini-Giustiniani) interessati al settore come utenti. Ma l’irremovibilità del Psi (specie di
Lombardi) sulla nascita di un nuovo soggetto economico pubblico convinse i dirigenti
Edison a rassegnarsi alla nazionalizzazione pur continuando a sostenere che essa sarebbe
stata il prologo di una «sovietizzazione dell’economia italiana» così da «giustificare, anche
di fronte all’opinione pubblica, un indennizzo considerevole a saldo del sacrificio imposto
loro sull’altare della svolta politica di centro-sinistra» (p. 228).
Deus ex machina fu Guido Carli che impose una soluzione la quale costituisse l’occasione per innescare una nuova ondata di investimenti e garantisse gli equilibri preesistenti tra mano pubblica e mano privata: indennizzi alle società elettriche e non ai singoli
azionisti, calcolati in base alle quotazioni di borsa (che gli elettrici mantennero artificiosamente elevate con un’esasperata distribuzione degli utili) invece che in base al valore degli
impianti. Nelle intenzioni di Carli ne doveva derivare l’immissione nel sistema di capitali
freschi che si sarebbero indirizzati prevalentemente verso i settori più dinamici e collocati
sulla frontiera tecnologica, contribuendo a creare infrastrutture decisive per lo sviluppo
del paese ed evitando la dispersione del flusso degli indennizzi in mille rivoli improduttivi. L’impostazione del governatore della Banca d’Italia era certamente lungimirante, ma
non «avrebbe potuto essere più congeniale alle aspettative di reddito della Edison e delle
sue consorelle» (p. 240).
Claudio Pavese
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Alberto Cavaglion, Nati con la libertà. Dizionario portatile dell’ebraismo contemporaneo,
Napoli, l’ancora del Mediterraneo, 156 pp., € 15,00
Breve dizionario biografico degli ebrei dell’Italia unita viene definito nella quarta di
copertina l’agile volume di Alberto Cavaglion. A una lettura superficiale ci si potrebbe
fermare a questa definizione che pure ha una sua ragione, perché nel testo si susseguono
i nomi degli esponenti di spicco dell’ebraismo italiano dal Risorgimento all’età repubblicana in un intreccio di vicende di taglio politico, storico-letterario e culturale. Tuttavia al
cuore del volume si giunge concentrandosi sulla prima parte del titolo, Nati con la libertà,
e seguendo le riflessioni dell’a. sulle interconnessioni tra ebrei e libertà. Una libertà che
non è soltanto personale uti singuli come richiamava Alessandro Levi, ma allarga le sue
maglie alle vicende del paese in quel prius e in quel posterius che sono stati il 1848 e il
1945, sino ai giorni nostri.
Il passaggio dall’esclusione alla libertà viene disegnato sulla vita di Alberto Cantoni.
«Nato con libertà» – questo l’anagramma del nome dello scrittore da cui il volume prende
il titolo – era espressione di quella complessità non solo geografica dell’ebraismo italiano
che considerava con timore ogni differenziazione di taglio anche nazionalistico che avrebbe potuto fare regredire gli ebrei verso la subalternità e il vecchio sistema discriminatorio.
Se la generazione successiva avesse ascoltato la voce di questi «grandi vecchi» – si chiede
l’a. – «il numero di ebrei fascisti sarebbe stato altrettanto cospicuo» (p. 24)? E molti degli
ebrei italiani avrebbero capito che separatezza ed emarginazione sarebbero state una gabbia atta a produrre subalternità e discriminazione?
Per essere liberi e non liberti, secondo Alessandro Levi era necessario impegnarsi nella società non solo come singoli ma anche come gruppo. Con il fascismo, gli ebrei italiani
ritennero «confacenti alle loro idee lo Stato etico fascista» (p. 49) e solo una minoranza
combatté contro la negazione della libertà individuale scontrandosi con la dirigenza comunitaria. Cavaglion ridisegna la dimensione dell’antifascismo ebraico su una mappatura
non solo geografica. Richiama perciò Levi e il suo itinerante percorso che dal Piemonte lo
aveva portato in Veneto e in Toscana e che fruttò l’incontro con i fratelli Rosselli e la loro
maturazione «esterna» al mondo ebraico. Una posizione esterna che spinse l’antifascismo
ebraico, come nel caso di Leone Ginzburg, a dialogare con «interlocutori estranei» (p.
52) quali Croce, Praz e Bonaiuti. Non fu solo Ginzburg a cercare un referente fuori dal
milieu ebraico. Eugenio Colorni con Saba giunse all’azione sulla spinta della vis politica della poesia, mentre Vittorio Foa si avvicinò durante la detenzione a Svevo-Schmitt.
Per entrambi emblematico fu l’incontro con quella cultura triestina che li avvicinò alla
scoperta dell’inconscio freudiano, prospettando nuovi percorsi per uscire dall’idealismo
storicistico-crociano.
Estraneo a una lettura dicotomica della libertà, il volume prosegue con molti altri
saggi, che colgono aspetti diversi della libertà non solo ebraica. Il vero leitmotiv delle avvincenti riflessioni di Cavaglion.
Ester Capuzzo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Maria Elena Cavallaro, La Spagna oltre l’ostacolo. La transizione alla democrazia: storia di
un successo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 214 pp., € 15,00
Maria Elena Cavallaro è una ricercatrice dell’Imt di Lucca che si è occupata di storia della Spagna contemporanea, e in particolar modo di transizione alla democrazia, di
socialismo spagnolo e delle relazioni tra regime franchista e istituzioni europee. Proprio
quest’ultimo argomento è stato al centro del suo più importante lavoro scientifico pubblicato nel 2009. Ora, con La Spagna oltre l’ostacolo ritorna ad affrontare il tema della
transizione spagnola. La riflessione prende le mosse da alcune considerazioni sul «patto
dell’oblio», ovvero su quella artificiale rimozione degli odi della guerra civile che contribuì
a non esasperare un quadro politico minacciato da gravi rischi di involuzioni golpiste, e
che secondo alcuni autori rappresentò uno dei punti deboli della democrazia spagnola.
Secondo la Cavallaro, invece, processi di rielaborazione del passato erano cominciati già
a cavallo degli anni ’60, quando la prima generazione di spagnoli del dopoguerra aveva
cominciato a storicizzare la guerra civile emancipandosi gradualmente dalle fratture ideologiche del passato, favorendo una nuova cultura del dialogo. Fu, pertanto, anche l’elaborazione del passato a rendere possibile la condivisione di strategie finalizzate al successivo
consolidamento democratico.
Secondo questo filone storiografico, i fatti politici e sociali della transizione spagnola
andrebbero inquadrati in una prospettiva di più lungo periodo, che metta in evidenza
i mutamenti della politica e della società spagnola degli anni ’60. Maria Elena Cavallaro in particolare propone una periodizzazione innovativa (1957-1982), e ricostruisce la
dialettica interna al regime tra diversi modelli socio-economici. Uno scontro che influì
sulla definizione di indirizzi politici moderati e riformisti, che sarebbero stati decisivi
nell’attenuare le contrapposizioni storiche con i soggetti dell’antifranchismo alla fine degli
anni ’70. In questo quadro un ruolo importante ebbero anche le relazioni euro-atlantiche
e le relazioni con le nascenti istituzioni europee: un tema già affrontato dall’a. nel suo
precedente lavoro, e che qui viene ripreso nel contesto di una riflessione più ampia e
ambiziosa. L’a. difatti individua proprio nella decisa opzione europeista della giovane democrazia spagnola uno dei decisivi momenti di rottura – insieme alla pretesa delle sinistre
di nominare una commissione parlamentare per l’elaborazione della Costituzione ­– col
passato regime. Rimane però fuori da questa ricostruzione la grande questione dei nazionalismi non spagnoli (Paesi baschi, Catalogna, Galizia), degli autonomismi, dello stesso
terrorismo; a dire il vero tutti elementi anomali e difficilmente inscrivibili in un modello
che avrebbe nella moderazione e nel superamento delle fratture del passato alcuni dei
suoi caratteri peculiari. Un’anomalia, in particolare quella basca, che la storiografia ha cominciato a evidenziare. Il risultato è certamente una riflessione storiografica interessante,
fruibile e ben scritta, che integra in maniera certamente positiva il precedente lavoro di
ricerca di Maria Elena Cavallaro.
Andrea Miccichè
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Laura Cerasi, Pedagogie e antipedagogie della Nazione. Istituzioni e politiche culturali nel
Novecento italiano, Brescia, La Scuola, 348 pp., € 19,00
Il volume raccoglie e rielabora saggi dell’a. apparsi nel corso di più di un decennio
all’interno di una cornice unitaria che si lascia comprendere come la storia del grande
processo di pubblicizzazione della formazione degli italiani. Dal nazionalismo primo novecentesco al compimento del progetto scolastico ed educativo democratico degli anni
’70. Ne risulta un tracciato ideologico e storico-istituzionale che muove dalla Nazione
in direzione dello Stato e culmina nell’ambizione del secondo dopoguerra a risolvere nel
sistema scolastico pubblico la totalità degli strumenti di trasmissione del sapere e dei
canali di formazione e di selezione delle élites. Un movimento imponente, che finisce per
ricomprendere scuola e università all’interno di uno spazio educativo di tipo nuovo, ad
alto tasso di burocratizzazione e povero di senso.
Costruito appunto per saggi, per sondaggi parziali, questo lungo itinerario consente tappe interessanti, come quella dedicata alla figura dello scolopio padre Ermenegildo
Pistelli, o le pagine dove si parla della facoltà di Lettere e filosofia Ca’ Foscari a Venezia,
la cui nascita e sviluppo è letta alla luce del difficile rapporto tra tensione democratica e
resistenze del corpo accademico.
Alcuni nodi non sciolti rendono tuttavia il libro non completamente persuasivo. In
una maniera non sufficientemente problematizzata, ad esempio, l’argomentazione dell’a.
è costruita attorno a quello che ormai appare come un pregiudizio storiografico: l’affermazione della scuola unica (in particolare le pagine su Democrazia e classicismo). Ne
risulta una lettura teleologica del ’900 pedagogico organizzato in base all’opposizione
tra socializzazione e selezione, tra nazionalizzazione per mezzo della cultura generale e
separazione dei circuiti di formazione delle élites. Si tratta, evidentemente, di un tema
cruciale nella storia dei sistemi educativi, in Italia e non solo. Il dualismo scolastico infatti
non è una questione che riguardi in modo esclusivo la nostra incerta modernizzazione
politica, tale insomma da attestare una versione della cultura italiana post positivistica
come irrimediabilmente conservatrice. L’organizzazione della scolarizzazione separata di
ceti sociali diversi è costitutiva della storia educativa europea degli ultimi due secoli, investendo dimensioni territoriali e amministrative complesse dei singoli Stati. L’evoluzione
in direzione di un modello scolastico comprensivo, capace di superare i tratti discriminatori del vecchio assetto della prima metà del secolo, come è ormai chiaro alla luce di
numerose ricerche, è un portato della storia ideologica, in particolare dell’affermazione di
concezioni di carattere egualitario nel secondo dopoguerra, piuttosto che delle condizioni
economiche e di sviluppo della società. È appunto questa opzione che andrebbe assunta
esplicitamente e non proiettata all’indietro, per evitare quello che appare il limite fondamentale della ricerca, una storia fatta prevalentemente di discorsi, che non sempre per il
solo fatto di esserci stati tramandati appaiono in grado di cogliere le linee di tensione di
un oggetto storiografico.
Adolfo Scotto di Luzio
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Donatella Cherubini, Stampa periodica e Università nel Risorgimento. Giornali e giornalisti
a Siena, prefazione di Antonio Cardini, Milano, FrancoAngeli, 313 pp., € 36,00
Protagonisti, temi e vicende che il libro – basato su una vasta e accurata ricerca
archivistica e sulla stampa periodica – presenta e interpreta consentono una conoscenza
approfondita del Risorgimento in un città che, sebbene legata al mito medievale della
Repubblica, visse il processo risorgimentale quale veicolo e sponda verso la modernità. La
storia del giornalismo viene fatta iniziare dalla fine del ’700 per dare adeguato rilievo alla
fine dell’ancien régime, all’affermarsi della libertà di stampa e per sottolineare, nel lungo
periodo, il ruolo delle accademie, continuità e cambiamenti nella vita politica e culturale
della città dove, nel 1836, 50 famiglie erano proprietarie del 22 per cento della terra. Le
iniziative di modernizzazione della metà dell’800 e degli anni successivi non mutarono
profondamente il rapporto città-campagna, né quello gerarchico tradizionale tra le classi;
«prevalse lo spirito aristocratico più che borghese nella proprietà della terra, nella gestione
del Monte dei Paschi, nella amministrazione della città» (p. 12), nonostante la diffusione
delle idee repubblicane e giacobine, parallela al radicarsi della massoneria. Idee «liberali»
vennero fatte circolare anche durante la Restaurazione da docenti dello Studio, in particolare da G. Valeri, in proficuo rapporto con Romagnosi. Si formarono in quel periodo
alcuni docenti e studenti che parteciparono alle cospirazioni carbonare e mazziniane e poi
alle vicende del ’48-49 caratterizzate dalle contraddittorie voci e presenze dei liberal moderati (fra questi, F. Corbani docente di Economia sociale), dei neoguelfi, «facilmente radicabili nell’ambiente intellettuale per il ruolo degli scolopi liberali» (p. 157) e per la presenza di 9 religiosi- di cui 6 a Teologia- sui 32 dell’Ateneo; di Montanelli, di Marmocchi e
dei guerazziani fino a quando venne bruciato l’Albero della libertà, 53 giorni dopo che era
stato piantato. Dopo quel biennio la situazione cambiò profondamente, non soltanto in
seguito all’abolizione dello Statuto, alla revisione dei meccanismi di rappresentanza municipale, al nuovo Concordato, ma per la fondazione, nel 1851, dell’Ateneo etrusco: Siena
ebbe due facoltà soltanto, Giurisprudenza e Teologia. Nel passaggio dal governo provvisorio all’Unità, la città mostrò ancora continuità e cambiamenti: l’aristocrazia mantenne
tuttavia «il tradizionale legittimismo e il controllo sulle campagne, con un distacco dalla
vita pubblica senza concrete iniziative antiunitarie, per poi confluire nella nuova classe
dirigente del Regno d’Italia con la borghesia emersa dal movimento risorgimentale» (p.
18). La condizione dell’Università non migliorò invece con la riforma che abolì l’Ateneo
etrusco: con due facoltà – Medicina e Giurisprudenza; nel 1860 venne sospesa Teologia –
rimase penalizzata rispetto a Pisa. Negli anni post-unitari Siena (22.000 ab., 42 per cento
di analfabeti) rimase caratterizzata, nel cambiamento, dalla presenza, ben illustrata, di 10
accademie e dell’Università, che continuò a «segnare» profondamente la sua storia, e da
una ricca stampa periodica – 20 testate fra il 1859 e il 1870.
Pier Luigi Ballini
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Duccio Chiapello, Il ritorno del “vero re”. L’ultima rentrée di Giovanni Giolitti, Roma,
Aracne, 207 pp., € 14,00
La fine del regime liberale e l’avvento del fascismo sono fra gli argomenti più studiati
nella storia d’Italia del XX secolo. Molti aspetti particolari restano tuttavia inesplorati. Ad
alcuni di questi aspetti si dedica Duccio Chiapello, che nell’arco di poco tempo ha pubblicato su tali temi due volumi: il primo dedicato, come si intuisce dal titolo, all’ultima
esperienza di governo di Giolitti; il secondo, Marcia e contromarcia su Roma. Marcello
Soleri e la resa dello Stato liberale (Roma, Aracne, 2012), sulla fase immediatamente successiva, e sugli ultimi tentativi di difesa di un sistema ormai al crollo. Dati gli argomenti
trattati e la rapida successione cronologica in cui sono collocati, appare abbastanza chiaro
che si tratta di un unico percorso di ricerca, articolato in due libri che, pur nella loro
specificità, poggiano su un terreno comune.
Questo volume su Giolitti, che si avvale di fonti in gran parte edite, presenta un profilo di storia politica piuttosto tradizionale, incentrato com’è nell’analisi delle dinamiche
di vertice. Un suo pregio sta senza dubbio nello stile di scrittura, davvero molto scorrevole
e spesso brillante. Interessante risulta l’ipotesi interpretativa alla base del libro: uno dei
punti cruciali della crisi del primo dopoguerra risiede infatti, secondo l’a., nell’irrisolto
problema dell’equilibrio dei poteri stabilito nello Statuto Albertino. Sin dall’inizio – argomenta Chiapello – era «stato tutto un sottostimare la figura del sovrano come decisore
ultimo delle sorti dei suoi ministri e sovrastimare la indispensabilità del Presidente del
Consiglio – una figura, va ricordato, extrastatuaria – nell’assetto istituzionale dello Stato»
(p. 72). Col sistema liberale messo in crescente difficoltà dal definitivo avvento della società di massa, Giolitti sembrava deciso anche a sciogliere questo nodo irrisolto. Ma la sua
strategia presentava un limite: non coglieva le altre implicazioni della politica di massa,
come la presenza organizzativa di un partito sul territorio e la necessità di ampliare la
propria azione rispetto all’ambito strettamente parlamentare.
Nel complesso, se ne trae l’ulteriore conferma dell’inadeguatezza dell’intera classe
dirigente liberale, incapace di affrontare le sfide del dopoguerra. In tal senso risultano
particolarmente efficaci ed evocative le parole poste a chiusura del volume: i dirigenti liberali «circoscrivevano il mare della contesa politica a un bicchiere d’acqua in cui avrebbero
potuto giocare senza intrusioni esterne la propria naumachia in scala ridotta», tuttavia «i
rischi connessi al giocarsi la naumachia per il potere in quel ristretto bicchiere d’acqua
sarebbero emersi in tutta la loro chiarezza soltanto all’arrivo di colui che si bevve quel
bicchiere, lasciando all’asciutto i vecchi galeoni dello Stato Liberale» (pp. 186-187).
Paolo Mattera
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Giovanni Chiola, Roma capitale. Percorsi storici e giuridici, Bologna, il Mulino, 283 pp.,
€ 22,00
Ancora sulle celebrazioni del 150°, ancora su Roma capitale, che festeggerà il suo
anniversario solo tra qualche anno. A metà tra storia e diritto questo interessante libro
ricostruisce l’assetto giuridico della capitale a partire dagli albori della città romana. Allora l’Urbe era il simbolo della forza imperiale e la sua gestione era affidata alla Prefectura
urbis. Poi divenne la capitale dello Stato pontificio. Tra la fine del ’700 e la metà dell’800
la città fu teatro di due eventi rivoluzionari: la Repubblica giacobina e la Repubblica
romana. Con la nascita del Regno d’Italia, Roma fu subito indicata come futura capitale. Con il trasferimento ufficiale fu stabilito un preciso ordinamento economico con le
leggi speciali del 1881 e 1883. Con l’avvento del regime fascista fu deciso di garantire a
Roma uno statuto speciale. L’istituzione del Governatorato nel 1925 rispondeva a questa
speciale funzione. Con la Liberazione e la nascita della Repubblica si tornò gradualmente
all’uniformità con le altre città italiane. La questione di Roma non fu espressamente affrontata né nella Costituzione né nel successivo periodo repubblicano. I primi interventi
per Roma capitale risalgono solo agli anni ’90 allorché le si concesse lo status di città
metropolitana.
Nel confronto con alcune delle altre città metropolitane italiane, Roma presenta
alcune peculiarità esclusive come l’estensione, l’avere al suo interno la Città del Vaticano, l’identificazione con la capitale. Infine l’a. affronta il modello giuridico delle altre
capitali internazionali. Quelle che occupano un intero distretto amministrativo come
Washington, Brasilia, Buenos Aires, Città del Messico; e quelle con lo status di capitali internazionali come la maggior parte di quelle europee: Vienna, Berlino, Madrid, Lisbona,
Londra, Parigi, Bruxelles, e anche Roma, riconosciuto da una recente legge dello Stato.
Nell’intreccio, in sostanza, della duplice natura di Roma quello della «capitalità» e quello
di «città metropolitana».
Un volume originale e stimolante nel quale la storia di Roma viene ripercorsa attraverso quella dei suoi ordinamenti e della sua gestione. Del resto la sua amministrazione va oltre i confini del territorio municipale, per coinvolgere problematiche finanziarie
dell’intero Stato. Infatti, nel primo periodo della sua nuova «capitalità», il governo liberale
esercitava il controllo attraverso un commissario governativo che sovrintendeva i lavori
edilizi necessari al nuovo status di capitale. La stessa funzione è stata conservata dal governo fascista che istituì un Governatorato, dipendente direttamente dal Governo centrale.
Al contrario nei primi anni della storia repubblicana la capitale fu, quasi, deliberatamente
ignorata dall’amministrazione centrale equiparando il suo status a quello di tutti gli altri
Comuni italiani. Quasi a voler marcare la distanza con il precedente periodo fascista. Fino
agli ultimi anni ’80 l’autonomia municipale è rimasta una barriera insuperabile rispetto ai
controlli dello Stato centrale. Solo all’inizio del nuovo millennio si è deciso di riconoscere
all’Urbe uno statuto speciale vista la sua peculiare connotazione di «capitalità».
Cecilia Dau Novelli
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Paolo Ciampi, La prima corsa al mondo. Campioni e velocipedi nella Firenze capitale, Firenze, Mauro Pagliai Editore, 79 pp., € 6,00
La prima bicicletta apparve a Firenze nel settembre 1869 nei viali del parco delle
Cascine, l’unico luogo dove era permesso il transito ai nuovi eccentrici mezzi di trasporto. Le occhiute guardie municipali non transigevano, impedendo dopo le quattordici la
circolazione alle strampalate creature meccaniche colpevoli di rompere sconsideratamente
la quieta immobilità urbana. In definitiva si trattava di un divertimento riservato a una
ristretta élite di borghesi e aristocratici, gran parte dei quali appartenenti alle molte nazionalità che allora popolavano la città. Il concetto di sport era ancora sconosciuto, eppure
il 2 febbraio 1870 il Veloce club organizzava la prima corsa ciclistica competitiva in Italia
a distanza di pochi mesi dalla prima esibizione su pista avvenuta a Padova. Vinse un giovane americano, che al traguardo di Pistoia, al termine di un percorso tutto in pianura, si
presentò da solo, entusiasmando i curiosi accorsi. Questa è la storia che Ciampi, animato
da un gusto narrativo giornalistico, racconta in modo divertente.
Precedendo in volata le numerose ricerche, che si vanno preparando a Firenze per
ricordare i 150 anni della capitale, l’a. offre un gustoso quadretto della città in quegli anni,
coprendo in anticipo un settore a rischio di oblio da parte delle paludate celebrazioni. Il
lavoro di Ciampi si colloca fra la narrazione romanzesca e il reportage giornalistico, dunque al di fuori degli interessi e delle vocazioni coltivati nelle pagine che ospitano questa
recensione, ma lo fa dimostrando un’indubbia serietà storica, benché non di storico. È
certamente una lettura amena, priva di note così come di bibliografia, che comunque ci
ragguaglia su alcuni aspetti della vita fiorentina ai tempi della capitale, toccando, forse
inavvertitamente, anche temi cari agli storici, come la sociabilità borghese, la tecnologia,
la presenza degli stranieri nelle città italiane dell’800, le produzioni meccaniche.
La storia dello sport in Italia è ancora gestita a mezzadria fra storici, forse ancora
un po’ troppo riluttanti, e giornalisti, a caccia di record più che di interrogativi e interpretazioni, con risultati inevitabilmente alterni. Sulla storia del ciclismo hanno lavorato
entrambe le categorie – si veda da ultimo il bel libro di Mimmo Franzinelli sul Giro
d’Italia – mentre su quella della bicicletta non ha ancora lavorato quasi nessuno, quando
viceversa il nuovo emergente filone di studi imperniato sulla storia della mobilità ne fa un
oggetto di primario interesse. Gli storici professionisti di casa nostra sono rimasti sordi
alle intriganti novità, provenienti quasi interamente dall’Europa settentrionale dove non
a caso l’uso della bicicletta in città è assai più diffuso che da noi. A cavallo fra la storia
sociale, politica ed economica, la storia della mobilità, riferita alla bicicletta, introduce effettivamente molte novità – dalle modalità d’uso alle politiche urbane, dalle componenti
culturale e turistica alla tecnologia – di cui ancora non c’è traccia nei libri pubblicati nel
nostro paese.
Andrea Giuntini
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Piero Cicalò, Pietro Dettori, Salvatore Muravera, Natalino Piras, Pitzinnos Pastores Partigianos. Eravamo insieme sbandati, Nuoro, Anpi Nuoro, 515 pp., € 20,00
Il volume ricostruisce la storia di 58 partigiani sardi che fecero la Resistenza in Friuli
nella brigata Garibaldi Natisone. L’idea degli aa. è quella di portare avanti un racconto
corale dove elementi della civiltà contadina e pastorale si mescolano con le vicende belliche vissute da un gruppo di ragazzi-pastori (pitzinnos-pastores). I protagonisti sono alcuni
pitzinnos-pastores di Bitti, Orgosolo, Orune. Molti di questi soldati furono colti dalle
drammatiche vicende armistiziali in quel di Perugia. Erano troppo giovani per comprendere immediatamente il vero significato dell’8 settembre. Vissero una storia dai tratti comuni a quella di altri soldati che dopo l’armistizio avevano cercato di rientrare nelle loro
case. Tuttavia al porto di Civitavecchia non trovarono nessun battello, ma anzi trovarono
qualche militare che proponeva l’arruolamento nei reparti tedeschi o nel nascente esercito
della Repubblica sociale.
Nel periodo compreso fra il mese di settembre 1943 e l’aprile 1945 i pitzinnospastores hanno maturato esperienze di vita diverse e una crescita personale che li ha portati
dalla Rsi alla Resistenza. Da questo punto di vista sono molto interessanti le interviste che
Natalino Piras ha realizzato con quattro partigiani superstiti e le lettere di due partigiani
morti «in terra anzena». Il testo delle interviste è in sardo con traduzione in italiano a
fronte, mentre l’epistolario (fra i soldati e le famiglie) è in un italiano «pensato in sardo»
che rivela un interesse antropologico che, come sottolinea Bachisio Bandinu nella prefazione, svela come è strutturato l’immaginario del pastore sardo.
Il momento iniziale della storia con l’adesione al Battaglione volontari sardi Giò
Maria Angioy fondato dal sottosegretario di Stato Barracu non è troppo chiaro. Si intuisce che non tutti aderirono allo stesso modo e con gli stessi tempi. Probabilmente, uno
studio delle carte Barracu (dove si conserva il fascicolo del battaglione), avrebbe aiutato a
spiegare le settimane trascorse nella capitale.
Nel dicembre 1943 i pitzinnos-pastores lasciano Roma con destinazione nord Italia.
In un primo tempo stazionano a Cremona, poi vengono destinati in Friuli. Nel mese di
gennaio i primi giovani sardi che disertano e aderiscono alla Resistenza vengono inquadrati nel Battaglione triestino. All’inizio di febbraio i pitzinnos vivono il battesimo del
fuoco, e nell’assalto all’aeroporto di Ronchi dei legionari cadono i partigianos Congiargiu
e Pira Canu.
Dalla cronologia del libro apprendiamo alcuni episodi bellici della brigata che nel
febbraio del 1945 confluisce nella divisione Natisone. L’unità, come è noto, nel 1945
entra far parte dell’esercito popolare della Jugoslavia. Di questa storia viene fatto qualche
cenno solo nelle interviste. Dei rapporti con gli slavi e del ruolo dei comandanti sappiamo
poco. Un confronto dei racconti degli intervistati con le memorie dei comandanti e con i
giornali della brigata avrebbe aiutato a comprendere meglio i tratti di una storia, comunque, utile per lo studio dell’apporto dei sardi alla Resistenza.
Daniele Sanna
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Ettore Cinnella, 1917. La Russia verso l’abisso, Pisa, Della Porta, 415 pp., € 24,00
Il libro ripercorre il ciclo rivoluzionario con le sue svolte repentine e gli attori molteplici fino al 1921, quando lo stato sovietico represse lo stesso tipo di ribellioni che avevano segnato il 1917. Si interroga a ogni tappa sulle opzioni possibili e cerca di spiegare
le ragioni del precipitare degli eventi in questa o quella direzione. La narrazione segue
piani differenziati, rimbalzando opportunamente tra centro e periferie. La sorregge l’interpretazione di uno stato nato non dal fenomeno storicamente inevitabile e liberatorio
della rivoluzione, con le sue componenti «plebee», ma dalla soppressione delle espressioni
più autentiche di queste. Indirettamente l’opera è anche una valutazione del ruolo storico del Partito dei socialisti rivoluzionari, il più importante e incompreso tra i partiti
russi di primo ’900. L’a. lo considera, probabilmente a ragione, la forza meglio attrezzata
culturalmente per intercettare la ribellione popolare e incanalarla verso la costruzione
dal basso di nuove basi di convivenza civile, al posto del trono ormai vuoto dello zar. In
effetti l’ala estrema dei Socialisti rivoluzionari di sinistra, per alcuni mesi alleati dei bolscevichi e anche più radicali di loro sul terreno della politica sociale, insistette con forza per
un’interpretazione «parlamentare» della gerarchia istituzionale sovietica, ben diversa da
quella affermatasi. Per qualche tempo nell’estate del ’17 i militanti socialisti rivoluzionari
dell’importante regione di Samara, una specie di Emilia rossa, sembrano effettivamente
guidare «il popolo» locale verso una gestione concordata, civile e tutto sommato pacifica
della distribuzione delle terre. Però lo stesso a. nota che «il problema dei rapporti economici tra città e campagna [...] fu reso ancora più acuto dall’esplosione delle rivolte plebee»
(p. 214). Pacifica e autenticamente popolare o meno, la rivoluzione agraria spazzò via
gli elementi di modernità cresciuti durante i decenni precedenti: non solo i proprietariimprenditori, ma anche la rete delle cooperative con il loro ruolo essenziale di mediazione
culturale e produttiva. Insieme al crollo della produzione industriale contribuì all’interruzione di qualunque rapporto di scambio (di mercato o di ogni altro tipo) tra luoghi
e settori produttivi, a sua volta origine di una povertà gravissima e squisitamente postrivoluzionaria. Nel gennaio del 1918 Lenin progettava squadre annonarie per requisire e
«fucilare sul posto gli “speculatori”» (p. 215), soluzione dietro la quale c’erano categorie
analitiche ben precise. Ma su questa strada lo avrebbero poi seguito anche i socialisti rivoluzionari di sinistra. La questione di come «prendere il grano» si pose altresì nelle regioni
controllate dalle forze anticomuniste. La stessa Repubblica socialista e liberale di Samara
del 1918 dovette mobilitare un esercito e rincorrere disertori. Se, quindi, appare molto
seria l’ipotesi che da villaggi comunitari finalmente liberi da signori e gendarmi potesse
emergere in qualche modo la ricostituzione di un principio democratico di autorità, è lecito domandarsi se un simile sviluppo fosse compatibile con la profondissima crisi sociale
già chiaramente visibile prima dell’Ottobre.
Alberto Masoero
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Paola Cioni, Un ateismo religioso. Il bolscevismo dalla Scuola di Capri allo stalinismo, Carocci, Roma, 159 pp., € 17,00
Paola Cioni, studiosa di Maksim Gor’kij, ha dedicato un lavoro di notevole interesse
a una vicenda intellettuale e politica, che, sebbene trascurata dalla storiografia, ha avuto
un ruolo di rilievo nella storia del bolscevismo. La Scuola di Capri, un tentativo culturalepedagogico di promuovere una cultura operaia, esperito da Gor’kij, Aleksandr Bogdanov
e Anatolij Lunačarskij nel 1909, su cui avevano già richiamato l’attenzione gli studi di
Jutta Scherrer e Vittorio Strada, è stata un momento originale di questa storia, che l’a.
ricostruisce in modo puntuale, pur con qualche imprecisione di contestualizzazione storica (p. 17). Si ripercorre nel libro l’itinerario intellettuale e politico di una corrente di
pensiero, che, sebbene marginalizzata all’interno del Partito, non mancò di influire, anche in maniera sotterranea, sulle vicende dell’esperimento sovietico. L’a. si sofferma sulla
personalità e il pensiero di Bogdanov, insieme a Lenin il leader più importante del primo
bolscevismo, verso cui si è registrata una recente crescita di interesse da parte della storiografia russa e anglosassone. L’approfondimento del pensiero di Marx, aperto all’influsso
dell’empiriocriticismo, aveva condotto Bogdanov a elaborare «una concezione antidogmatica del marxismo, che si contrapponeva all’interpretazione sostenuta sia da Plechanov
sia da Lenin» (p. 19), e da quest’ultimo combattuta e sconfitta nel partito tra 1908 e
1909. È opportunamente richiamata l’esigenza espressa dalla storiografia più avvertita di
una storia del bolscevismo che non sia ricostruita sotto il segno teleologico di un’uniformità di pensiero di matrice leniniana. D’altro canto non avrebbe guastato affrontare la
questione dei motivi della sconfitta di Bogdanov e della sua inefficacia politica, cui forse
non è stato estraneo un qualche tratto intellettualistico del suo impegno. Correttamente
è rivalutata l’adesione di Gor’kij alla visione di Bogdanov, non errore momentaneo, come
sostenuto dalla storiografia sovietica, ma appoggio convinto, almeno per alcuni anni.
Merito dell’a. è anche di dare rilievo, inserendola nel più generale fenomeno della metamorfosi del sacro e delle religioni politiche che connota la modernità, all’originale linea di
pensiero della «costruzione di Dio» [bogostroitel’stvo], elaborata da Lunačarskij e condivisa
da Gor’kij, ma criticata da Bogdanov – sarebbe utile a questo proposito allargare il quadro
alla temperie culturale che proprio nel segno di un recupero del religioso caratterizzava la
Russia nei primi due decenni del ’900. Opportunamente l’a. sottolinea l’importanza di
approfondire lo studio delle teorie di Lunačarskij e di inserirle pienamente nella storia del
bolscevismo al fine di «comprendere e ricostruire la dinamica storica del complesso processo di trasformazione dello stalinismo in un culto» (p. 72). La narrazione dell’itinerario
compiuto dopo l’ottobre 1917 da Bogdanov, Lunačarskij e Gor’kij, di cui si ricostruisce
anche «la triste vicenda» della visita alle Isole Solovki e del volume dedicato al Canale
Stalin, arricchisce il libro.
Adriano Roccucci
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Mariella Colin, I bambini di Mussolini, Letteratura, libri, letture per l’infanzia sotto il fascismo, Brescia, La Scuola, 496 pp., € 28,00 (ed. or. Caen, 2010)
La dimensione educativa e in particolare scolastica è un aspetto del fascismo che a
più riprese ha attirato l’attenzione di studiosi stranieri in contatto più o meno fecondo
con gli studi italiani e la più complessiva storiografia internazionale sul fascismo. Basti
in questa sede ricordare gli studi, tradotti anche in italiano, di Michel Ostenc e Jurgen
Charnitsky ma anche lavori non meno importanti come quelli di Tracy H. Koon, Believe,
obey, fight. Political socialization of youth in fascist Italy. 1922-1943 (London-Chapell Hill,
University of North Carolina Press, 1985) e di Ute Schleimer, Die Opera Nazionale Balilla bzw. Gioventù Italiana del Littorio und die Hitlerjugend: eine vergleichende Darstellung
(Munster, Waxmann, 2004). In questo contesto si inserisce anche questa ponderosa ricerca, tradotta dal francese dalla stessa a., che è già nota e apprezzata storica della letteratura
per l’infanzia (M. Colin, L’âge d’or de la littérature d’enfance et de jeunesse italienne, Caen,
Presses de l’Université de Caen, 2005).
Nel volume viene censita e brevemente descritta un’ampia quantità di materiale,
tanto scolastico quanto più genericamente educativo, che non può non indurre ad amare
riflessioni sulla quasi totale trascuratezza che scuole e biblioteche prestano a tale peculiare bene culturale. Vengono messi a frutto gli studi di Anna Ascenzi e Roberto Sani – Il
libro per la scuola tra idealismo e fascismo: l’opera della Commissione centrale per l’esame dei
libri di testo da Giuseppe Lombardo Radice ad Alessandro Melchiori, 1923-1928 (Milano,
Vita & Pensiero, 2005) – nonché i lavori sull’editoria scolastica coordinati da Giorgio
Chiosso – Teseo, Tipografi editori scolastici educativi dell’Ottocento, Milano, Bibliografica,
2003 e Teseo ’900 Editori scolastico-educativi del primo Novecento, Milano, Bibliografica,
2008 – sull’editoria scolastica, mentre il dialogo con altre voci della storiografia appare al
contrario non sempre messo a fuoco.
L’intero genere letterario letteratura per l’infanzia appare fortemente ridefinito dagli
interventi normativi censori delle commissioni ministeriali sui libri di testo a tal punto
che si può parlare di una vera e propria estetica pedagogica di stato con effetti pervasivi
sul mercato editoriale. Tra i fondi librari che hanno reso possibile la ricerca è da segnalare
quello della fondazione Tancredi di Barolo di Torino, mentre non si può tacere della
attuale non confutabilità del fondo librario dell’Indire (Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa) di Firenze.
Nel complesso il volume si inserisce a buon diritto nella odierna temperie storiografica, basti pensare agli studi di Alessandra Tarquini e di Luca La Rovere, che danno ormai
per scontato che ci sia stata un’ampia interazione tra cultura e fascismo. Il volume è arricchito da un inserto iconografico riferito a un piccolo saggio dovuto a Pompeo Vagliani,
animatore della citata fondazione torinese.
Angelo Gaudio
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
200
i libri del 2012 / 2 - monografie
Paolo Colombo, Le Esposizioni Universali. I mestieri d’arte sulla scena del mondo (18512010), Venezia, Marsilio - Fondazione Cologni, 328 pp., € 40,00
«Fuochi d’artificio, ferrovie, tappezzerie, stoffe, vini, torchi, pianoforti, armi, intagli,
sedili, smalti, ceselli, liquori, vetri soffiati, telai, ventagli, fiammiferi, testi a stampa, tribù
indiane, animali, collezioni, carrozze, piatti, giocattoli, zuccheri, concerti di campane,
elettroscopi, perforatrici, refrigeratori, macchine a vapore, carte da gioco, slitte, cineserie,
ponti, confetti, cannoni, bicarbonati, liquirizia, velluti, busti, petrolio, pietre preziose,
medaglie, reliquie, orologi…» (p. 17): l’ipnotico elenco di ciò che le esposizioni universali
offrivano all’occhio del visitatore ottocentesco apre questo corposo libro che garantisce
una lettura coinvolgente, lettura a cui risulta indispensabile l’altrettanto corposo apparato
iconografico di corredo (immagini di manufatti e padiglioni, ma anche manifesti, installazioni e scenografie).
L’a., non casualmente, si occupa infatti da tempo di rapporti tra storia e narrazione;
insegna Storia delle istituzioni politiche presso l’Università Cattolica di Milano, ma vi
dirige anche il Centro di ricerca «Arti e mestieri». In anni recenti, sempre sotto gli auspici
di questo Centro – a sua volta promosso e finanziato dalla Fondazione Cologni – Colombo ai mestieri d’arte aveva già dedicato la curatela di due precedenti pubblicazioni,
collocandosi così dentro al dibattito corrente sulla prospettiva di un «futuro artigiano»
(per citare il fortunato saggio di Stefano Micelli del 2011). In questa monografia, della
vicenda dei mestieri d’arte ricostruisce appunto l’intreccio con quella delle esposizioni
universali, passando in rassegna una vasta panoramica di periodici, rubriche, opuscoli,
guide, volumi di volta in volta dedicati agli eventi (e, per i tempi più vicini, fonti digitali). Questi documenti, tenendo sullo sfondo l’evoluzione dei nazionalismi economici
e dei vantaggi comparati, consentono di studiare i fattori diversi che nelle Expo sempre
hanno interagito: «stile, utilità, prezzo, creazione, manualità, industria…» (p. 18). E tale
obiettivo ha reso necessario all’a. da un lato di estendere progressivamente l’accezione di
artigianato artistico ben oltre i canoni già ampi della sua definizione tradizionale («progettazione, manualità, materia, tecnica, innovazione, durevolezza e utilità del prodotto,
estetica, rapporto con il mercato…», p. 20); dall’altro di ragionare su come le esposizioni
stesse si cambiano nel tempo, rivedendo la propria originaria vocazione pedagogica.
Il volume prende inizio dalla Great Exhibition organizzata a Londra nel 1851 –
quando l’industria trasforma in merci i prodotti del lavoro, mutandone la concezione, la
forma, la materialità, la qualità, l’estetica e i caratteri sociali – e chiude con un capitolo
dedicato alle tre esposizioni tenutesi nel nuovo millennio (Hannover 2000, Aichi 2005,
Shanghai 2010). La sua concezione ha certamente in mente anche l’Expo 2015 di Milano, ma la prospettiva è quella di una storia culturale dipanata lungo gli ultimi due secoli,
a cui sono rispettivamente dedicate le due parti in cui il libro si divide, da un punto di
vista originale.
Roberta Garruccio
i libri del 2012 / 2 - monografie
201
Michele Colucci, L’Umbria e l’emigrazione. Lavoro, territorio e politiche dal 1945 a oggi,
Foligno, Editoriale Umbra, 176 pp., € 11,00
Il volume rappresenta il primo studio serio in cui si affronta in maniera approfondita e documentata la storia dell’emigrazione umbra dal secondo dopoguerra agli anni
’70. Colucci, ricercatore del Cnr e docente di Storia contemporanea all’Università della
Tuscia, si occupa di storia del lavoro, delle istituzioni, dei fenomeni migratori ed è autore
di numerose pubblicazioni su tali temi. Il libro è suddiviso in tre capitoli, in cui attraverso
l’utilizzo di fonti spesso poco studiate, come la documentazione prodotta dagli uffici provinciali del lavoro, si esamina l’emigrazione umbra inserendola nel più generale contesto
di quella italiana. Nel primo capitolo l’a. ricostruisce il contesto in cui si trova l’Umbria
nell’immediato dopoguerra. Periodo difficile in cui i problemi lasciati in eredità dal fascismo e dalla guerra si sommano a quelli di più lungo periodo, legati alla struttura del
mercato del lavoro e all’assetto produttivo, sovrapponendosi nel determinare conseguenze
negative per il tessuto socioeconomico locale pesantemente segnato dalla disoccupazione.
Tutto ciò è all’origine dello spopolamento che colpisce vaste zone della regione e al parallelo sviluppo dei fenomeni migratori. Il secondo capitolo delinea i caratteri che assume
l’emigrazione umbra all’estero sino agli anni del boom economico. Sono approfondite le
politiche migratorie adottate dai governi italiani e le posizioni delle principali forze politiche. Un’attenzione particolare è dedicata a studiare il ruolo assunto sul territorio dagli
uffici del lavoro e dai Centri di emigrazione. Da ciò si evince come l’emigrazione all’estero
sembra essere solo una fra le tipologie caratterizzanti i flussi migratori umbri. Rappresenterebbe infatti il momento finale di un percorso che vede gli emigrati spostarsi dalle pianure, ai medi e piccoli centri urbani, alle maggiori città dell’Italia centro-settentrionale.
Tale flusso sembra orientarsi verso i paesi dell’Europa centro-occidentale e risulta contrassegnato da una dimensione temporanea e rotatoria e da una specializzazione professionale
in cui prevale il lavoro operaio e minerario. Nel terzo capitolo l’analisi si sposta agli anni
’60 e ’70, quando il fenomeno emigratorio è ormai in declino. Emerge il definitivo cambiamento dei flussi migratori, concentrati ora su Germania e Svizzera; il peso crescente
ricoperto da sindacati, patronati, associazioni di emigranti ma, soprattutto, dalle Regioni.
Significativo si dimostra per l’a. il ruolo giocato dalle rimesse degli emigranti, considerato
fattore decisivo di sviluppo regionale. La crisi economica che colpisce l’Europa dal 1973 è
individuata come elemento essenziale nell’invertire il flusso migratorio. In questo quadro
l’azione svolta dall’ente Regione si rivela determinante: vengono infatti promosse politiche economico-sociali, anche attraverso la creazione di una Consulta regionale, volte a
favorire la ricollocazione degli emigranti. Le problematiche dell’emigrazione entrano così
a pieno titolo nella programmazione economica regionale, passaggio fondamentale del
processo di modernizzazione della regione.
Angelo Bitti
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
202
i libri del 2012 / 2 - monografie
Catherine Coquery-Vidrovitch, Breve storia dell’Africa, Bologna, il Mulino, 176 pp., €
14,00
Catherine Coquery-Vidrovitch, nota e affermata studiosa di storia dell’Africa e professore emerito all’Università di Paris VII, presenta in questa breve storia un’interessante
sintesi delle principali questioni riguardanti il percorso storico del continente africano,
con particolare riguardo all’Africa sub-sahariana. Si tratta di un testo agile a evidente
carattere divulgativo rivolto anche a un pubblico di non specialisti; un testo certamente
utile, in quanto è importante che la storia poco conosciuta dell’Africa venga, almeno
nelle sue linee generali, maggiormente diffusa, anche in rapporto alla crescita, sempre più
significativa, di processi migratori verso il nostro paese.
Proprio per il carattere divulgativo del testo appare problematica la scelta di affermare che siano gli studi postcoloniali ad avere rielaborato la storia dei paesi che hanno subito
il colonialismo. Al riguardo, un altro noto storico dell’Africa – Frederick Cooper – in un
suo lavoro del 2005 dal titolo Colonialism in question ricorda che la difficoltà di rileggere
il colonialismo dipende dal fatto che occorre meglio studiarlo per poi rielaborarlo in senso
critico; egli afferma che «il “coloniale” degli studi postcoloniali è generico» (p. 16).
Se, quindi, il testo, come ricordato, è sicuramente chiaro e di facile lettura, non
possiamo però non sottolineare il fatto che l’a. sia stata giocoforza costretta a un livello
di sintesi estremamente elevato. La scelta di aver iniziato a parlare dell’Africa discutendo
anche della nascita dell’uomo, una questione che va ben al di là della storia più recente
delle civiltà, ha allungato la fase temporale di analisi del testo, rendendo ulteriormente
necessario il livello di sintesi. L’a. ha contestato l’utilizzo del termine Africa precoloniale
(p. 11) – una questione importante nell’offrire una periodizzazione di tipo innovativo – e,
forse anche per questa ragione, il testo si incentra sulla ricostruzione delle società, della
storia e della politica dell’Africa fino al colonialismo, presentando utili informazioni sui
sistemi statuali e sociali del continente e su fatti storici che devono far parte della memoria
universale come la tratta degli schiavi. Il risultato finale è stato, però, quello di relegare
l’analisi sulle indipendenze a un ruolo marginale: questa fase è trattata in modo generico,
non dando adeguatamente conto al lettore di cosa le indipendenze abbiano significato
politicamente in termini di riscatto ed emancipazione, degli effetti pesanti sull’economia
e sulla politica africane causati dai programmi di aggiustamento strutturale – nel testo
indicati come politiche – e, soprattutto, della rilevanza dei processi di democratizzazione
avviati dagli anni ’90 e che sono soltanto accennati.
In sostanza, quindi, un testo assai utile per il lettore italiano con l’avvertenza che la
storia più recente è presentata in modo troppo sintetico.
Mario Zamponi
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Paul Corner, The Fascist Party and Popular Opinion in Mussolini’s Italy, Oxford, Oxford
University Press, 302 pp., £ 65,00
All’origine del volume, con tutta evidenza, sono individuabili ambiziosi interrogativi: quale fu l’effettiva ricezione dell’ideologia e delle ambizioni totalitarie del fascismo
italiano? Quanto penetrò nella società il progetto di «uomo nuovo»? Nel confrontarsi
con questi problemi, Corner sceglie di spostare il punto di osservazione: dal centro alla
periferia, da un’analisi «dall’alto» a una «dal basso».
Il libro si compone di due parti, che rispecchiano una suddivisione cronologica e
al tempo stesso tematica. La prima prende in esame l’evoluzione del Partito nazionale
fascista nei contesti locali e i rapporti tra le periferie e il centro negli anni ’20 (a rimanere
forse sacrificato è il periodo dal 1922 al 1925, che pure ebbe dinamiche specifiche che
condizionarono ampiamente gli sviluppi successivi). Il «fascismo reale» delle province
rimanda un’immagine profondamente diversa da quella trasmessa dall’ideologia: «the
much-proclaimed fascist “National rebirth” of Italy faltered at the medieval gates of a
hundred towns and cities as local traditions – and interests – met up with the novelty, but
also the threat, of the national movement» (p. 4).
La seconda parte, sugli anni ’30, è invece focalizzata sul modo in cui gli italiani
reagirono alle parole e alle azioni del fascismo, cioè sull’«opinione popolare», desunta
principalmente dai rapporti degli informatori della polizia e del Partito. Le difficoltà della dittatura a penetrare nell’animo degli italiani, a produrre effettivi cambiamenti nelle
mentalità, nei comportamenti e negli stili di vita ebbe molto a che fare con la particolare
natura di quel «fascismo reale» periferico, violento, affarista, litigioso e compromesso con
i poteri locali, che non poteva non risultare sgradevole e che costituì, per la gran parte
della società, la manifestazione più vicina e più visibile del fascismo stesso.
Risultato di un lungo percorso di ricerca, il volume offre abbondanti elementi di
conoscenza inseriti in un robusto quadro interpretativo, sostenuto da un solido ancoraggio alla migliore storiografia internazionale e da opportuni spunti comparativi. Molte
le riflessioni e le domande che stimola. Mi limito a due sole osservazioni. Corner sceglie di lasciare fuori dal suo schema interpretativo l’esame dell’impatto di altri canali
di mediazione tra il centro e la periferia, autonomi dal partito, come le rappresentanze
degli interessi socioeconomici e le realtà istituzionali e associative cattoliche. Non si può
però non chiedersi come essi interagirono con le dinamiche analizzate e quindi quanto
influenzarono l’evoluzione dell’opinione popolare. Inoltre, Corner afferma che la sua interpretazione del fascismo non si contrappone a quella, tra gli altri, di Emilio Gentile,
che mette al centro la natura totalitaria del fascismo e il peso dell’ideologia e dei riti, ma
ne è invece complementare. Tuttavia, l’integrazione di queste due dimensioni – in altri
termini, la tensione «rivoluzionaria» e la concreta prassi di governo – rimane per gli storici
un problema ancora aperto.
Alessio Gagliardi
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Gustavo Corni, Raccontare la guerra. La memoria organizzata, Milano, Bruno Mondadori, 272 pp., € 18,00
Di memorie al plurale avrebbe potuto parlare il sottotitolo rendendo così meglio
giustizia allo straordinario lavoro comparativo compiuto dall’a.: una indagine raffinata
condotta attraverso la letteratura tedesca e italiana relativa alla campagna contro l’Urss
nel secondo conflitto. Il plurale indica anche le due Germanie e i numerosi angoli di
osservazione individuale o di gruppo. La letteratura presa in esame è la memorialistica e la
narrativa; la sua caratteristica principale, con qualche significativa eccezione, è la decontestualizzazione della vicenda bellica e dei suoi obiettivi, con una successiva ricollocazione
nell’ambito della logica della guerra fredda. Si frammenta l’esperienza di guerra dando
fiato a una pluralità di miti e racconti specifici a seconda delle fasi della campagna contro
l’Unione sovietica, che rispetto alle altre combattute durante il conflitto aveva il «pregio»
di una immediata utilizzazione con l’avvio della guerra fredda.
Le narrazioni italiane e tedesche registrano questo cambiamento di prospettiva; in
Italia pochissimi (Revelli) tenteranno vie diverse. Per il resto la differenza più importante
tra la narrativa tedesca e italiana viene indicata nella diversa attenzione che gli italiani riservano alla popolazione locale e alla preoccupazione di descrivere i tentativi di mantenere
con essa buone relazioni. Diversamente le narrazioni tedesche appaiono meno interessate
al panorama umano e più a quello visivo; molto attente invece alle vicende e agli umori
degli stessi soldati tedeschi con giudizi altalenanti sulla conduzione della guerra. Difficilmente però le critiche più aspre sull’organizzazione o su altri importanti aspetti assumono
un tono esplicitamente politico: quasi mai si indica nel nazismo o nel suo capo la responsabilità per la conduzione della guerra, che in alcuni casi è descritta come una «guerra
pulita», condotta con impeccabile tecnica (pp. 90–100), una sorta di riscatto per l’esercito
tedesco e una carta di credito per la sua affidabilità in ambito atlantico. Una prospettiva
diversa è quella umanitaria di alcuni autori che condannano la guerra nel suo complesso
(cfr. pp.107–109). Un forte pathos si trova nelle memorie dei cappellani militari italiani,
quelli che maggiormente cercano di collocare in una prospettiva più ampia la guerra
in Russia, ma si tratta dello spirito di crociata, della missione evangelizzatrice cattolica
e occidentale. Sul versante italiano ancora notevole l’epopea della ritirata, «vittoriosa»
nella rielaborazione successiva, legata spesso alla ricollocazione della narrazione entro una
logica di appartenenza alle divisioni alpine. Per la memorialistica tedesca è la battaglia di
Stalingrado il punto cruciale della messa in discussione dell’intera vicenda. Qui prevale
l’idea di una necessaria palingenesi che attraversa le scritture della Germania federale e
della Ddr, vi si potrebbe cercare una sorta di legittimazione politica. La prigionia presenta
altrettante varietà narrative, dalla denuncia delle disumane condizioni all’apprezzamento
di trattamenti umani; per alcuni la prigionia è anche l’occasione di una rielaborazione
politica.
Rosario Mangiameli
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Guido Crainz, Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, Roma, Donzelli, 390
pp., € 29,00
Attraverso un efficace lavoro di sintesi, intrecciato a una rassegna puntuale della
stampa e dei commenti politici, Crainz ricostruisce il tramonto del sistema politico italiano fino alla sua disgregazione e all’avvio dei nuovi equilibri tra il ’94 e il ’96. La periodizzazione sulla quale l’a. si misura va dall’assassinio di Moro alla vittoria dell’Ulivo di
Prodi (1996), senza in realtà toccare gli anni successivi, come indica invece il sottotitolo.
Crainz individua nella grande trasformazione della società italiana a cavallo tra anni ’70 e
’80 la causa del declino del potere dei partiti. L’ingresso dell’Italia nell’era post industriale
mette in crisi i parametri culturali del passato. Di fronte a questa sfida i partiti dominanti
smarriscono sia la loro identità sia il rapporto di fiducia con i loro rappresentati, ripiegandosi su se stessi nell’illusione di riuscire ancora ad acquistare consensi elargendo benefici.
Su questo sistema già indebolito e screditato si abbattono le rovine del muro di Berlino e
soprattutto la scadenza del trattato di Maastricht che Crainz indica come il fattore dirompente. Le inchieste del pool di Mani pulite fanno alla fine precipitare la «grande slavina» e
segnano la fine della prima Repubblica. La chiave interpretativa offerta dall’a. per indagare sulle ragioni della situazione in cui si trova oggi l’Italia è tutta concentrata nel decennio
degli ’80, a partire dal continuum Craxi-Berlusconi, entrambi interpreti, a giudizio dell’a.,
di quella nuova società individualistica, amorale, consumistica che ha smarrito la strada
dei valori a fondamento della nostra Costituzione. È una tesi già avanzata da Crainz nel
volume Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale (2009) che riflette,
a mio giudizio, un rifiuto di principio del «paese reale» da parte di molti intellettuali,
anch’essi sconcertati – come la maggior parte della classe politica – di fronte al grande
mutamento in corso nell’Occidente avanzato. In tal modo si rischia però di cadere in un
pregiudizio antropologico che non aiuta a comprendere e a spiegare l’ultimo ventennio
della storia italiana. Dalla fine degli ’80 in poi sono avvenute mutazioni profonde in tutto
il mondo e dunque anche in Italia, la cui specificità nelle sue tare originarie andrebbe in
una certa misura relativizzata proprio in considerazione di evidenti processi omologanti in
tutte le società del pianeta. Potere mediatico, corruzione politica, criminalità, movimenti
di protesta, localismi, razzismi, leaderismi e populismi dilagano ovunque a indicare una
crisi generale delle democrazie. Sebbene abbia ragione Crainz a individuare le origini lontane di queste trasformazioni nella fine dei ’70, tuttavia sarebbe stato utile affacciarsi agli
eventi successivi al 1996, quando la classe politica italiana si deve misurare con la cessione
di tanta parte della sovranità nazionale e contemporaneamente è costretta a una revisione
indilazionabile delle sue culture politiche. Forse è proprio questa ricerca mai conclusa di
nuove identità il nodo non risolto che rende impotenti i partiti della seconda Repubblica
e scava un fossato in apparenza invalicabile tra rappresentati e rappresentanti.
Simona Colarizi
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Federico Cresti, Massimiliano Cricco, Storia della Libia contemporanea. Dal dominio ottomano alla morte di Gheddafi, Roma, Carocci, 331 pp., € 24,00
Programmato per uscire in libreria in occasione del centenario dell’invasione italiana
della Libia nel 1911, il denso volume di Cresti e Cricco (già coautori per lo stesso editore
nel 2011 di un più agile libro su Gheddafi) si è trovato a essere pubblicato immediatamente a ridosso della crisi libica, dell’intervento militare internazionale, della caduta del
regime e della morte del suo leader. Si presenta quindi come uno strumento di particolare
utilità per un pubblico non solo specialista, interessato a comprendere le ragioni profonde
sia delle tormentate relazioni tra Tripoli e l’Italia, sia la parabola della Libia indipendente
e del regime della discussa figura di Gheddafi. Scritto da due tra i maggiori conoscitori
italiani della Libia, il testo si inserisce nel piccolo numero di lavori di sintesi sul paese
nordafricano, la cui storia contemporanea (in particolare il periodo gheddafiano) rimane
appannaggio di un numero molto circoscritto di studiosi.
Il volume si sviluppa in due parti: la prima (scritta da Federico Cresti) ricostruisce la
storia del paese dalla crisi del dominio ottomano alla fine del colonialismo italiano; una
particolare enfasi è posta sulle caratteristiche delle politiche condotte in periodo fascista e
sulla brutale repressione della resistenza condotta da ‘Umar al-Mukhtar. La seconda (scritta da Massimiliano Cricco) analizza la storia indipendente della Libia dal 1951 fino al
sanguinoso rovesciamento del regime di Gheddafi. Dopo una ricostruzione del processo
di decolonizzazione seguito alla sconfitta dell’Italia nel secondo conflitto mondiale e del
passaggio all’indipendenza sotto re Idris, il testo si concentra sui limiti della prima fase di
indipendenza, sui mutamenti introdotti dalla scoperta e dallo sfruttamento del petrolio
dalla seconda metà degli anni ’50, e poi sulle diverse fasi della Jamahiriyya, con la cesura
rappresentata dalle sanzioni applicate contro Tripoli a causa del suo coinvolgimento nel
terrorismo internazionale. Il volume è completato da una ricca bibliografia, da utili carte
e da immagini fotografiche.
Testo dai molti pregi, il lavoro di Cresti e Cricco risulta tuttavia alla fine eccessivamente squilibrato a favore di temi (e relative fonti) che insistono sulle relazioni internazionali della Libia, o più precisamente delle politiche delle potenze esterne verso il paese
nordafricano, le loro analisi e le loro percezioni. La società libica, i suoi attori sociali e politici (inclusi quelli di opposizione), le dinamiche Stato-società, i meccanismi di consenso,
controllo e repressione di un regime come quello di Gheddafi, che è comunque durato
per oltre quattro decenni fondandosi su un tipico modello di Stato rentier, rimangono
sullo sfondo. Forse troppo sullo sfondo per aiutarci a capire dove e grazie a quali dislocazioni sociali e politiche si è infine prodotta la rivolta del 17 febbraio, l’andamento della
protesta, l’intervento militare fino al fragoroso crollo del regime, il panorama attuale delle
forze che si confrontano e scontrano nel post-Gheddafi in una difficile stabilizzazione.
Maria Cristina Ercolessi
i libri del 2012 / 2 - monografie
207
Pasquale Cuomo, Il miraggio danubiano. Austria e Italia politica ed economia 1918-1936,
Milano, FrancoAngeli, 235 pp., € 34,00
Il libro ricostruisce l’azione di penetrazione politica ed economica svolta dall’Italia
nel ventennio successivo alla prima guerra mondiale nello spazio danubiano. Il crollo
della Monarchia asburgica determinò un enorme vuoto politico nel centro dell’Europa
che l’Italia, nella sua veste di potenza vincitrice direttamente confinante con quell’area,
cercò in parte di riempire. In questo tentativo, la piccola Austria tedesca erede del vecchio
impero venne individuata come la porta principale attraverso cui passare per conquistare
un ruolo di supremazia tra i paesi eredi della duplice monarchia.
In questo progetto un ruolo centrale venne assegnato a Trieste e alle sue forze economiche in campo finanziario e industriale. Gli imprenditori giuliani, conoscitori della
lingua tedesca e già inseriti in una fitta rete di rapporti commerciali nei territori ex asburgici, avrebbero dovuto rappresentare il primo veicolo di penetrazione economica, forti
anche di notevoli disponibilità finanziarie. Il primo capitolo affronta proprio il ruolo
dell’imprenditoria triestina nell’immediato dopoguerra, con un’attenzione particolare alle
sue manovre volte a sostituirsi ai capitali austriaci nei territori giuliani, preparando da
posizioni di forza l’integrazione dell’economia regionale in quella italiana.
Il libro prosegue illustrando la difficilissima situazione interna dell’Austria, scossa
da forti tensioni politiche, privata degli approvvigionamenti alimentari prima garantiti
dalle altre regioni dell’Impero e del tutto incerta circa il proprio destino. Erano in molti
gli austriaci a ritenere inevitabile una rapida annessione alla Germania. La stella polare
dell’Italia nei vent’anni successivi sarebbe stata proprio quella di impedire l’Anschluss: una
Germania che fosse giunta al Brennero avrebbe posto fine a qualsiasi velleità di centralità
politica italiana nello spazio danubiano. L’Italia cercò di sfruttare le debolezze economiche e politiche di Vienna per concretizzare la propria politica di ingerenza. L’a. illustra le
principali iniziative italiane in Austria in ambito industriale e finanziario, richiamando
al contempo i termini del sostegno italiano alle rivendicazioni territoriali austriache nei
confronti di Jugoslavia e Ungheria. Questa politica, inaugurata dall’Italia liberale, fu sostanzialmente proseguita da quella fascista, che specie nel corso della prima metà degli
anni ’30 concentrò notevoli risorse nello scacchiere austriaco. Il culmine dell’influenza
italiana sull’Austria si ebbe tra il 1932 e il 1938, con il cancellierato Dollfuss e la dittatura
di Kurt Schuschnigg. L’espansione economica e il rafforzamento politico della Germania
di Hitler avrebbero rapidamente posto fine al «miraggio» italiano richiamato nel titolo.
L’Anschluss del marzo 1938 rappresentò la pietra tombale delle velleità italiane.
Il libro, utile e ben documentato, restituisce però l’impressione di essere il risultato
di un assemblaggio di ricerche precedenti non sempre ben amalgamate.
Andrea Di Michele
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Antonino De Francesco, La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale, Milano, Feltrinelli, 254 pp., € 20,00
Questa ricerca di storia culturale dipana in nove capitoli la ricostruzione complessiva
e sintetica, dal ’700 ad oggi, dell’antimeridionalismo, inteso come costruzione culturale
(una sorta di tradizione nera del Mezzogiorno), con un ruolo normativo dell’immaginario
sociale degli italiani del Nord. Il taglio metodologico sembrerebbe coniugare il post-meridionalismo della rivista «Meridiana» con il neo-meridionalismo di Galasso: l’analisi della
storia delle idee, sia pure in un ambito culturale medio (fonti privilegiate sono i giornali
settentrionali a più larga diffusione e i prodotti dell’industria culturale di massa), prevale
sui registri di sociologia storica o di antropologia culturale storica.
L’antimeridionalismo appare allora come un disco rotto, un ripetitivo coacervo di
stereotipi grossolani e razzistici, luoghi comuni astorici. Questa coazione a ripetere appesantisce, inevitabilmente, la ricostruzione storica: «In sé, questo rimestare tra i soliti
cliché potrebbe sembrare operazione di una rara monotonia, perché gli scenari cambiano,
le stagioni politiche si susseguono, ma le descrizioni e i luoghi comuni sembrano invece
mantenersi inalterati, agevolmente rimbalzando da una fase della storia italiana all’altra»
(p. 24). Ma la ricerca è meritoria: perché in fondo una cultura nazionale è anche intessuta
di luoghi comuni e non può essere intesa senza analizzare le vicende di tali cliché. È ciò
che l’a. fa, seguendone alti e bassi, momentanee eclissi e rilanci improvvisi. L’idea di fondo
è che questo repertorio retorico antimeridionale viene utilizzato o silenziato, attutito o
ingigantito, a seconda delle vicende politiche e delle relative strategie comunicative. Con
alcuni momenti di più pregnante importanza: il ’700, in cui nasce il pregiudizio (come
sottoprodotto del Grand Tour, dovuto alla riscoperta dell’antichità greco-romana e all’interesse europeo per l’Italia meridionale), il 1848, ma soprattutto il momento dell’Unità
(qui forse l’a. avrebbe potuto utilizzare le vecchie, ma ancora utili, ricerche di Ettore
Passerin d’Entrèves). Si tratta, dunque, di una storia politica dell’antimeridionalismo:
proprio per questo, una maggiore esplicitazione dell’interpretazione assunta della storia
politica nazionale sarebbe stata utile. In ogni caso, acutamente, l’a. osserva come l’antimeridionalismo nasca e si consolidi ben prima del meridionalismo, il quale è pertanto,
paradossalmente, costretto ad accettarne i termini di discussione, non fosse altro che per
contestarli.
Forse inevitabile, ma certo drastica e non priva di conseguenze sul senso, sulle forme
e sulle articolazioni della ricostruzione complessiva, è la scelta di circoscrivere l’indagine
agli stereotipi del napoletano e del siciliano e, in minor misura, del calabrese. È chiaro
che sono state queste le fonti maggiori, qualitativamente e quantitativamente, dell’antimeridionalismo: ma aver privilegiato, per dirla con l’amato (dall’a.) Cuoco, i lazzaroni di
Napoli e i feroci Calabresi, rispetto ai leggieri Leccesi o agli spurei Sanniti, impedisce il
chiaroscuro e lo studio di importanti varianti.
Fulvio De Giorgi
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Fulvio De Giorgi, Mons. Montini. Chiesa cattolica e scontri di civiltà nella prima metà del
Novecento, Bologna, il Mulino, 357 pp., € 28,00
Specialista della storia del cattolicismo contemporaneo, Fulvio De Giorgi insegna
Storia dell’educazione presso l’Università di Modena e Reggio. Il suo saggio riprende e sviluppa un primo studio presentato al convegno «Paolo VI e la civiltà dell’amore» promosso
dall’Istituto Paolo VI nel settembre 2010. L’a. ripercorre le grandi tappe dell’itinerario di
Giovanni Battista Montini, dalla nascita, nel 1897, fino alle soglie dell’episcopato milanese alla metà degli anni ’50. Il libro si divide in cinque capitoli corrispondenti ai cinque
periodi della vita del futuro pontefice: gli anni della formazione nella sua Brescia natale, il
periodo della Grande guerra e dei primi impegni, gli anni della Fuci e del confronto con il
fascismo, il periodo della Segreteria di Stato sotto Pio XI e soprattutto Pio XII durante la
seconda guerra mondiale, gli anni della ricostruzione democratica dell’Italia dopo il 1945.
Basato su un’ampia documentazione perfettamente assimilata, lo studio di De Giorgi
dimostra come il tema della riforma della Chiesa (reformatio Ecclesiae), fortemente sentito
nella cultura cattolica lombarda all’inizio del secolo, si sia progressivamente trasformato
in un progetto di rinnovamento del cristianesimo alla vigilia del concilio Vaticano II.
L’ideale maritainiano della «nuova cristianità» viene progressivamente superato a favore
di un progetto più ampio e più radicale di «nuova ecclesialità». Accanto all’influenza
di Maritain (sostanzialmente ridimensionata nel volume), l’a. individua altre tre fondamentali linee di continuità nell’itinerario montiniano: l’eredità agostiniano-guardiniana
(attraverso l’influenza di padre Bevilacqua), l’eredità della teologia della storia (il ruolo
dell’ecclesiologia francese con la mediazione di Giorgio La Pira), l’eredità democratica
(il legame con De Gasperi). Il merito del libro, rispetto a tante altre pubblicazioni su
Montini/Paolo VI, è quello di concentrarsi sulla dimensione propriamente intellettuale
della biografia del «più grande» leader ecclesiastico italiano del ’900 (p. 9). Il suo limite
sta forse nel fatto di tentare di rileggere tutta l’evoluzione del pensiero del futuro Paolo
VI alla luce dell’unico concetto della «civiltà dell’amore», così centrale negli insegnamenti
degli ultimi anni del pontificato. Il lettore troverà molti spunti di riflessione sulla storia
del cattolicesimo italiano del primo ’900: l’esistenza di un modello cattolico bresciano,
l’importanza del patriottismo cristiano durante la prima guerra mondiale, l’emergere di
un nuovo cattolicesimo militante sotto il pontificato di Pio XI (nella sua doppia declinazione gemelliana e montiniana) in concorrenza con la pretesa totalitaria del fascismo di
dominio delle coscienze. L’ultima parte del volume su Montini sostituto alla Segreteria di
Stato, forse meno innovativa, risente dell’impossibilità di accedere alla documentazione
vaticana sul pontificato di Pio XII.
Philippe Chenaux
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
210
i libri del 2012 / 2 - monografie
Roberto de Mattei, Pio IX e la rivoluzione italiana, Siena, Cantagalli, 207 pp., € 16,00
È lecito avanzare qualche dubbio che l’opera di de Mattei sia in grado di colmare
quel deficit storiografico che l’a., in una breve nota bibliografica aggiornata, mostra di considerare «il punto più debole del pensiero cattolico del secolo XX», giustificando siffatto
impegnativo giudizio con il collocare i due grandi lavori di Roger Aubert e di Giacomo
Martina relativi al pontificato di Pio IX precisamente nel solco di «quella corrente ideologica […] condannata da Pio IX», vale a dire nel «filone di pensiero» del cattolicesimo liberale (p. 9). Non rassicura molto, ma è certamente sintomatico, sul filo di questa considerazione, il fatto che vengano ricordati come ancora esemplari sotto il profilo storiografico
i testi non proprio freschissimi di Pietro Balan e del polacco Giovanni Sebastiano Pelczar,
meritevoli soprattutto di aver attribuito «il giusto peso storico nelle vicende dell’Ottocento all’azione delle società segrete» (p. 10). Il canone che sorregge l’impalcatura del volume
è, nella sostanza, l’immagine, falsamente agostiniana, del confronto tra la città di Dio,
«incarnata dalla Chiesa cattolica» (p. 7), e la civitas diaboli rappresentata dalla rivoluzione,
con cui il Risorgimento s’identifica senza residui, e che consente all’a. di riproporre senza
alcuna significativa variante i presunti punti fermi della più ferrea tradizione dell’intransigentismo cattolico: il Risorgimento come complotto settario (e protestante) di portata
internazionale in senso anti-cattolico, le qualità superiori del governo pontificio anche
sotto il profilo civile ed economico (e persino sotto quello militare…), le punizioni divine
riservate agli autori della sovversione religiosa del popolo italiano secondo il ben noto
schema, già utilizzato da Don Bosco, del De mortibus persecutorum, e via discorrendo.
D’altra parte, l’apologia incondizionata della figura e dell’opera di Pio IX, tesa a mostrare
l’indefettibile coerenza dei suoi comportamenti di fronte al moto risorgimentale e delle
sue decisioni in campo strettamente ecclesiastico, dogmatico e magisteriale (cui è dedicata
la seconda parte del volume) finisce per tradursi nell’assunzione dello Stato pontificio
come modello insuperato di ordinamento politico-religioso, dotato, par di capire, di una
sua perenne validità, e comunque guardato dall’a. con evidente compiacimento misto a
rimpianto. Nondimeno, proprio per l’intenzione, non dichiarata ma sin troppo esplicita, di vanificare in un sol colpo (facendo perno sulla recente beatificazione di Pio IX) le
riflessioni, le sfumature, i ripensamenti a cui la vicenda risorgimentale ha dato luogo nel
tessuto della cultura e dell’opinione cattolica, il volume merita attenzione: e la merita
come sintesi di una forma mentis, come documento di una congiuntura in cui sono riaffiorate, per ragioni che varrebbe la pena di indagare diffusamente, linee di pensiero e modi
di leggere la storia italiana ed ecclesiastica che si potevano ingenuamente credere estinte
mentre erano rimaste solo latenti, e attendevano le condizioni propizie per rivendicare
quanto meno una propria legittimità che sarebbe poco definire «revisionistica».
Francesco Traniello
i libri del 2012 / 2 - monografie
211
Erika Dellacasa, I Costa. Storia di una famiglia e di un’impresa, Venezia, Marsilio, 315 pp.
con ill., € 22,00
Il nome dei Costa è tra quelli che maggiormente sono entrati nell’immaginario collettivo di generazioni di italiani e non solo di genovesi. Una dinastia imprenditoriale che
si estende almeno su quattro generazioni, protagonista assoluta in molte delle diverse attività che i suoi membri hanno svolto nel corso del tempo, dai trasporti marittimi al tessile,
all’industria olearia (attraverso il marchio «Olio Dante», che avrà successo negli Stati Uniti prima ancora di diventare notissimo in Italia), anche se il nome è legato principalmente
alle iniziative in campo armatoriale e all’organizzazione imprenditoriale su larga scala, per
primi in Italia, delle crociere. La storiografia sul capitalismo familiare italiano ha quindi
a disposizione altro materiale su cui riflettere, con cui proporre confronti, porre interrogativi, tentare risposte sempre migliorabili? Si, ma solo in parte. Il volume appare quasi il
frutto di un impegno collettivo, anche se a firmarlo è una nota giornalista che, con una
certa civetteria, ricorda di essere laureata in Storia navale. L’intera famiglia Costa è stata
in un certo senso coinvolta per raccontare questa lunga e appassionata vicenda, anche se è
il periodo relativamente più vicino (dagli anni ’60 in poi), che occupa almeno i tre quarti
del volume. Possiamo immaginare che siano stati utilizzati numerosi documenti di prima
mano, abbiamo a disposizione numerose immagini, veniamo a conoscenza dell’ampio
uso di testimonianze orali tanto di membri della famiglia, quanto di amici e professionisti che hanno vissuto da vicino momenti rilevanti in qualche vicenda di rilievo della
storia imprenditoriale dei Costa. La bibliografia cui rimanda il volume è davvero scarna,
neanche una pagina, né abbiamo a disposizione un indice dei nomi, davvero un peccato
quasi sempre, ma specialmente quando si scrive una storia di una famiglia che si estende
su più generazioni. Il volume riporta una fascetta che informa che siamo già alla seconda
edizione, segno evidente delle fortune editoriali del libro, che si legge con immutato
piacere dalla prima all’ultima pagina, ma anche con la sensazione che il distacco critico
dall’oggetto di una ricerca sia un’altra cosa. Peraltro il volume – e come non poteva non
esserlo – è ricco di informazioni e di aneddoti di primissima mano, che contribuiscono
al piacere della lettura, ma dai quali sfuggono snodi fondamentali e non solo per la storia familiare. Appena menzionata, ad esempio, è la presidenza di Confidustria ricoperta
da Angelo Costa in due occasioni (1945-55 e 1966-70) e i suoi discorsi, pubblicati da
Einaudi, non figurano neppure in bibliografia (per non parlare del volume che gli hanno
dedicato alcuni anni fa Vera Zamagni e Francesca Fauri). Molto dettagliata, per contro,
è la ricostruzione della vicenda drammatica di Piero, rapito dalle Brigate rosse, per la cui
liberazione i Costa organizzarono anche una veglia ininterrotta di preghiera, segno, oltre
che di grande devozione, del forte legame che la famiglia seppe instaurare nel tempo con
la Chiesa genovese e in particolare con il cardinale Siri, una delle figure più complesse
degli ambienti conservatori del mondo ecclesiale italiano.
Luciano Segreto
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Jean-Marc Delpech, Rubare per l’anarchia. Alexandre Marius Jacob, ovvero la singolare
guerra di classe di un sovversivo nella belle époque, Milano, Elèuthera, 159 pp., € 14,00
Jean-Marc Delpech insegna Storia nel Dipartimento dei Vosgi e da tempo è impegnato nella ricerca sulla sovversione sociale nella belle époque. Grazie a una rielaborazione
della sua tesi di dottorato, l’a. ci introduce nelle vicende biografiche dell’anarchico francese Alexandre Marius Jacob e della sua banda di rapinatori, i Travailleurs de la Nuit, i quali
nel giro di tre anni (1900-1903) portarono a termine 156 furti di varia entità.
Al di là degli aspetti criminosi, riportati comunque con dovizia, il volume si struttura attraverso la ricostruzione della vita di A.M. Jacob, nato nella proletaria Marsiglia di
fine ’800, dove si impiegò presto, prima come marinaio sulle rotte dei mari del Sud e, successivamente, come operaio tipografo, prendendo così i primi contatti con il movimento
libertario locale. In seguito a una prima esperienza con la Jeunesse Internationale, Jacob
abbandonò però ogni attività pubblica per dedicarsi al crimine organizzato, diventando
così un «teorico del furto politico» (p. 145), proposto quale strumento di lotta diretta alla
proprietà privata e alla borghesia. Oltre il dato quantitativo, la valenza delle sue attività è
riscontrabile nella selezione su base etica delle vittime, dalle quali erano esclusi i professionisti, come i medici e gli insegnanti, considerati categorie «socialmente utili» (p. 83),
mentre una percentuale fissa dei proventi era destinata al finanziamento delle attività del
movimento libertario francese. A conferire un carattere pubblico e politico alle azioni dei
Lavoratori della Notte fu il processo celebrato ad Amiens nel 1905 che, per il suo carattere
«fortemente mediatizzato» (p. 99), venne utilizzato da Jacob quale tribuna di propaganda.
Sebbene la condanna avesse messo termine alle sue attività illegali, l’a. sospinge la ricerca
ricoprendo l’intero arco della vita di Jacob, affrontando il lungo periodo di reclusione
nella colonia della Cayenna, fino al suo rientro in Francia e la successiva morte.
Scritta con efficace piglio letterario, la ricerca presentata da Jean-Marc Delpech, oltre
che dalla stampa coeva, attinge le sue fonti dalle memorie, dalle lettere e dalle interviste
rilasciate da A.M. Jacob, facendo emergere preziosi elementi di autorappresentazione e
di autobiografia proletaria. Ma, come indicato dallo stesso a. (pp. 158-159), un approfondimento dell’indagine attraverso lo spoglio delle carte d’archivio – conservate presso
le Archives Nationales, della Préfecture de Police de Paris, dell’ Outre-mer o Départementales – avrebbe conferito una solidità maggiore all’intento biografico, permettendo
di enucleare alcuni temi, quali il contesto generale del movimento libertario francese e la
parentesi vissuta da Alexandre Marius Jacob nella rivoluzione spagnola del 1936.
Roberto Carocci
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Gabriele Donato, «La lotta è armata». Estrema sinistra e violenza: gli anni dell’apprendistato. 1969-1972, Trieste, Istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione del
Friuli Venezia Giulia, 404 pp., € 24,00
La riflessione storiografica sulla violenza politica praticata dalla sinistra rivoluzionaria
negli anni ’70 si arricchisce sempre più di importanti contributi. Tra questi, va sicuramente annoverato il corposo libro di Gabriele Donato, che prende in esame l’affermazione
dei discorsi sulla lotta armata nel dibattito di una parte della sinistra extra-parlamentare
italiana, tra il 1969 e il 1972.
Punto di partenza della riflessione di Donato è che l’opzione della violenza «dovette
apparire innanzitutto legittima, prima di poter essere considerata persuasiva» (p. 13). Il
ricercatore friulano analizza, quindi, la produzione teorica di diversi gruppi della sinistra
rivoluzionaria italiana che, richiamandosi a una tradizione «rivoluzionaria», finirono con
il considerare legittima tale opzione: Potere operaio, Lotta continua, i Gruppi d’azione
partigiana, il Collettivo politico metropolitano (e la sua filiazione, le Brigate rosse).
L’opzione della lotta armata, infatti, venne in quegli anni considerata e discussa da
tutte le organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, per quanto l’«approdo terroristico»
(p. 18) non fosse per nulla scontato. Si trattava di gruppi che frequentavano gli stessi
ambienti e si rifacevano, con diverse interpretazioni, alla stessa cornice teorica. L’ipotesi
interpretativa di Donato è esplicita: la scelta della lotta armata fu dovuta al crollo delle
aspettative rivoluzionarie emerse col ’68 e con l’autunno caldo e al riassorbimento delle
tensioni sociali all’interno di una politica riformista e parlamentare e non all’estensione
del conflitto sociale nelle piazze e nelle fabbriche.
Dopo un’introduzione in cui si espone il quadro teorico e lessicale della ricerca – e
qui forse si sarebbe potuto tenere maggiormente conto della bibliografia internazionale
sulle categorie di «violenza politica» e «terrorismo» –, l’a. suddivide cronologicamente
il suo lavoro in tre capitoli: 1969-70 (La diffusione della violenza), 1971 (L’esaltazione
della violenza) e 1972 (L’inasprimento della violenza). Particolare attenzione viene posta
sui momenti discriminanti che, dal punto di vista della scelta della violenza, servirono ai
gruppi della sinistra rivoluzionaria tanto per tracciare una «linea di demarcazione fra rivoluzionari e opportunisti» (p. 303) quanto per meglio definire le proprie posizioni. Tenute
costantemente in considerazione sono le discussioni sul rapporto tra masse e avanguardie,
sulla scelta della clandestinità, sulle modalità di espressione della violenza.
Una ricerca importante, quella di Donato, perché fondata sui testi delle organizzazioni, al di là delle ricostruzioni complottiste, sociologiche o psicologiche. Nonostante, a
tratti, sembri troppo poco problematizzato il ricorso alle autobiografie e alle interviste dei
protagonisti di quegli anni e troppo limitata la gerarchizzazione tra fonti primarie (i documenti) e secondarie (le riflessioni di storici e giornalisti), il saggio di Donato costituisce
un passo importante verso una migliore comprensione dei «lunghi anni ’70» italiani.
Ilenia Rossini
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Gabriele D’Ottavio, L’Europa dei tedeschi. La Repubblica Federale di Germania e l’integrazione europea, 1949-1966, Bologna, il Mulino, 282 pp., € 22,00
Questa è una storia d’impianto classicamente diplomatico-politico, incentrata sul
sentire, le idee e le decisioni operative della ristretta élite di governo che determina le scelte di politica internazionale: i cancellieri, i principali ministri e i massimi funzionari degli
Esteri. Il titolo insomma inganna, mentre il sottotitolo è quello più fedele.
Entro questa impostazione volutamente focalizzata sulle convinzioni e motivazioni
degli «uomini in posizione di comando» (p. 17), si tratta di una ricerca di alta qualità,
ampia nelle fonti consultate e ben equilibrata nei giudizi che ne ricava. È anche un testo
ben organizzato e chiaramente argomentato.
Lo scopo è quello di rileggere e interpretare «il periodo cruciale» in cui la Rft divenne «un soggetto politico protagonista delle relazioni internazionali» (p. 9), in particolare
nell’ambito dell’integrazione europea e dell’alleanza occidentale. L’a. riesce bene in tale
intento su diversi terreni. In primo luogo, la caratterizzazione dell’europeismo di Adenauer, visto sia in chiave di sua biografia intellettuale e culturale, sia come portato di
un’acuta percezione dell’interesse nazionale nel contesto postbellico. In secondo luogo,
nell’indagare la complessa relazione con de Gaulle, e per estensione la cruciale relazione
franco-tedesca, negli anni finali del suo cancellierato. E infine nel ricostruire la complessa
dialettica tra «gollisti» e «atlantici» che divide il governo – e la Cdu/Csu – negli anni ’60.
Su tutto l’arco di tempo considerato, i pregi e i limiti delle considerazioni di strategia
politica internazionale che ispirano le principali scelte in materia di integrazione sono ben
illustrati e soppesati, soprattutto in relazione alla collocazione della Rft nella complessa
geometria delle relazioni intra-europee e atlantiche. E non c’è dubbio che ne emerga una
graduale assunzione di peso, se non proprio di leadership, da parte della Rft.
Tuttavia, lo scopo dichiarato dell’a. resta a parer mio incompiuto per due scelte che
limitano la portata interpretativa di questo studio. La prima è quella di tralasciare la dimensione economica non tanto dell’integrazione in sé e per sé, quanto delle motivazioni
che ispirano le scelte cruciali della Rft. La costruzione di uno spazio economico tendenzialmente continentale non è scelta né scontata né neutrale in termini anche politicostrategici, in particolare per la Germania che più di ogni altro partecipante fonderà la sua
influenza anzitutto sul terreno industriale e finanziario. La seconda è quella di fermare
lo studio proprio alle soglie del momento in cui la Rft comincerà effettivamente, con la
Ostpolitik di Brandt e poi con il cancellierato di Helmut Schmidt, a esplicare un’influenza attiva e determinante sulla politica europea e atlantica e, in particolare, su natura e
caratteristiche dell’integrazione europea.
Federico Romero
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Emilio Drudi, Un cammino lungo un anno. Gli ebrei salvati dal primo italiano “Giusto tra
le nazioni”, Firenze, Giuntina, 152 pp., € 15,00
«Il 5 maggio del 1964, lo Yad Vaschem [sic!] conferisce a [Ezio] Giorgetti il titolo di
“Giusto tra le Nazioni”» (p. 100). Proprietario dell’Hotel Savoia di Bellario, in provincia
di Rimini, a partire dal 13 settembre 1943, data d’approdo nella località marina di ventisette ebrei stranieri fuggiti dopo l’annuncio dell’armistizio dal campo di Asolo, dislocato
nel Trevigiano, Giorgetti divenne promotore di soccorsi in loro favore e nei confronti di
ulteriori dieci perseguitati «razziali» giunti successivamente. Il primo gruppo, quasi compattamente residente in Zagabria al momento dell’ingresso delle truppe dell’Asse nella
Croazia che da lì a poco sarebbe stata governata dal regime antisemita di Ante Pavelić, si
sarebbe in larga parte trasferito nella Spalato italiana, per sottrarsi alle incalzanti persecuzioni degli ustaša. L’Italia fascista, dal canto suo, avrebbe provveduto prontamente al loro
internamento ad Asolo, il 30 novembre 1941; alcuni di loro, sarebbero, invece, approdati
nel campo trevigiano per altre strade. Il 14 aprile del 1985 a piantare un carrubo, simbolo
di imperitura memoria ma anche di «umiltà», nel «bosco dei giusti» sono i familiari di
Osman Carugno, nel 1943 maresciallo a Bellario: fu lui ad aggregare le famiglie «Lehrer
Deutch» [sic!] e «Frohlich»[sic!] agli ebrei giunti in paese il 13 settembre.
Il titolo del testo non rende giustizia a una vicenda che vede allargarsi nel tempo la
rete dei soccorritori, sicché si sarebbe dovuto forse più propriamente scrivere di «giusti» al
plurale: ad essere coinvolti negli aiuti sono il segretario del Fascio repubblicano del paese,
Mirko Mussoni, ma anche il farmacista Giuseppe Olivi e gli impiegati comunali pronti
a falsificare i documenti di queste persone, più volte costrette a spostarsi per gli allestimenti sempre più impellenti della linea Gotica da parte dei tedeschi. Effettivamente, è la
dimensione della Gemeinschaft (comunità) quella che domina gli aiuti, in una rete di alleanze che taglia trasversalmente gli schieramenti politici. Nella lettera di augurio di buon
capodanno del 1944 di Ezio Giorgetti a Ziga Neumann, che, assieme al genero, si sarebbe
fatto carico di gestire i contatti col mondo esterno per favorire la protezione di tutto il
gruppo, affiorano le parole di un uomo semplice e generoso: «Sento tutta la dolcezza della
natura e vorrei coprirvi con tutto questo. Peccato: mi manca la prosa e sinceramente, vi
confesso, ne sono dolentissimo» (p. 121).
Il tono «antieroico» del racconto è la parte più riuscita del libro, mentre penalizzante
è l’assenza di rigore scientifico: l’a. non sempre chiarisce da dove ricava le informazioni
che dà e le schede degli ebrei stranieri proposte in calce al volume si «ispirano» un po’
troppo al lavoro di Daniele Ceschin, In fuga da Hitler. Gli ebrei stranieri internati nel
trevigiano (1941-1943), 2008. Né mancano errori di contenuto, come quello secondo il
quale l’origine della Todt risalirebbe al 1938 (p. 61, nota 5), mentre invece venne istituita
nel 1933 e cioè nell’anno in cui Fritz Todt – da cui ne avrebbe più tardi mutuato il nome
– diventò ispettore generale per la rete viaria.
Giovanna D’Amico
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Christopher Duggan, Fascist Voices: An Intimate History of Mussolini’s Italy, London, Bodley Head, 501 pp., £ 25,00
Da quando Renzo De Felice ha posto il problema del consenso al regime fascista,
il dibattito storiografico attorno a questo tema centrale ha prodotto risultati importanti,
anche se talvolta le prese di posizione preconcette sono andate a discapito di solide ricerche empiriche. Per questo motivo, il nuovo libro di Christopher Duggan fornisce senza
dubbio una ventata di rinnovamento a un campo di studi che rischiava di appiattirsi. E
lo fa assumendo come punto di vista quello della percezione degli italiani nei confronti
del regime e di Mussolini. La vera novità sta nel ricorso a un ampio ventaglio di fonti, che
spaziano da quelle più tradizionali (relazioni di polizia e memorialistica edita) a quelle più
innovative, come i diari conservati all’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano e all’Archivio della scrittura popolare di Trento, o come le migliaia di «sentimenti»
e lettere inviati a Mussolini. La scelta delle fonti e la cronologia lunga (1915-1945, ma
con un epilogo che arriva ai giorni nostri) permette di delineare un ampio affresco sociale
dell’Italia fascista, nel quale la grande politica si interseca con l’intimità delle vite individuali e con la lunga durata di culture persistenti, da quella cattolica, innanzitutto, al mito
della nazione. L’analisi dei primi anni del fascismo è condizionata dalla relativa scarsità di
nuove fonti e si rivela abbastanza tradizionale. Le scelte metodologiche dell’a. si fanno invece più efficaci nello studio dell’Italia degli anni ’30, in cui mette a fuoco come il regime
sia riuscito a soddisfare ansie e aspettative psicologiche di milioni di italiani e italiane, di
tutte le regioni, di tutte le età e di tutte le condizioni sociali. È così possibile confrontare
la varietà delle forme di adesione e resistenza al fascismo, che vanno dalla coerenza, ai
limiti del masochismo, della fede fascista del professore ebreo Curt Gutkind agli scontri
generazionali dei giovani davanti al coraggioso ma per loro incomprensibile antifascismo
dei genitori, dall’attrazione sessuale verso il dittatore all’accettazione diffusa del razzismo
più becero. A lungo la rappresentazione prevale sulla realtà, ma la crisi di fine anni ’30 e
poi la guerra mondiale contribuiscono a rendere evidenti contraddizioni a lungo nascoste.
L’immagine che ne esce è quella di un regime che, nonostante tutto, è stato capace di
dare risposte – magari labili e talvolta incoerenti – alle aspettative più intime di milioni
di italiani, disposti a lungo a perdonare la corruzione dei gerarchi e le violenze delle camicie nere. Riguardo a quest’ultimo punto, tuttavia, qualche analisi più approfondita sul
ruolo giocato dalla repressione nel veicolare il consenso avrebbe dato ancora più spessore
all’analisi generale. Nonostante le oltre 500 pagine, il saggio è caratterizzato da grande
efficacia narrativa e coniuga vividi affreschi di storie personali con approfondimenti più
articolati, che ne fanno un libro importante nella comprensione del contraddittorio e
articolato rapporto tra gli italiani e il fascismo.
Matteo Millan
i libri del 2012 / 2 - monografie
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David W. Ellwood, Una sfida per la modernità. Europa e America nel lungo Novecento,
Roma, Carocci, 403 pp., € 29,00
David Ellwood conclude con questo lavoro un percorso di ricerca durato molti anni
sul ruolo degli Stati Uniti come origine e specchio della modernità per l’Europa. Il volume rappresenta quindi una sintesi matura e completa della questione, che abbraccia tutto
l’arco cronologico del ventesimo secolo e si pone come uno studio storiografico di grande
valore, riprendendo l’intero, ricco dibattito sull’«americanizzazione».
La prima parte del libro copre il periodo che va da fine ’800 alla seconda guerra
mondiale. Qui assistiamo alla formazione di un modello di sviluppo aperto e dinamico
che rappresenta una sfida alle potenze europee, basandosi su elementi come la produzione
di massa (fordismo) e la comunicazione di massa (Hollywood, jazz, pubblicità). Dopo le
suggestioni wilsoniane, è la seconda guerra mondiale a segnare una svolta importante, con
la caduta dei regimi totalitari e la crisi delle democrazie liberali europee che non avevano
saputo rispondere alla «rivoluzione delle aspettative popolari» (p. 167), come invece era
avvenuto negli Usa.
La parte seconda, che risulta quella centrale e più significativa in questa narrazione,
prende le mosse dall’esportazione del modello del New Deal verso il mondo e si concretizza nell’esperienza del piano Marshall. Nell’Europa in crisi si diffonde il concetto
di modernizzazione «americana» che sottolinea il nesso tra benessere e democrazia, tra
capitalismo e regimi democratici, il quale sarà alla base della ricostruzione e del clima
ideologico della guerra fredda.
Nel terzo e ultimo periodo, dagli anni ’90 a oggi, si vedono le conseguenze del crollo
del comunismo e quindi anche dell’anticomunismo come collante ideologico, con un
tentativo di spostamento verso una dimensione più culturalista dell’influenza americana
(soft power) – durato solo fino alla reazione agli attacchi terroristici. Ma soprattutto si
osserva l’assoluta centralità acquisita dal piano economico, spinta da un’ideologia liberista
favorevole alla deregulation e a un mercato aperto e globale, che troverà infine un esito
negativo nella crisi degli ultimi anni.
In questo quadro gli Stati europei non hanno certo solo un ruolo passivo. Se il
momento di massima influenza, e anche di fascinazione per il modello americano, è sicuramente nella fase di ricostruzione del secondo dopoguerra fino agli anni ’60, è pur vero
che si osservano presto risposte differenziate alla «sfida americana», che in conclusione
finiscono per rafforzare elementi di identità nazionale (si pensi solo al ruolo giocato in tal
senso dalle televisioni nazionali).
Il volume presenta una ricostruzione completa, attenta agli aspetti politici, economici e culturali, in grado di mostrare come differenziazione, competizione e interdipendenza tra paesi europei e Stati Uniti potessero convivere in diverso equilibrio per tutto il
secolo.
Emanuela Scarpellini
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Assunta Esposito, Stampa cattolica in Alto Adige tra fascismo e nazismo. La casa editrice
Vogelweider-Athesia e il ruolo del canonico Gamper (1933-1939), Roma, Aracne, 191 pp.,
€ 12,00
Nella vasta produzione storiografica sul mondo cattolico italiano mancava una documentata ricostruzione dell’atteggiamento del clero sudtirolese negli anni ’30: un periodo nel quale l’Alto Adige si trovò conteso tra le aggressive politiche di italianizzazione del
regime e un irredentismo tedesco rinvigorito dall’affermazione del nazismo in Germania.
Quasi del tutto inesplorata era anche la storia della stampa cattolica altoatesina nel corso
di quel decennio, su cui esisteva soltanto una pubblicistica dai marcati tratti celebrativi.
Merito di questo libro è l’aver ricostruito queste vicende, utilizzando una vasta e inesplorata documentazione archivistica che colloca la realtà altoatesina in una dimensione nazionale e internazionale. Il contrasto tra le autorità fasciste e l’influente stampa cattolica di
lingua tedesca, raccolta attorno alla casa editrice Vogelweider-Athesia e controllata dal canonico Michael Gamper, si era sviluppato già negli anni ’20. Con l’ascesa di Hitler, però,
tale confronto mutò il proprio significato: in breve tempo, infatti, l’irredentismo locale
iniziò a identificarsi con il nuovo regime tedesco, abbandonando le simpatie per l’Austria.
Certo è che, a partire dal 1933, nonostante le ostentate dichiarazioni di disinteresse dei
vertici nazisti per il destino dell’Alto Adige, l’irredentismo sudtirolese iniziò a guardare
con simpatia al nuovo regime, ricevendone un crescente appoggio. Tale legame crebbe
negli anni successivi, mentre la Germania nazista riacquistava il rango di potenza internazionale e l’aggressiva ideologia nazista riusciva a penetrare tra la popolazione e tra gli stessi
circoli cattolici altoatesini. Una simile situazione era ben conosciuta dagli informatori
fascisti che consideravano il canonico Gamper e le personalità raccolte attorno a lui strenui avversari dell’italianizzazione della regione e responsabili della diffusione degli ideali
pangermanisti. Le autorità italiane non riuscirono mai a eliminare del tutto l’influenza
della stampa cattolica di lingua tedesca: troppi ostacoli lo impedivano, dalla compattezza
del mondo altoatesino, assai poco permeabile alla propaganda fascista, al sostegno di cui
Gamper godeva presso la Santa Sede e i vertici ecclesiastici locali, desiderosi di preservare
il carattere cattolico della zona, anche a costo di tollerare il nazionalismo pantedesco.
Tanto che verso la fine degli anni ’30, allorché il canonico iniziò a mostrare scetticismo
per il nazismo, ripiegando verso forme più moderate di nazionalismo, ciò fu dovuto ai
caratteri anticristiani dell’ideologia nazionalsocialista più che al successo delle pressioni
italiane. Elementi, tutti, che sottraggono la contrapposizione tra Gamper e le autorità
fasciste a un ambito strettamente locale, collocandola al centro della storia del periodo,
a cominciare dal contrastato riavvicinamento italo-tedesco e dall’alleanza ideologica tra
nazismo e fascismo, per giungere alle contraddittorie relazioni tra la Chiesa cattolica e i
regimi totalitari nel corso degli anni ’30.
Paolo Zanini
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Gianluca Falanga, Il Ministero della Paranoia. Storia della Stasi, Roma, Carocci, 319 pp.,
€ 22,00
A dispetto del titolo un po’ sensazionalistico, questo volume fornisce al lettore italiano un’ottima descrizione documentata di uno dei più efficienti servizi di sicurezza e di
spionaggio della storia novecentesca: il Ministero per la sicurezza di Stato della Repubblica democratica tedesca. Pur indugiando in alcune parti in uno stile e in una terminologia
più propriamente giornalistici, il testo ha il pregio di riassumere e presentare al pubblico
italiano i risultati della più accreditata e recente ricerca storiografica tedesca, basata sui
preziosi fondi dell’archivio della Stasi, e di rifarsi agli importanti studi di Jens Gieseke.
La storia del tentacolare sistema di controllo del potente Ministero capeggiato da
Erich Mielke è raccontata attraverso la minuziosa descrizione delle sue tecniche operative,
delle sue infrastrutture, dei suoi luoghi e dei suoi protagonisti, seguendo le decisioni delle
«menti» e l’attività di freddi esecutori e spietati carnefici, da una parte, ma anche il tragico
destino di centinaia di migliaia di vittime, dall’altra. La mastodontica istituzione cekista
della Stasi, che diventa ben presto il vero e proprio cardine del regime della Sed, si avvale
nel periodo di massima espansione di un effettivo di più di 90.000 funzionari ministeriali,
a cui si affianca la fondamentale attività di alcune migliaia di «ufficiali in servizio speciale», le efficientissime spie formatesi insieme ai quadri «medi» del Ministero nelle apposite
accademie cekiste della Ddr. Insostituibile si rivela tuttavia il contributo dei «collaboratori
non ufficiali», un «esercito irregolare» di 180.000 delatori.
L’a. riesce a contestualizzare l’attività della Stasi nelle diverse fasi storiche cruciali
della Ddr. Ed emerge come proprio con l’accreditamento internazionale di tale Stato negli anni ’70 (Accordi di Helsinki) inizierà la fase del «terrore discreto» (p. 72): si rafforza
il controllo preventivo e inibitorio sulla popolazione attraverso un massiccio terrorismo
psicologico invisibile contro ogni effettivo o potenziale oppositore, per non discreditare
con aperte azioni repressive la nuova immagine della Germania di Honecker. Ma è questo
stesso periodo che segna l’inizio della fine della Ddr: aumenteranno a livello esponenziale
le richieste di espatrio e, visto il respingimento di gran parte di tali richieste, riprenderà
in maniera inesorabile e progressiva il fenomeno delle fughe fino al collasso definitivo del
regime.
Di particolare interesse anche l’ultimo capitolo, nel quale si traccia un bilancio aggiornato su come la Germania riunificata abbia fatto i conti con la pesante eredità della
Stasi. Piuttosto deludente, ma allo stesso tempo non facile per un democratico Stato di
diritto, appare l’opera di sanzione giuridica contro i colpevoli. Dall’altro lato emerge
invece la soluzione del tutto originale e innovativa che è stata adottata per l’imponente
lascito documentale e archivistico della Stasi, e cioè, sotto pressione della società civile, la
completa e immediata apertura e accessibilità di tale materiale all’opinione pubblica, senza i tradizionali vincoli di secretazione archivistica. Un’opportunità unica e preziosissima
per la ricerca storica.
Andrea D’Onofrio
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Santi Fedele, Primavera socialista. Il laboratorio «Mondoperaio» 1976-1980, Milano, FrancoAngeli, 188 pp., € 24,00
L’a. analizza una stagione fondamentale del mensile sotto la conduzione di Coen, dal
’74 capace di rilanciarlo. Il prestigio e la diffusione di «Mondoperaio» aumentano con la
pubblicazione di due saggi di Bobbio nel ’75. Da questi scritti si sviluppa un confronto
sui rapporti coi comunisti tra gli intellettuali, che «operano nella convinzione che l’obiettivo di un rigenerato Psi non sia solo quello, pur necessario, del riequilibrio nei rapporti
di forza tra i due maggiori partiti della Sinistra, ma anche di stimolare l’iter attraverso
il quale il Pci […] possa approdare sul terreno comune ai grandi partiti socialisti e socialdemocratici europei» (p. 27). Se la costruzione dell’alternativa è impossibile senza il
Pci, per gli intellettuali di «Mondoperaio» (tra cui Salvadori, Cafagna, Ruffolo, Pellicani,
Diaz, Amato, Flores d’Arcais, Galli della Loggia, Covatta e Giugni) è necessario incalzare
il Pci affinché Berlinguer, non immune dalla doppiezza già propria di Togliatti, riveda la
strategia del compromesso storico e rompa con il leninismo. Avviata una riflessione sul
rapporto tra socialismo e pluralismo, pur accettando i meccanismi della democrazia rappresentativa, il Pci vede ancora nell’Urss un riferimento. Non condivide la critica radicale
a un sistema politico-istituzionale e socio-economico incentrato sul dominio assoluto di
un partito-Stato burocratizzato, che rende il socialismo reale incompatibile con la libertà.
Lo stalinismo, non sovrapponibile al leninismo, dagli intellettuali socialisti è visto come
un suo naturale sviluppo, che dimostra come i rivolgimenti del 1917-18 e la vittoria dei
bolscevichi abbiano posto le basi per la trasformazione della dittatura del proletariato, per
Marx passaggio obbligato ma provvisorio della rivoluzione, in un regime totalitario caratterizzato dalla dittatura del partito unico sulle classi lavoratrici. Dal ’77 «Mondoperaio»
entra in una fase nuova: dal «dibattito sulla concezione gramsciana dell’egemonia, ricondotta a variante italiana del leninismo, i conti con l’esperienza storica del comunismo sovietico e dei regimi comunisti che gravano nella sua orbita, l’ampio risalto dato al fenomeno del Dissenso nei Paesi dell’Est europeo […] l’attenzione tende a spostarsi sui temi del
rilancio del Psi e della definizione di un compiuto disegno progettuale che di tale rilancio
sia la base» (p. 70). Da qui il Progetto per l’alternativa socialista, la cui approfondita analisi
indica che esso si configura come la ricerca di una complessa terza via tra comunismo e
socialdemocrazia, quasi scavalcando a sinistra il Pci dell’eurocomunismo e prefigurando
«una società ispirata ai valori di un socialismo libertario e autogestionario al cui orizzonte
ideale è tutt’altro che estranea l’ansia di superamento dello sfruttamento capitalistico e
dell’alienazione del lavoro che ne è diretta conseguenza» (p. 73). Ma i deludenti risultati
delle elezioni del ’79 segnano una svolta nel rapporto tra Craxi e gli intellettuali, tanto da
far dire all’a. che, con la definitiva affermazione del segretario sulla sinistra, «il nuovo Psi
è rimasto nelle pagine di Mondoperaio» (p. 182).
Andrea Ricciardi
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Vittoria Ferrandino, Banche ed emigranti nel Molise. Credito e rimesse ad Agnone fra Ottocento e Novecento, Milano, FrancoAngeli, 213 pp., € 29,00
Il lavoro si inserisce nell’ancora poco esplorato terreno di ricerca incentrato sul sistema creditizio locale – con particolare riguardo alle banche popolari e cooperative –,
sulle sue peculiarità e fragilità, sui suoi rapporti sia con l’ambiente produttivo e imprenditoriale delle singole realtà territoriali che con le scelte di politica economico-finanziaria
nazionale. Il tema del credito s’intreccia nel volume con un secondo, denso, filone di
studi che riguarda l’emigrazione dall’Italia tra ’800 e ’900 e i complessi rapporti intessuti
«sopra l’oceano». Si aggiungono così, attraverso l’indagine sui territori, ulteriori elementi
di conoscenza sul Mezzogiorno e le sue trasformazioni a cavallo tra i due secoli: la realtà
indagata è, infatti, quella del centro molisano di Agnone, già oggetto di precedenti pubblicazioni dell’a.
Tra l’ultimo ventennio del XIX secolo e gli anni ’30 del XX, la comunità agnonese, caratterizzata da uno spiccato profilo artigianale che la distingue dai Comuni rurali
circostanti, è protagonista di massicci movimenti emigratori – letti in termini nittiani
come una «rivoluzione pacifica e silenziosa» (p. 19) in grado di riequilibrare il rapporto
tra popolazione e risorse –, di un cospicuo incremento dei depositi postali e bancari e di
significative trasformazioni sul piano dell’infrastrutturazione del territorio, ovvero di processi di modernizzazione sociale destinati, tuttavia, ad arrestarsi di fronte all’acuirsi delle
difficoltà economiche nel periodo fascista.
Le dinamiche del territorio agnonese emergono attraverso l’analisi delle carte d’archivio di due istituti locali di credito cooperativo: la «Banca Operaia», fondata nel 1886
da operai delle botteghe artigiane, e «La Sannitica», costituita nel 1899 da un gruppo di
professionisti agnonesi, l’una e l’altra liquidate negli anni ’30. La Società Anonima idroelettrica del Verrino, la tratta ferroviaria Agnone-Pescolanciano, un asilo e una scuola di
arti e mestieri sono alcune delle attività promosse nel territorio con il concorso dei due
istituti, anche grazie al contributo delle rimesse degli emigrati. I rapporti delle ispezioni
della Banca d’Italia consentono all’a. di evidenziare, poi, le poco limpide manovre creditizie attuate dalle due banche in epoca fascista, emblematiche di quella commistione tra
credito, attività imprenditoriali e politica qui solo accennata, ma già affrontata da una
vasta letteratura storica sul periodo.
Il lavoro ricostruisce, dunque, sulla base di un’inedita e ricca documentazione, le attività dei due istituti bancari ad Agnone, privilegiando un osservatorio aziendale che non
perde di vista le reti sociali e le scelte istituzionali; resta sullo sfondo, invece, la risposta
alla domanda «nesso o casualità?» (p. 139) che la stessa a. pone sul rapporto tra attività
bancaria ed emigrazione. Utili e rapidi riferimenti sono dedicati, inoltre, al sostegno fornito dalle banche al tessuto produttivo artigianale locale, tema particolarmente ricco di
suggestioni storiografiche.
Anna Pina Paladini
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Kate Ferris, Everyday Life in Fascist Venice, 1929-40, Basingstoke, Palgrave Macmillan,
257 pp., £ 55,00
Lo studio di Ferris rientra nel filone della storia della vita quotidiana sotto i regimi
repressivi che ha preso l’avvio quasi trent’anni fa grazie al lavoro svolto dal gruppo della
Alltagsgeschichte (in primo luogo di Alf Lüdtke). Nel contesto del fascismo italiano, la metodologia proposta dagli storici tedeschi e qui adoperata da Ferris implica soprattutto un
certo distacco da alcuni studi recenti, incentrati sull’ideologia del regime o sulla cultura
del fascismo – cioè sul messaggio del fascismo – per privilegiare la questione della ricezione
fra la popolazione e dell’impatto di quel messaggio nella vita di tutti i giorni. Non che
Ferris trascuri il ruolo della «religione politica» del fascismo o delle numerose innovazioni
culturali, ma insiste piuttosto sulla necessità di attuare un intreccio fra quegli aspetti e i
tanti altri fattori che determinano i comportamenti nella vita quotidiana. Di conseguenza, già nelle prime pagine del libro, in cui l’a. spiega (molto bene) la sua metodologia,
troviamo i concetti di «appropriazione» e di «elaborazione» del messaggio fascista da parte
di una popolazione di «consumatori-produttori» (secondo la formula di de Certau), che
spesso elabora la propaganda fascista, «costruendo» qualcosa di diverso rispetto alle intenzioni dei propagandisti stessi.
L’a. sceglie quattro aree per l’analisi della penetrazione del fascismo nella popolazione: i giovani a Venezia sotto il regime, le festività cittadine, le reazioni della popolazione
alla guerra d’Etiopia e la fascistizzazione dei riti mortuari. Ferris cerca, per quanto possibile, di «mescolare» le fonti, in modo da evitare un uso esclusivo della documentazione
di origine fascista, quasi sempre trionfalistica. Il quadro che emerge è complesso, in parte
perché Venezia rappresenta un soggetto di studio un po’ particolare, in parte perché, come
l’a. stessa riconosce, molte delle domande poste non sono suscettibili di risposte semplici
e definitive, oppure presentano problemi di interpretazione non facilmente risolvibili. Ad
esempio, come interpretare il fatto che il 62 per cento dei giovani che partecipano a un
concorso scritto non facciano alcun riferimento al fascismo? Analoghi problemi d’interpretazione sono continuamente presenti nel volume – certamente non per colpa dell’a.
Sono difficoltà che appaiono anche quando si affronta il tema della divisione fra pubblico
e privato – una divisione mai del tutto netta, che vede una costante contaminazione fra
le due sfere, con la gente che si barcamena fra una serie di pressioni, a volte accettando i
dettami del regime, a volte «aggiustandoli» a uso personale, a volte evitandoli. Non sorprende che, in questa ricerca attenta e meticolosa, le parole che dominano siano, alla fine,
«ambivalenza» e «ambiguità». Si ha l’impressione che il regime spesso manchi il bersaglio
proprio perché quel bersaglio cambia forma e si sposta ripetutamente.
Peccato che il volume sia pieno di errori tipografici. Le note sono confuse e la numerazione nel testo non sempre segue la numerazione di quelle in fondo al volume,
rendendole pressoché inutili.
Paul Corner
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Sebastiano M. Finocchiaro, Momenti e problemi di storia politica in Sicilia (1944-1953),
Palermo, Istituto poligrafico europeo, 268 pp., € 15,00
I temi collegati al delicato periodo tra la fine della seconda guerra mondiale e la costruzione dello Stato repubblicano in Italia rappresentano un filone corposo e importante
nell’ambito degli studi storici. Il volume di Finocchiaro offre un contributo significativo
proprio nel descrivere e documentare alcuni snodi cruciali per le vicende siciliane del periodo 1944-1953, segnate dal processo autonomistico, ma al tempo stesso profondamente connesse ai temi politico-sociali del paese. L’interesse storiografico nasce dalla constatazione di come l’originalità isolana spesso abbia dato vita a «laboratori» politici, a confronti
ideologici che non tardavano a produrre effetti su scala nazionale. Il decennio che l’a.
prende in considerazione, quello che va dall’Operazione Husky (lo sbarco alleato in Italia
del luglio 1943) alle elezioni politiche segnate dalla fatidica «legge truffa», è analizzato
in quattro saggi che affrontano altrettanti temi centrali nello sviluppo delle dinamiche
statali. Il primo contributo si riferisce alla gestione dell’ammasso alimentare, che spesso
si portò dietro non solo discussioni estenuanti all’interno dei Cln locali, ma conseguenti
problemi di ordine pubblico. Nello specifico, la redistribuzione delle risorse chiamava in
causa apertamente l’integrazione e la partecipazione della popolazione ai processi decisionali. L’analisi si focalizza in particolare sul Pci, proprio perché questi temi costrinsero
il partito a scendere a patti tra principio di legittimazione e principio di identità (cfr. p.
30 del volume). Il secondo saggio evoca le elezioni amministrative di marzo-aprile 1946,
ricostruendo il dibattito politico svoltosi in area siciliana, con particolare riferimento ai
fatti di Ravanusa (Ag) e Riesi (En). Sono tre gli elementi che caratterizzano quel frangente: la prematura interruzione dell’alleanza antifascista; il peso dell’intervento del clero
nella campagna elettorale; la gravità e la persistenza degli atti di violenza che esasperarono
il clima di confronto tra le forze politiche. In continuità, il terzo contributo ricorda la
diatriba sull’adesione italiana al Patto Atlantico, che Finocchiaro accredita come uno dei
passaggi nel quale fu sperimentata la dottrina degasperiana della «democrazia protetta».
Un’interpretazione materiale di stampo autoritario della Costituzione avrebbe previsto
l’uso equilibrato di circolari ministeriali, ordinanze prefettizie e provvedimenti cautelativi
delle forze dell’ordine quale argine e contrappeso rispetto alle iniziative dei partiti che
contrastavano l’ingresso dell’Italia nel blocco occidentale. Il quarto saggio, infine, richiama la drammatica discussione parlamentare sul cambio della legge elettorale in senso
maggioritario e la campagna elettorale di aprile-giugno 1953. Le peculiarità siciliane:
l’apparentamento in Giunta della Dc ai partiti di destra e il forte protagonismo della
gerarchia ecclesiastica (vedi l’esempio del cardinale Ruffini a Palermo) surriscaldarono
l’opinione pubblica e resero fortemente simbolici i temi del confronto: riforma agraria,
problema abitativo, spazi di presenza politica.
Marco Luppi
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Marco Fioravanti, Il pregiudizio del colore. Diritto e giustizia nelle Antille francesi durante
la Restaurazione, Roma, Carocci, 263 pp., € 27,00
Il volume conferma, nella prospettiva dello studio della legislazione e della prassi
giudiziaria, la crescente attenzione dei ricercatori italiani verso la storia del mondo atlantico, con particolare riferimento allo snodo sette-ottocentesco dell’età delle riforme, delle
rivoluzioni e delle indipendenze. In questo quadro, l’a. si è occupato delle Antille francesi
durante la Restaurazione. Un mosaico insulare in cui, complici le guerre dei decenni precedenti e il dirompente impatto della rivoluzione haitiana, non hanno però messo radici
i principi di eguaglianza giuridica affermatisi oltremare a partire dal 1789. E ciò non
solo a causa della perdurante presenza dell’istituto della schiavitù, ma anche in ragione
dell’accentuarsi della discriminazione razziale nei confronti dei liberi di colore, da parte
loro ben consapevoli delle trasformazioni in essere, per mano delle oligarchie bianche e
dei funzionari che, a livello locale, monopolizzano l’esercizio della giustizia.
Attraverso l’esame di un corpus di documenti inediti relativi ad alcuni famosi processi che, negli anni ’20 dell’800, hanno visto fra i loro principali imputati proprio i liberi
di colore, Fioravanti fa emergere la portata delle deroghe, di principio e di procedura,
rispetto all’ordinamento metropolitano in opera nell’amministrazione della giustizia nelle
colonie. Discriminazioni impressionanti non solo se considerate nella prospettiva del XXI
secolo, ma anche per i liberali del tempo. Ciò spiega l’attenzione suscitata negli ambienti
politico-giuridici francesi coevi da simili procedimenti nell’ambito del dibattito sulla riforma del diritto coloniale e l’abolizionismo. Tuttavia, a dispetto della soppressione della
schiavitù nel 1848, il «regime di eccezione» sotteso alla procedura in uso nelle Antille
francesi della Restaurazione avrebbe per molti versi continuato a costituire un modello di
riferimento anche per il colonialismo della Terza Repubblica.
Pur con alcuni inevitabili schematismi e generalizzazioni, lo studio propone così le
isole caraibiche acquisite dalla Francia nel quadro dell’espansione dell’età moderna come
un osservatorio privilegiato per misurare la diffusione del razzismo quale «costrutto sociale, culturale e ideologico» (p. 10) e la sua influenza nella codificazione di un «regime disciplinare coloniale» (p. 11) fondato sul principio della «superiorità europea». I documenti
presentati da Fioravanti in appendice ce ne restituiscono icasticamente un saggio. Nel
1827, nell’Arrêt de la Cour royale de la Guadeloupe, gli imputati liberi di colore vengono
ascritti a una classe intermedia, tenuta al rispetto nei confronti dei «blancs qui lui ont
conféré le bienfait de la liberté et de la proprieté». A fiera difesa del sistema vigente, una
sorta di pigmentocrazia lo si può anche definire, si osserva come «une funeste expérience a
prouvé que les colonies ne peuvent exister sans la juste et sage observation des lois qui établissent la distinction de trois classes, distinction créée par la nature elle-même» (p. 249).
Maria Matilde Benzoni
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Alessandro Frigerio, Budapest 1956. La macchina del fango. La stampa del PCI e la rivoluzione ungherese: una caso esemplare di disinformazione, Lindau, Torino, 256 pp., € 21,00
«I “fatti” sono noti», scrive nella prefazione Paolo Mieli (p. 1). Più o meno è così,
dopo venti anni di pubblicazioni di documenti d’archivio, memorie, saggi. Oggi sappiamo che il Cremlino, dopo l’intervento militare del 23 ottobre, sostenne il nuovo primo
ministro Nagy, nella consapevolezza che la rivolta non era fomentata dall’esterno, e che
solo il 31, spinto dai preoccupanti rapporti che giungevano da Budapest più che dalle
coeve vicende del canale di Suez, decise la seconda invasione. Che l’Amministrazione
americana non contemplò mai forme di intervento, e il 28 ne dette assicurazione ufficiosa
ai sovietici. Che i comunisti cinesi, polacchi, jugoslavi espressero riserve sulla prima invasione, ma accettarono la seconda come un male minore rispetto alle promesse di pluralismo politico del governo Nagy. Che, anche se solo 15.000 presero le armi, l’opposizione
popolare alle invasioni fu generalizzata, ma priva di una direzione e di un programma
condiviso. Tutto questo non c’è nel libro di Frigerio, la cui bibliografia non include testi
in lingua estera, documenti di archivio, storie della guerra fredda. La scelta è funzionale a
uno schema interpretativo che vede da una parte i rivoluzionari ungheresi, le diplomazie
occidentali, che li sostengono, e in Italia coloro che sanno ciò che accade e informano, e
dall’altra la stampa comunista italiana, che distorce e interpreta gli eventi secondo il canone della controrivoluzione eterodiretta. Sul primo punto, l’a. ha poco da dire. Sul secondo
punto, tra omissioni e prolissità, giustifica la tesi di fondo: la stampa del Pci svolse un’opera di disinformazione sulle vicende ungheresi. Uno sguardo alla documentazione esistente
avrebbe consentito di aggiungere che il linguaggio del presidium del Pcus fu in merito
spesso più problematico di quello della stampa comunista italiana. Tenuti all’oscuro del
confronto fra i partiti del blocco socialista, impotenti a influire sugli eventi, i dirigenti
del Pci avrebbero potuto, e dovuto, riflettere sulle ragioni della loro emarginazione. L’a.
sembra piuttosto interessato a documentare l’indegnità morale e politica, accanto al gran
colpevole Togliatti, di personalità come Pajetta, Pertini, Napolitano. Magnani e Cucchi
non vengono citati. Altri intellettuali che manifestarono il dissenso vengono menzionati
di sfuggita. Lo schema è riproposto per la Primavera di Praga, la cui difesa da parte del
Pci viene giudicata «annacquata, omertosa, e carica di distinguo» (p. 208). La condanna
introduce al colpo di scena finale. Giunge il 1986, c’erano Gorbačëv e Reagan, Wałęsa e
Giovanni Paolo II, ma il deus ex machina fu Craxi, che «affilò le armi» per spingere il Pci
a «riabilitare la memoria di Nagy» (p. 198). Senza fortuna, perché i dirigenti del Partito
non abbandonarono «il giustificazionismo» (p. 204). È un peccato che tante forzature
siano state scritte a sostegno di una tesi condivisibile: il Pci perse nel 1956 un’occasione
irripetibile per trasformare lo slogan della via italiana al socialismo in progetto politico.
Fabio Bettanin
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Marina Frigerio Martina, Bambini proibiti. Storie di famiglie italiane in Svizzera tra clandestinità e separazione, Trento, Il Margine, 189 pp., € 16,00
Lo statuto dell’immigrato stagionale, in vigore tra il 1934 e il 2002, diede origine a
una delle vicende più dolorose dell’immigrazione in Svizzera. Gli stagionali, infatti, non
avevano il diritto di portare con sé coniuge e prole e furono costretti o ad abbandonare
i figli per anni negli orfanotrofi di confine, o a rinunciare al ruolo parentale lasciandoli
presso i familiari in patria, oppure a portarli clandestinamente in Svizzera, nascondendoli
in casa e privandoli, per timore che venissero scoperti ed espulsi, della frequenza scolastica
e del contatto con i coetanei.
Il fenomeno non rimase circoscritto ai soli stagionali, ma coinvolse anche una parte
degli immigrati annuali, poiché il teorico diritto di questi ultimi al ricongiungimento
familiare era limitato da requisiti di reddito e di condizioni abitative proibitivi per molti
stranieri. Inoltre, quando dal 1965 l’Italia ottenne che gli stagionali potessero divenire
annuali dopo cinque stagioni di lavoro consecutive, imprenditori elvetici e polizia degli
stranieri riuscirono spesso a interrompere la consecutività delle stagioni proprio per impedire una maggiore stabilità degli italiani e i conseguenti ricongiungimenti familiari. La
vicenda non rappresenta, però, solo un aspetto particolare dell’esodo continentale, bensì
fa emergere uno dei caratteri storicamente più rilevanti della cultura europea tra XIX e
XX secolo, la difficoltà, cioè, a concepire e ad ammettere la presenza degli stranieri, anche
di quelli geograficamente e culturalmente più prossimi, come componente definitiva della propria collettività nazionale.
L’a., psicoterapeuta e psicologa svizzera di origini italiane, nonché storica attivista
per i diritti degli immigrati in Confederazione, aveva già ampiamente raccontato queste
vicende in Versteckte Kinder (1992, con Simone Burgherr). Bambini proibiti riporta alcune delle interviste pubblicate nel ’92 però presenta soprattutto le testimonianze attuali
di autorevoli ex bambini clandestini oramai maturi e di osservatori del tempo, svizzeri,
italiani e stranieri, che avevano solidarizzato attivamente a favore di quei bimbi e dei loro
genitori. Spiccano tra esse le interviste ad Alvaro Bizzarri, regista del film denuncia Lo stagionale (1971), del regista svizzero di origine spagnola Fernand Melgar, e della psicologa
Sibilla Schuh, tra i primi svizzeri a solidarizzare attivamente con la causa dei figli degli
stagionali. Accanto alle preziose testimonianze storiche, emerge la difficoltà di raccontare
un passato doloroso e perciò lungamente rimosso. Emerge, però, anche una rimozione
collettiva, quella degli italiani che rifiutano di riconoscere nelle vicissitudini degli attuali
immigrati nella penisola le proprie vicissitudini del passato. Il ruolo psicologicamente
catartico del raccontarsi – è questo l’auspicio dell’a. e della postfazione di Max Mauro –
dovrebbe passare dal livello individuale a quello collettivo affinché, soprattutto in Italia,
cada la rimozione collettiva dei drammi dell’immigrazione di oggi.
Sandro Rinauro
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Diego Fusaro, L’orizzonte in movimento. Modernità e futuro in Reinhart Koselleck, Bologna,
il Mulino, 420 pp., € 31,00
Un’intera monografia dedicata a Reinhart Koselleck è una bella novità. Tanto più
che si tratta di un’indagine a tutto campo, in cui i motivi di filosofia della storia non sono
disgiunti da quelli di storia della filosofia. Va subito detto che il libro si presenta formalmente nel modo più accattivante, con una scrittura piana e prudente e con la massima
attenzione al senso dei concetti impiegati, a cominciare da quelli propriamente koselleckiani che vengono quasi sempre tradotti con precisione e con l’offerta del corrispondente
originale tedesco.
Prezioso per il lettore è l’intero primo capitolo del libro in cui vengono successivamente esaminati i quadri di riferimento epistemologici della Begriffsgeschichte: ne emerge
l’evidenza che Reinhart Koselleck ha saputo portare a compimento e sintetizzare un processo lungo e ancora lungi dall’essere concluso che ha visto e vedrà impegnati generazioni
di studiosi, attenti a fissare il nesso ineludibile fra modernità e pensiero, nella convinzione
che quest’ultimo sia sempre da considerare, nella sua politicità, come forza produttiva
della prima.
L’analisi di Fusaro procede poi all’attacco del cuore teorico dell’opera di Koselleck. Si
tratta dell’ambizione di costruire, attraverso la ricerca storica, una teoria degli accadimenti
sociali; ma anche di usare insieme quest’ultima come motore e bussola della ricerca storica
stessa: il dato cogente della teoria di Koselleck risiede nella strutturalità dei concetti stessi,
in una tensione che lega storia dei concetti e storia concettuale e ne rende dinamico il
nesso. Andrebbe però maggiormente sottolineato che tale nesso è destinato a restare sempre intrinseco e auto-giustificantesi, trovando forse proprio in ciò la sua maggiore valenza
storico-politica (cioè, nel mio gergo, costituzionale).
Nell’ultima parte dell’opera viene appunto tematizzato quello che anche per me
resta il risultato più tangibile dell’operazione koselleckiana. Si tratta dell’inconfondibile
attestazione della politicità delle idee che a sua volta si rifà all’intuizione schmittiana
dell’intima politicità della vita, nel senso almeno che la politica consiste proprio della vita
stessa intesa come scambio di amore e di morte, cioè di amico e nemico.
Anche se Fusaro non lo dice espressamente, ne viene fuori un ritratto finale – non a
caso basato essenzialmente sulla prima ricerca di Koselleck, Kritik und Krise (1954-1959)
– di sostanziale conservatorismo, sulla base di un pessimismo di fondo che si basa però
sull’irragionevole ottimismo che la modernità, fissata una volta per tutte nella Sattelzeit, non
debba mai tramontare. Le considerazioni finali dell’ottimo libro sono poi dedicate al destino
storiografico della straordinaria prestazione di Reinhart Koselleck, ma l’a. non si sottrae qui
del tutto al facile errore prospettico di ridurre le cose ai diversi filoni in cui si è venuta articolando la ricerca genealogica dei concetti politici e sociali nella storia-storiografia dell’Occidente. Per me c’è molto di più, ma mi rendo conto che è una fissazione personale: si tratta
anche di Verfassung, come la intendevano ad esempio Otto Hintze e Otto Brunner.
Pierangelo Schiera
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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Stefano Gallo, Senza attraversare le frontiere. Le migrazioni interne dall’Unità ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 216 pp., € 22,00
Le migrazioni interne, sia negli spostamenti stagionali e periodici sia nei trasferimenti di lungo periodo o definitivi, hanno rappresentato una costante risorsa, e talora
una ineluttabile necessità, nel contesto economico, sociale e politico italiano. Il libro di
Stefano Gallo, muovendo con finezza dalle analisi di Anna Treves sul ventennio fascista,
restituisce con un lavoro di sintesi riccamente documentato i percorsi storici che hanno
caratterizzato le migrazioni interne italiane nel loro continuo intrecciarsi con il quadro sociale, politico e normativo. Un’analisi complessiva delle migrazioni interne al nostro paese
mancava di uno studio storico organico e Gallo lo colma per il lungo periodo compreso
fra l’Unità e l’inizio del terzo millennio fornendo anche utili indicazioni ed enunciando
nuove problematiche per ulteriori ricerche.
L’a., utilizzando con padronanza gli strumenti di campi disciplinari differenti, si sofferma sui temi del dualismo economico tra Nord e Sud del paese fino a giungere ad analisi
originali per valutare le vicende della transizione economica e sociale italiana; indaga le
modalità con le quali i soggetti più diversi (dagli uffici comunali a quelli del lavoro, dagli
enti ministeriali alle prefetture, dalle associazioni ai sindacati) hanno affrontato le alterne
fasi della mobilità territoriale; entra nelle pieghe della normativa italiana sulle migrazioni
interne portandone alla luce le sottese motivazioni politiche e la loro reale incidenza.
Questo approfondito studio ci fa comprendere dunque i caratteri specifici dei fenomeni migratori interni e i progetti politici elaborati per modificarli nel periodo che va
dall’Unità agli anni più recenti. Uno dei principali meriti dell’a. è infatti quello di mostrare dettagliatamente come per l’età contemporanea vennero impostati dallo Stato italiano,
a livello centrale e periferico, sistemi di controllo e di condizionamento della mobilità
territoriale, che tendevano a regolamentare l’afflusso di popolazione verso le maggiori
città o tra una realtà agricola e un’altra. Sistemi di controllo che, come quelli impostati
dal fascismo, durarono a lungo anche nell’Italia repubblicana pur non impedendo, come
ci ricorda Gallo, lo svolgimento dei flussi migratori dal Sud al Nord del paese e dalle campagne alle città che di fatto avvennero per una gran parte in infrazione rispetto al quadro
normativo. Tuttavia, nonostante nei primi decenni repubblicani sia emersa la scarsa efficacia degli strumenti legislativi che delegavano al Ministero dell’Interno e alla Pubblica
Sicurezza il controllo di un fenomeno ricco e complesso come quello della mobilità territoriale, già nel corso degli anni ’60 e con maggiore brutalità negli anni a noi più recenti
un nuovo insieme di disposizioni restrittive e proibitive, molto simili nell’impostazione a
quelle emanate nel ventennio, hanno riguardato l’immigrazione in Italia di cittadini stranieri con il risultato di aver costretto molti di loro a periodi di clandestinità e a condizioni
di sfruttamento lavorativo nell’area sommersa dell’economia.
Giuliano Lapesa
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Stefano Gallo, Costruire insieme. La bilateralità nelle costruzioni: storia dell’Ente Livornese
Cassa Edile, 1962-2012, Pisa, Ets, 150 pp., € 12,00
Come si legge all’inizio della presentazione del volume, a cura del presidente, vicepresidente e direttore dell’Ente livornese Cassa edile, «il 50° anniversario dell’Ente cade
proprio nel mezzo della più grave crisi economica dal dopoguerra» (p. 11). Per questo
motivo, più che proporre una celebrazione di tale ricorrenza, l’Ente ha preferito commissionare una ricerca sulla sua storia, con l’obiettivo di raggiungere una maggiore consapevolezza di quello che la Cassa edile di Livorno ha rappresentato, rappresenta e potrebbe
rappresentare per il futuro.
Autore del lavoro, per conto dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società
contemporanea in Provincia di Livorno (Istoreco), è Stefano Gallo, ricercatore indipendente di storia contemporanea e collaboratore del Dipartimento di Storia dell’Università
di Pisa. Questo volume ne è l’esito, con un’introduzione di Catia Sonetti, studiosa di
storia del movimento operaio e orale.
La storia della Cassa edile di Livorno, nata all’inizio degli anni ’60, è ricostruita
dall’a. all’interno del quadro nazionale e di un arco temporale ampio che permette di rintracciare le origini della tradizione mutualistica e bilaterale tra le due guerre e di vederne
gli esiti più recenti. All’interno di questo contesto, l’analisi approfondita delle vicende di
una singola cassa permette all’a. di confrontarsi con un settore di studio, quello dell’edilizia, poco frequentato dagli storici e generalmente affrontato in modo molto frammentato.
Al contrario, il tentativo di Stefano Gallo è quello di far dialogare quella pluralità di elementi che operano nell’edilizia, come – utilizzando la metafora scelta dall’a. per descrivere
la struttura del libro – se si trattasse di un edificio composto da molti ambienti.
Grazie a un ampio lavoro bibliografico, un’approfondita ricerca di fonti scritte, reperite tra archivi pubblici locali e nazionali e archivi privati, e alcune interviste a chi, a diverso titolo, è stato impiegato nell’edilizia livornese, il volume incrocia la storia istituzionale
della Cassa con le trasformazioni sociali e culturali che ha contribuito a produrre, soprattutto in termini di orgoglio professionale, regolarità contributiva e sicurezza sul lavoro.
Nella ricostruzione che l’a. fa della storia della Cassa livornese, l’edilizia emerge come
«un settore di passaggio» in cui «i cantieri di costruzione hanno funzionato e funzionano
tutt’ora come snodi tra differenti mondi lavorativi» (p. 121). Questo carattere formativo,
istituzionalizzato e promosso da una scuola edile in un primo momento direttamente
dipendente dalla Cassa edile livornese e poi autonoma, rappresenta non soltanto uno
degli aspetti più interessanti e meno noti caratterizzanti il settore edile, ma anche – come
conclude l’a. – «una valida e sostenibile via d’uscita all’attuale crisi» (p. 138).
Al centro del volume, un bell’inserto fotografico mostra le specifiche abilità costruttive
messe in campo in alcune realizzazioni livornesi nel settore dell’edilizia residenziale, di fabbrica e commerciale. Un’appendice statistica e un indice dei nomi chiudono il volume.
Alice Sotgia
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
230
i libri del 2012 / 2 - monografie
Chiara Giorgi, L’Africa come carriera. Funzioni e funzionari del colonialismo italiano,
Roma, Carocci, 222 pp., € 22,00
Le prime sessanta pagine offrono un panorama dei modelli di amministrazione coloniale, con una messa a punto informata, che segue la classica distinzione tra modello britannico e modello francese (e non considera altri colonialismi). Seguono quaranta
pagine sul sistema amministrativo italiano. A metà libro si entra nel vivo de «la prassi»:
nomi, carriere, casi, questioni, persone, ricorsi, rivendicazioni, rimozioni, fino alla mancata epurazione.
Nelle conclusioni si sottolinea l’importanza dei funzionari nel «rimodellare la realtà
sociale, politica e culturale locale», «creare, anche inventando, nuovi gruppi etnici», incidere «sui rapporti gerarchici locali», e così via (p. 201). Ma è solo l’auspicio di future
ricerche, giacché nulla di tutto ciò è nel volume. Salvo il caso di un amante di un funzionario, non compaiono un solo eritreo, un etiope, un libico. Né compare alcun cenno a dinamiche economiche, sociali, religiose. Lo so che una recensione non deve dichiarare ciò
che in un libro non c’è. E l’a. avverte che la ricerca è «solo avviata» (p. 18). Ma ciò che c’è
– il quadro burocratico-amministrativo – non suggerisce chiavi di lettura nuove rispetto
a quanto già si conosce. Continuità burocratica, concorsi e assunzioni precarie, carattere
militare-amministrativo e circolazione dei funzionari, di matrice sovente politica – che
offre scarso spazio alle sempre invocate competenze – non consentono di distinguere, né
fasi e ambienti diversi (la sedimentazione eritrea, il caso della Libia, il rush finale dell’Aoi),
né soprattutto la differenziazione tra fase liberale e fascismo, anche se qui sulla volontà di
«fascistizzare» sovente si insiste. E pour cause: non potendo esistere un colonialismo liberale, o democratico, è evidente che il colonialismo è comunque patriottico-«civilizzatore»,
e il fatto che si ammanti di fascismo è pura retorica, o tradisce interessi di partito, giochi
di palazzo, favoritismi. E soprattutto il colonialismo non è – non può essere – costituzionale, ovvero non può conoscere equilibrio e divisione di poteri, meccanismi di garanzia,
rappresentanza, canali di dialogo con la realtà sociale indigena, che risulta semmai affidato
all’«autonomia» periferica dei singoli agenti dispersi sul territorio. Il dominio coloniale è
insomma caratterizzato dal carattere pre-costituzionale, quale si rivela nella particolarissima commistione di potere legislativo, amministrativo e giurisdizionale. Per coglierne le
dinamiche occorrerebbe conoscere gli effettivi atti di imperio, altrimenti tutto si riduce ad
arbitrio, inefficienza, vanità carrieristica, sovente corruzione, e nemmeno è chiaro in cosa
concretamente si manifestassero le capacità dei bravi e competenti «funzionari-studiosi»
dei quali pure si fanno i nomi. Difettano le fonti, è vero. L’amnesia/rimozione del colonialismo italiano, della quale tanto si è parlato, non è più tale nel campo degli studi, ormai
numerosi. Lo è nel deposito di documenti storici. Non resta che arrovellarsi per trovare
faticose nuove vie. Ma a questo forse fa ostacolo la dinamica accademica, che impone testi
brevi, sondaggi, incursioni, ricapitolazioni, anticipazioni, annunci di ricerche da farsi.
Raffaele Romanelli
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Roberto Giulianelli, I Piaggio. La parabola di un grande gruppo armatoriale e cantieristico
italiano (1875-1972), Bologna, il Mulino, 267 pp., € 20,00
Nella sua introduzione, Marco Doria descrive lo studio di Giulianelli come una
«una lezione di storia che appare particolarmente opportuna» (p. 10), soprattutto perché
chiarisce aspetti non secondari di quella imprenditorialità, né grande né piccola, che per
molti versi ha rappresentato un fattore essenziale dello sviluppo economico italiano, ma
sulla quale si sa relativamente poco.
Il ramo della famiglia Piaggio oggetto dell’analisi è quello che da Genova e dalla tradizione armatoriale ha successivamente investito nel settore navalmeccanico, con interessi
che dalla Liguria hanno raggiunto anche la Sicilia e le Marche. Aver chiarito le dinamiche di quell’espansione e le condizioni di sopravvivenza di quell’apparentemente strano
complesso di attività rappresenta il merito principale del libro. Il gruppo Piaggio, infatti,
fu l’unico grande gruppo marittimo che sfuggì alla irizzazione degli anni ’30, e riuscì a
superare la seconda guerra mondiale e le ristrutturazioni del dopoguerra, per arrendersi
infine alla crisi generale del settore negli anni ’60. Fattore decisivo di quell’evoluzione fu
lo stretto rapporto con le finanze, ma anche con alcune specifiche esigenze, dello Stato
nazionale. Inizialmente, il rapporto era simbiotico, e di mutuo vantaggio: l’economia italiana in espansione aveva bisogno di competenze in campo marittimo che pochi possedevano, ed Erasmo Piaggio riuscì a cogliere il momento opportuno per il salto di qualità che
lo portò ad essere il fondatore della dinastia imprenditoriale di cui si occupa il volume,
a partire dal ruolo di manager in una delle società-chiave della modernizzazione italiana
nell’età della Sinistra: la Navigazione generale italiana.
Con l’andar del tempo, la sovrabbondanza di navi e cantieri rispetto alle reali esigenze nazionali trasformò quella relazione in parassitaria, le aziende operanti nel settore in
assistite, e gli imprenditori in soggetti sempre più abili nel procurarsi appoggi e sostegni
extraeconomici, sia a livello centrale che periferico. Merito dei Piaggio fu l’essersi limitati
nell’espansione durante i momenti positivi, tanto da riuscire a sopravvivere laddove altri
(tutti gli altri) dovettero cedere allo Stato che, in sostanza, dal 1936 in poi divenne il garante unico della mobilità a lunga distanza per l’intera economia italiana.
Attraversando le diverse stagioni dello sviluppo economico italiano, lo studio non
si limita alla biografia aziendale dei Piaggio, ma affronta decisamente anche il problema
delle condizioni generali all’interno delle quali la loro «parabola imprenditoriale» fu resa
possibile. Condizioni tecnologiche e di mercato, innanzitutto, ma anche la capacità di
cogliere convenienze e allevare alleanze politiche, così come l’evolversi degli interventi
regionali, con particolare riferimento ad Ancona.
In fondo al volume si fa notare una ricca Appendice statistica, che offre l’esatta misura non solo dei ritmi aziendali, ma anche dell’impatto che le società del gruppo Piaggio
ebbero sui loro settori d’attività e, per estensione, sull’intera economia nazionale.
Giulio Mellinato
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Elisa Giunipero, Cattolicesimo liberale e questione romana. L’itinerario del senatore Gabrio
Casati (1853-1873), Milano, Educatt, 106 pp., € 5,00
Il volume, a cura di una giovane studiosa dell’Università Cattolica che aveva già
dimostrato le sue doti come esperta sinologa, presenta una serie di documenti conservati
a Somma Lombardo nell’Archivio Visconti di San Vito, che possiede un nutrito fondo
personale di Gabrio Casati. Vi sono cinque lettere che dimostrano l’interesse di Casati
per la conciliazione con la Santa Sede, e alcuni documenti, il più importante dei quali è
il manoscritto Attualità, redatto da Casati probabilmente alla fine del 1856, all’indomani della guerra di Crimea. Il manoscritto, che è preceduto da una breve nota biografica
sull’attività di Casati dal 1853, anno della sua nomina a senatore, alla sua morte, è utile
per comprendere il pensiero di Casati su due temi allora di rilevante importanza per gli
italiani e in particolare per i cattolici: il ruolo dell’Austria nella penisola e la necessità di
un accordo tra il Regno sardo-piemontese e la Santa Sede. Casati, attraverso un esame
della politica internazionale del momento non sempre realistico, concludeva che l’Austria
avrebbe avuto interesse ad abbandonare i suoi domini italiani e permettere l’unificazione
della penisola. Ciò sarebbe stato gradito alla Francia, alla Gran Bretagna, alla Prussia e alla
Russia, ma anche l’Austria ne avrebbe tratto dei benefici. Vienna avrebbe infatti sostituito il dominio su popoli sempre pronti a ribellarsi, con una pacifica convivenza con una
potenza vicina, divenuta amica e portatrice di importanti benefici economici e politici. Il
ragionamento di Casati, che evidentemente risentiva degli influssi di Cesare Balbo, non
era certo una novità, ma scaturiva più da desideri che da una concreta analisi delle cose.
Più originale era il ragionamento sul ruolo del papato. Anticipando quella che sarebbe poi stata la soluzione del 1929, Casati invitava Pio IX ad accontentarsi di una piccola
porzione di territorio per esercitare il suo potere spirituale, rinunciando però ad ogni
altra pretesa temporale. Si trattava, insomma, di idee che oggi definiremmo laiche, ma
che allora non potevano che far sorgere infinite opposizioni da parte della Santa Sede e
del clero. Impegnato in varie iniziative conciliatoriste, Casati appare muoversi lungo linee
di ideali astratti, che rifiutavano di tener conto della situazione contingente. Favorevole,
pur con qualche riserva, alla legislazione ecclesiastica piemontese, ideatore della legge
scolastica che, tra le altre cose, sottoponeva anche i seminari alle ispezioni delle autorità
scolastiche, Casati si stupì non poco quando Pio IX gli rifiutò nel 1871 una udienza
privata, attribuendone la responsabilità al card. Antonelli. Come la maggior parte dei
cattolici conciliatoristi era convinto che il nuovo Stato italiano dovesse rifarsi ai principi
del cattolicesimo ed evitare ogni scontro con la Santa Sede, ma senza venir meno al principio della laicità dello Stato. Ma a Roma prevalevano altre idee e chi la pensava come
Casati era giudicato poco meno di un eretico, i cui ragionamenti andavano condannati
senza riserve.
Alfredo Canavero
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Emily Greble, Sarajevo la cosmopolita. Musulmani, ebrei e cristiani nell’Europa di Hitler,
Milano, Feltrinelli, 360 pp., € 25,00 (ed. or. Ithaca, NY, 2011)
Nell’Europa balcanica il tramonto delle vecchie società caratterizzate da città multietniche e multireligiose (ma di certo non sempre del tutto pacifiche) non fu determinato
dagli sviluppi della prima guerra mondiale. Certamente il nuovo assetto geopolitico sortì
delle conseguenze non trascurabili sulla mobilità, per esempio delle popolazioni nomadi
rom, così come le politiche centraliste e improntante a un forte spirito nazionale messe
in atto dai nuovi Stati ebbero ripercussioni negative sulla convivenza delle diverse etnie
all’interno delle città e nelle campagne. A determinare la fine traumatica del vecchio
tessuto connettivo della penisola balcanica fu l’avvento del nuovo ordine stabilito dalla
Germania nazista all’indomani del completo assoggettamento della regione al suo dominio politico e militare. Da questo evento cruciale nella storia contemporanea del Sud-est
europeo prende le mosse la ricerca di Emily Greble su una delle città cosmopolite per
eccellenza non solo dei Balcani, ma dell’intera Europa: Sarajevo, il capoluogo della Bosnia
Erzegovina.
Basandosi su una mole davvero notevole di fonti archivistiche inedite, sulla paziente
consultazione della stampa periodica coeva oltre che su una buona base bibliografica, l’a.
ricostruisce con notevole precisione le ripercussioni determinate all’interno dei principali
gruppi etnici e religiosi (musulmani, cristiani ed ebrei) di Sarajevo dalla fine violenta del
Regno di Jugoslavia e poi dall’inclusione della città all’interno dei confini dell’inedito
Stato Indipendente Croato (NDH), sorto per volontà dell’Asse, dominato dai terroristi
ustaša e controllato a vista dalla Germania. È questo il nucleo centrale e più originale del
volume. Per l’antica comunità sefardita di Sarajevo la nuova situazione significò la sua distruzione e, nei casi più fortunati, la sua dispersione. Un destino analogo toccò a una parte consistente della comunità rom e di quella serba. Per certi versi fu invece più complessa
la posizione per musulmani e cattolici. Nella pur cervellotica e criminale amministrazione
ustaša per molti si aprirono prospettive di ascesa sociale e politica e fu possibile acquisire
nuovi spazi culturali ed economici. Lo studio di Greble però pare voler dimostrare come,
sia pur nella varietà delle posizioni assunte (del resto nessuna di questa comunità neppure
prima della guerra si era mostrata monolitica) e nell’estrema difficoltà della situazione, le
due comunità non fossero rimaste passive di fronte agli eventi. Al contrario cercarono di
reagire salvaguardando sia i loro interessi che il tessuto multiconfessionale di reciproca
tolleranza, che pur non esente da polemiche e scontri aveva comunque caratterizzato la
vita sociale e culturale di Sarajevo in passato. Alla fine della guerra la missione poté dirsi
compiuta? La risposta dell’a. pare essere affermativa, a conclusione di un libro che offre
una radiografia di primario interesse per analizzare cosa abbia rappresentato concretamente – anche nella vita quotidiana – per le città e le regioni cosmopolite d’Europa il
trauma della forzata inclusione nel Lebensraum nazista.
Alberto Basciani
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Oscar Greco, Lo sviluppo senza gioia. Eventi storici e mutamenti sociali nella Calabria contemporanea, Soveria Mannelli, Rubbettino, 187 pp., € 13,00
Il volume di Greco si inserisce nella storiografia dei Regional studies. Il focus dell’analisi riguarda le politiche meridionalistiche in età repubblicana, interpretandone presupposti ed effetti in un quadro di lungo periodo che considera la storia calabrese e quella
del meridionalismo. Il primo capitolo è dedicato alle lotte di braccianti e contadini negli
anni ’40, a partire dalla crisi del fascismo. L’a. ne ripercorre l’evoluzione, nelle dimensioni,
nell’organizzazione e nei contenuti, individuando nei «decreti Gullo» il passaggio a una
protesta popolare politicizzata. Le politiche con le quali i governi risposero a quelle lotte e
tentarono di risolvere il dualismo Nord-Sud costituiscono l’oggetto del secondo e del terzo capitolo. Dopo una sintetica esposizione di alcuni principali orientamenti che animarono il dibattito sul meridionalismo da fine ’800 agli anni ’50, Greco esamina i limiti della riforma agraria e dell’attività della Cassa per il Mezzogiorno. Egli attribuisce tali limiti
a ragioni sia ideologiche, cioè l’intento di sollecitare nel Sud un meccanismo di sviluppo
«imitativo» delle realtà industrializzate settentrionali, sia metodologiche, a causa dell’inadeguatezza delle strategie e degli strumenti adottati. Nei flussi di denaro provenienti dal
centro, inoltre, si strutturò un sistema che intrecciava le logiche clientelari dei mediatori
politici locali, gli interessi di un’imprenditoria parassitaria e la ’ndrangheta. Nell’insieme,
l’a. osserva come quelle politiche ebbero pesanti costi sociali, culturali e ambientali, generando un sistema produttivo fragile, avulso dalle risorse locali e dipendente.
Nell’ultimo capitolo, l’a. delinea alcune tendenze recenti del meridionalismo, in particolare quel filone, nel quale si riconosce, che dalle riviste «Quaderni calabresi» e «Meridiana» arriva al «pensiero meridiano». In linea con tali posizioni, egli critica i modelli di
sviluppo uniformanti delle politiche europee, che continuano a individuare un «ritardo»
nel Mezzogiorno, e rilancia il concetto di «Europa policentrica» di Bruno Amoroso, autore della prefazione al testo, nel quale la Calabria diventerebbe il «ponte» verso un Mediterraneo inteso come crocevia anziché come confine.
Il volume, fortemente motivato nel rapporto fra passato e presente, si configura come
un’opera di sintesi, realizzata attraverso una bibliografia consistente e interdisciplinare. In
quanto tale, però, esso non affronta i numerosi interrogativi scientifici ancora irresoluti
delle tematiche trattate e che, per essere indagati, necessitano della consultazione di fonti
primarie. L’interpretazione, di ispirazione culturale gramsciana, si snoda in una narrazione scorrevole anche nei passaggi di maggiore densità, benché a volte risulti ripetitiva.
Valerio Vetta
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Georg Grote, The South Tyrol Question, 1860-2010. From National Rage to Regional State,
Oxford-Bern-Berlin-Bruxelles-Frankfurt am Main-New York-Wien, Peter Lang, 186 pp.,
€ 50,00
Given its prominence as a tourist destination in the Western Dolomites of Italy, it is
surprising that there are very few studies in English (e.g., by Rolf Steininger in 2003 and
by Antony Alcock in 1970) about South Tyrol’s rich and complex recent history. Georg
Grote, a German historian, now home-based in Ireland, tries to fill this gap. In The South
Tyrol Question, 1866-2010 Grote explains how German and Italian 19th-century nationalism clashed over the Austrian borderland of Southern Tyrol and culminated in the harsh
fighting between Austro-Hungarian and Italian troops in the Dolomites during World
War I. In 1919 the victorious powers agreed on a new Italian border in the Brenner valley,
cutting the historical region of Tyrol in half with South Tyrol now annexed by Italy. Protests by the local overwhelmingly German-speaking Austrian population and petitions
went nowhere. During Italian Fascism, the German and Ladin-speaking South Tyroleans
were subjected to a program of Italianization. After 1945 South Tyrol remained Italian
territory, and in 1972, only after long diplomatic negotiations paralleled by acts of terrorism, South Tyrol got an autonomous status. Grote’s book is well-structured and reads
well, but its major shortcoming is the noticeable lack of Italian sources and literature.
The cover claims that the book draws «on the latest research in Italian and German»,
but Grote’s narratives are almost exclusively based on (not always the latest) Germanlanguage literature. Studies by Italian historians (e.g. Carlo Romeo, Andrea Di Michele,
Gustavo Corni and Cinzia Villani etc.) are almost completely missing in Grote’s book.
Most German-language literature on the South Tyrol question until the 1990s focused almost exclusively on the suffering of the South Tyroleans. Their history was presented as a
victimhood narrative: victims of Mussolini and Hitler, and victims of Allied decision-makers after WWI and WWII. Although Grote explains how nazified many South Tyroleans
became after 1933, he does not mention the active role of South Tyrolean perpetrators
during the Nazi occupation of Northern Italy during 1943-1945. Grote dedicates much
space and three chapters of his book about Commemoration and Collective memory, but
the controversies about the South Tyroleans’ Nazi past is mostly missing (along with most
research of the last 20 years about it). Grote nevertheless does a good job in summarizing
the developments and discussions in the (German-language) South Tyrolean society in
the last thirty years. Since the 1980s South Tyrol is thriving, with its economy, wealth and
self-confidence growing as well. But South Tyrol’s success story remains overshadowed
by the history of ethno-nationalism, fascism and national socialism, which divide the
community along ethnic lines to this day. In summing up, Grote’s The South Tyrol Question will be an useful book for readers already familiar with the region. A new standard
English-language history of South Tyrol using «the latest research in Italian and German»
still needs to be written.
Gerald Steinacher
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Patrizia Guarnieri, Senza cattedra. L’Istituto di Psicologia dell’Università di Firenze tra idealismo e fascismo, Firenze, Firenze University Press, 168 pp., € 14,90
Il volume ha il merito di restituire una vicenda solo apparentemente settoriale, sottolineandone con sapienza i molteplici nessi con una storia più grande. L’Istituto di psicologia di Firenze, sorto nel 1903 e diretto da Francesco De Sarlo, ebbe infatti un ruolo
pionieristico nella diffusione della disciplina in Italia e acquisì in breve tempo un’ottima
reputazione internazionale.
La nascita del centro incrocia varie questioni importanti, in primo luogo l’incerto
statuto attribuito alla psicologia in Italia nella sua fase fondativa. Ne sono uno specchio i
conflitti di attribuzione tra facoltà mediche e filosofiche, risolti per decisione ministeriale
nel 1906 col prevalere di queste ultime. L’a. ricostruisce l’accidentata legittimazione accademica della disciplina, ponendo attenzione ad alleanze e contrasti fra diverse cordate,
alla prassi concorsuale e alle strategie ministeriali. Le contese accademiche tradivano tensioni culturali di fondo, ovvero l’opposizione al riduzionismo positivista espressa in primo
luogo da studiosi di formazione neokantiana, in una fase in cui l’idealismo raccoglieva
la sfida per l’egemonia culturale nella penisola. L’Ateneo fiorentino si prestava particolarmente ad accogliere la scuola di De Sarlo, data l’attenzione alle scienze umane e il clima
di apertura lontano da irrigidimenti dottrinali; l’a. ricostruisce un ambiente intellettuale
complesso, sottolineando come sia riduttivo rappresentare la Firenze del primo ’900 solo
attraverso la lente delle riviste letterarie.
Una discontinuità nella storia dell’Istituto è rappresentata dalla destituzione di De
Sarlo ad opera del ministro Gentile: nella vicenda, finora poco nota, influirono la strategia
volta a indebolire la scuola di psicologia e l’orientamento antifascista dello studioso. Le
leggi razziali segneranno una nuova frattura, con l’estromissione del direttore Enzo Bonaventura e di giovani promettenti come Renata Calabresi.
Un problema chiave affrontato nel testo riguarda il ruolo svolto dall’idealismo
nell’emarginazione della psicologia dal sistema universitario fascista. L’a. polemizza in
modo convincente con recenti interpretazioni, secondo cui le posizioni neoidealiste non
implicavano uno schematico pregiudizio antiscientifico; se tale revisione può valere in
relazione alle scienze dure, l’a. sottolinea come siano state le scienze umane il settore maggiormente investito dall’avversione crociana e gentiliana.
La lettura del volume invita a estendere questo tipo di ricerche su scala nazionale, per
valutare meglio l’impatto del fascismo sulle singole discipline, ricostruendone le dinamiche interne e provando a recuperare la complessità del dibattito in età liberale.
Preziose si dimostrano le indicazioni metodologiche dell’a.: è quanto mai opportuno
intrecciare fonti di diversa natura per restituire spessore a un settore di studi spesso indagato con uno sguardo unidimensionale. Un salto di qualità è possibile solo esplorando il
fertile territorio di confine fra dibattito politico-culturale, sviluppi teorico-disciplinari e
concreto funzionamento delle istituzioni accademiche.
Francesca Cavarocchi
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Maurilio Guasco, Carità e giustizia. Don Luigi Di Liegro (1928-1997), Bologna, il Mulino, 337 pp., € 25,00
L’a. ripercorre la vita di uno dei preti romani più noti nell’ultimo trentennio del XX
secolo, dalle umili origini gaetane alla formazione romana legata al Santuario del Divino
Amore, punto di riferimento della religiosità della capitale, fino a tutte le sfide di don Luigi (la prima casa per malati di Aids, gli sviluppi della Caritas, il rapporto col carcere e coi
terroristi rifugiati a Parigi, i senza dimora, gli immigrati…). Non mancano pagine dolorose, come gli avvisi di garanzia dei primi anni ’90 o la delusione per la sostituzione nella
parrocchia ristrutturata in una vecchia fabbrica di maioliche. Il primo incarico presso la
parrocchia di San Leone I al Prenestino, dal 1953 al 1964, mette don Di Liegro di fronte
alla realtà delle baracche che la Chiesa raggiunge a fatica. Il volume La France, pays de mission? lo spinge a nuovi approcci pastorali, e la lezione della sociologia francese lo stimola
a conoscere la realtà da trasformare. Il Concilio Vaticano II e la sua ricezione a Roma si
intrecciano con la vita di Di Liegro, che dal 1964 è responsabile dell’Ufficio pastorale del
Vicariato. Di quella stagione egli è testimone e cooprotagonista. Diviene primo segretario
del Consiglio presbiterale, un nuovo organismo che nasce con la riorganizzazione della
diocesi del papa in settori e prefetture, in un clima assembleare che, vissuto nel mondo
studentesco e del lavoro, si fa spazio anche nella Chiesa. Don Luigi è tra gli organizzatori
del Convegno «sui mali di Roma» del 1974, tappa fondamentale che sarà la bussola della
sua attività. Da quell’esperienza prese anche avvio un embrione di movimento cattolico
democratico a cui Di Liegro prese parte fino al paterno divieto del card. Poletti (pp. 7576). Don Luigi pensava che il volontariato dovesse realizzare «una società fondata sulla
giustizia e sulla solidarietà», ma al tempo stesso finisse per mettere «in risalto la negatività
delle circostanze che lo hanno reso indispensabile» (p. 70). Si affermava un continuum
tra volontariato e coscienza politica che faceva scrivere a un suo amico: «[per don Luigi]
senza il passaggio alla politica, l’elemosina o l’attenzione agli ultimi rischia di trasformarsi
perennemente in beneficenza e a lungo andare produce più ingiustizia di quanti pensi di
eliminarne» (p. 70). Non a caso a metà degli anni ’80, in altro clima, Di Liegro avvierà
anche una scuola di formazione socio-politica (p. 168). Col primato del servizio ai più
poveri coniugato alla preparazione culturale e alla profonda vita spirituale, Di Liegro
ha rappresentato un aggiornamento della figura del prete romano. Come ha scritto alla
sua morte A. Riccardi, «il suo modo di essere “solo” era quello del prete romano», ma al
tempo stesso egli rappresentò «la coscienza critica dei cristiani di Roma e della città» (p.
297). L’a., dichiarando di voler produrre «una prima ricostruzione della sua biografia»,
aveva premesso che essa «dovrà essere approfondita» (p. 7). E in effetti mancano alcuni riferimenti bibliografici di un certo interesse della storia della Diocesi di Roma nel periodo
considerato. Tuttavia dalla lettura del volume emerge la figura di un interprete fedele, e al
tempo stesso originale, della tradizione del clero romano.
Marco Impagliazzo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Fabio Guidali, Il secolo lungo di Gabriele Mucchi. Una biografia intellettuale e politica,
Milano, Unicopli, 340 pp., € 19,00
Figura versatile e sfaccettata, Gabriele Mucchi ha diviso le energie di una lunga esistenza tra pittura, architettura, design e illustrazione. In patria la critica lo ha rivalutato
prima con l’antologica milanese (Palazzo Reale, 1999) che ha raccolto la produzione sia
artistica sia progettuale; e, poi, con il convegno internazionale dell’Università Statale di
Milano (a cura di Antonello Negri, 2009), in seguito al comodato dell’archivio e della
biblioteca dell’artista presso il meritorio Centro Apice, sul cui sito è consultabile l’inventario delle carte Mucchi. Inoltre, come molti intellettuali longevi, Mucchi è stato storiografo di se stesso con un volume di memorie (1994, 20012).
Il libro di Fabio Guidali, quindi, solidamente costruito sulla consultazione di fonti
dirette e documenti, compresi quelli tedeschi, si configura come una ravvicinata messa
a fuoco. La puntuale ricostruzione biografica è condotta sullo sfondo delle complesse
vicende storiche, in cui componenti umane e istituzionali, circoli culturali e contingenze
storiche sono tessute in una rete a maglie fitte, attorno ad alcuni fili conduttori di un
cammino esistenziale errabondo, fra Milano, Berlino e Parigi, luoghi di formazione e di
fondamentali incontri, anche professionali. Tra questi Sibilla Aleramo, Valentino Bompiani, Giuseppe Pagano, Bertolt Brecht.
La maturazione morale e artistica di Mucchi avviene alla fine degli anni ’30, con il
passaggio dall’astratto ripudio del fascismo all’adesione al comunismo, attraverso l’esperienza di «Corrente di vita giovanile» e, poi, la partecipazione alla Resistenza.
Tale tragitto intellettuale e umano coincide, nella pittura, con il primato dei temi
realisti di ispirazione sociale. Il tratto figurativo semplificato, inizialmente vicino alle atmosfere rarefatte di «Novecento», poi alla pennellata materica di Spadini o di Pirandello,
si stabilizza, infine, entro un modo pittorico disegnativo, per certi versi imparentato con
la lezione di Guttuso. Sotto questo riguardo – e considerato che Mucchi è poco noto oltre
la cerchia degli specialisti – il lettore avverte l’assenza di qualche riproduzione, come nel
caso della Madre, ad esempio, presentata alla V Triennale di Milano, e a cui l’a. dedica
ampio spazio.
In ogni caso, lo studio di Guidali è foriero di nuove prospettive di ricerca, in particolare sulla lunga permanenza di Mucchi nella Repubblica democratica tedesca, scelta
coincidente con uno dei momenti più bui del socialismo reale. Dal 1956, infatti, Mucchi
insegna all’Accademia di Belle Arti di Berlino, chiamato in virtù del suo realismo, alternativo al dogmatismo ufficiale, ma, proprio per questo, oggetto di palesi ostilità in relazione
alla relativa autonomia estetica, tanto nei soggetti quanto nelle soluzioni stilistiche. La
ricerca edita da Unicopli contribuisce, pertanto, anche a riportare all’attenzione la necessaria riconsiderazione critica delle varie anime del «realismo socialista»: un lavoro ancora
in buona parte da svolgere in Italia, nonostante le originali iniziative espositive (Palazzo
delle Esposizioni, 2011).
Francesca Gallo
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Fiorella Imprenti, Riformiste. Il municipalismo femminile in età liberale, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 226 pp., € 18,00
Gli studi sul municipalismo e, più in generale, sulla storia dell’amministrazione, da
un lato, e quelli sul movimento politico delle donne, dall’altro, sono i due filoni d’indagine che s’intrecciano nel volume di Imprenti restituendo al lettore una rappresentazione
nitida del consistente processo di apertura delle istituzioni pubbliche, in particolar modo
quelle afferenti al mondo assistenziale, alla presenza femminile in età liberale. In questo
ambito gli enti locali ebbero un ruolo particolarmente significativo «favorito da un ampio
spazio di interpretazione che consentiva livelli d’intervento molto diversificati, in base alle
situazioni locali e al modo in cui le amministrazioni decidevano di utilizzare le prerogative
assegnate dalla legge» (p. 8). In particolare i Consigli comunali, all’inizio del ’900, nominarono, non sempre in modo pacifico, una notevole quantità di rappresentanti femminili
nei consigli di amministrazione degli enti comunali e nei diversi comitati e commissioni
municipali tanto da costringere molti giuristi e lo stesso Ministero dell’interno a interrogarsi sulle ricadute in termini sociali e politici che avrebbe potuto avere tale fenomeno.
L’a., tuttavia, non manca di mostrare, nel quarto e ultimo capitolo del volume, alcuni
profili femminili che travalicano il contesto locale per intraprendere carriere nel quadro
del «welfare nazionale». In quest’ultimo caso la tutela dei minori e il mondo del lavoro
sono gli ambiti d’intervento in cui questi percorsi trovano maggiori opportunità d’inserimento e in particolare il primo: «fu lo spazio delle femministe, che giungevano all’appuntamento con un bagaglio collettivo di saperi e di esperienze accumulato da generazioni
e che legavano, come altrimenti non poteva essere, la riforma legislativa sui minori alla
rivendicazione della capacità giuridica delle donne, alla riforma della patria potestà, ad
innovazioni del diritto di famiglia e a radicali cambiamenti di prospettiva in materia di
sfruttamento sessuale» (p. 172).
La ricerca, attenta alla comparazione transnazionale del fenomeno, ricostruisce diverse esperienze italiane soffermandosi, in particolare, su quanto accaduto in città quali
Milano, Padova, Firenze, Roma, Napoli e Catania. Ciò consente al volume di offrire una
ricca biografia collettiva delle pioniere dell’assistenza pubblica – fatta di profili tra loro
molto differenti, tanto per estrazione sociale e formazione quanto per credo politico e religioso. Un aspetto, in ultimo, su cui lo studio insiste con puntualità è l’accento posto sul
processo di istituzionalizzazione del percorso femminile nell’amministrazione pubblica
inteso come tappa fondamentale e irreversibile nell’ambito del percorso di emancipazione
delle donne italiane, che per la prima volta abbandonano i ruoli pratici ed operativi per
passare ad occuparsi della gestione, dell’organizzazione e dell’indirizzo delle consulte e
degli organismi di assistenza pubblica.
Domenica La Banca
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Mario Isnenghi, Breve storia d’Italia ad uso dei perplessi (e non), Roma-Bari, Laterza, VI195 pp., € 14,00; ebook € 8,99
In un paese come l’Italia, dove anche per responsabilità degli addetti ai lavori la
divulgazione storica è sempre stata appannaggio quasi esclusivo dei giornalisti, il fatto
stesso che uno studioso dell’autorevolezza di Isnenghi si rivolga a un largo pubblico di
non specialisti è di per sé degno di nota. Già apparsa presso Rizzoli nel 1998 «ad uso dei
perplessi», questa breve storia d’Italia dal Risorgimento a oggi viene ora riproposta anche
a chi perplesso non è. Poco cambiato nelle prime tre parti sull’Italia preunitaria, liberale
e fascista, il testo è stato invece interamente riscritto per il periodo che dal 1945 giunge
fino al governo Monti.
Obiettivo dichiarato dell’a. è coinvolgere il lettore non specialista nella storia del
nostro paese. Gli strumenti di cui si serve per conseguirlo sono due: da un lato l’offerta
ricorrente di riferimenti a cose o persone più probabilmente già conosciute, dalle opere
letterarie ai film (come Tutti a casa di Comencini a proposito dell’8 settembre 1943);
dall’altro – e soprattutto – una prosa avvincente e attualizzante, densa di espressioni colloquiali ma mai tale da banalizzare in alcun modo i problemi. Al contrario, il lettore esperto
non fatica a riconoscere lo spessore dei suoi riferimenti, anche se per lo più impliciti. Tra
le poche eccezioni – ma nessun autore viene mai citato –, quelli a Il comando impossibile
riguardo agli ultimi decenni dell’800 e ai dibattiti su La morte della patria, nonché il ricorso all’espressione «familismo amorale» a proposito della famiglia Bossi.
Il racconto privilegia la storia politica e culturale, è molto attento a quella sociale –
ivi compreso il ruolo delle donne – ed è assai più parco di riferimenti a quella economica.
Oltre al binomio politica-società, a tenere banco sono insomma soprattutto letteratura e
arte, musica e giornali, cinema e televisione. Poco spazio è invece dedicato a temi quali ad
es. il «miracolo» degli anni ’50-60. Di particolare rilievo sono le pagine dedicate a Berlusconi, al suo tempismo e alla sua «bravura nell’interpretare lo spettacolo della politica», di
cui l’a. parla come della costruzione di un’egemonia: «la vecchia espressione di Gramsci
nel carcere fascista torna paradossalmente buona per designare le pratiche pervasive di
questo suo grande e vittorioso avversario postumo».
Come qualificare, infine, l’interpretazione che sorregge l’intero racconto? Io la definirei radicale, attenta com’è a porre in rilievo gli elementi di continuità della nostra storia.
A proposito della Chiesa dopo la seconda guerra mondiale, ad es., Isnenghi scrive: «vince
la storia lunga contro la storia breve». Il suo è però un radicalismo pacato, privo dei toni
deprecatori tipici della tradizione intellettuale e storiografica in cui a mio parere si inscrive. Salvo forse nella conclusione, dove per designare «un salto di qualità all’altezza di un
paesaggio a tal punto devastato» come quello dell’Italia di oggi non esita a riesumare – sia
pure, suppongo, in termini metaforici – una parola d’altri tempi: «È, niente meno, la
rivoluzione. Tranquilli, non sarà per l’oggi. Però. Qualcuno potrebbe pensarci»…
Tommaso Detti
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Egidio Ivetic, Jugoslavia sognata. Lo jugoslavismo delle origini, Milano, FrancoAngeli, 230
pp., € 30,00
Diciassette anni fa, nel 1996, usciva Yugoslavia as History. Twice there was a country di
John R. Lampe. Scrivere la storia di un paese che si stava dissolvendo richiedeva anzitutto,
sul piano metodologico, grande attenzione a evitare ogni determinismo, e quindi capacità
di riconoscere i fattori integrativi in atto sul lungo periodo nonostante l’esito finale. Oggi
Egidio Ivetic può partire dalla constatazione che l’idea jugoslava, legata a un ciclo storico
concluso e così alleggerita da ruoli ideologici, si presta a una nuova storicizzazione. Nuova nel senso che la riflessione sullo jugoslavismo in prospettiva storica, a parte le prime
celebrazioni ottocentesche dell’illirismo (v. infra), è stata l’asse portante delle moderne
storiografie nazionali croata e serba negli anni ’70 e ’80 del ’900.
Se in termini generali lo jugoslavismo può essere definito come un modo – suscettibile di innumerevoli declinazioni – di pensare una comunanza etnica, culturale e possibilmente politica delle genti slavo-meridionali, l’a. aderisce all’interpretazione (che ha essa
stessa una precisa genesi) secondo cui lo jugoslavismo come progetto è una delle varianti
ideologiche dello sviluppo nazionale croato: una variante funzionale al superamento della
frammentazione amministrativa e culturale interna al gruppo, prima ancora che delle differenze fra i gruppi e fra le rispettive élites. Lo jugoslavismo esordisce infatti come illirismo
nella Croazia-Slavonia ungherese attorno al 1835, e segna l’ingresso di un movimento
di risveglio cultural-linguistico nella sede stessa della rappresentanza politica nobiliare.
Dopo l’intermezzo del 1848-49 e dell’assolutismo viennese, lo jugoslavismo riemerge con
il suo nome nelle attività e nei progetti dell’élite intellettuale raccolta attorno al vescovo
Strossmayer – un principe rinascimentale nello stile, ma modernamente impegnato a
tentare il passaggio dalla fase B alla fase C di Hroch; e diventa pratica politica corrente
alla fine dell’800, quando in diverse sedi istituzionali croati e serbi sono indotti dalla mera
opportunità a collaborare, e nel farlo consolidano la mutua conoscenza.
Con il 1908 (crisi dell’annessione) la narrazione si fa avvincente. Entrano sulla scena
le giovani generazioni (che hanno capito lo jugoslavismo a Praga, da Masaryk), il governo
austro-ungarico ricorre al gioco sporco (processo Friedjung) e al pugno di ferro, gli studenti radicali rispondono con una sequenza impressionante di attentati. L’idea jugoslava
ha ormai catturato gli studenti croati, serbi, e infine anche sloveni, e a questo punto è
inestricabilmente legata al radicalismo politico. Nel 1914, a giudizio dell’a., «Jugoslavia»
era un riferimento simbolico definito e riconoscibile per ampi strati di popolazione. Ivetic
rende atto dell’obiezione di Mirjana Gross, decana degli storici croati, secondo cui lo
jugoslavismo era comunque storicamente in ritardo rispetto allo sviluppo delle distinte
identità nazionali croata, serba e slovena; non solo: messo alla prova dei fatti, dal dicembre
1918 lo jugoslavismo si sarebbe rivelato un gigantesco problema. Ma questa, come si dice,
è un’altra storia.
Marco Dogo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Tony Judt, con Timothy Snyder, Novecento. Il secolo degli intellettuali e della politica, Roma-Bari, Laterza, 414 pp., € 22,00 (ed. or. London, 2012)
«Storia, biografia e trattato etico», come lo definisce Timothy Snyder nella prefazione (p. VII), questo volume può essere considerato una biografia, pubblicata postuma, di
uno dei più grandi intellettuali del ’900. Scomparso prematuramente nell’agosto 2010 a
causa di una grave malattia degenerativa, Judt ha dedicato alcuni mesi del 2009 a intessere
un dialogo con il collega più giovane, Snyder, per «ripensare il ventesimo secolo» (così
suona il titolo originale), ripercorrendo i passaggi salienti della propria esistenza. L’idea
iniziale sottesa agli incontri fra i due storici era quella di discutere il lavoro complessivo di
una vita di Judt: dai volumi sugli intellettuali e sinistra francese al fortunato Dopoguerra:
come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi (Milano, Mondadori, 2007), fino alle sue riflessioni sul ruolo degli intellettuali e del mestiere di storico. In ciascun capitolo vi si trovano
intrecciate vicende biografiche di Judt e riflessioni sul contesto storico; alcuni momenti
della vita di Judt che coincidono con alcuni episodi centrali della storia del secolo scorso:
a partire dalla sua infanzia, che può essere letta anche come una «espressione esotica,
peculiare e quindi privilegiata, della storia della metà del ventesimo secolo, come accadde
di viverla agli ebrei immigrati dall’Europa centro-orientale» (p. 3). Altri temi affrontati
sono la Shoah quale questione ebraica e tedesca, il sionismo e le sue origini europee, l’eccezionalismo inglese e l’universalismo francese, il marxismo, il fascismo e l’antifascismo,
la riscoperta del liberalismo e la pianificazione sociale nel mondo occidentale, tutti strettamente legati a considerazioni biografiche dell’a.
Si tratta pertanto di un libro anomalo, di grande interesse per la ricchezza dei riferimenti storici e storiografici – Judt prima di essere a conoscenza della sua malattia stava
progettando una storia del pensiero sociale del XX secolo – ma anche per l’acutezza di alcune analisi da parte di un intellettuale che è sempre stato, o si è sempre sentito, un estraneo, un outsider, sia in Inghilterra, dove è nato e si è formato, sia negli Stati Uniti, dove
ha abitato e insegnato a lungo. Profondo conoscitore della storia europea, e in particolare
di quella intellettuale, queste pagine illuminano i percorsi, le esperienze, gli incontri di
Judt sul continente, da Parigi, a Vienna, agli ambienti degli intellettuali dell’Est europeo
conosciuti nelle università americane. Tracciano quindi il profilo affascinante di un intellettuale, che non ha mai cessato di riflettere sul proprio ruolo, responsabilità e limiti. E a
chi ha accusato i suoi scritti di essere opinionated, replica: «E perché no? Uno storico (o in
realtà chiunque) senza opinioni non è molto interessante […]. La differenza tra un libro
opinionated e uno distorto dai pregiudizi dell’autore mi pare questa: il primo riconosce la
fonte e la natura delle sue idee e non avanza pretese di oggettività assoluta» (p. 388). Un
costante pensiero critico che attraversa il volume, «un libro sulla vita del pensiero, e sulla
vita pensante» (p. XV), come ha chiosato Snyder.
Valeria Galimi
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Ian Kershaw, Scelte fatali. Le decisioni che hanno cambiato il mondo 1940-1941, Milano,
Bompiani, 814 pp., € 28,00 (ed. or. New York, 2007)
Il biografo di Hitler ci propone un originale percorso. Egli prende in esame eventi
cruciali nella fase iniziale del conflitto, e analizza le decisioni dei principali attori e le alternative possibili. Non si tratta di una storia contro-fattuale. Egli intende però valutare
le possibili opzioni messe in campo, proprio per cogliere i motivi per i quali le alternative
non sono state perseguite. Si tratta quindi di una ricerca che, pur senza trascurare i motivi
di contesto, si focalizza sulle decisioni individuali, sulle biografie e psicologie dei protagonisti. È una narrazione appassionante, che rispecchia la migliore tradizione anglosassone.
L’approccio mostra la complessità dei fattori in gioco, la rilevanza delle persone, l’esistenza di opzioni alternative, che avrebbero potuto modificare il corso della storia.
Kershaw mette al centro della sua analisi il biennio 1940-1941; pur riconoscendo
che decisioni cruciali vennero prese anche in seguito, tuttavia egli sottolinea che è stato in
questa prima fase che sono state poste le premesse decisive per ciò che accadde.
I dieci temi, ai quali sono dedicati altrettanti capitoli che possono essere letti come
singoli saggi, vanno dalla decisione presa nella primavera del 1940 dal Gabinetto di guerra presieduto da Churchill di non accettare alcuna offerta da parte tedesca, ai motivi
sottostanti la decisione di Hitler di attaccare l’Unione Sovietica prima di avere sconfitto
la Gran Bretagna e scartando la strategia «mediterranea», dalle scelte compiute dai vertici
giapponesi di scatenare un attacco contro gli Stati Uniti, restii a scontrarsi con la potenza
asiatica, alla volontà di Stalin di non dare retta ai segnali che, nella primavera del 1941,
facevano prevedere un imminente attacco, alla decisione del Führer di sterminare gli ebrei
europei – unica decisione senza alternative reali.
Churchill faticò a superare le obiezioni dei suoi ministri e a decidere di non aprire
una trattativa con Mussolini per trovare, attraverso la sua mediazione, un accordo con
Hitler. Questi, spinto da una preponderante motivazione ideologica, ruppe il tabù (fatale
nel 1914-1918) della guerra su due fronti. Stalin avrebbe potuto dare retta ai segnali e
preparare contromosse adeguate al prossimo attacco. Roosevelt agì con cautela nell’avviare il lend-and lease act, che rappresentò un aiuto fondamentale per la Gran Bretagna e
segnò il «non ritorno» per il coinvolgimento degli Stati Uniti. E così via, a dimostrazione
che decisioni che oggi ci sembrano ovvie, in effetti furono legate a precari equilibri.
Un capitolo è anche dedicato all’Italia e si concentra sulla decisione di Mussolini –
contro le timide obiezioni dei suoi generali – di entrare in guerra a fianco della Germania
nel giugno del 1940, pur in condizioni di debolezza militare. La considerazione dell’Italia
è uno dei non ultimi motivi di interesse di questo libro, che – dedicando ampio spazio
anche al Giappone – offre una visione globale degli snodi cruciali della guerra.
Nel valutare nel modo più positivo la fatica di Kershaw, dobbiamo però far presente
la scarsa qualità della traduzione, infarcita di errori.
Gustavo Corni
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Klaus Kreiser, Storia di Istanbul, Bologna, il Mulino, 149 pp., € 12,00 (ed. or. München,
2010)
Il volume del turcologo tedesco Klaus Kreiser si inserisce nel mainstream storiografico della storia urbana tracciando in un testo agile e pratico – corredato di mappe e cronologia – le tappe salienti della storia pluri-millenaria di Istanbul. Come ricorda l’a. nella
prefazione, «racchiudere in poche pagine questa varietà cronologica e spaziale è un’operazione giustificata solo dal gran numero di visitatori odierni attratti dalla storia della città»
(p. 7) i quali, assieme al pubblico accademico, sono i destinatari del saggio.
Il volume, dopo un breve capitolo sui cenni geografici e sulle molteplici denominazioni della città, si presenta come un compendio dei principali avvenimenti che hanno interessato la città, e descrive la stratificazione socio-politica che ha trasformato Istanbul da
una colonia greca a una grande capitale imperiale. L’a. analizza come la struttura urbana
si sia evoluta nel tempo e come dinastie e imperi abbiano influenzato la disposizione del
tessuto urbano. A ogni mutamento politico corrisponde una diversa visione degli spazi
in cui il nuovo tessuto urbano si sovrappone al precedente. L’a., tuttavia, non dimentica i
soggetti che hanno fatto la storia della città accanto agli imperatori e ai sultani: i cittadini.
Il quarto capitolo, pertanto, traccia un quadro demografico degli abitanti e descrive la vita
urbana di Costantinopoli/Istanbul analizzandone alcuni degli aspetti principali: i mezzi
di trasporto, le vie di comunicazione, le piazze, il rifornimento idrico e i bagni. Infine,
viene affrontato il tema della convivenza religiosa, ovvero le interrelazioni sociali che fino
all’avvento della Repubblica turca sono state la cifra della capitale bizantino-ottomana.
La longue durée temporale riduce la profondità di un tema molto complesso, ma
Kreiser, sebbene si limiti ai fatti più significativi, riesce a spiegare ottimamente l’evoluzione urbana, architettonica e sociale di una delle principali città mediterranee. Narrazione
che continua nel quinto capitolo con il lungo periodo di riforme sociali, politiche e soprattutto urbane della capitale ottomana al tramontare dell’Impero. In questa parte, che si
conclude nel capitolo successivo con la descrizione della città contemporanea, l’a. utilizza
un approccio diverso rispetto ai quattro capitoli precedenti. Nei due capitoli in cui si
descrivono gli interventi più radicali vissuti dalla città, l’a. mescola gli eventi politici con
i mutamenti sociali e con l’evoluzione del tessuto urbano, mettendo in evidenza come la
stretta correlazione tra i tre gruppi sia molto più intensa che nei periodi precedenti. L’evoluzione politica e gli sconvolgimenti sociali degli ultimi due secoli sono, infatti, molto più
repentini e influenzano più profondamente l’aspetto strutturale della città, trasformandola progressivamente in una megalopoli moderna e, oggi, culturalmente all’avanguardia.
Nonostante la brevità del libro, Kreiser propone una brillante opera di storia urbana
e sociale, adatta a tutti coloro che vogliano accrescere la conoscenza di questa città dai
mille volti.
Luca Zuccolo
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Gianni La Bella, Roma e l’America latina. Il Resurgimiento cattolico sudamericano, Milano,
Guerini e Associati, 428 pp., € 28,00
Questo è indubbiamente un lavoro coraggioso che tocca in modo innovativo una
serie di passaggi delicati della storia della Chiesa e dell’America latina. Studioso delle politiche vaticane e curatore di un monumentale volume sul gesuita Pedro Arrupe, La Bella
si è avventurato nella ricostruzione di una storia del cattolicesimo sudamericano dalla
fine degli anni ’20 ai primi anni ’60 del ’900. Impresa difficile per varie ragioni: la prima
riguarda la necessità di mantenere un equilibrio tra un contesto subcontinentale, sospeso
tra una dimensione immaginaria e una quotidianità tumultuosa, e orizzonti nazionali
compositi e frammentati (a livello regionale, etnico, sociale…); la seconda concerne l’esigenza di ricostruire prospettive culturali, impulsi religiosi e azioni politico-diplomatiche,
muovendosi tra una visione vaticana in divenire e nazioni spesso segnate da rapporti Stato-Chiesa irrisolti. Infine c’è una questione di fonti, abbondanti ma spesso frammentarie,
in attesa di nuove aperture dell’Archivio segreto vaticano, e di una storiografia ancora in
fase di sviluppo a fronte di un’enorme produzione bibliografica.
La Bella accetta comunque la sfida, partendo da un presupposto quasi ovvio ma,
paradossalmente, a lungo sottostimato dall’americanistica contemporanea: l’onnipresenza
del fattore religioso (anche in termini negativi, di politiche anticlericali), inestricabilmente legato alla storia politica e sociale. Il pregio maggiore del volume credo consista proprio
nell’equilibrio con cui l’a. riesce a offrirci una visione d’insieme, muovendosi tra Chiese
locali e Sede apostolica, governi e movimenti, proponendo piste interpretative, toccando
nodi sensibili e traendo linfa da una comparazione a tutto campo tra gli studi esistenti.
L’idea di fondo riguarda l’analisi della ripartenza delle strategie latinoamericane della S.
Sede dalla crisi del primo dopoguerra (interessante la cesura individuata nella crisi del ’29)
al pieno rilancio cattolico degli anni ’50. Un processo che richiama gli sforzi intrapresi a
fine XIX secolo, arenatisi di fronte a una serie di crisi politiche e all’avanzata protestante.
In tal senso la parte meno convincente del lavoro mi sembra la prima, per la difficoltà di
far emergere una serie di continuità sotterranee. Importanti e innovative mi sembrano
invece la seconda e la terza, in cui si affrontano con decisione (e abilità storiografica) problemi complessi: la convivenza tra la riscoperta del subcontinente di Pio XII e l’irruzione
della guerra fredda e del terzomondismo; la collocazione della Chiesa latinoamericana da
un orizzonte occidentale ad uno mondiale; la ridefinizione del ruolo degli episcopati e la
genesi, dal 1955, del Consiglio dell’episcopato latinoamericano (Celam). Da qui alla stagione giovannea, si offrono spunti illuminanti sugli scambi tra le due sponde dell’Oceano,
dando un nuovo respiro a forme, tempi e modi della preparazione (non solo teologica ma
soprattutto pastorale e sociale) della svolta conciliare. Dal quadro, le singole esperienze
emergono come elementi distinti di una pluralità creativa eppure coerente.
Massimo De Giuseppe
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Orazio Lanza, Eredità del passato e democrazia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 285 pp.,
€ 14,00
Il libro affronta il tema dell’eredità del passato nel processo di transizione in Spagna
e Portogallo. L’analisi risulta innovativa nel quadro dell’ampia letteratura comparativa
esistente tra i due paesi. Il tema centrale ruota intorno alle tipologie di memoria che
hanno influito sui due casi di studio: quella che Lanza definisce dell’eredità autoritaria,
all’interno della quale confluiscono elementi di persistenza dei regimi autoritari dei due
paesi nei rispettivi processi di democratizzazione, e quella delle eredità «storiche», le quali
hanno attivato una memoria negativa capace di riportare a galla i fallimenti del passato
remoto come monito per il futuro. Il volume mette in luce le similitudini e le differenze
tra i due casi e privilegia l’influenza esercitata sul versante politico istituzionale, tanto sul
constitution building quanto sul political learning. La comparazione risulta più efficace
nell’analisi delle differenze. La transizione spagnola è descritta come un processo di ridemocratizzazione, il cui precedente di riferimento viene fatto risalire agli anni della II
Repubblica. Alla luce di un processo avvenuto all’insegna della continuità solo formale (e
non sostanziale) con il franchismo la bilancia dell’influenza dei due tipi di eredità pende
maggiormente verso quelle storiche. L’a., ricollegandosi ai lavori di Aguilar, evidenzia
quanto nel dopo Franco il costituente abbia tenuto a mente la stagione democratica della
II Repubblica, ricordandola però non tanto per gli elementi di modernizzazione sociale
quanto per l’instabilità governativa e la polarizzazione politica che fecero precipitare il
paese nella guerra civile. Una memoria che dimostra il carattere selettivo proprio di ogni
rielaborazione del passato ed esclude il ripristino dell’ordinamento istituzionale di allora
per l’edificazione del nuovo sistema.
Meno battuta dalla storiografia – e pertanto ancora più utile – risulta essere l’analisi
sul peso della memoria in Portogallo. L’a. condivide la corrente interpretativa secondo
cui la Prima Repubblica portoghese sia stata un regime oligarchico-competitivo (e non
pertanto un vero precedente democratico) e la transizione abbia avuto un carattere rivoluzionario in netta discontinuità con il passato autoritario. Anche in questo caso la memoria storica, nonostante l’assenza di una esperienza democratica, ha comunque inciso sul
constitution building. La differenza rispetto alla Spagna riguarda invece l’apprendimento
politico: la memoria di riferimento nel corso della transizione, non avendo una radice
democratica di lungo periodo a cui riallacciarsi né elementi di continuità con la stagione
del salazarismo, si sarebbe formata piuttosto in corso d’opera. Ne deriva un quadro in cui
ai due tipi di memorie a cui si riferisce il volume se ne affianca una terza, coeva alla trasformazione politica in atto, che non può evitare di fare i conti con eredità recenti prodotte
durante la prima fase della democratizzazione del paese, quali un più debole ruolo dei
partiti rispetto alla Spagna e la persistenza di domini politici riservati ai militari.
Maria Elena Cavallaro
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Alba Lazzaretto, Giulio Alessio e la crisi dello stato liberale, Padova, Cleup, 184 pp., €
18,00
Negli studi storici, oramai da molti anni, si è consolidato un proficuo filone di studi
più sensibile e attento a valorizzare il ruolo di singole personalità, tracciandone profili biografici. In questa direzione bene si inserisce il volume di Alba Lazzaretto che ricostruisce
la vicenda politica di Giulio Alessio, «patriota, economista, statista» (p. 7), con particolare
riguardo alla sua azione e al suo impegno in difesa delle istituzioni democratiche nel travagliato periodo tra la crisi dello Stato liberale e l’avvento del fascismo. Alessio fu esponente
della Sinistra costituzionale e poi della democrazia radicale, cominciò la sua carriera politica nell’amministrazione comunale della sua città, Padova, e fu eletto deputato dal 1897
al 1924. Fu vice presidente della Camera e tra i maggiori esperti in Parlamento di economia e scienza della finanza. Ricoprì la carica di ministro tre volte tra il 1920 e il 1922
(Poste e Telegrafi nel governo Nitti II; Industria e Commercio, in Giolitti V; e Grazia e
Giustizia e amministrazione dei culti in Facta II). Il volume è suddiviso in tre capitoli, il
primo dei quali è dedicato alla formazione culturale e politica, all’ambiente patriottico
padovano nel quale si formò, ricco di stimoli e insegnamenti. Laureatosi nel 1874 in
Giurisprudenza, entrò come libero docente di Economia politica quattro anni dopo. Insegnò poi Scienza della finanza e Diritto finanziario, cattedra di nuova istituzione, nella
quale fu nominato professore ordinario nel 1894. Alessio si dedicò sempre con rigore
all’insegnamento nell’Ateneo patavino, «fu economista di fama internazionale ed esercitò
anche la professione di avvocato» (p. 8). Fu tra i protagonisti della Padova democratica
del primo decennio del ’900, quando la città divenne una delle «più salde roccaforti della
democrazia radicale» (p. 31). Nel secondo capitolo è ricostruita l’attività di parlamentare
di Alessio, dalla sua entrata a Montecitorio, nelle elezioni del 1897 (dopo due tentativi
falliti nel 1892 e nel 1895), fino al 1924, quando le elezioni tenutesi con la legge Acerbo
«lo vedranno escluso per sempre dal governo della Nazione» (p. 34). Il suo programma fu
di schietta impronta radicale: attenzione ai ceti medi, all’elevazione culturale del popolo,
alla buona amministrazione finanziaria, con un’equa e progressiva imposizione fiscale, e
alla difesa delle istituzioni democratiche. Nel terzo capitolo è analizzata l’azione di Alessio durante l’agonia dello Stato liberale. Egli si oppose con vigore alla riforma elettorale
proporzionale, introdotta nel 1919, che, a suo avviso, avrebbe condotto il paese all’ingovernabilità. Nell’agosto del 1922 una sua proposta di legge severa, che avrebbe dovuto opporre la forza dello Stato all’illegalità e alla violenza diffusa, non fu accettata dal governo
di cui faceva parte (Facta II). Alessio colse del fascismo, fin dai primordi, il suo carattere
violento e antidemocratico. Il volume, basato su un solido impianto documentario e
bibliografico, getta senz’altro luce nuova su una delle figure più rilevanti del radicalismo
italiano tra ’800 e ’900.
Antonio Scornajenghi
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Antonio Lazzarini, Il Veneto delle periferie. Secoli XVIII e XIX, Milano, FrancoAngeli, 239
pp., € 30,00
Il volume, pubblicato in occasione del settantesimo compleanno dell’a., raccoglie
dodici contributi usciti in diverse sedi tra 1999 e 2009; una pubblicazione «celebrativa»
sì, ma costruita con intelligenza: risultati importanti e innovativi, accompagnati dall’elenco delle pubblicazioni dell’a. e da una preziosa introduzione di Liliana Billanovic, sono
interconnessi dalla scelta di un filo conduttore, quello della «periferia».
La prospettiva d’indagine è significativa per le scienze sociali, in particolare nello
studio della vita economica, dove il tema del rapporto centro-periferia è stato spesso associato alla presenza di rapporti di scambio ineguali e asimmetrici, basti pensare ai lavori
di economisti come Furtado, Emmanuel e Amin o di storici economici come Wallerstein.
Tuttavia non si può fare a meno di rilevare come tale contrapposizione classica sconti il
carattere relativo dei due concetti – si è sempre il centro o la periferia di qualcun altro –
e la non misurabilità, soprattutto nel periodo oggetto di questi studi, della distanza tra
l’ambiente più avanzato e le aree più arretrate.
Gli scritti di Lazzarini non restano però prigionieri di questa ambiguità perché mostrano chiaramente come la marginalità delle «periferie» indagate, che si tratti del Polesine
o della montagna veneta, sia uno dei tanti stereotipi di cui si nutre la narrazione storica:
erano aree saldamente collegate al resto della regione e in particolare alle vitali città della
pianura, a cominciare da Venezia. È merito del volume evidenziare come la storia delle
«periferie» venete, ma non solo di quelle venete, non possa andare disgiunta da quella
delle città visto che si assisteva al dispiegarsi di una fruttuosa relazione biunivoca in cui si
muovevano nelle due direzioni merci e uomini.
Il tema è rilevante perché i «caratteri originali» di molte zone periferiche, in primo
luogo in termini di condizioni ambientali sfavorevoli, sarebbero stati potenzialmente in
grado di condannarle alla marginalità. L’esperienza dell’area alpina mostra che questo non
è sempre vero, proprio perché molte zone di montagna sono riuscite a stabilire fruttuose
connessioni con le aree sviluppate del piano. A consentirlo è stata la vendita dei beni
di cui le Alpi abbondavano, a cominciare dal legname cui l’a. ha dedicato contributi
fondamentali, ma anche l’ampio ricorso al fattore della produzione in cui erano meno
svantaggiate in chiave comparativa: il lavoro, sin dal Medioevo volano di collegamento
con le grandi città della Pianura padana.
Dall’altro lato, come mostra l’a. con riferimento al caso del Polesine, capitali e investitori cittadini potevano rappresentare un’opportunità per rilanciare, grazie alle bonifiche
e all’introduzione della risicoltura, l’economia di aree marginali sino a quel momento.
Certo, per le «periferie» si trattava di interazioni che rappresentavano un moltiplicatore di
possibilità ma che, al tempo stesso, potevano essere problematiche soprattutto in termini,
l’a. lo mostra benissimo, di ricaduta ambientale e di rottura di equilibri consolidati, come
quelli costruiti sullo sfruttamento e la valorizzazione delle risorse comunitarie.
Luca Mocarelli
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Andrea Leonardi, Cinzia Lorandini, Una banca per lo sviluppo regionale. Mezzo secolo di
attività del Mediocredito Trentino Alto Adige, Roma-Bari, Laterza, 528 pp., € 45,00
Il bel volume scritto da Andrea Leonardi e Cinzia Lorandini, pubblicato nella collana «Storia delle banche in Italia», tratta un tema molto rilevante in una prospettiva
storico-economica, quello del rapporto tra strutture creditizie e sviluppo locale e lo fa con
riferimento a una realtà territoriale, il Trentino Alto Adige, di particolare interesse perché
è passata nel giro di pochi decenni da una situazione di decisa arretratezza economica
a una posizione di vertice sul piano nazionale per quanto riguarda il Pil pro capite e la
qualità della vita.
Il lavoro, fondato su un’ampia ricerca archivistica, condotta sia in sede locale che
presso la Banca d’Italia, ricostruisce nella sua prima parte l’evoluzione dell’economia regionale nel secondo dopoguerra evidenziandone le peculiarità: dalla grande importanza
assunta dal movimento cooperativo e dall’intervento dell’operatore pubblico, rappresentato dalla Regione, alla ridefinizione degli assetti agricoli locali; dal decollo, su nuove basi,
dell’industria turistica fino alla recente terziarizzazione. Si tratta di un percorso certamente originale dove, a differenza di quanto accaduto in altre regioni alpine, è possibile individuare la presenza di una forte componente endogena, che ha saputo valorizzare al meglio i
notevoli vantaggi derivanti dalla condizione di Regione autonoma a statuto speciale.
La seconda parte si sofferma sul ruolo del credito nello sviluppo economico dell’Italia del secondo dopoguerra, in un quadro normativo a lungo segnato dalla riforma bancaria del 1936 che ha comportato la nascita di Mediobanca fin dal 1946, ben presto
seguita dai Mediocrediti regionali. In particolare si ricostruisce la complessa gestazione del
Mediocredito Trentino Alto Adige e il suo non semplice inserimento nel sistema bancario
regionale, così come la forte difesa, sin dalle origini, delle prerogative autonomistiche
nell’organizzazione dell’istituto.
La terza parte, quella più corposa, ricostruisce con estremo dettaglio e ricchezza
di particolari le dinamiche operative del Mediocredito Trentino Alto Adige, dando un
contributo importante alla conoscenza delle vicende economiche regionali nel secondo
dopoguerra. In particolare gli aa. si soffermano sull’avvio del nuovo istituto di credito
e sulle scelte compiute che hanno portato a un robusto radicamento sul territorio. Tale
radicamento è sfociato nel giro di poco più di un decennio in una piena integrazione
dell’istituto nel sistema bancario locale, pur senza sciogliere del tutto l’ambiguità di una
posizione che oscillava tra la funzione di banca o quella, ben diversa, di strumento di politica economica. Una situazione che ha portato nel corso degli anni ’90 a ridefinire, anche
dal punto di vista istituzionale, il ruolo del Mediocredito Trentino Alto Adige e a puntare
decisamente verso un allargamento della rete anche al di fuori dei confini regionali, e ciò
senza snaturare o perdere il forte collegamento con la realtà locale.
Luca Mocarelli
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Fausto Leonetti, Banche, ferrovie, telai. L’economia piemontese alle soglie dell’Unità 18371858, Torino, Comitato di Torino dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano,
343 pp., € 58,00
Il saggio propone una lettura dell’evoluzione economica dell’area piemontese nei
decenni preunitari, con particolare attenzione agli anni 1837-1848 e 1853-1858 – il
periodo carloalbertino e cavouriano -, che strutturano l’indice dell’opera in due parti
cronologicamente suddivise. Si fonda su una minuziosa analisi delle carte contenute nel
fondo Atti di società del Tribunale di Torino, documentazione che registra i momenti
di costituzione, risoluzione e variazione delle società di commercio. Come l’a. dichiara
nell’introduzione, si tratta di una prospettiva parziale: i quasi 2.700 atti analizzati, rappresentativi di circa 2.100 società, sono di vario tipo (dagli atti notarili alle scritture private)
e forniscono interessanti informazioni in particolare sugli oggetti societari, sui nomi e i
dati anagrafici dei soci, sulla localizzazione geografica, la durata e i capitali delle imprese.
Gli studiosi dell’economia ottocentesca sanno bene che «l’atto di società esprimeva fatti
giuridici in gran parte disgiunti dalla realtà economica vera e propria» (p. 12), ciò che
purtroppo limita le possibilità euristiche di ricerche che assumono questa fonte come
esclusiva. L’a. riesce tuttavia a collocare le vicende studiate nel quadro evolutivo più ampio dell’economia piemontese dell’epoca, costruendo un quadro complessivamente ben
informato oltre che un utilissimo repertorio per ulteriori ricerche.
Particolare attenzione è naturalmente dedicata agli ambiti di punta del settore manifatturiero e dei servizi (filati e tessuti, trasformazione alimentare e ricezione alberghiera,
industria mineraria, metallurgica e meccanica, settore bancario, concerie, vetrerie, cartiere,
edilizia e trasporti), con l’aggiunta, in epoca cavouriana, degli sviluppi del settore editoriale, dell’industria chimica e delle nuove società assicurative. La disamina istituzionale delle
singole realtà aziendali è accompagnata dall’analisi sociale dei soci, che oltre a concentrarsi
sulle tradizionali strutturazioni cetuali (aristocrazia e imprenditoria di origine borghese),
presta opportuna attenzione alle suddivisioni etniche del tessuto piemontese coevo, sottolineando e analizzando il ruolo svolto da imprenditori di provenienza estera e/o ebrei,
nel quadro del controverso processo di integrazione di tali componenti entro la società
gentile soprattutto nel periodo post-quarantottesco. D’interesse per la storia sociale e delle
professioni sono inoltre le analisi e le considerazioni interpretative inerenti le carriere dei
soci e dei funzionari nelle istituzioni di commercio, nell’ambito delle quali le stesse istituzioni di rappresentanza (i consolati di commercio, i tribunale stessi che li sostituirono, le
Camere di commercio, industria e artigianato) vengono lette come strumento non solo di
tutela degli interessi ma anche di ascesa sociale. Ascesa di cui beneficiano, in particolare, il
gruppo dei «banchieri» e, in misura più limitata, i negozianti tessili e i liberi professionisti.
Chiudono il lavoro accurati indici dei nomi di persona, delle società e degli enti.
Germano Maifreda
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Valentine Lomellini, Les relations dangereuses. French Socialists, Communists and the Human Rights Issue in the Soviet Bloc, Bruxelles, Peter Lang, 210 pp., € 29,40
Il volume presenta un evidente legame con il precedente lavoro dell’a. sulla sinistra
italiana e il dissenso all’Est (L’appuntamento mancato. La sinistra italiana e il dissenso nei regimi comunisti, 2010). L’oggetto è questa volta la sinistra francese e costituisce l’occasione
per una riflessione su analogie e differenze tra i rispettivi schieramenti politici nei due paesi. In Francia e in Italia la questione dei diritti umani assume un carattere centrale negli
anni ’60, sia nella sfera delle relazioni internazionali sia nel dibattito politico interno.
Lomellini mette a fuoco adeguatamente l’interazione delle dinamiche nazionali e
internazionali che contraddistingue la condotta del Psf e del Pcf. Le scelte di socialisti e
comunisti non appaiono così lontane in apparenza: in modi diversi, i due partiti aderiscono alla distensione tra i blocchi e al dialogo con Mosca, sostenendo al tempo stesso i
principi della libertà di espressione all’Est. Ma la diversità di modi e culture politiche si
rivela decisiva. Mentre i socialisti si attengono a un sostanziale realismo, collegato alla ragione di Stato, riuscendo però a proporsi anche come una forza che difende le ragioni del
dissenso, i comunisti non appaiono in grado di sostenere credibilmente né la distensione
europea né i diritti umani all’Est. Così la questione dei diritti umani diviene una cartina
di tornasole significativa per illuminare l’egemonia socialista nella sinistra francese tra fine
degli anni ’70 e primi anni ’80. Una realtà alquanto distante dalla situazione italiana, per
motivi legati ai diversi contesti nazionali, ma anche perché il cambiamento e la sfida dei
socialisti in Francia si verificano assai prima che in Italia e perché i comunisti francesi, a
differenza di quelli italiani, non possono costruire la propria credibilità sul legame con la
«primavera di Praga», dopo aver sostanzialmente approvato l’invasione sovietica rimangiandosi la loro iniziale disapprovazione. La questione dei diritti umani mette dunque
in luce le ambiguità di entrambi i partiti comunisti, ma si rivela un fattore di declino
immediato soltanto per il Pcf.
Il libro avrebbe probabilmente beneficiato di una tematizzazione a più ampio raggio
circa l’impatto politico e culturale dei diritti umani, che vede tra i suoi laboratori proprio
la Francia degli anni ’70. Samuel Moyn (The Last Utopia. Human Rights in History, 2010)
ha notato come sulla scena francese i diritti umani si affermino a seguito della competizione nella sinistra, piuttosto che tra la sinistra e i suoi rivali, per poi divenire una vera
e propria utopia, un’alternativa efficace e devastante per le sorti declinanti del marxismo
occidentale. Tale contesto resta tra le pieghe dell’analisi svolta dall’a. Ciò nonostante, il
suo lavoro è pregevole, ben documentato e colma una lacuna rilevante, ricostruendo un
tassello importante della storia francese e internazionale dei «lunghi» anni ’70.
Silvio Pons
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Sabina Loriga, La piccola x. Dalla biografia alla storia, Palermo, Sellerio, 213 pp., € 18,00
(ed. or. Paris, 2010)
Chi si attendesse una messa a punto, anche per sondaggi limitati, su modi e tempi
della produzione biografica nella storiografia contemporanea, rimarrebbe deluso. La stessa a. riconosce apertamente che «questo salto nella tradizione non riguarda la biografia in
sé: né il suo metodo, né la sua evoluzione narrativa. E non ha nulla di filologico» (p. 16),
per ribadire poi che «poco a poco, la questione della biografia mi ha portato a pormi una
serie di interrogativi sulle possibilità e sui limiti della conoscenza storica» (p. 184). E in
questo senso il lettore rinviene nell’opera diversi motivi di interesse. C’è una certa eterogeneità nella composizione del campo testuale preso in considerazione – Carlyle, la linea
dello storicismo tedesco, con Dilthey trattato opportunamente a parte, Burckhardt, Tolstoj; con un visibile, e pertinente, filo rosso goethiano -, e si registrano vari slittamenti del
piano analitico. Quel che interessa all’a., più che una precisa definizione delle coordinate
dello spazio biografico, è l’inchiesta sulle modalità, sulle possibilità, sul senso dei processi
di individuazione così come sono stati pensati e proposti dai «giganti» ottocenteschi; è
la varia articolazione del discorso sugli ambiti e sulle capacità di azione e di innovazione
degli uomini – dati gli autori scelti, anche dei grandi uomini, e degli eroi -, all’interno
di quella che viene presentata come una corrente distante «da una visione individualista
dell’individuo – e, quindi, della biografia» (p. 189), legata alla dimensione della coesistenza, e dell’azione reciproca; è, quindi, la revisione di certe irrigidite semplificazioni
novecentesche, determinate dal convergere di ragioni politiche e scientifiche, «a favore o
dell’individuo o del collettivo» (p. 190). Un solidale abbraccio all’a. per la sua polemica
contro «la strana, arrogante, convinzione che il presente storiografico sia preferibile e
migliore – insomma, più scientifico – di quello passato» (p. 16): quando si pensa a certe
discussioni correnti, e poi ripassano sotto gli occhi Droysen e Dilthey... Ci sarebbero,
poi, varie questioni da discutere, e accenno ad alcune. Sul piano concreto, e nell’ambito
larghissimo delle scritture di storia nel secolo XIX, quel che è asserito sulla triplice delegittimazione ottocentesca – politica, filosofica, scientifica – della biografia (pp. 34-39)
andrebbe quanto meno messo alla prova; è forse unilaterale, almeno dal punto di vista
dello stato dell’arte, l’individuazione della microstoria come terreno privilegiato, di fronte
alla crisi dei grandi paradigmi storiografici novecenteschi, di una nuova forma, democratizzata, di pratica biografica – voglio dire, da storico empirico: e Hitler visto da Kershaw,
o il Cavour di Romeo? Condivido l’infastidita reazione dell’a. di fronte al «relativismo
narcisistico» delle «versioni più ridicole della storiografia postmoderna» (p. 200); sarei
meno ottimista sulla tenuta dell’uscita di sicurezza tolstojana.
Mauro Moretti
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Angelina Marcelli, La scuola va in campagna. La Regia Cattedra ambulante di agricoltura
di Cosenza (1907-1935), Roma, Aracne, 157 pp., € 10,00
L’a., che insegna all’Università della Calabria, ha già al suo attivo alcuni lavori
sull’agricoltura della regione, un’area su cui la storiografia ha prodotto risultati assai significativi.
Il volume sollecita a riprendere una questione discussa sin dall’origine delle cattedre
ambulanti nel Mezzogiorno, dove tali istituzioni non nacquero dalla sinergia tra tecnici
ed enti agrari, amministrazioni locali e movimenti politici, ma derivarono dalle leggi
speciali che diedero vita all’intervento straordinario (nel 1904 la legge per la Basilicata,
poi i provvedimenti per la Calabria, la Sardegna, ecc.). Come ricorda Angelina Marcelli,
contro i sostenitori della necessità di interventi esterni che supplissero alla carenza di forze
endogene polemizzarono subito personaggi come Nitti e Fortunato, i quali, per il riscatto
del Mezzogiorno da un lato, lamentavano la modestia e l’estrema gradualità dei risultati
che sarebbero potuti venire dalle cattedre ambulanti di agricoltura, dall’altro denunciavano il rischio che questi organismi creati dall’alto spegnessero le energie locali. In effetti,
dove le cattedre ambulanti sorsero dalla convergenza di molteplici volontà pubbliche e
private i tecnici furono misurati in base alla loro capacità di divulgare nuove tecnologie e
sistemi di coltivazione e di suscitare nuove organizzazioni collettive. Al contrario numerose cattedre create dallo Stato nelle province meridionali per diversi anni non brillarono
per attività e risultati, più a causa della scarsa rispondenza dell’ambiente che non dell’impegno dei tecnici. Un certo maggior attivismo si riscontra dopo la guerra, quando esse
agirono in collaborazione con enti come l’Opera nazionale combattenti e la Federconsorzi
e in collegamento con le politiche agrarie nazionali (mobilitazione agraria, battaglia del
grano, bonifica integrale). Nel caso di Cosenza l’inserimento della Cattedra ambulante
entro più vasti disegni di trasformazione agraria sembrò portare a risultati più tangibili
rispetto al passato, anche se le attività intraprese sembrano scandite più da obblighi esterni che non da esigenze locali (e come noto la «battaglia del grano» indirizzava gli sforzi
in direzione diametralmente opposta rispetto a quanto propugnato da molti agronomi
meridionali). Negli anni ’30, infine, in tutta l’Italia si consumò la definitiva burocratizzazione dell’istituzione, trasformata in organismo periferico dell’amministrazione centrale,
senza più alcuna autonomia.
Il volume ricostruisce sinteticamente i molti ambiti d’intervento della Cattedra ambulante di Cosenza, compresa la promozione della cooperazione e dell’innovazione, come
nel caso della razza bovina calabrese. Ma tale vasto impegno – e forse avrebbero meritato
una maggior attenzione le figure dei tecnici che ne furono protagonisti – fu inficiato dal
persistere di alcuni vincoli di fondo, come la complessità dei problemi di un territorio
segnato da fragilità idrogeologica e sismicità; e il difficile dialogo con il mondo contadino,
frutto dell’elevato livello di analfabetismo, della polverizzazione fondiaria, dell’inadeguatezza dei contratti agrari.
Gianpiero Fumi
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Laura Marchesano, Sposarsi altrove. Migrazioni matrimoniali in Italia e crisi della società
contadina (1950-1975), Bologna, Clueb, 183 pp., € 17,00
In un panorama di studi in cui ormai prevale la storia politica, questa è una delle
rare opere recenti che si propongano di scavare a fondo nell’esperienza degli individui per
cercare di indagare i meccanismi alla base di scelte e strategie personali e collettive. Lo
fa nel quadro di uno dei periodi più significativi della storia del ’900: gli anni del lungo
miracolo economico italiano. Di questo periodo, per lo più studiato puntando la lente
sugli ambienti operai e sui mutamenti avvenuti nelle grandi aree urbane, l’a. propone
una prospettiva inconsueta, mettendo in luce i mutamenti avvenuti in ambiente rurale
all’ombra del progresso industriale e inserendosi idealmente sulla via aperta negli anni ’70
da Nuto Revelli, autore di alcune celebri indagini pioneristiche dedicate alla crisi della
società contadina in provincia di Cuneo. Al centro del volume troviamo proprio uno dei
temi toccati ma non approfonditi da Revelli: l’emigrazione per matrimonio delle donne
meridionali verso le colline dell’Albese; donne che, più delle giovani locali, erano disposte a scegliere la vita contadina, con l’isolamento relazionale che essa comportava nello
specifico contesto piemontese. Da un simile tipo di vita, negli anni del boom industriale,
cercavano di fuggire uomini e soprattutto donne nati nelle campagne. In questo quadro
s’incontrano due esigenze che sono il risultato del processo di industrializzazione italiano
e delle grandi migrazioni interne ad esso connesse: da un lato i maschi piemontesi rimasti
legati alla terra faticano a trovare delle spose, dall’altro giovani donne meridionali vedono
i propri paesi svuotarsi di potenziali partner a causa dell’esodo, soprattutto maschile, verso
le aree urbane del Nord. Per gli uni il Meridione si rivela un bacino di donne disponibili
a sposare un contadino, per le altre le campagne delle Langhe rappresentano l’occasione,
oltre che di uscire dal nubilato, di tentare una mobilità sociale attraverso la migrazione.
Tra i molti nodi cruciali affrontati nel volume, che rimandano a temi di carattere generale,
interessante è lo sguardo sulle implicazioni relazionali della mobilità geografica femminile
in ambiante rurale. Se per le tante donne immigrate nel periodo a seguito dei mariti è
difficile ricostruire reti di relazioni proprie nei nuovi contesti di arrivo, per queste donne,
che vanno a vivere in cascine isolate e lontane dai centri abitati, tale condizione risulta
esasperata: circondate esclusivamente dalla rete parentale del marito, il quale è a sua volta
un semi-sconosciuto, hanno pochissime possibilità di intrecciare nuovi rapporti. Proprio
il bisogno di uscire da un opprimente isolamento spinge alcune ad attivare catene migratorie femminili, facendosi mediatrici matrimoniali tra giovani compaesane rimaste al Sud
e scapoli langaroli che faticano a trovar moglie. Un proficuo approccio interdisciplinare e
l’analisi delle strategie della società contadina per fronteggiare un processo che sta travolgendo i vecchi assetti rappresentano ulteriori meriti del volume.
Anna Badino
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Michele Marchi, Alla ricerca del cattolicesimo politico. Politica e religione in Francia da
Pétain a de Gaulle, Soveria Mannelli, Rubbettino, 421 pp., € 24,00
Il libro di Michele Marchi, ricercatore post-doc presso l’Università di Bologna, è il
frutto di una lunga frequentazione con la storia transalpina. Il sottotitolo corre forse il
rischio di disorientare il lettore, giacché il primo capitolo – una sessantina di pagine – è
un’accurata disamina del rapporto tra cattolici e politica in Francia dalla fine dell’800 fino
allo scoppio della seconda guerra mondiale. I quattro restanti capitoli sono poi dedicati
allo studio della Francia di Vichy, della Quarta Repubblica e della Quinta fino al 1962.
Divisione cronologica a parte, il libro ha il merito della chiarezza espositiva e della lucidità
analitica, tanto più necessaria per un tema come il «cattolicesimo politico», in cui s’intrecciano storia delle idee politiche, delle istituzioni, della Chiesa, della religione.
L’a. mostra i plurimi e difficoltosi tentativi di creare in Francia un programma politico d’impronta cattolica capace di conciliarsi con la nazione repubblicana e con la sua
ostilità anticonfessionale. Se prima della seconda guerra mondiale questi tentativi miravano, in modo più o meno dichiarato, a proporre una via per la riconquista cattolica della
società, nel secondo dopoguerra si afferma un’idea di partecipazione che punta innanzitutto all’impegno politico-civile e poi all’affermazione dei valori cattolici all’interno di
questo quadro militante. A partire dalla Resistenza, l’orientamento politico dei cattolici
francesi prende a diversificarsi in modo netto, coprendo di fatto l’intero spettro di sensibilità politiche, da destra a sinistra. Con le guerre coloniali, e soprattutto quella in Algeria,
il fenomeno si accentua e mette in crisi la tenuta simbolica e rappresentativa del Mrp
(Mouvement républicain populaire) – partito omologo della Dc. Sarà solo con l’avvento
di de Gaulle al potere che cattolicesimo e nazione riusciranno a convivere in una proposta
pluralista e laica.
L’a. concilia narrazione e riflessione, dialogando proficuamente con una ricca produzione storiografica, essenzialmente francese. Con un obiettivo primario, che è poi il
fulcro metodologico del libro: superare la dicotomia tra ricerca storico-religiosa e storicopolitica che caratterizza l’approccio transalpino, «dominato dai concetti di laicità e di
separazione» (p. 403). Dovendo dar conto di un panorama storico complesso e di una
tradizione storiografica sedimentata, il lavoro di Marchi si presenta più come una sintesi
ragionata che come un’indagine di prima mano. Certo, lo scavo archivistico c’è e si vede
– per es. i fondi di Emmanuel Suhard e Michel Debré –, come pure ampio è l’uso delle
fonti a stampa. Ma mi pare che il merito maggiore del libro sia di ripensare le cause della
debolezza del cattolicesimo politico francese evitando di assumerla come un assioma e
inserendo implicitamente questo case study in un’ottica comparata internazionale, dove il
termine di paragone è la democrazia cristiana «realizzata».
Roberto Colozza
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Amoreno Martellini, All’ombra delle altrui rivoluzioni. Parole e icone del Sessantotto, Milano, Bruno Mondadori, 147 pp., € 14,00
Questo piccolo volume è un’originale e leggera riflessione sull’idea di rivoluzione.
Al centro dell’analisi sono i miti, le parole e le immagini che definirono, negli anni della
contestazione italiana, un’idea spesso nebulosa di cambiamento, alimentando l’attesa –
nutrita di simboli e di slogans – di un radicale sovvertimento di forme sociali e culturali
rappresentate, o percepite, come oppressive e asfittiche. La prosa del libro, agevole e distesa, restituisce con chiarezza la dimensione del potere mobilitante e performativo del
linguaggio. Un potere documentato da un’ampia varietà di fonti e di riscontri testuali
(giornali, periodici, volantini, canzoni, testi letterari, discorsi e documenti politici) che
testimoniano, nell’imminenza del ’68, la presenza di una diffusa convinzione che una stagione rivoluzionaria fosse ormai alle porte. Sullo sfondo della trasformazione degli assetti
politici ed economici globali – che investiva, in forme e misure diverse, l’Occidente capitalistico, i paesi dell’America latina, l’Africa post-coloniale e gli estremi lembi del continente asiatico – si aprì, nel discorso pubblico di fine anni ’60, un’insolita contesa intorno
al termine rivoluzione. Nuova e vecchia sinistra, cattolici e neofascisti tesero ad accreditarsi, in risposta a una crescente richiesta di cambiamento e omologazione culturale, come
soggetti innovatori e intrinsecamente rivoluzionari. Con lo sguardo rivolto ai conflitti
che attraversavano i paesi del Terzo Mondo, un’ampia fetta della politica e della cultura
italiane si interrogava, confusamente e disinvoltamente, sulla natura e la necessità della
rivoluzione. La rivoluzione – scrive l’a. a proposito del successo editoriale e commerciale
del mito guevarista – divenne essa stessa «un oggetto di consumo» (p. 69). L’assunzione,
come dato politico e sociale ineludibile, del conflitto fra libertà e autoritarismo implicava,
per movimenti e istituzioni, il problema etico e politico dell’uso della violenza. Ed è intorno a questo nodo, la cui emersione si lega a una situazione, nazionale e internazionale,
di grande instabilità, che si organizza l’analisi dell’a. Due sono gli elementi di maggiore
interesse del libro: la valorizzazione del ruolo svolto dai cattolici nei movimenti di protesta
e nel dibattito sulla legittimità della violenza rivoluzionaria come leva del cambiamento
politico e sociale (si vedano in particolare le pagine dedicate al gruppo Maritain, al pacifismo di Capitini, al terzomondismo dei teologi della liberazione e di padre Balducci); la
revisione – in linea con le suggestioni provenienti dal dibattito più recente sui prodromi
della lotta armata – di un cliché, politico e storiografico, che individua nella strage di
piazza Fontana il punto di rottura oltre il quale si determinò l’eclissi definitiva dell’utopia
di una rivoluzione non violenta. Un’accurata analisi del dibattito pubblico degli anni ’60
sembra invece dimostrare che il richiamo all’uso della violenza come strumento legittimo
di confronto politico e sociale era apertamente evocato dagli attori politici e istituzionali
ben prima del trauma collettivo seguito alla strage del ’69.
Barbara Armani
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Giuseppe Marzi, Il viale delle rose. Storie di ebrei rifugiati nella Repubblica di San Marino
durante la seconda guerra mondiale, Firenze, Giuntina, 142 pp., € 14,00
Scritto in forma a tratti romanzata, il volume, ricchissimo di fotografie, ripercorre
con agilità le vicende degli ebrei che trovarono rifugio a San Marino, non facendo mancare rapidi excursus sulla storia della piccola Repubblica nel conflitto, utili a chi non è
avvezzo alle vicende storiche locali. L’a. è partito dalle incongruenze legate ai flussi demografici e migratori durante e dopo la guerra e ha ricostruito la complessa storia degli ebrei
ospitati da San Marino: nell’introduzione precisa con chiarezza le fonti che sono solo in
parte archivistiche, mentre dominano quelle orali, legate alla memoria che i protagonisti
dell’epoca hanno conservato dei fatti. È quindi apprezzabile il tentativo di ricostruzione che è stato condotto incrociando numerose testimonianze, anche di piccola entità,
per avvalorare o correggere i ricordi. Anche a San Marino vigeva un regime fascista, che
tuttavia tentò di preservare il Titano dalle conseguenze della guerra, soprattutto tenendo
conto del fatto che il suo territorio si trovava a ridosso di quella linea Gotica, che per otto
mesi fece da fronte tra Italia occupata e Italia liberata. Il governo sammarinese promulgò
una legislazione razziale nel 1942, che aveva l’obiettivo di dimostrare l’amicizia all’Italia
e alla Germania ed evitare, soprattutto dopo l’8 settembre, la temuta invasione tedesca.
Proprio la natura strumentale delle leggi razziali sammarinesi impedì che vi fosse una reale
persecuzione e così la Repubblica poté accogliere diversi ebrei in fuga dall’Italia di Salò.
Il volume ripercorre le difficoltà di una situazione che, pur destando sospetto tra i fascisti
italiani, doveva comunque essere vissuta in clandestinità per evitare ritorsioni militari.
Vengono così raccolte le storie di quegli ebrei che vissero nascosti, con identità fasulle e
con abili messinscene: chi ha familiarità con la storia e le storie degli ebrei italiani in guerra, incontrerà alcune strade che hanno portato, anche solo per un tratto della loro vita,
alcuni di loro a San Marino: tra questi vi fu Camillo Castiglioni, il banchiere naturalizzato
italiano che per molti anni era stato l’uomo più ricco d’Europa, e che sul Titano visse
travestito da frate; vi furono anche membri della famiglia di Angelo Donati, il «papa degli
ebrei» che durante la guerra ne salvò migliaia in Francia. E così numerose famiglie, della
cui ebraicità non si è potuto avere sempre conferma, a causa della diffusa discrezione loro
e di coloro che le ospitarono. L’a. non può giungere a una cifra certa sul numero di ebrei
salvati: di origine certamente ebraica ne ha contati 62 nel centro storico, ma precisa che il
numero potrebbe essere esponenzialmente maggiore. Sappiamo comunque che, ai fini di
un giudizio morale, poco conta il numero preciso di «salvati», dato che altrove anche solo
poche unità esposero intere comunità a sanguinose ritorsioni punitive. Bisogna dunque
confidare che questo lavoro possa offrire spunti a ulteriori ricerche per chiarire sempre più
i contorni di una storia ammirevole.
Enrico Palumbo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Massimiliano Marzillo, L’opposizione bloccata. PCI e centro-sinistra (1960-1968), Soveria
Mannelli, Rubbettino, 284 pp., € 16,00
Sull’esperienza del centro-sinistra, negli ultimi anni, la storiografia ha mostrato un
rinnovato interesse. Non a caso, trattandosi di uno dei pochi esperimenti riformatori nella
storia repubblicana, che ha potuto concretamente mettersi alla prova. In questo quadro,
accanto all’analisi dei limiti oggettivi entro cui il tentativo dovette muoversi, di grande
interesse è l’esame della condotta delle diverse forze politiche e sociali. Riguardo al Pci,
è noto che parte della storiografia e della pubblicistica lo ritiene corresponsabile del fallimento del centro-sinistra a causa dell’opposizione – sia pure «di tipo particolare» – portata avanti nei suoi confronti. In realtà sono ormai documentati il ruolo di «opposizione
costruttiva» avuto dal Pci in quegli anni e l’influenza che le sue proposte, accompagnate
da una costante pressione di massa, finirono per avere su parte della produzione legislativa
della maggioranza, oltre che nell’approvazione di misure votate assieme da governo e opposizione, quali la legge sulla giusta causa o quella istitutiva delle regioni. L’altro elemento
del rapporto tra Pci e centro-sinistra sta nella relativa duttilità dell’atteggiamento comunista, segnato nelle fasi iniziali da una sorta di «benevola attesa», che andò trasformandosi
in delusione e critica man mano che la carica riformatrice andava esaurendosi. Su questo
aspetto, in particolare, si sofferma la documentata ricerca di Marzillo, che dà conto dei
mutamenti di linea (e degli ondeggiamenti) del Pci su questo aspetto centrale della vicenda politica di quegli anni. Ondeggiamenti che, peraltro, si ritrovano anche in uomini e
settori dello stesso centro-sinistra, in rapporto al graduale modificarsi della situazione. Il
lavoro di Marzillo conferma che in Togliatti, all’orientamento iniziale («attacchiamoci al
loro programma e chiamiamoli ai fatti», p. 61), seguì presto una lettura del centro-sinistra
come «tentativo interclassista di dare soluzione alle esigenze dei monopoli e alla pressione
delle masse» (p. 82) che, tuttavia, non impedì al Pci di continuare a confrontarsi con
l’iniziativa legislativa della maggioranza. L’idea di «intervenire con proposte costruttive
su tutti i problemi» (p. 106) rimase centrale nella linea togliattiana, sebbene, per dirla
con le sue parole, per il Pci fosse difficile appoggiare misure che il centro-sinistra «promette di fare per combattere contro di noi» (p. 131). Negli anni della segreteria Longo
sarà soprattutto l’ala ingraiana a sottolineare la lettura del centro-sinistra come progetto
«neocapitalistico», respingendo l’idea del suo «fallimento» rispetto agli iniziali propositi
riformatori, linea sostenuta dal resto del gruppo dirigente. Il dibattito che si sviluppò fu
ricco e articolato e l’a. lo ricostruisce con cura. Maggiore attenzione avrebbe forse meritato il tema del rapporto tra iniziativa parlamentare del Pci e riforme del centro-sinistra e,
dunque, proprio dell’incidenza di quell’opposizione costruttiva che i comunisti intesero
fare. Il volume, comunque, costituisce un valido contributo all’analisi del dibattito interno al Pci in una fase centrale della storia repubblicana.
Alexander Höbel
i libri del 2012 / 2 - monografie
259
Tristano Matta, Il Lager di San Sabba. Dall’occupazione nazista al processo di Trieste, Trieste, Beit, 63 pp., € 3,80
Con questo volumetto Matta vuole far giungere a un circuito di lettori non specialisti le vicende legate alla Risiera di S. Sabba, il Polizeihaftlager (campo di detenzione
di polizia) che funzionò sia come lager di transito verso i campi di concentramento e di
sterminio nazisti, sia quale luogo di punizione degli oppositori politici e dei partigiani che
sin dal 1941 avevano minacciato le vie di transito fasciste e naziste. Suddiviso in due parti
– di cui la prima incentrata sulla contestualizzazione delle vicende snodatesi nell’Adriatisches Künstenland dopo l’8 settembre 1943 e la seconda sulle ragioni del ritardo della celebrazione del processo, svoltasi solo nel dopoguerra, nel 1976, contro i responsabili delle
violenze perpetrate nella Risiera – il testo è percorso dalla seguente, costante domanda:
«Perché la Risiera a Trieste? Perché un campo della morte in un’area urbana»? (p. 31). Perché a differenza che a Bolzano e Fossoli vi venne costruito un forno crematorio? Sebbene
non si sia ancora venuti a capo del numero puntuale delle vite colà mietute (la stima delle
vittime oscilla tra le 2.000 e le 5.000), l’efferatezza delle violenze compiute dai nazisti nel
Polizeihaftlager tiene desta la questione se il campo non sia stato un vero e proprio KL
(Konzentrationslager). Matta prova a rispondere a tali domande enucleando svariate ragioni: dislocata al crocevia tra l’Italia esterna all’AK, il Reich e i Balcani, l’Adriatisches Künstenland rappresentava un’area geografica di rilievo, sia sul piano militare, per la necessità
di tenere sgombre le retrovie dagli oppositori, sia per la sua vecchia appartenenza all’Impero asburgico e per gli appetiti che quindi risvegliava nella componente austriaca della
leadership nazista. Colà vigeva, inoltre, un forte antislavismo e antiebraismo e a capo della
SS e della polizia locali c’era Odilo Globočnik, «giunto a Trieste il 23 settembre 1943» che
aveva fatto trasferire al suo seguito buona parte dei suoi collaboratori di Lublino, tra cui
c’era anche parte del contingente dell’Aktion Reinhard, «gli uomini che avevano gestito lo
sterminio degli ebrei polacchi» a Bełzec, Sobibór, Treblinka (p. 13), ora incardinati nella
Sezione R (Abteilung R, cioè Reinhard), con il compito di spogliare gli ebrei e di gestire
le deportazioni Oltralpe, oltre che di distruggere ogni opposizione politica. La continuità
tra gli uomini dell’Abteilung R e dell’Aktion Reinhard costituisce uno dei motivi che renderebbero plausibile, a parere dell’a., l’assimilabilità della violenza perpetrata dai nazisti
nell’Est dell’Europa con quella da loro esercitata nel Litorale adriatico.
Nella seconda parte del testo, al pari dell’altra convincente, Matta richiama le ragioni
del ritardo e le complicazioni incorse nel processo alla Risiera: nell’immediato dopoguerra, nella Trieste lacerata dai nazionalismi e dall’incertezza del futuro le priorità erano altre.
Ciò nonostante e per dirla con Wiesenthal la celebrazione del processo non fu inutile:
«Chiunque pensasse ad un nuovo fascismo [doveva] sapere che, alla fine, sarà sempre la
giustizia a vincere. Anche se i mulini della giustizia macinano lentamente» (p. 52).
Giovanna D’Amico
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
260
i libri del 2012 / 2 - monografie
Paolo Mattera, Rinaldo Rigola. Una biografia politica, Roma, Ediesse, 140 pp., € 10,00
Dopo lo studio di Carlo Cartiglia (Feltrinelli, 1976), la figura di Rinaldo Rigola non
era stata, sostanzialmente, più oggetto di interesse da parte degli storici (se non, incidentalmente, per quanto riguarda il dibattito sul corporativismo). Bene ha fatto Paolo Mattera a tratteggiarne un agile, ma esauriente profilo biografico (grazie allo studio delle sue
carte e di altri importanti sindacalisti, come Lodovico Calda ed Ettore Reina), che ha il
merito di mettere a fuoco la massa di nodi storiografici che riguardano questa importante
figura di organizzatore sindacale e di politico. Una biografia «lunga, intensa e tormentata»
(p. 11), ma soprattutto controversa, per il suo ruolo di fondatore della Cgdl (di cui sarà
segretario generale fino al settembre 1918, quando lascerà l’incarico a Lodovico D’Aragona) prima e per l’indubbio favore con cui, durante il fascismo, guardò al corporativismo,
attraverso l’Associazione nazionale di studio per i problemi del lavoro e la rivista omonima. Mattera pone l’accento sul pragmatismo di Rigola, sulla sua attenzione ai risultati e
all’organizzazione, decisiva anche, nella prima fase della sua carriera, per l’approdo alle
posizioni riformiste, di «gestione» del conflitto di classe attraverso le riforme legislative,
la contrattazione collettiva, la rappresentanza degli interessi, privilegiando il ruolo delle
federazioni di mestiere rispetto a quello delle Camere del lavoro. In fondo, questa formazione, figlia della cultura produttivistica dell’industrialismo, era anche alla base, secondo
l’a., dell’apertura di credito nei confronti del fascismo, sopravvalutando le concessioni del
regime e fraintendendo clamorosamente le intenzioni dello stesso Mussolini, nell’errata
convinzione che le leggi sindacali del fascismo e la Carta del lavoro mostrassero concreti
punti di contatto con le posizioni tipiche del sindacalismo riformista. Persino la libertà
politica poteva essere sacrificata per Rigola, in questa fase (siamo alla fine degli anni ’20),
di fronte all’istituzione di organismi formati da tecnici che, in nome della contrattazione
tra le parti, garantissero l’efficienza del sistema produttivo, la tutela dei lavoratori e il
passaggio a un non meglio identificato «Stato operaio». Una presa di posizione destinata,
inevitabilmente, a essere duramente criticata dai dirigenti sindacali costretti all’esilio, primo tra tutti Bruno Buozzi, ma, soprattutto, a essere smentita dai fatti (il che non impedì
a Rigola di appoggiare la guerra di Etiopia). Nel 1953, in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno e pochi giorni prima della sua morte, il fondatore della Cgdl veniva
comunque festeggiato, alla presenza di Di Vittorio: era il riconoscimento a chi, con molti
errori, ma sempre in buona fede, aveva dato il proprio contributo al miglioramento delle
condizioni dei lavoratori.
Giovanni Scirocco
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Elena Mazzini, L’antiebraismo cattolico dopo la Shoah. Tradizioni e culture nell’Italia del
secondo dopoguerra (1945-1974), Roma, Viella, 200 pp., € 25,00
Il libro è per molti tratti pionieristico, perché intende andare oltre la barriera del
1945 e verificare la persistenza di pregiudizi e stereotipi antiebraici o persino anche antisemiti nel mondo cattolico italiano. L’a. ha considerato diverse fonti: dalle voci della
Enciclopedia cattolica ad alcuni resoconti di pellegrinaggi in Terra Santa, da talune famose
riviste dell’area cattolica ai commenti fatti in occasione della storica visita di Paolo VI
nel 1964. Non manca l’attenzione ai commenti di parte ebraica, colti anche in tal caso
attraverso lo spoglio delle più note riviste.
Le conclusioni cui il libro giunge sono forzatamente generiche e interlocutorie e non
soltanto per la complessità dell’argomento nel quale si fondono preoccupazioni teologiche e religiose, oltre che politiche e diplomatiche. Il fatto è che le fonti scelte sono troppo
eterogenee tra loro e, al tempo stesso, limitate. Riesce infatti difficile immaginare di poter
trarre conclusioni soddisfacenti sulla base, per esempio, di cinque diari di pellegrinaggio
redatti in un ampio arco di tempo da preti dei quali si ignora la formazione e l’orientamento. Così come non è agevole mettere insieme commenti sulla dichiarazione conciliare
Nostra Aetate tratti da solo cinque riviste: come poi pensare che un paio di articoli possa
far comprendere l’orientamento della rivista in questione? Va poi aggiunto che occorre
fare una ponderazione delle fonti: è probabile che l’influsso di un principe della Rai come
padre Mariano (fuggevolmente citato a p. 155) sia stato molto più forte rispetto a quello
di altri commentatori.
Sarebbe dunque stato opportuno ridurre lo spettro temporale e ampliare al contrario
il panorama delle fonti, inserendo magari i commenti di giornali come «L’Avvenire d’Italia» al tempo del Vaticano II o di riviste come «Coscienza», per dirne solo una, attente in
modo particolare alle ragioni di Israele nella guerra del 1967 (la rivista pubblicò tra l’altro
l’appello fervente di un gruppo di docenti della Cattolica compattamente favorevoli alla
causa israeliana). Cosa, questa, che sollecita a considerare il passaggio del 1967 con una
visuale più ampia rispetto alle cautele della S. Sede. La persistenza degli stereotipi può
invece essere ben colta sulla base di una varia pubblicistica (penso alla Questione ebraica di
Giustiniani Bandini, apparsa nel 1953). Da ultimo si osserva che va superato lo schema
di ricerca che privilegia alcune grandi riviste (la solita «Civiltà Cattolica» anzitutto) e trascura quegli strumenti che più hanno fatto e fanno «opinione» tra i cattolici: i settimanali
diocesani o la stessa «Famiglia Cristiana», oltre che la stampa di Azione Cattolica (almeno
fino a tutti gli anni ’60). Queste osservazioni vogliono essere uno stimolo all’a. – cui
non mancano le qualità – affinché affronti in futuro con più pazienza questi importanti
argomenti, procedendo magari per successivi approfondimenti parziali. Il materiale non
manca e il risultato potrebbe essere ben più convincente e solido.
Giorgio Vecchio
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Lorenzo Mechi, L’Organizzazione Internazionale del Lavoro e la ricostruzione europea. Le
basi sociali dell’integrazione economica (1931-1957), Roma, Ediesse, 219 pp., € 13,00
Il volume si colloca in un filone storiografico che in questi ultimi anni ha cercato di
rompere la tradizionale dicotomia interpretativa internazionalismo/regionalismo, valorizzando piuttosto interazioni e complementarità tra le varie dimensioni dell’istituzionalismo internazionale del secondo dopoguerra. Ciò ha consentito, tra l’altro, di cominciare
a inquadrare l’integrazione europea in categorie storiografiche più ampie e problematiche
di quelle tradizionali. In questo volume Mechi affronta una di queste interazioni, quella
tra l’Organizzazione internazionale del lavoro e le prime istituzioni del regionalismo europeo, l’Oece e la Ceca (ma anche la Commissione economica per l’Europa e il Consiglio
d’Europa), fino alla nascita della Cee nel 1957. Il volume lega così l’origine «tra le due
guerre» della regolazione internazionale della questione sociale con i suoi sviluppi postbellici, nel nuovo quadro della guerra fredda, della crescita economica e del progressivo
smantellamento del protezionismo intra-europeo, in un lungo «filo rosso» di ricerca di
stabilizzazione sociale, che dai timori del contagio sovietico a Versailles arriva fino al «contenimento» del comunismo.
Il libro è diviso in tre capitoli, che procedono per ordine cronologico. Il primo
riguarda l’Oil nel periodo tra anni ’30 e primi anni ’40 e l’avvio di una progettualità
riguardo i temi sociali della ricostruzione, che mostra l’esaurirsi dell’internazionalismo rooseveltiano già sul finire del 1943. Il secondo capitolo si sofferma su come quella progettualità si sia incontrata e ridefinita con l’avvio della guerra fredda. Il terzo indaga il ruolo
dell’Oil, l’unica organizzazione «ginevrina» che sopravvive alla guerra, nella ricostruzione
economica europea. I primi due capitoli ripercorrono storiografia già nota, il terzo è certamente quello più originale: tratta ad esempio dell’opera di consulenza che l’Oil svolse
nella costruzione postbellica dei sistemi di sicurezza sociale, per la ripresa dell’emigrazione
intraeuropea e sulla questione della libera circolazione dei lavoratori, fino al rapporto
Ohlin del 1956 sugli effetti sociali dell’integrazione, pubblicato mentre a Bruxelles si
stavano negoziando i trattati di Roma.
Il volume, impostato sul modello della storiografia politico-diplomatica, è centrato
sulle discussioni ai vertici delle istituzioni. Avrebbe beneficiato forse di un respiro narrativo più appassionato e problematico su alcuni temi, qui evidentemente per scelta dell’a.
appena accennati, come ad esempio quello dell’expertise tecnocratica (ma molto politica,
se ogni nomina di funzionari veniva lungamente discussa ed era anche oggetto di aspri
scontri diplomatici). È anche nell’esperienza prosopografica, intellettuale e umana, e nel
ruolo controverso di quella diplomatie du social, costituita da uomini e donne che andarono a formare la nuova burocrazia internazionale tra le due guerre, che affondano le
radici di un’idea di Stato sociale e del suo rapporto con il sistema internazionale che sarà
il fondamento dell’istituzionalismo postbellico.
Barbara Curli
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Dino Mengozzi, Corpi posseduti. Martiri ed eroi dal Risorgimento a Pinocchio, Manduria,
Lacaita, 294 pp., € 20,00
Studioso attento alla storia del corpo, Dino Mengozzi torna con questo volume sulla
centralità della fisicità nell’800 italiano. E lo fa raccogliendo testi apparsi in altre sedi con
saggi frutto di nuove ricerche, ma sempre con l’attenzione e la sensibilità storica che il
tema ovviamente merita. Si tratta infatti di una storia politico-sociale del corpo di lungo
periodo, segnata da un lato dal corpo «postumo» de Le ultime lettere di Jacopo Ortis e
dall’altro dalla fisicità pedagogica di Pinocchio e di Cuore. Un lungo viaggio insomma in
una storia della corporeità che dapprima disincarnata si fa sempre più visibile e ostentata.
Una corporeità cioè «posseduta» dall’ideologia della patria, che si sottrae via via sempre
più intensamente alla dimensione privata per offrirsi invece ai contemporanei e ai posteri
nella sua mera fisicità come testimonianza, esempio, promessa politica. Sulla base di una
attenta analisi dei testi dell’epoca – da Atto Vannucci fino all’autobiografia fisica di Silvio
Pellico – l’a. ci conduce in un viaggio nel Risorgimento italiano non del tutto inedito
ma interessante perché punteggiato da martirologi, reliquie, trofei, insomma intriso di
una pedagogia nazionale che sembra quasi abbandonare la parola per affidarsi alle prove
corporee, ai segni fisici del coraggio e della dedizione alla causa nazionale. Anche in questa storia del patriottismo italiano, vergato col sangue e marchiato nella carne, che molto
deve ai canoni del martirologio cristiano, il 1848 non poteva che segnare un punto di
svolta. Non solo perché va imponendosi sempre più il paradigma dell’eroismo tra settori
via via più ampi degli italiani, ma perché da lì in poi nel Pantheon di carta e di carne si
sarebbe imposta, dominandolo, la figura a cui Mengozzi dedica le pagine più pregnanti, cioè Giuseppe Garibaldi. Sulla scorta degli studi precedenti, l’a. torna infatti su due
aspetti centrali dell’eroe di Caprera: il primo è l’uso consapevole del suo corpo come testo
e testimonianza del coraggio e della virilità nazionale con il conseguente abbandono di
un certo dolorismo martirizzante del paradigma del corpo politico di inizio secolo. Una
«rivelazione nella carne» che si conserverà nel tempo con le sacre reliquie dell’eroe ma che
soprattutto si trasferiva – ed è il secondo aspetto dell’analisi dell’a. – su una platea più
ampia di eroi con la «invenzione» dei Mille, ritratti in un celebre album fotografico come
uomini senza divisa ma pur sempre campioni di una nuova virilità patriottica. Posseduto
e animato da un’ideologia, esiste ormai un corpo degli italiani che con il raggiungimento
dell’Unità nazionale incomincia a scoprire anche una dimensione privata (attraverso lo
sport, le attività all’aria aperta, ecc.) che pur tuttavia rimarrà ancora per molto tempo
animata dalla sacralità laica del Risorgimento italiano. Idealmente i piccoli protagonisti
di Cuore e ancora di più il «pezzo di legno» di Collodi costituiscono nelle ultime pagine di
Mengozzi l’epilogo popolare di un lungo processo di metamorfosi politica e di genesi di
una pedagogia nazionale costruita sulla carne dei suoi martiri e dei suoi eroi.
Barbara Bracco
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Daniele Menozzi, Chiesa e diritti umani. Legge naturale e modernità politica dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni, Bologna, il Mulino, 277 pp., € 22,00
Da molti anni Daniele Menozzi sviluppa con coerenza la ricerca sul rapporto tra
Chiesa cattolica e modernità: dal volume del 1993 sul confronto con la secolarizzazione,
a quello del 2001 sulla restaurazione cristiana della società e il culto del Sacro Cuore, a
quello del 2008 sull’atteggiamento verso la guerra moderna. Essi non solo seguono lo
stesso filo, ma presentano un’intelaiatura comune: nella convinzione che analisi troppo
limitate cronologicamente non permettano di cogliere i problemi di fondo, sono costruiti
su un arco di lungo periodo e sono centrati sull’analisi della linea del magistero. Quest’ultimo volume conferma il valore di questa impostazione. Il tema è quello, per molti versi
scottante, dei diritti umani. Su di esso si alternano visioni esaltanti il ruolo della Chiesa
cattolica e denunce della tendenza della stessa Chiesa a impedire un loro pieno godimento
con lo strumento di un’oggettiva nozione di «legge naturale». Secondo l’a., solo una «corretta prospettiva storica» (p. 8) può aiutare a capire e a evitare sia illusioni che apologie.
Il primo dato dell’analisi è che alla progressiva conquista moderna dei diritti umani «si è
arrivati nonostante una secolare opposizione ecclesiastica e la condanna e l’emarginazione
delle poche voci che proponevano una diversa prospettiva» (p. 264). Il racconto di Menozzi comincia con la dichiarazione francese del 1789 (quelle americane non videro alcuna presa di posizione del magistero). E qui la condanna ci fu (p. 30), anche se la Chiesa
gallicana non si era mostrata contraria (pp. 18 e 22) e anche se le prime dichiarazioni pubbliche di Pio VI non erano state completamente ostili (p. 28). Da allora, nonostante gli
sforzi del cattolicesimo liberale e nonostante il tentativo romano di coniugare «la rigidità
dottrinale» con la «duttilità politica» (p. 43), l’affermarsi della linea intransigente avrebbe
visto una lunga lotta contraria all’affermazione dei diritti dell’uomo. Solo con l’aggiornamento del pontificato di Giovanni XXIII e con l’elaborazione del Concilio Vaticano II, la
Chiesa giunse «a sostenere, nonostante la persistenza di qualche riserva, la promozione dei
diritti umani così come erano stati sanciti dal processo storico dell’Occidente» (p. 265).
Tuttavia, già nel corso del pontificato di Paolo VI, e poi sempre più con Giovanni Paolo
II e Benedetto XVI, una linea diversa, che ha dilatato il richiamo della legge naturale ad
ambiti sempre più vasti, fino a presentarlo «come il criterio che consente la determinazione della tavola completa degli autentici diritti umani» (p. 265), si è progressivamente
affacciata e ha preso rilievo. Il lavoro di Menozzi mette in luce una capacità non comune
di scavo nei testi e di analisi nel processo della loro produzione, ricavandone il massimo
delle indicazioni possibili quanto a implicazioni, retroterra, eredità, valenze presenti e
future. L’importante conclusione dell’attenta e ricchissima ricostruzione fornita non è
così quella di ridimensionare la novità della svolta giovannea e conciliare, ma di metterne
in luce «la debolezza, l’insufficienza, l’inadeguatezza» nel «dialogo instaurato […] con la
modernità» (p. 266).
Renato Moro
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Simona Merlo, Fra trono e altare. La formazione delle élites valdostane (1861-1922), Soveria Mannelli, Rubbettino, 302 pp., € 18,00
Con questo volume l’a. offre un importante contributo al consolidato filone di studi
sul notabilato che nell’ultimo decennio è ritornato a occupare le agende degli storici. Il
lavoro, che si avvale di documentazioni reperite in più archivi locali e nazionali e che
predilige sul piano metodologico l’opzione della spazialità territoriale, rappresenta un
ulteriore tassello per leggere i molti e diversificati passaggi che regolano e accompagnano
il processo di formazione e selezione delle élites nell’età liberale, dall’Unità all’avvento
del fascismo. Il contesto è quello della Valle d’Aosta, una regione-faglia che presenta interessanti dinamiche relazionali (sul piano geografico, economico, sociale e culturale) in
quanto posta al crocevia tra comunità montana, nazione italiana, Europa.
Centro della narrazione – come richiamato in più occasioni – è il tema della riscoperta identitaria regionale, che conosce rinnovato vigore proprio con l’Unità, nel quadro
del processo di nazionalizzazione avviato dalla classe dirigente italiana. Aspetto significativo e privilegiato nella ricerca è il ruolo del clero e delle istituzioni ecclesiastiche che,
attraverso l’opera di alcune personalità di spicco (con particolare riferimento alla lunga
esperienza del vescovo J.A. Duc sul versante del conservatorismo e a quella dell’abbé J.J.
Stevenin, esponente locale della prima Democrazia cristiana), si fanno promotrici di un
progetto, per certi aspetti comune, di formazione di una rappresentanza radicata nel territorio e allo stesso tempo di respiro nazionale ed europeo.
La questione della difesa del particolarismo valdostano, che è improntato soprattutto sul nodo della specificità linguistica (il francese come diritto, l’italiano come dovere)
diviene il punto qualificante rispetto al quale l’élite intellettuale e politica – in un percorso
lento e graduale che si concretizza solo a partire dalla metà degli anni ’90 – trova legittimazione a livello nazionale sulla scorta dei concetti della «duplice fedeltà» e della «doppia
appartenenza»: la tutela delle tradizioni e delle peculiarità linguistiche del territorio («la
lingua, la storia, la montagna» sono gli elementi identitari della valdostanità) si intrecciano in maniera non conflittuale con l’adesione ai valori della nazione, identificata (per gli
antichi legami tra i regnanti e il Pays) con la dinastia sabauda.
Nel mutato contesto del primo dopoguerra che porta all’attenzione internazionale il
dibattito sulle minoranze linguistiche, le rivendicazioni identitarie aostane si caricano di
nuove e più articolate valenze arrivando a progettare una vera e propria autonomia amministrativa, sull’onda delle linee programmatiche di stampo regionalista del Ppi e grazie
all’azione della Ligue valdôtaine, «espressione delle élites politiche, culturali e religiose
della Vallée» (p. 251).
Con l’avvento del fascismo, le aspirazioni autonomiste si svuotano di significato e
vengono assorbite nelle politiche accentratrici del regime, al quale aderiscono la maggior
parte delle personalità del mondo cattolico e liberale che avevano fino a quel momento
rappresentato il territorio.
Daria De Donno
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Michela Minesso, Giuseppe Belluzzo. Tecnico e politico nella storia d’Italia (1876-1952),
Milano, FrancoAngeli, 400 pp., € 46,00
Giuseppe Belluzzo rappresenta una figura di grande interesse nella storia d’Italia tra
la fine dell’800 e la prima metà del ’900. Ricoprì ruoli di primo piano nel governo fascista, ministro dell’Economia nazionale (1925-28) e della Pubblica Istruzione (1928-29),
deputato e poi senatore, rimase ai vertici dello Stato seguendo la parabola del regime fino
al luglio del ’43. Piacevolmente scorrevole nella forma, il volume incrocia fonti archivistiche provenienti da fondi differenti, materiale a stampa del tempo e le pubblicazioni dello
stesso Belluzzo. L’a. racconta anche il mondo delle istituzioni delle quali fece parte: l’Associazione elettrotecnica italiana, il Cnr, il Rotary, l’Istituto lombardo di scienze e lettere.
Come accade per gli studi su personaggi assurti alle massime cariche nel ventennio,
particolare rilievo acquista il rapporto con il fascismo, il suo capo e l’entourage del regime.
L’a. indaga sulle relazioni cordiali e costanti con Mussolini, più complesse e contrastate
con Bottai per le lotte di competenza tra i ministeri.
Minesso ripercorre con cura la fase iniziale della vita di Belluzzo, che da giovane studente veronese di modeste origini si trasferisce a Milano. Gli studi in ingegneria industriale-elettrotecnica al Politecnico rappresentano per il futuro ministro non solo l’alta formazione professionale in uno dei settori più all’avanguardia, ma anche l’ingresso nell’élite
imprenditoriale ed economica lombarda che tanta parte avrebbe avuto nel dopoguerra.
Ingegnere di successo, docente al Politecnico, esperto consulente aziendale, egli non viene
cooptato dal duce solo per le sue doti di tecnico come lo fu Beneduce, ma anche perché
condivide con il fascismo la grandezza della nazione, l’idea di una nuova Italia più moderna, fondata sulla tecnica, sull’ordine, sulla modernizzazione «controllata». Il tentativo
di Belluzzo ministro è di razionalizzare e sviluppare il sistema produttivo italiano al fine
di ridurre la dipendenza dall’estero, soprattutto a livello energetico (ebbe ruolo rilevante,
per esempio, nella costituzione dell’Agip). In questo senso il suo progetto è organico a
quello fascista della politica autarchica che egli difese, accettandone pure la deriva coloniale. L’a. non indugia in tesi assolutorie verso il personaggio, difesosi durante il processo
di epurazione, come altri protagonisti del tempo, rivendicando il ruolo di tecnico, anzi gli
attribuisce responsabilità nell’aver accompagnato il fascismo nel suo percorso totalitario
e limitativo delle libertà (da ministro non si oppose alla censura preventiva nell’industria
cinematografica, o all’espulsione degli ebrei dall’Istituto lombardo di scienze e lettere di
cui era vicepresidente).
Il volume non si limita alla ricostruzione biografica, ma affronta altre questioni interessanti e delicate: il rapporto tra le élites economiche, finanziarie e politiche lombarde
con il liberalismo conservatore, poi con Mussolini e con il regime fino alla Repubblica;
l’economia politica tra le due guerre e le tensioni tra la nuova tecnocrazia di Stato e quella
di Belluzzo, fedele all’organizzazione e alla modernizzazione dell’industria privata.
Roberta Raspagliesi
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Luciano Monzali, Un re afghano in esilio a Roma. Amanullah e l’Afghanistan nella politica
estera italiana 1919-1943, Firenze, Le Lettere, 144 pp, € 16,00
In meno di 150 pagine questo volume offre una valida descrizione dei finora poco
conosciuti rapporti dell’Italia con l’Afghanistan tra il 1919 e il 1943. Esso si basa in particolare su documenti diplomatici italiani dell’Archivio degli Esteri, dell’archivio dell’ambasciatore Pietro Quaroni e di documenti britannici dei National Archives di Londra.
Figura centrale è quella del re afghano Amanullah che cercò di sottrarre l’Afghanistan alla
tutela inglese alla quale era soggetto dal 1907 e che fu in esilio a Roma dal 1929 al 1960,
ma viene descritta puntualmente anche la missione e la figura di Pietro Quaroni, rappresentante italiano a Kabul dal 1936 al 1944 e, in seguito, uno dei principali diplomatici
dell’Italia repubblicana. Il governo italiano seguì inizialmente con interesse l’Afghanistan
grazie all’azione del ministro degli Esteri Carlo Sforza desideroso di presentare l’Italia
come potenza amica dei popoli orientali e favorevole al rispetto del diritto di nazionalità in Asia. L’Italia fu il primo paese occidentale a riconoscere il governo di Amanullah
nel 1921 e a stabilire importanti accordi commerciali. I successivi governi italiani e anche quello di Mussolini non dimostrarono più interesse verso il paese asiatico per non
scontentare i britannici, ma l’Afghanistan rimase comunque un’opzione per la politica
estera italiana proprio per l’esilio a Roma di Amanullah, deposto nel 1929. Quest’ultimo
avrebbe ricevuto un sussidio non ufficiale dal governo italiano per potersi mantenere
nella capitale. Tuttavia, anche dopo il 1936 e perfino dopo l’entrata in guerra contro la
Gran Bretagna, l’Italia esitò a «giocare la carta afghana». Infatti, come scrive l’a., «a Roma
prevaleva un’impostazione imperialista datata, ossessionata dalla ricerca dell’espansione
politico-territoriale e dal controllo diretto delle colonie, e si era reticenti a sostenere in
modo sincero e senza remore i movimenti d’indipendenza nazionale in Asia, in particolare quello arabo: si temeva che il rafforzarsi dei nazionalismi autoctoni ostacolasse
o impedisse la realizzazione dei progetti egemonici italiani in Medio Oriente» (p. 85).
Inoltre, Hitler era contrario per motivi ideologici a proclamare l’indipendenza dell’India
e dei paesi arabi sottoposti al dominio inglese e, quindi, quando Mussolini cominciò a
pensare di poter favorire almeno l’indipendenza dell’India, l’Italia era ormai totalmente
dipendente e succube dalle direttive di Berlino e non osò differenziarsi dalle posizioni di
Hitler. Particolarmente interessanti e ancora attuali sono anche i rapporti dei diplomatici
italiani che descrivono la divisione tribale del paese e le difficoltà del governo centrale. Il
volume, corredato anche da un’inedita appendice fotografica, si legge inoltre con grande
facilità e rappresenta sicuramente un contributo del quale ogni studioso che voglia capire
e anche approfondire i rapporti tra Italia e Afghanistan tra il 1919 e il 1943 dovrà tener
conto. Esso come tutti i buoni libri di storia è anche utile per capire l’attualità che vede
l’Afghanistan protagonista da decenni.
Federico Scarano
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Luciano Monzali, Andrea Ungari, I monarchici e la politica estera italiana nel secondo dopoguerra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 249 pp., € 18,00
Nell’ultimo ventennio la destra italiana è stata oggetto di particolare attenzione da
parte della storiografia. Monzali e Ungari si inseriscono perfettamente in questa feconda
stagione di studi indagando il ruolo dei monarchici nella politica estera italiana dell’immediato secondo dopoguerra.
Il volume si compone di due parti: nella prima, ad opera di Ungari, viene analizzato l’approccio monarchico alle grandi scelte di politica estera di quegli anni, ovvero il
Trattato di pace, le colonie in Africa, la questione di Trieste, il Patto Atlantico e la Ced;
nella seconda, Monzali ricostruisce la biografia di Raffaele Guariglia, prima esponente di
spicco della diplomazia fascista, e poi senatore monarchico dal 1954 al 1958. Ne risulta
un quadro eterogeneo in cui la galassia legittimista il più delle volte è pragmaticamente
allineata sulle decisioni governative, ma non mancano posizioni fortemente critiche. È il
caso del settimanale «Governo», espressione non ufficiale del Partito nazionale monarchico ma di una battagliera minoranza guidata da Roberto Cantalupo. Questa corrente
d’opinione non esita a puntellare l’esecutivo riallacciandosi alla politica estera dell’Italia
liberale, ossia a «una visione dell’Italia come ponte tra Est e Ovest e, proprio per ciò, come
perno della riapertura del dialogo con la Russia e il mondo slavo» (p. 112). Ciò che accomuna le diverse anime, mettendole in sintonia con ampi settori dell’opinione pubblica, è
l’accento nazionalista che permane sia nella componente più filo-atlantica del segretario
Covelli che in quella, minoritaria e non senza velleità utopiche, alla ricerca di un’Italia in
grado di mediare tra Oriente e Occidente. Ruolo che naturalmente il nostro paese non
poteva ricoprire dopo il trauma del conflitto mondiale. La vicenda biografica di Guariglia
si rivela un esempio del peso della diplomazia monarchica dall’Italia liberale fino agli
anni ’50. Monzali riesce a far fruttare la ricca documentazione costruendo un saggio dove
gli anni decisivi sono quelli tra il 1922 e il 1943, mentre il contributo di Guariglia nel
secondo dopoguerra non pare particolarmente incisivo. Il merito principale del volume è
mettere in luce sia la pluralità di posizioni monarchiche, che la popolarità del sentimento
nazionale su temi come il mantenimento delle colonie, la questione giuliana e il processo
d’integrazione europea. Si tratta di un nazionalismo ancora intriso di imperialismo fascista e di politica di potenza. Tutte espressioni del retaggio del ventennio mussoliniano
che confermano una certa continuità tra fascismo e democrazia, tanto a livello di sfere
diplomatiche quanto di popolo. In generale, però, leggendo il libro resta la sensazione di
una fusione tra due saggi a sé stanti che dialogano poco l’uno con l’altro; che affrontano
generi e temi diversi lungo archi cronologici altrettanto diversi. È questo probabilmente
il maggior limite del lavoro.
Federico Robbe
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Maria Teresa Antonia Morelli, L’Unità d’Italia nel teatro. Istituzioni politiche, identità nazionale e questione sociale, Roma, Bulzoni, 337 pp., € 25,00
Il volume nasce da una tesi di dottorato in Pensiero politico e comunicazione della
storia, discussa presso l’Università di Teramo. Prendendo le mosse dall’ormai consolidata
storiografia sul ruolo del teatro nella costruzione dello spazio della politica e in particolare
della comunicazione politica, l’a. si propone di indagarne il funzionamento, cioè il complesso rapporto autore-attore-pubblico, nel corso del processo risorgimentale e unitario.
Con questa premessa e avvalendosi anche delle fonti costituite «dalle memorie di attori e
autori, dall’aneddotica, dai romanzi, e, soprattutto, dallo stesso «teatro sul teatro», vale a
dire da quelle opere teatrali che mettono in scena la vita del teatro in tutti i suoi aspetti»
(p. 20), l’a. analizza la produzione teatrale che prelude all’Unità, collocandola nel più ampio quadro della costruzione di una tradizione culturale nazionale, ripercorre le vicende
di autori e attori, analizza i testi caratterizzati da un contenuto esplicitamente patriottico
e quelli della tradizione teatrale che facilmente possono essere piegati in questo senso,
nonché le diverse declinazioni regionali del teatro patriottico e l’apporto alla diffusione di
questo genere da parte del teatro itinerante.
Dopo l’Unità, il teatro si muove in nuovi contesti politici, culturali e sociali nei
quali l’a. colloca autori e temi come, fra gli altri, quello della ricchezza e del lavoro, che
evidenziano, in primo luogo, l’apporto del teatro alla costruzione dell’ideologia borghese.
Morelli si sofferma poi sui molteplici aspetti del rapporto tra teatro e movimento emancipazionista, a cui dedica un ampio paragrafo, e sul filone che tra la fine ’800 e l’inizio
del secolo successivo recupera la tradizione risorgimentale. Quindi affronta il tema cruciale costituito dal pubblico dei teatri: il ruolo che gioca nella comunicazione teatrale; le
modificazioni che dalla fine dell’800 si delineano nelle sue componenti sia dal punto di
vista sociale che di genere, e come questi cambiamenti abbiano condizionato gli autori.
Specifici capitoli sono dedicati all’intervento istituzionale, in particolare alla censura e alla
legislazione sul diritto d’autore, al teatro in lingua a contenuti regionali e al teatro dialettale, nonché al teatro musicale, un tema a cui la storiografia ha dedicato, come è noto,
vaste e approfondite analisi.
Si tratta di un lavoro ampio, che colloca il teatro nel contesto culturale e politico
del tempo e analizza i molteplici elementi che concorrono a farne un vettore del discorso
nazionale e più in generale uno strumento della comunicazione politica. Verrebbe voglia
di saperne di più, in particolare sull’effettiva diffusione degli spettacoli, soprattutto quelli
riconducibili al teatro «minore», e sulla ricezione. Si tratta senza dubbio di temi difficili
da indagare, ma una maggiore attenzione alle fonti coeve come le recensioni e agli strumenti messi a punto dalla più recente storiografia sulle performance avrebbe consentito
di introdurre ulteriori elementi di riflessione e di approfondimento.
Teresa Bertilotti
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Sheyla Moroni, Giovanni Zibordi. Biografia di un riformista intransigente, Milano-Venezia, Biblion, 291 pp., € 18,00
Giovanni Zibordi è stato insegnante, giornalista politico, scrittore, educatore positivista e critico letterario di notevole valore nel quarantennio iniziale del ’900, tra le
migliori penne del socialismo italiano. La biografia che ne ricostruisce Sheyla Moroni sa
presentare in modo organico le diverse vocazioni di questo intellettuale militante, nel suo
percorso politico e insieme letterario dall’Oltrepo mantovano alla piena valorizzazione
intellettuale nella provincia reggiana di Camillo Prampolini e Antonio Vergnanini, fino
all’esilio milanese nel ventennio fascista.
Buona parte del libro, a partire dall’ultimo quindicennio dell’800, cerca di definire le collocazioni di Zibordi nel mutevole quadro del radicalismo democratico, poi del
socialismo riformista mantovano, reggiano, europeo e nazionale, fino alla prima guerra
mondiale. In questa parte del volume, l’obiettivo dichiarato dall’a. di revisionare criticamente un itinerario biografico attraverso le sensibilità ideologicamente disincantate di
una giovane storiografia raggiunge risultati modesti rispetto a quanto già elaborato dalla
storiografia politica della seconda metà del ’900. La riuscita originale di questo libro sta
negli ultimi due capitoli, incentrati sulle drammatiche vicende umane e sull’ininterrotta
produzione di Zibordi negli anni dello squadrismo e poi nel perdurare del regime fascista. In quei capitoli finali, fuori da pregiudizi e stereotipi ideologici, l’a. sa rendere conto
con efficacia dei contorti riorientamenti politico-culturali di questo socialista riformista
sottoposto prima a minacce violente e a stabili perdite di orizzonti collettivi, poi a un
susseguirsi di censure e boicottaggi che gli rendono estremamente difficile esercitare i
suoi mestieri, anche solo per campare: anni in cui articoli di questo notissimo oppositore
possono fare occasionali ambigue comparse addirittura su «Il Popolo d’Italia». Dal nutrito
carteggio privato di Zibordi, reperibile presso la Biblioteca Panizzi di Reggio, l’a. indaga
anche i rapporti familiari con moglie e figlia: dati che aggiungono poco a quanto già noto
sulla sua figura politica e giornalistica, e su una sua spiccata tendenza regressiva (meglio approfondita in: Rossana Avanzi, L’etica folklorica di Zibordi, «L’Almanacco», IV-V
[1986-1987], nn. 8-9, pp. 9-13) a chiudersi in un nostalgico mondo di memorie intime,
quando viene brutalmente emarginato dall’ascesa del fascismo.
Un’attenta revisione delle bozze avrebbe evitato a questo libro – rielaborazione di una
tesi di laurea discussa nel 2000 – la fastidiosa sovrabbondanza di refusi redazionali, alcuni
passaggi discorsivi non chiari, o magari anche la svista che il 28 luglio 1943 siano stati i
fascisti (p. 266), anziché i bersaglieri, a far strage degli operai delle Officine Reggiane.
Marco Fincardi
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Gloria Nemec, Nascita di una minoranza. Istria 1947-1965: storia e memoria degli italiani
rimasti nell’area istro-quarnerina, Rovigno, Centro di ricerche storiche, 448 pp., fuori
commercio
La storica triestina Gloria Nemec, il cui lavoro di ricerca privilegia le fonti e gli
strumenti della storia orale, indaga su una zona sinora decisamente in ombra degli studi
sulla questione adriatica. Si occupa infatti della comunità italiana rimasta in territorio
jugoslavo nel secondo dopoguerra, seguendone le vicende per un ventennio. Attraverso
un’ottantina di interviste qualitative a italiani residenti in Istria, avvalendosi della letteratura istro-quarnerina e della memorialistica, nonché di una ricca bibliografia, l’a. intreccia
il filo della narrazione con il filo rosso della storia, per tessere la trama di temi cruciali posti
come nodi della ricerca: l’esperienza dell’esodo dei connazionali, la variegata percezione
del comunismo jugoslavo, i processi di formazione dei giovani, il lavoro e le strategie economiche e di relazione messe in atto nel corso del ventennale processo di ristabilizzazione
(p. 32).
Inquadrato come un capitolo della storia dei trasferimenti forzati di popolazione
nel ’900, l’esodo degli istriano-dalmati è anche parte della storia della disgregazione della
comunità italiana che abitava le zone del litorale adriatico. Le opzioni, che si aprirono nel
1948, certificarono la divisione che si produsse tra gli italiani che in massa si trasferirono
in Italia e gli italiani «rimasti», spezzando legami parentali e amicali. La drammaticità di
queste cesure, che ha condizionato a lungo i processi di riconciliazione nel dopoguerra, ha
trovato soprattutto nella memoria lo strumento per essere rielaborata e in parte colmata.
L’immagine stereotipata dei traditori e di chi si è reso corresponsabile dell’oppressione titina, riferita agli italiani «rimasti», ha potuto prendere corpo nelle memorie degli esuli ed
essere sostenuta da una «cattiva storia da parte italiana», come afferma Raoul Pupo nella
sua prefazione al volume.
Le testimonianze raccolte, vagliate criticamente dall’a., che ne mette in luce il loro
essere nel contempo autentiche e parziali, ricompongono un quadro della comunità italiana istro-quarnerina dal quale emerge un’immagine opposta a quella stereotipata degli
italiani traditori. Nemec evidenzia a partire dalle singole biografie come sotto l’apparente
linearità, omogeneità e continuità dei processi identitari risulti necessario confrontarsi
con la molteplicità delle componenti su cui poggia il senso di appartenenza e la discontinuità che deriva dal mutare dei contesti storici. La memoria quale importante strumento
di consolidamento e di trasmissione identitaria viene chiamata in questo studio a illuminare piuttosto le strategie identitarie dentro ai meccanismi di adattamento e di reazione
alle dinamiche politiche, sociali ed economiche proprie di determinati periodi storici. La
trattazione puntuale dei contesti storici di riferimento, in un rimando costante tra storia
e memoria, permette alle biografie di assumere la funzione di lente di ingrandimento
puntata sul «corpo sociale», sui vissuti e sulle condizioni di vita, dimostrandosi capace di
offrire un’interessante prospettiva di lettura di storia sociale.
Giorgio Mezzalira
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Gerardo Nicolosi, Risorgimento liberale. Il giornale del nuovo liberalismo. Dalla caduta del
fascismo alla Repubblica (1945-1948), Soveria Mannelli, Rubbettino, 257 pp., € 18,00
Il libro riscostruisce la storia, sinora trascurata, di quello che fu, secondo Leo Valiani,
il miglior giornale della Resistenza e contribuisce a far conoscere meglio – con I Liberali
italiani dall’antifascismo alla Repubblica, al quale l’a. ha contribuito e che ha curato, e con
il Dizionario del liberalismo italiano, del quale è capo della redazione – l’apporto di una
famiglia politica alla Resistenza e alla costruzione della democrazia in Italia. Fondato per
iniziativa di Leone Cattani, giornale di «partito», diretto dal Mario Pannunzio (dal 1943
al 1947) e poi da Manlio Lupinacci e da Vittorio Zincone (dal 1947 al 1948), «Risorgimento liberale» non seguì pedissequamente le direttive della Segreteria del Pli e mantenne anche nei periodi di difficoltà economiche – il disavanzo finanziario lo portò poi
al fallimento – «i connotati di una grande fucina di idee, di laboratorio tematico e anche
programmatico, dalle quali era semmai il partito a poter attingere» (p. 13). Nel giornale
si realizzò infatti «la più grande aggregazione di intellettuali di area liberale che non si
verificò più negli anni della Repubblica nemmeno ai tempi de ”Il Mondo”».Vi lavorarono come capo redattori A. Russo e F. Disnan; come redattori E. Flaiano e V. Gorresio;
alle «Informazioni» R. Trionfera e N. De Feo (Adelfi); alla Politica interna, V. Zincone;
alla Cultura e agli spettacoli A. Riccio, G.B. Angioletti e G. Vigolo. Fra i collaboratori,
I. Montanelli e D. Bartoli, L. Barzini jr. e A. Guerriero, l’economista G. Borgatta e W.
Röpke, già introdotto da Einaudi nel 1943 nel dibattito politico-economico italiano. Di
grande autorevolezza furono anche gli editorialisti (da Croce a Einaudi, da Arangio-Ruiz
a Pepe, da Antoni a Carli e a G.U. Papi) e le firme della «terza pagina» (da Baldini a Patti,
da Brancati a Cecchi e Comisso, da Bassani a Cassola, da Bonsanti a Falqui). Il volume,
nel quale si analizzano seppur sinteticamente caratteri e significati dei loro apporti, costituisce così un contributo alla storia della cultura di quel periodo e in particolare dei percorsi degli intellettuali, formati all’interno del fascismo, alla fine del regime. Vi vengono
pure ben illustrati i caratteri fondamentali del giornale, «fortemente interconnessi: una
ben determinata idea della Resistenza al nazifascismo; l’antitotalitarismo come cifra della
restaurazione democratica; un liberalismo rinnovato capace di coniugare la tradizione
dell’Italia liberale, criticata in alcuni suoi aspetti, ma non rinnegata, con le esigenze di una
nuova democrazia di massa» (p. 11). Significativi sono pure i dibattiti che il libro ricostruisce con efficacia sul partito e sulle storture partitocratiche, sul sindacato, sull’intervento
dello Stato – ma a difesa del mercato e della libera iniziativa sulla scorta dell’insegnamento
einaudiano – e le vicende del Pli che presenta, dal ministero Parri all’analisi della sconfitta
del Blocco Nazionale nelle elezioni del 18 aprile 1948 fino all’ ultima «vittoria» del giornale: l’elezione di Einaudi al Quirinale.
Pier Luigi Ballini
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Francesco Occhetta, Le radici della democrazia. I princìpi della Costituzione nel dibattito
tra gesuiti e costituenti cattolici, Milano, Jaca Book, 296 pp., € 24,00
Il ricorrente e asfittico dibattito sulla riforma della Carta motiva questo studio teso
a ricostruire «i fondamenti morali, culturali e storici su cui si fondano i principi della
Costituzione italiana» (p. 15). La rilettura degli articoli della «Civiltà Cattolica» negli
anni della Costituente, le carte d’archivio della rivista e dei suoi maggiori autori, assieme
agli atti delle sedute della I Sottocommissione dell’Assemblea costituente e al dibattito dei
maggiori giuristi italiani, rappresentano il quadro di fonti a sostegno del lavoro.
L’a. ripercorre in quattro capitoli il confronto tra i costituenti democristiani (soprattutto Dossetti, Moro e La Pira), e i gesuiti di «Civiltà Cattolica» – incaricati dalla Santa
Sede di accompagnare col loro consiglio e studio il processo costituente – riguardo ai
principi costituzionali ed etici della Carta, alla libertà religiosa e al tema della famiglia.
Emerge la distanza filosofica tra i gesuiti, legati a una visione giusnaturalista, e i costituenti cattolici, maggiormente legati a un approccio personalista secondo la lezione di
Maritain e secondo le indicazioni di mons. Montini. Ciononostante le risultanze di quel
confronto avrebbero condotto a risultati armonici, perché prodotto di una profonda esperienza culturale e umana che vide anche la convergenza di tante altre sensibilità. Il lavoro
del gruppo democristiano per inserire i Patti Lateranensi nel testo della Costituzione,
l’adesione in questo senso di Togliatti, la mancata costituzionalizzazione dell’indissolubilità del matrimonio, ma al tempo stesso la convergenza tra culture diverse nell’individuare
proprio nella famiglia la «cellula della società», permettono di cogliere come in quegli
anni «la formazione delle coscienze» sia stata «condizione per riconoscere un valore e
stabilire la condivisibilità di un principio» (p. 23). Non a caso il demolaburista Meuccio
Ruini scriveva che nei principi costituzionali, oltre che di quelli di natura politica o economica, bisognava tener conto dei «valori morali della religione cristiana» visti come «argine» per la tenuta del «tessuto sociale» (p. 126). Gli anni tra la parte finale della guerra e
l’entrata in vigore della costituzione appaiono, così, tra i più fecondi nell’elaborazione del
pensiero cattolico. In tal senso le radici della Costituzione restano salde nel terreno della
Resistenza, ma avendo ben chiaro che in quella esperienza deve ricomprendersi anche
quella «resistenza civile» di gran parte del popolo italiano, che – scartata la via militare e
quella politica – ha attraversato la tempesta riaffermando valori di umanità e servizio, di
centralità della persona, decisivi nella formazione del bacino valoriale della democrazia. In
tal senso Oscar Luigi Scalfaro, nella prefazione – uno dei suoi ultimi scritti – afferma che
«la democrazia, per i cattolici e per una vasta area dell’Assemblea costituente, non fu mai
accettazione arida di un metodo, ma espressione di convinzioni profonde» (p. 14).
Augusto D’Angelo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Amedeo Osti Guerrazzi, Storia della Repubblica sociale italiana, Roma, Carocci, 223 pp.,
€ 18,00
Il volume, come l’a. anticipa nell’introduzione, costituisce un’opera di orientamento
e di sintesi rispetto all’ampia mole di studi e di ricerche che, soprattutto a partire dai
primi anni ’60, in Italia e, sia pure in misura minore, all’estero, sono stati dedicati alla
Repubblica sociale italiana. Nel contempo, tuttavia, il libro mira anche a proporre una
lettura della Repubblica di Salò fondata sulla centralità della violenza e della guerra ai
civili, e sulla conseguente brutalizzazione dell’ordine pubblico e della sfera politica, quali
elementi cardine nell’interpretazione della parabola storica e politica di quell’esperienza.
Secondo Osti Guerrazzi, che già può annoverare alcuni studi dedicati al fascismo repubblicano e agli ultimi anni della seconda guerra mondiale, la Rsi avrebbe conosciuto, fino
all’estate del 1944, una prima fase fondata su un’ideologia nazionalista e patriottica. Con
la perdita di Roma, evento che per il regime di Salò fu altamente luttuoso, anche sul piano
simbolico, e a fronte dell’opposizione crescente, sia armata che civile, e della sostanziale
ostilità della maggioranza della popolazione, il gruppo dirigente repubblicano rinunciò al
tentativo di fare breccia nella società civile e abbracciò piuttosto l’ideale nazifascista del
Nuovo Ordine europeo, il mito delle Waffen SS, un mito che presupponeva l’abbandono
di ogni prospettiva nazionalista e induceva a esaltare i valori della forza e della violenza, da
esercitarsi senza più distinzione alcuna fra partigiani e civili. Si tratta di una tesi suggestiva
e nel complesso condivisibile, seppure celi il rischio di offuscare la dimensione radicale e,
di fatto, violenta e aggressiva, che la Rsi aveva in realtà fin dalla sua costituzione, a partire
dal Congresso di Verona e dalla stessa legislazione antiebraica, alla quale l’a. dedica comunque un intero paragrafo.
Il volume ha un impianto fondamentalmente diacronico, a partire dalla crisi del
regime fascista nella primavera del 1943, attraverso il rivolgimento istituzionale e politico
del 25 luglio e l’armistizio dell’8 settembre, fino alla primavera del 1944 e alla svolta,
appunto, dell’estate, fino all’ultimo anno di guerra. Un ultimo, breve ma denso paragrafo
apre uno squarcio sull’immediato dopoguerra: l’a. si sofferma principalmente sul problema della violenza contro i fascisti dopo la Liberazione e sui tempi e i limiti del complesso
e contraddittorio processo di epurazione. Nell’ambito di questa struttura diacronica, il
discorso si snoda tuttavia attraverso alcuni fulcri tematici che evidenziano la linea interpretativa scelta dall’a. e nel contempo tengono conto dei principali orientamenti della
storiografia: la questione delle origini della Rsi, il problema dell’adesione personale a Salò,
la struttura amministrativa e politica, il rapporto con l’«alleato occupante» e la violenza
della fase estrema.
Grazie a una bibliografia essenziale, ma ragionata, il volume costituisce uno strumento di sintesi e di guida agile, capace di rivolgersi anche a un lettore non specialista.
Monica Fioravanzo
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Elena Papadia, Di padre in figlio. La generazione del 1915, Bologna, il Mulino, 206 pp.,
€ 19,00
Ad anticipare nuovi studi italiani in occasione del centenario dell’entrata italiana nella Grande guerra europea giunge questo lavoro di Elena Papadia. Come enuncia chiaramente il titolo, il libro si occupa della generazione «storica» dei giovani che parteciparono
nel 1915 in forma convinta al conflitto. Generazione «storica» perché nata dall’esperienza
della Grande guerra; generazione anagrafica perché essenzialmente ristretta ai nati negli
ultimi 15 anni dell’800; ma anche generazione elitaria, appartenente ad un corto segmento di una generazione più ampia chiamata alle armi. L’a. infatti si sofferma su quei giovani
provenienti dalla borghesia che a «migliaia […] manifestarono in favore dell’intervento
e che poi combatteremo al fronte, spesso come ufficiali di complemento, mostrando una
ferrea capacità di sacrificio» (p. 9). Essi composero quella nuova generazione di volontari che entrarono nell’esercito nazionale, motivati dalla forte convinzione di combattere
un’ultima guerra risorgimentale in base a valori quali l’onore e la patria. Papadia si sofferma volutamente sull’anno chiave 1915, indagando sulle ragioni ed ispirazioni che fecero
di questi giovani degli «interventisti» prima del maggio e degli «intervenuti» volontari
dopo. Non è parte della sua ricerca studiare il destino di tale generazione: né nella crisi
ideale del 1917 né nella divisione tra fascisti e antifascisti nel dopoguerra. L’indagine di
Papadia si svolge all’indietro, a esplorare le ragioni del «volontariato soggettivo»: la tradizione risorgimentale trasmessasi in ambito familiare, la pedagogia della nazione costruita
grazie al sistema scolastico e a letture patriottiche (due parti, queste, centrali nel lavoro),
«il rifiuto violento del mondo ereditato dai propri padri» (p. 13).
Tra le tante qualità di questo lavoro, vorrei sottolinearne tre: l’aver ben utilizzato la
storiografia sull’800 e sulla Grande guerra, in particolare nel campo della storia culturale,
per evidenziare come il 1915 più che anno di rottura sia stato di cerniera tra vecchio e
nuovo modo di concepire politica e nazione. L’aver fatto tesoro degli studi sui giovani e
sulle generazioni, che in questo lavoro trovano un ulteriore arricchimento. E l’avere con
chiarezza mostrato che ogni epoca comporta una sua specificità non ripetibile nei rapporti
tra generazioni. In questo caso, la figura paterna (reale o metaforica) emerge in maniera
non contrastiva: i giovani del 1915 sembrano volere riscattare i padri appartenenti a una
generazione «nata troppo tardi» per partecipare all’esperienza risorgimentale, della quale
avevano serbato valori ed ideali, ma anche sofferto delle frustrazioni del trasformismo
giolittiano. In sostanza è una rilettura storica del rapporto tra vecchi e giovani, declinata
al maschile, dove la componente femminile scompare sia negli aspetti educativi (tanto
importanti nel Risorgimento) che nelle qualità virili richieste al fronte. Attendiamo sulla
Grande guerra altri studi di questa qualità.
Patrizia Dogliani
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Roberto Parisini, La città e i consumi. Accesso al benessere e trasformazioni urbane a Bologna
(1951-1981), Milano, FrancoAngeli, 170 pp., € 20,00
La dialettica tra lo sviluppo dei consumi privati – il cui carattere spontaneo si accompagnò a dinamiche e stili di vita individuali – e la volontà di regolamentarne gli effetti, soprattutto a livello urbanistico-territoriale, da parte delle amministrazioni bolognesi
lungo un trentennio, costituisce il nodo problematico che sta alla base di questo libro.
Il progressivo e socialmente trasversale accesso ai nuovi beni di consumo fu – qui come
altrove – un fenomeno dirompente, che suscitò nelle classi dirigenti locali, sia comuniste che democristiane, ma anche nell’associazionismo di categoria (Camera di commercio), reazioni e valutazioni diverse, se non opposte. Tuttavia, tali posizioni concordavano
sull’assoluta novità, in termini quantitativi e qualitativi, di fenomeni come la crescita
urbana, la motorizzazione di massa e la nascita della grande distribuzione, e sul grande
impatto che tali processi avrebbero avuto sull’organizzazione funzionale, sociale e logistica
della città. Nella prima parte del saggio, attraverso analisi socio-demografiche coeve (Guidicini, Bellettini) e rapporti statistici della locale Camera di commercio, l’a. individua
un ventaglio di questioni proprie della Bologna anni ’50, già in pieno boom economico.
Sintetizzando: prevalenza della piccola e media impresa, dislocazione monocentrica delle
attività terziarie, presenza diffusa e congestionante del piccolo commercio in periferia e
omogeneità sociale dei vari quartieri, pur all’interno di una precisa zonizzazione su base
classista. Diverse, inoltre, le letture di tali dinamiche: se il Pci non si oppose allo sviluppo
dei consumi, interpretandoli come effetti del progresso e non del capitalismo e cercando
di diluirne su base collettiva gli aspetti individuali, la Dc (Ardigò) spinse verso il decentramento delle funzioni urbane, con la prospettiva di creare quartieri autosufficienti legati
alla tradizione rurale, mentre la Camera di commercio insistette sulla centralità del consumatore e sulla libera concorrenza minacciata dall’intervento pubblico. La fine del boom
e la programmazione economica su scala nazionale (1963) acuirono, nelle giunte locali, il
bisogno di governare i consumi: si puntò decisamente verso l’edilizia popolare nelle nuove
periferie (Peep), mentre rimase debole la regolamentazione della grande distribuzione
commerciale, con l’eccezione dei supermercati alimentari di derivazione cooperativistica,
presenti anche nei quartieri periferici a partire dagli anni ’70. Si trattò di un tipo di governance di lungo periodo, che sarebbe durata fino agli anni ’80, fase in cui nuove migrazioni
non più così omogenee avrebbero comportato nuove sfide per tale modello.
Il saggio rappresenta dunque una riflessione che, attraverso una consistente mole di
dati e temi trattati, mira a ricostruire lo «sforzo teorico-pratico» (p. 10) col quale, al di là
degli esiti effettivi, la politica locale cercò di governare, lungo un trentennio contraddistinto da fasi espansive e di crisi, gli effetti di una modernità vista trasversalmente e, per
ragioni differenti, con sospetto e talvolta con timore, più che con fiducia.
Giovanni Cristina
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Roberta Passione, Le origini della psicologia del lavoro in Italia. Nascita e declino di un’utopia liberale, Milano, FrancoAngeli, 240 pp., € 30,00
Roberta Passione, autrice di saggi e volumi ormai classici sulla storia della psichiatria
e della medicina (su Cerletti, su Maccacaro), in questa nuova e notevole opera si chiede
«se fosse possibile tracciare una sorta di archeologia della psicologia del lavoro prima della
psicotecnica» (p. 12) e decide di rispondere, nella sostanza, affermativamente e, ovvio, in
maniera motivata. Stabilisce due termini temporali, il 1891 (la prima edizione della Fatica
di Mosso) e il 1927 (il terzo congresso internazionale dell’Organizzazione scientifica del
lavoro di Roma) che segna la perdita (definitiva) della «utopia liberale». In questo arco
di tempo l’a. istoria puntigliosamente la «preistoria» della psicologia del lavoro italiana.
Avverte del carattere «meticcio» dei primi passi della disciplina, ma individua un filo rosso
grazie al quale muoversi in questi 36 anni; a un capo del filo c’è il magistero di Angelo
Mosso e quindi l’intensa attività dei suoi molti allievi svolta su ogni possibile aspetto
della fatica, anche quella intellettuale; all’altro capo c’è ancora qualche allievo superstite
di Mosso che dalla psicopedagogia passa, attraverso l’orientamento-selezione, alla psicotecnica in una parabola annunciata ma che in pratica si conclude con la marcia su Roma,
come testimoniato ampiamente già dalla terza conferenza internazionale di Psicotecnica
che si tiene nel 1922 proprio a Milano. Tra i due capi del filo rosso si collocano due
vicende ingombranti, di grande portata: quella che Pogliano, parafrasando la sua stessa
«utopia igienista», chiama «utopia lavorista», e Edoardo (Padre Agostino) Gemelli. Su
quest’ultimo la bibliografia vecchia e nuova è più che abbondante e la tendenza da essa
espressa è quella di mostrarlo come una meteora, difficile da ricondurre docilmente all’interno di un processo omogeneo che vede la nascita e lo sviluppo di una disciplina come
la psicologia del lavoro.
Dove Roberta Passione svolge un’opera veramente pregevole e innovativa è nel raccontare unitariamente, nel completare anche rispetto all’analisi di Pogliano, la nebulosa
che forse è giusto continuare a chiamare «utopia lavorista» che si sostanzia tra ’800 e ’900
in Italia. Ci hanno messo le mani in tanti, storici del lavoro, dei partiti, del sindacato, storici della medicina e medici del lavoro; ognuno lo aveva fatto dal proprio punto di vista.
L’a. in un capitolo con un titolo limitativo o forviante, Lo studio delle attitudini al lavoro
nel dibattito medico italiano del primo Novecento, ci propone con una grande quantità di
dati una cronaca degli avvenimenti e poi una sintesi dei problemi veramente efficace; ci
accompagna nel capire i bisogni, espressi e non, di migliorare le condizioni dei lavoratori
in termini di salute e sicurezza, di poter avere il «giusto lavoro». E poi ci illustra il ruolo dei fiancheggiatori tecnici, riformisti e rivoluzionari, nelle lotte per il perseguimento
dell’obiettivo, le inerzie delle istituzioni e dei governi oltre che l’opposizione attrezzata dei
datori di lavoro e dei loro sostenitori. Questo capitolo sicuramente nobilita e accresce il
valore di tutto il volume.
Franco Carnevale
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Anna Pellegrino, La città più artigiana d’Italia. Firenze 1861-1929, Milano, FrancoAngeli, 352 pp., € 40,00
L’identità di una città scaturisce da un complesso intreccio di fattori: il modello
di sviluppo socio economico, l’autopercezione dei soggetti sociali protagonisti di questo
modello, le strategie che le classi dirigenti elaborano attraverso il recupero culturale di
radici simboliche e storiche e attraverso scelte urbanistiche che tendono ad allineare la
topografia sociale a quella fisica e ambedue all’immaginario prevalente della comunità
cittadina. Il bel libro di Anna Pellegrino ci parla di Firenze negli anni che vanno dall’Unità
al fascismo intrecciando, con una pluralità di fonti, tutti questi livelli di analisi, offrendoci
un prezioso esempio di metodo.
Nell’economia del lavoro prevale in modo netto la ricostruzione di un modello di
sviluppo basato sull’impresa artigianale, che fa tesoro della storiografia internazionale che
sottolinea la capacità di tenuta, adattamento e trasformazione dell’artigianato nell’epoca
della grande industria.
Tradizione e innovazione sono i poli dialettici che connotano il peculiare sviluppo
produttivo fiorentino, in cui gli artigiani non subiscono i processi di trasformazione, ma si
inseriscono attivamente nel flusso della modernizzazione, guadagnandosi nicchie produttive medio-alte. L’artigianato si adatta alle richieste di mercato, mantenendo uno spazio
distinto rispetto alla produzione di massa, mostrando doti di flessibilità che gli consentono di reggere il confronto con la produzione serializzata. La ricostruzione del quadro
socio economico è accompagnata da quella dello stereotipo culturale. Così l’artigianato
da segmento forte dell’economia urbana diventa cifra identitaria dell’intera città.
L’a. ci presenta tre diverse idee della Firenze artigiana: quella «dal basso» di matrice
operaia, democratica e massonica, legata fin dal 1861 all’associazionismo della Fratellanza
Artigiana, quella «dall’alto» del notabilato moderato e aristocratico di cultura anti industrialista elaborata da Ubaldino Peruzzi, infine quella fascista e corporativa di Pavolini.
Proprio per la capacità di durare nel tempo e per la varietà delle sue declinazioni ideologiche e matrici sociali, il topos della «città artigiana», riesce a diventare immaginario collettivo e stereotipo identitario cittadino, trovando un nocciolo unitario nel recupero della
tradizione delle botteghe medievali e rinascimentali come luogo dove si fondono arte e
mestiere, cultura e lavoro manuale, cittadinanza politica e lavoro autonomo. Nel libro
c’è così sia la storia del lavoro artigianale e della sua evoluzione verso la piccola industria,
sia quella dello stereotipo identitario che accompagna questo percorso, per molti versi lo
travisa, lo semplifica, ma comunque lo alimenta, gli offre riconoscibilità, gli permette di
creare un marchio. Lo scarto tra i processi sociali e produttivi e la costruzione identitaria
che li supporta è per lo storico la migliore chiave di accesso per capire una città. È all’interno di questo scarto che, anche a Firenze, si definiscono i modelli di auto percezione e di
rappresentazione dei soggetti sociali e si orientano le strategie di comunicazione politica
con una forte capacità performativa.
Salvatore Adorno
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Antonino Pellitteri, La formazione del pensiero nazionale arabo. Matrici storico-culturali ed
elementi costitutivi, Milano, FrancoAngeli, 199 pp., € 26,00
Antonino Pellitteri, ordinario di Storia dei paesi arabi e islamici a Palermo, autore di
un’importante Introduzione allo studio della storia contemporanea nel mondo arabo (RomaBari 2008), presenta un lavoro sulla formazione del pensiero nazionale arabo nel quale
esamina il rapporto tra nazione, religione e cultura in contesto arabo-musulmano. Il tema
non è nuovo, si pensi al classico di A. Hourani, Arabic Thought in the Liberal Age (Oxford
1962), inspiegabilmente ancora non disponibile in italiano. L’originalità del volume risiede nel confronto tra l’ampia storiografia prodotta in lingue occidentali con quella meno
nota in lingua araba elaborata da studiosi del maghreb e del mashreq. Si segnala anche
l’utilizzo di fonti archivistiche siriane, ora precluse agli storici a causa della guerra.
L’arco cronologico è compreso tra fine ’800 e primi decenni del ’900, con particolare
attenzione all’ultimo periodo ottomano. Nel cap. 1 si ripercorre criticamente la storiografia occidentale e araba sul nazionalismo arabo, facendo dialogare i grandi orientalisti
italiani del primo ’900 (Guidi, Rossi) con la storiografia contemporanea, mostrandone
ancora l’attualità di vedute. L’a. analizza i fattori interni e le influenze esterne sulla formazione di una coscienza nazionale araba e sul suo rapporto con l’islam e le minoranze non
musulmane. Interessante l’approfondimento sui rapporti fecondi tra maghreb e mashreq
nella formazione dell’idea nazionale araba. Prevale l’idea di una patria il cui elemento
fondante è l’islam, dalle cui fonti si traggono i caratteri costitutivi della nazione araba. Ci
si chiede, in queste visioni, quale sia il posto riservato agli arabi non musulmani, mentre
vi è dato ampio spazio di cittadinanza ai musulmani, anche se non arabi. Talvolta, la convivenza multireligiosa e multiconfessionale, si pensi all’area siro-libanese che è largamente
studiata nel volume, è descritta in termini di «faziosità» (p. 44). Il cap. 2 affronta la definizione dello spazio geografico della nazione araba secondo i criteri di storici e geografi mediorientali che sottolineano la funzione mediana e di collegamento tra i continenti della
patria araba. Nel cap. 3 si esaminano alcune tendenze della storiografia araba tendenti, tra
l’altro, a mitigare il giudizio tradizionalmente negativo sull’amministrazione ottomana dei
territori arabi. Interessante il tema del cap. 4, il più efficace e il meno esplorato in passato,
che traccia l’apporto degli ulema al nazionalismo nelle cangianti città arabo-ottomane tra
fine ’800 e primi ’900. Il cap. 5 affronta il rapporto tra idea nazionale e questioni sociali,
declinato in via generale sulla base della visione islamica dei rapporti sociali.
Completa il volume un’ampia antologia di testi tradotti di alcuni dei principali pensatori arabi sui temi chiave del libro, tra cui si segnala la panoramica sulle diverse idee di
nazione adottate dai pensatori arabi contemporanei anche in relazione alle teorie proposte
da pensatori occidentali.
Un libro denso, erudito, che mette a disposizione agli specialisti una gran mole di
materiale da cui partire per ulteriori ricerche.
Paola Pizzo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Piero Pennacchini, La Santa Sede e il fascismo in conflitto per l’Azione Cattolica, prefazione
di Agostino Giovagnoli, Roma, Libreria Editrice Vaticana, 435 pp., € 38,00
Sui rapporti tra Chiesa e fascismo, e sul conflitto del 1931 per l’Azione Cattolica
(Ac), molto è stato scritto, ma nessuno finora aveva potuto avvalersi della ricca documentazione dell’Archivio storico della Segreteria di Stato vaticana, Sezione per i Rapporti con
gli Stati. Sulla scorta di questi documenti, oltre che su altre fonti archivistiche – che l’a.,
mons. Piero Pennacchini, pubblica in appendice – si ricostruiscono in modo accurato ed
equilibrato aspetti inediti e significativi della difficile partita giocata tra il regime e la Santa
Sede in merito soprattutto alla contesa sul controllo dell’educazione giovanile.
Partendo dalle vicende dei primi anni ’20, dai nuovi Statuti con i quali Pio XI volle
riorganizzare l’Ac, l’a. mette a fuoco il tenace lavoro diplomatico della Santa Sede per
difendere a tutti i costi la «pupilla» degli occhi del pontefice, l’Ac. Nel cammino verso la
Conciliazione, fatto «di passi avanti e di brusche fermate», il Vaticano abbandona al loro
destino il Ppi, le Associazioni cattoliche sportive, le banche cattoliche, gli Esploratori, ma
pone l’Ac sotto l’usbergo dell’art.43 del Concordato. Era di fatto un «cuneo» piantato nel
fianco del totalitarismo fascista, di cui il regime si avvede ben presto, tentando di soffocare
i circoli cattolici – accusati di fare politica e essere covi di ex aderenti al Ppi – con perquisizioni poliziesche, violenze sui soci, devastazioni di sedi, fino a decretarne la chiusura
nel maggio del ’31. I rapporti si fanno molto tesi, la base cattolica è in subbuglio. A fine
giugno Pio XI pubblica l’enciclica Non abbiamo bisogno, in cui denuncia le violenze del
regime, ma non lo condanna in quanto tale: non voleva rompere i rapporti con l’unico
governo che, dall’Unità in poi, aveva fatto ampie concessioni alla Chiesa.
Lasciando parlare le fonti, l’a. ricostruisce il sottile gioco diplomatico della Santa
Sede, l’uso sapiente dei mezzi di comunicazione posto in essere dal papa per sfuggire
all’accerchiamento mediatico delle censure di regime, le velate minacce di condanna del
Pnf – che lasciano Mussolini sbigottito – e i tentativi di pacificazione. E in effetti Mussolini sapeva bene che a mettersi contro i preti non gli sarebbe convenuto mai: addirittura,
nella fase finale della crisi, il duce del fascismo sottopone alla Santa Sede i testi che avrebbero costituito la base dell’accordo, accettandone, prima di pubblicarli, gli emendamenti.
In definitiva, Mussolini non denuncia il Concordato e dal canto suo Pio XI non denuncia
il regime: entrambi cercano un accordo che sarà utile in breve al fascismo, indebolendo i
circoli cattolici, vessati da un controllo poliziesco, ma alla lunga darà alla Chiesa la possibilità di educare generazioni di giovani a principi totalmente «altri» rispetto alla religione
politica imposta dal fascismo. I risultati di questa lotta si vedranno durante la guerra, la
Resistenza e nella «nuova Italia libera e democratica», quando molti dei giovani formatisi
nelle associazioni cattoliche costituiranno gran parte della classe dirigente del paese.
Alba Lazzaretto
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Lidia Piccioni, Città e dintorni. Trasformazioni e identità in età contemporanea: Roma a
confronto, Milano, FrancoAngeli, 183 pp., € 25,00
Il volume analizza la formazione di un’anomala area metropolitana, quella romana,
secondo un approccio comparativo, focalizzato sulla corona periferica e nel medio-lungo
periodo. Se il racconto si snoda dalle prime ferrovie agli attuali outlet, l’innesco sta tutto
nel recente passaggio normativo che sembrava (fino a pochi mesi fa) aver reso finalmente
operative le Città metropolitane istituite nel 1990; un esplicito richiamo dell’a. agli storici
contemporanei a pronunciarsi su concrete opzioni di gestione territoriale.
La prima parte – cospicua e anzi forse eccessiva, in un saggio per qualità di scrittura
invece veramente godibile – è una carrellata su studi di caso classici (Torino, Milano,
Napoli e Parigi, Londra, i suburbs americani, Vienna, Berlino, Madrid). Il vasto lavoro di
sintesi ripercorre, se non altro molto scrupolosamente, la vasta letteratura sul tema. Ma
l’intento di utilizzare il confronto allargato per meglio articolare la specificità del contesto
in esame, sottoponendo a verifica il topos di una «città senza contado» che evolve anche
piuttosto tardivamente (dei primi anni ’30 la svolta del milione di abitanti) in un’atipica
«metropoli senza area metropolitana», invece, un po’ delude: non sembra aggiungere molto alle ipotesi di partenza, la «conurbazione strisciante» dell’Eterna resta poco assimilabile
alle consorelle europee in età contemporanea. E appare per altri versi allineata su una casistica media «all’italiana», per l’inesorabile distanza tra piani e realizzazioni, la compresenza
spesso paradossale tra fenomeni di arretratezza e di sviluppo, lo stratificarsi con continuità
nel locale di realtà industriali ed economie rurali.
Quel che suscita invece reale interesse è il materiale che alimenta la riflessione ravvicinata costituente la seconda sezione del volume, frutto di un approfondito scandaglio
su fondi archivistici di Comuni «minori» e di un’analisi diacronica sulle serie statistico-demografiche. Lo sguardo dell’a., sensibile ai fatti sociali minuti e a voci soggettive
sull’uso del territorio nel quotidiano, articola il processo di integrazione fra la capitale e il
suo hinterland come biunivoca tensione, in ambivalenza tra elefantiaca egemonia desertificante del centro, spinte autonomiste della periferia e fatale attrazione centripeta della
capitale (tranne un più recente trend inverso verso i paesi natali). Un sistema policentrico,
completamente slegato dal resto del Lazio, a geografia polarizzata tra rotte «forti» (Ostiense, Tiburtina, Appia) e zone penalizzate da disinteresse dei politici e prolungato deficit
infrastrutturale; con poli di sviluppo di fatto polifunzionali, gangli vitali cresciuti come
tappe di primo avvicinamento alla capitale anche via abusivismo, selezionati in origine da
antiche propensioni industriali (l’area di Tivoli), o da una vocazione turistica «inventata»
nel Ventennio (al Terminillo, sul litorale). Con speciali legami di pendolarismo quotidiano e di svago domenicale tra Roma e la dinamica area vinicola dei Castelli, nel quadrante
sud-orientale, qui oggetto privilegiato di osservazione.
Michela Morgante
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Simone Piras, La Moldova postsovietica, Roma, Aracne, 249 pp., € 17,00
Nonostante le caratteristiche di notevole interesse che la Moldova postsovietica presenta, gli studi su questa Repubblica rimangono rari. Il vuoto – che questo meritorio
studio di Simone Piras cerca di colmare – è particolarmente grave in Italia, destinazione di
una consistente immigrazione moldava. Non è certo un caso se gli abitanti della Moldova,
uno dei paesi più penalizzati d’Europa per ragioni e responsabilità storiche ben precise,
sono ancora etichettati con risibili stereotipi, del tutto avulsi dalla ricca storia, pienamente
europea, delle loro regioni d’origine. Un certo malinteso e diffuso «europeismo» eurocomunitario, del resto, contribuisce all’indifferenza per regioni rimaste escluse, non certo
per causa loro, dal processo di «costruzione europea». Le possibilità latenti di rinascita
di quel paese, i tentativi di riforma intrapresi, le energie dei suoi strati giovanili, vengono così trascurati. Anzi, questa indifferenza si nutre della profezia che si autoadempie
dell’«inevitabile» esclusione, a causa della permanente spirale di stagnazione, prodotta in
realtà anche e proprio da un’espulsione forzata dal resto d’Europa, come lo studio lascia
intuire. Fondendo storia e attualità politica, rilevamenti statistici e sondaggi d’opinione,
questo libro consente di approfondire il legame fra l’evoluzione storica della Moldova e
i suoi problemi contemporanei, fornendo un quadro utile per gli studiosi e per un vasto
pubblico. Affiora la nitida immagine di una terra alle prese con trasformazioni lente,
faticose, frenate e contraddittorie e con imponenti difficoltà di rinascita di un’agricoltura
(soprattutto il settore vitivinicolo, disastrato nel periodo sovietico) che storicamente ne
ha costituito la ricchezza principale. L’a. evita con lucidità l’inserimento del caso moldavo
in modelli esplicativi prefabbricati. Emergono così peculiarità storiche e politiche non
riducibili ad altri casi, indispensabili per l’analisi storico-politica, molto accurata nel testo. Tuttavia ne risulta anche una tendenziale sottovalutazione delle schiaccianti analogie
esistenti fra la politica interna ed estera delle Repubbliche ex sovietiche occidentali. Le
somiglianze nelle politiche interne, nelle difficoltà di sviluppo, nelle relazioni internazionali di Moldova, Bielorussia e Ucraina sono molto maggiori delle differenze. Ne sono
prova analoghe tensioni etnonazionali, imponenti contraddizioni con il proprio passato,
disfunzioni nell’importazione del modello dello Stato nazionale, stagnazione politica e
tendenze semidittatoriali, neopatrimonialismo, abortite liberalizzazioni, permanenza di
vecchie classi politiche e di imponenti eredità sovietiche. A questo non sono certo estranee le barriere (troppo minimizzate nel libro), sia a Ovest come a Est, fra le quali spiccano
il devastante protezionismo agricolo eurocomunitario di Bruxelles (distruttivo per paesi
agricoli come questi, con un ridotto mercato interno) e un trincerato e assurdo confine,
come nel caso di quello, eurocomunitario rafforzato, fra Romania e Moldova. Si tratta
infatti di boundaries e barriers che impediscono la rinascita civile, politica, economica di
terre e genti dal passato straordinario e dalle vaste potenzialità.
Alessandro Vitale
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Oreste Pivetta, Franco Basaglia, il dottore dei matti. La biografia, Milano, Dalai, 287 pp.,
€ 17,00
Nel frammentato e disorganico panorama italiano di studi di storia della psichiatria,
a prevalere è la critica militante rispetto a un’analisi rigorosa del passato. Anche se ormai
da un ventennio si dichiara – in convegni, progetti di studio, pubblicazioni – la volontà e
la necessità di superare tale approccio, nell’unico paese al mondo che ha chiuso per legge
gli ospedali psichiatrici la storiografia resta paradossalmente fissata sulla dimensione istituzionale della follia, a differenza delle tendenze internazionali concentrate a investigare le
pratiche extra-asilari. Sulla stagione del rinnovamento psichiatrico si sono affermate narrazioni basate su una memorialistica semplificatrice e idealizzante, che hanno trasmesso
un’immagine stereotipata e generica delle vicende legate alla salute mentale. Recenti film,
canzoni, spettacoli teatrali, in grado di raggiungere un ampio pubblico, hanno contribuito a rafforzare tale rappresentazione.
In questa cornice Franco Basaglia è riconosciuto, ormai senza nessun vaglio critico,
come il responsabile morale di un percorso rivoluzionario, un eretico che ha fatto della
libertà un metodo e un fine, capace di chiudere i manicomi e liberare i matti che vi erano
segregati. Più in generale, l’esperienza basagliana è elevata a simbolo di un percorso eroico
di civilizzazione e democratizzazione dell’Italia.
Il giornalista Oreste Pivetta, nella sua opera divulgativa, inserisce la biografia intellettuale di Franco Basaglia (1924-1980) – ricostruita primariamente attraverso gli scritti del
medico – in questo modello. Il percorso umano e professionale dello psichiatra veneziano
è letto attraverso la dicotomia tra libertà e reclusione, che tutto spiegherebbe nel breve
e nel lungo periodo. Rispetto ai fatti sono privilegiate le dichiarazioni teoriche di chi
ha vissuto sempre e comunque in opposizione al sistema: fascista, universitario e infine
manicomiale. La tematica antiautoritaria, propria degli anni della contestazione, è così
generalizzata e riportata a uno schematico conflitto fra integrati ed esclusi, normali e devianti, classi subalterne e controllo sociale. L’a. recupera interpretazioni storiografiche di
matrice foucaultiana su follia e potere, non affrontando la problematicità del quadro nel
quale l’esperienza basagliana si è inserita. Uno scenario disomogeneo, nelle pratiche e nei
saperi, in cui le psichiatrie anti-istituzionali erano varie e nessuna esemplare; dove molti
psichiatri riformatori non erano d’accordo con la posizione di Basaglia sulla contestazione
del ruolo dei tecnici, sostenendo che curare fosse un problema professionale da assumere
con tutte le sue ambiguità, compromissioni e violenze, e altri gli rimproveravano l’appiattimento sul binomio emarginazione sociale/malattia mentale.
Nell’opera di Pivetta a prevalere è una interpretazione politica dei pensieri e delle
azioni di Basaglia, appiattita sull’attualizzazione di battaglie anacronistiche. Per provare
ad andare oltre la stereotipata immagine pubblica della psichiatria italiana e restituirle
così la dovuta complessità, è auspicabile un ritorno alle fonti e a una loro critica rigorosa,
anche in conflitto con la memoria e gli scritti dei protagonisti.
Matteo Fiorani
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Daniele Pompejano, Storia dell’America Latina, Milano, Bruno Mondadori, 307 pp., €
21,00
Il panorama editoriale italiano non è molto ricco di testi che offrano una visione di
insieme e di lungo periodo della storia dell’America latina. In un simile contesto emerge
il recente volume di Pompejano che copre l’ampio arco cronologico che va dalla metà
del ’400 sino ai giorni nostri. Il lavoro è suddiviso in cinque parti, privilegiando ’800 e
’900. La prima descrive lo scenario dal periodo pre-colombiano sino al XVII secolo; la
seconda, la difficile transizione alle indipendenze e l’avvio dei nuovi Stati sovrani; la terza
sezione si sofferma, invece, sulla lenta affermazione dello Stato-nazione di tipo europeo
sino alla crisi del 1929; la quarta ci restituisce il difficile cammino percorso tra gli anni ’30
e ’50 del ’900, con il susseguirsi di esperienze democratiche, populismi, regimi militari e
rivoluzioni; l’ultima, infine, analizza le più recenti esperienze delle «dittature burocratico/
istituzionali» e il ritorno alla democrazia per arrivare alle sfide del nuovo millennio.
L’a. intende mettere in risalto la lunga durata del processo storico dalla quale sono
scaturiti i percorsi che hanno condotto alla dimensione attuale dei paesi del subcontinente, facendo puntualmente emergere tanto i fattori sociali ed etnici, quanto quelli politicoistituzionali. Particolare enfasi viene data al ruolo dello Stato-nazione che risulta protagonista del periodo post-indipendenza, partendo da un ruolo minimo in epoca conservatrice, per passare a uno normativo nell’età liberale e poi alla massima compenetrazione
(anche economica) con la società nell’epoca dei populismi e dei regimi impostisi a cavallo
della seconda guerra mondiale, per giungere viceversa a una estrema diminutio nella fase
ultraliberista degli anni ’80-90. Le dinamiche politiche si intrecciano con quelle economiche, sia durante la fase coloniale sia successivamente, rimarcando i cicli internazionali
e l’inserimento dell’area latinoamericana nel circuito commerciale e finanziario mondiale,
evidenziando altresì gli effetti spesso deleteri di tale situazione, fino a descrivere il trionfo
del neoliberismo e i gravi problemi del debito pubblico nell’ultima parte del XX secolo.
Chiaro è l’intento dell’a. di illustrare le singole traiettorie senza ricorrere a eccessive
generalizzazioni; anzi è proprio attraverso i casi nazionali che Pompejano desidera far
emergere similitudini, sincronie e divergenze. Ciononostante rileviamo che per il lettore
meno esperto può risultare ostico comprendere alcune tematiche ricorrenti – pensiamo
ad esempio al caudillismo o al modello economico basato sulle esportazioni del settore
primario – senza che se ne siano tracciate le linee generali e spesso comuni ai vari paesi
del subcontinente. Allo stesso modo appare forse un po’ ridotto lo spazio dedicato a temi
di rilievo come, per citarne due, l’emigrazione e l’uso della violenza repressiva durante i
regimi autoritari degli anni ’70-80. Infine, pur comprendendo le sempre più stringenti
esigenze editoriali non possiamo non segnalare una certa esiguità della bibliografia di
riferimento.
Valerio Giannattasio
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Augusto Pompeo, Forte Bravetta. Una fabbrica di morte dal fascismo al primo dopoguerra,
Roma, Odradek, 300 pp., € 23,00
Tra i misfatti del fascismo, quello di aver reintrodotto la pena di morte in Italia, prima per i reati «politici» tramite leggi speciali poi con l’entrata in vigore del Codice penale
del 1930, è al tempo stesso tra i più gravi e meno affrontati, perlomeno fino a qualche
anno fa. Molte delle condanne a morte emesse dal Tribunale speciale per la difesa dello
Stato furono eseguite a Roma e in particolare a Forte Bravetta. Sollecitato nel corso di un
convegno sulla Resistenza a scrivere un saggio che riconoscesse il ruolo storico e simbolico
di questo luogo nella memoria della capitale, Augusto Pompeo, archivista di Stato, ha
intrapreso un lungo lavoro di ricerca il cui esito è racchiuso in questo libro, più completo
rispetto ai precedenti contributi dell’a. sullo stesso tema quanto alle esecuzioni prese in
considerazione: 130, censite con metodo prosopografico.
Il volume, sorretto da un solido impianto di fonti d’archivio – con prevalenza di
quelle statali e giudiziarie – e da un nucleo di interviste realizzate da altri studiosi, è articolato in cinque capitoli. Nel primo (Le fonti, i luoghi, gli uomini), spazi e personaggi
chiave della vicenda sono presentati al lettore in un intreccio narrativo ben ordito. Tra i
«luoghi», particolare rilevanza assumono quelli «dove si è cominciato a resistere ben prima
dell’8 settembre 1943» (p. 10), per esempio la Venezia Giulia, dove il rude disegno di italianizzazione perseguito dal fascismo creò i presupposti per l’intensificazione dell’attività
cospiratrice di gruppi slavi nazionalisti e comunisti. Quanto agli «uomini», si tratta delle
tante facce in cui il regime riconobbe le sembianze del «nemico» da colpire: antifascisti,
fuoriusciti politici, irredentisti slavi e agenti al servizio del controspionaggio straniero si
ritrovarono, accomunati da un tragico destino, accanto a delinquenti comuni e individui
di basso cabotaggio ad affrontare il plotone d’esecuzione. I successivi quattro capitoli
scandiscono le diverse fasi in cui il macabro rito della fucilazione alla schiena trovò compimento nel forte romano: il periodo delle «condanne esemplari» (1927-32), la guerra,
l’occupazione tedesca, la «resa dei conti» nei confronti dei collaborazionisti dopo il 4
giugno 1944. Se molti episodi sono già noti, su altri l’a. ha gettato nuova luce grazie alla
consultazione delle carte relative ai processi istruiti nel dopoguerra, recentemente versate
all’Archivio di Stato.
Il libro è ben documentato, un’osservazione critica, tuttavia, è possibile avanzarla:
l’a. afferma che il processo di fascistizzazione delle istituzioni trovò, pur con esitazioni, la
resistenza di «significativi settori della società italiana», fra cui «una parte consistente della
magistratura» (p. 17). In realtà, la svolta liberticida del ’26 fu circondata da un vasto clima
di consenso, misurabile proprio a partire dall’abdicazione ai principi abolizionisti da parte
della cultura giuridica italiana dell’epoca, come ha spiegato Giovanni Tessitore nel suo
Fascismo e pena di morte. Consenso e informazione, edito da FrancoAngeli nel 2000, la cui
lettura avrebbe certamente giovato al lavoro di Pompeo.
Luciano Villani
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Simona Porro, L’ombra della Shoah. Trauma, storia e memoria nei graphic memoir di Art
Spiegelman, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 174 pp., € 17,00
Tra gli interessi dichiarati di Simona Porro, studiosa di letteratura ebraico-americana, vi sono «le modalità letterarie di rappresentazione storica nel postmodernismo angloamericano» – come riportato nella quarta di copertina del volume – nonché i cosidetti
trauma studies. Tali interessi sono evidenti in questo dettagliato saggio sul celebre graphic
novel di Art Spiegelman, Maus, in cui l’a. racconta la vita di suo padre Vladek, internato
ad Auschwitz. Porro ha già pubblicato diversi articoli su Spiegelman e in questo libro si
occupa in dettaglio di due sue opere: il ben noto Maus (vol. I 1986, vol II 1992) e il più
recente In the Shadow of No Towers (2004). Le opere sono analizzate come veri e propri
documenti dell’esperienza concentrazionaria e del trauma che essa provoca nei sopravvissuti e nei loro discendenti. Il saggio cerca pertanto di interpretare il conflittuale rapporto tra Spiegelman e suo padre, illustrato in Maus, attraverso la teoria della trasmissione
transgenerazionale del trauma, il trauma della esperienza dei campi di sterminio subito
dai genitori di Spiegelman. La prima parte del libro è dedicata alla analisi di Maus, soprattutto della (molto discussa) metafora animale dei gatti (tedeschi) e dei topi (ebrei) e delle
sue conseguenze per la rappresentazione dell’identità. Nella seconda parte del volume,
l’a. esamina il successivo In the Shadow of No Towers, una violenta polemica sull’attentato
alle torri gemelle a New York. Secondo Porro, quest’opera è da interpretare sia come
sintomo della condizione traumatica dello stesso Spiegelman, sia come testimonianza
della sua visione della storia come «interminabile catena di traumi» (p. 138). Questa è
indubbiamente la parte più originale dell’analisi, ma anche quella meno convincente: il
problema di fondo è che l’a. sembra considerare come prove di un trauma sia eventi della
vita di persone reali (Spiegelman e i suoi genitori), sia artifici puramente letterali, quali
appunto le allusioni alla persecuzione subita da Vladek presenti in In the Shadow of No
Towers. Se l’analisi di Maus può basarsi su un imponente lavoro di ricostruzione e analisi
della memoria fatta dallo stesso Spiegelman, e risulta perciò assai fondata, l’analisi in questi termini di un’opera per molti versi estemporanea e frammentaria come In the Shadow
of No Towers appare inevitabilmente molto più arbitraria. In particolare, la dettagliata
discussione di quest’opera in termini di un «post-traumatic stress disorder» (pp. 118 ss.)
subito da Spiegelman, per quanto plausibile, si basa solo su un’ interpretazione dell’opera
stessa. Sarebbe stato forse più proficuo esaminare la trasmissione del trauma in opere che
l’affrontano esplicitamente, come per esempio il graphic novel I Was a Child of Holocaust
Survivors di Bernice Eisenstein (2007). Questi rilievi nulla tolgono a un lavoro che rappresenta un’analisi coerente ed esaustiva di uno dei più importanti memoir mai prodotti
sui campi di sterminio.
Federico Damonte
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Matteo Pretelli, La via fascista alla democrazia americana. Cultura e propaganda nelle comunità italo-americane, Viterbo, Sette Città, 118 pp., € 12,00
«L’America, democratica, lascia i giovani in piena libertà, come i puledri in piena
prateria, senza alcuna preoccupazione, pur sapendo che le carceri ed i riformatori sono
rigurgitanti di giovani che, se educati a sentimenti onesti, potrebbero costituire l’orgoglio
delle famiglie». È un passo, questo, di un articolo del 1938 di «Ordine Nuovo», organo
dell’Order Sons of Italy in Pennsylvania, riportato nel volume di Pretelli (p. 49), che sintetizza le strategie di diplomazia culturale e di propaganda messe in atto dal regime fascista nei confronti delle comunità immigrate italiane, specie delle generazioni più giovani,
negli Stati Uniti. L’a., sulla base di ricerche archivistiche di prima mano e dello spoglio
della stampa italiana ed etnica italo-americana, ricostruisce i rapporti che si intrecciarono
fra le due sponde dell’Atlantico. Rientravano in questo progetto l’intento di rivitalizzare
l’apprendimento della lingua italiana, poco praticata dagli immigrati a favore dell’uso
dei dialetti, attraverso la promozione di scuole italiane, l’introduzione della lingua nelle
high school americane, le attività della Società Dante Alighieri e della Case italiane come
quella di New York, ma anche l’invio nelle colonie estive italiane dei figli degli immigrati.
Particolare attenzione venne rivolta ai programmi scolastici e ai libri utilizzati nelle scuole italiane negli Stati Uniti e all’importanza della storia come disciplina principe per la
costruzione di un’identità italiana e fascista, mediante una rilettura selettiva del passato e
l’esaltazione del mito di Roma. Un uso politico della storia che portò alla «fascistizzazione» degli italiani illustri (Dante Alighieri in primis) o all’interpretazione del Risorgimento
come «una sorta di “anticamera” della presa di potere di Mussolini» (p. 69). Un progetto
che venne accolto da coloro che, sensibili alle sirene del regime (l’Order Sons of Italy o il
giornale «Il Progresso italo-americano»), nella diffusione della lingua italiana vedevano la
possibilità di mantenere i legami identitari con i valori e le tradizioni della madrepatria,
fortemente scossi dalle seduzioni esercitate dallo stile di vita americano. A differenza di
quanto accadde in altri contesti, si trattò di una strategia «morbida» e ambivalente. Pur
non esente da un certo antiamericanismo, il regime fascista portò avanti negli Stati Uniti
una politica attenta a mantenere buone relazioni diplomatiche, favorendo l’acquisizione
della cittadinanza americana degli immigrati italiani, smussando le posizioni più nazionaliste, decidendo, nel 1929, di chiudere i fasci, troppo radicali, istituiti sul suolo americano, nonché cercando di limitare i contatti con i nazisti, invisi all’opinione pubblica americana. Non bastò. Pur in presenza di dati non esaustivi, l’a. sottolinea come la ricezione
della propaganda da parte delle giovani generazioni fosse scarsa. Ciò che appare evidente
è che, all’entrata in guerra, i giovani italo-americani, se non in rari e sporadici casi, non
risposero all’appello patriottico del regime e la guerra stessa rappresentò un fattore di
accelerata americanizzazione per la comunità immigrata.
Raffaella Baritono
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Dominique Kirchner Reill, Nationalists Who Feared the Nation: Adriatic Multi-Nationalism in Habsburg Dalmatia, Trieste, and Venice, Stanford, Stanford University Press, 313
pp., $ 65,00
Niccolò Tommaseo, Francesco dall’Ongaro, Pacifico Valussi, Stipan Ivičević, Medo
Pucić (Orsato de Pozza) e Ivan August Kaznačić sono i protagonisti di questo volume,
che indaga lo sviluppo del pensiero «multi-nazionale» nello spazio adriatico di metà ’800.
Negli anni ’40 questi scrittori e attori politici argomentano la necessità di preservare e
sviluppare le preziose caratteristiche multinazionali dell’Adriatico e si legano in una rete
di relazioni private e pubbliche, specialmente attorno a Tommaseo, campione acclamato dello sviluppo letterario italiano e illirico, che per gli italiani pubblica a Firenze, e
nel Gabinetto Vieusseux, e per i croati a Zagabria, con Gaj e Kukuljević. L’unificazione
asburgica dei territori veneziani, ragusei e austriaci ha messo in risalto l’eterogeneità ma
anche i forti legami lungo l’Adriatico (Reill cita Braudel e Matvejević), favorendo complesse e originali idee di nazione, all’insegna di comunanze e solidarietà sia interclassiste
che interetniche. Il multinazionalismo adriatico si concilia con il plurilinguismo dalmata
e con il pulsante cosmopolitismo di Trieste, dove Dall’Ongaro e Valussi animano il giornale letterario «La Favilla» e sostengono lo sviluppo culturale e nazionale slavo offrendo
ampio spazio ai colleghi illirici e a Tommaseo, ispiratore e assieme fustigatore di entrambi
i nazionalismi culturali, esaltati entrambi secondo le loro specificità. Sui progetti letterari,
linguistici e pedagogici di questi multinazionalisti irrompe la rivoluzione. Se è al dominio
adriatico della Serenissima che si deve molto per lo sviluppo di un sostrato adriatico bilingue italo-slavo, è nella stessa metropoli veneziana della rivoluzione del ’48 che questo
volume giunge per spiegare l’inizio della crisi del multinazionalismo adriatico. Chi aveva
osservato e teorizzato l’indispensabile sinergia culturale tra Italia e Slavia deve da allora
far fronte agli orientamenti sempre più esclusivisti delle rispettive ideologie nazionali, alle
aspirazioni territoriali contrastanti e al problema del controllo territoriale e politico, in
un ambito politico europeo in forte mutamento. Nella Venezia sotto assedio austriaco,
Dall’Ongaro è spinto a mettere da parte la sua venerazione verso il mondo slavo, da cui
veniva la truppa asburgica, e a sviluppare le sue invettive contro l’immoralità e inferiorità
dei «croati» (la «peste croata», p. 191). Dopo lo spartiacque del ’48, si spostano a favore
dell’integrazione della Dalmazia alla Croazia sia Pucić che Ivičević, ma non Kaznačić, che
anzi pubblica in italiano il suo giornale raguseo «Avvenire», e idealmente concorda con
Valussi sull’importanza che le aree di transito e confine mantengano una sostanziale autonomia amministrativa, economica e culturale. Un libro appassionante, ben scritto e ben
documentato, attraverso l’ampia letteratura e le fonti archivistiche sia italiane che croate.
Vanni D’Alessio
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Lucy Riall, La rivolta. Bronte 1860, Roma-Bari, Laterza, 354 pp., € 20,00
I fatti di Bronte tradiscono i difficili rapporti tra Risorgimento, Stato nazionale e
Mezzogiorno, richiamando le definizioni fin troppo note di rivoluzione agraria mancata, sconfitta contadina, conquista violenta del Sud. Ma le formule non si addicono alla
storia, come suggerisce questo bel libro di Lucy Riall, forse il suo migliore. Alla studiosa
irlandese, le terribili vicende del grosso villaggio etneo – vulcano alle falde del vulcano –
dicono molto di più. Bronte testimonia i conflitti locali di territori ancora segnati, a metà
’800, dal marchio della feudalità. È, al tempo stesso, parte della storia della Sicilia e della
sua irriducibilità al regime borbonico, come mostrano gli strappi del 1799, del 1820, del
1848. Ed è sintomo eloquente del drammatico incontro del Mezzogiorno con il Risorgimento e il nazionalismo italiano. Ma neppure lo si capirebbe, avverte Lucy Riall, se non
inserendolo nel fenomeno dell’imperialismo britannico. La ducea è intitolata ai Nelson,
eredi di Horatio. Gli inglesi hanno cospicui interessi in Sicilia.
Il ruolo degli inglesi, peraltro, non sembra decisivo. Almeno nel caso in questione.
Dopo tutto, l’amministrazione della ducea annasperà lungamente tra buchi contabili,
truffe, fallimenti, perfino suicidi. La strada della commercializzazione e privatizzazione
delle risorse agricole è in salita. Piuttosto, è la questione delle terre comuni a costituire il
nocciolo duro della storia di Bronte: attorno alla loro proprietà e al loro utilizzo, il contenzioso è cronico, i conti in sospeso acerrimi e sempre aperta la possibilità che il conflitto
degeneri nella violenza. Tra inglesi, notabili locali in guerra per il Municipio e rivendicazioni contadine, ogni equilibrio è irrealistico. E quando il ciclo politico lo permette, le
contrapposizioni prendono fuoco.
La rivolta popolare dell’agosto 1860 brucerà letteralmente i beni e i corpi dei notabili (più che degli inglesi, a testimonianza che il nodo è anzitutto siciliano), mostrando
un campionario di inaudita barbarie, che vive negli spazi lasciati vuoti dallo stato e da
un’élite locale ambigua, se non sobillatrice. E che si tratti di violenza rituale, come argomenta Riall, non fa che sottolinearne la distanza dall’Europa atlantica. Poi, all’indomani
del massacro, sarà la volta di Nino Bixio e di quella che l’a. chiama la sua «brutale repressione». Ovvero un processo a norma di codice penale militare, cinque condanne a morte
e un centinaio di arresti. Brutale, forse. Ma che altro poteva fare Bixio, c’è da chiedersi? E
cos’altro avrebbe fatto, di lì a poco, lo stato liberale contro i «briganti»?
I fatti di Bronte – ovvero di un Mezzogiorno messo alla prova del mercato, della
nazione e dello Stato – sono ricostruiti da Riall con accortezza documentaria e una vena
narrativa capace di sedurre il lettore. La sua è ottima e concreta storiografia di matrice
anglosassone, più che (come rivendica lei stessa) un incrocio tra microstoria e storia globale: la prima avrebbe richiesto altre metodiche e una diversa scala analitica, la seconda
appare depotenziata dal segno in gran parte autoctono della vicenda. Etichette a parte,
però, mai quel teatro di aspirazioni intense e inimmaginabili crudeltà era stato illustrato
con tanta efficacia.
Paolo Macry
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Hedwig Richter, Ralf Richter, Die Gastarbeiter-Welt. Leben zwischen Palermo und Wolfsburg, Paderborn, Ferdinand Schöningh, 294 pp., € 34,90
Il libro ricostruisce la storia dell’emigrazione italiana a Wolfsburg, la città tedesca
della Volkswagen dove, a partire dal 1962, arrivano circa 60.000 operai italiani in gran
parte giovani e celibi provenienti dal Sud e dalle isole. La direzione della fabbrica, in
seguito alla costruzione del muro di Berlino, aveva deciso di utilizzare lavoratori stranieri
con contratti annuali prorogabili, secondo il trattato italo-tedesco del 1955 (p. 36). Una
storia breve e intensa, visto che nel giro di dieci anni la maggior parte degli immigrati
italiani tornerà in patria (p. 1).
Gli autori descrivono dettagliatamente l’impegno delle istituzioni tedesche circa
l’accoglienza dei nuovi lavoratori. Vengono costruiti alloggi, organizzati luoghi di ritrovo,
corsi di lingua, una buona assistenza medica (pp. 46-47). È questa una parte importante
del volume, soprattutto per le fonti utilizzate (i vari e ricchi archivi della fabbrica) rispetto
ad altre ricerche su Wolfsburg. L’intento del libro – si dice nell’introduzione – è quello
di prendere le distanze dal tradizionale «racconto di vittime» (Opferplot) che caratterizzerebbe gran parte della ricerca tedesca sulle migrazioni, di ricostruire una storia del lavoro
nella Germania tra gli anni decisivi 1960-1970, ma soprattutto di indagare sulle ragioni
della mancata integrazione dei lavoratori meridionali nella società tedesca, nonostante gli
sforzi organizzativi delle istituzioni. Solo pochissimi tra loro fanno carriera nella fabbrica,
utilizzano gli strumenti culturali offerti (p. 97), si iscrivono al sindacato tedesco (p. 107).
Legati a una «società agraria pre-moderna» (p. 12), influenzati dalla Chiesa, concentrati
sul risparmio, sul ritorno e sulla nostalgia verso la famiglia d’origine gli immigrati «tendono all’isolamento e alla passività» (p. 124). Le interviste a quei pochi operai che restano in
Germania e che fanno carriera nel sindacato confermerebbero queste conclusioni, tuttavia
poco convincenti.
Il concetto di integrazione usato dagli autori sembra inadeguato a interpretare una
storia migratoria, presuppone un adattamento a una società rigida, senza una reciprocità.
Scopriamo invece che gli italiani a Wolfsburg lavorano nel tempo libero nelle varie case
tedesche come idraulici o muratori, frequentano le ragazze (p. 68) e i bar della città (p.
75), che sembra costretta a riconfigurarsi nell’impatto con i nuovi abitanti. Il libro denota
un approccio arretrato rispetto agli studi italiani più recenti sulla mobilità, ma anche sulla
storia della famiglia italiana, per la cui interpretazione non è sufficiente la lettura della
storia dell’Italia contemporanea di P. Ginsborg. La quasi assenza di reti familiari durante
la migrazione gioca un ruolo centrale, ignorato dagli autori (F. Ramella, Sulla diversità
della famiglia immigrata, in «Quaderni storici», 1, 2013). Sembra che, per superare un
metodo da Opferplot, manchi ancora una storia più complessa e più problematica degli
immigrati di Wolfsburg.
Angiolina Arru
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Domenico Rizzo, Vita di caserma. Autorità e relazioni nell’esercito italiano del secondo dopoguerra, Roma, Carocci, 183 pp., € 20,00
Probabilmente qualche storico militare non ne lamentava l’assenza. Tuttavia, nonostante le opere di sintesi, le ricerche, i pamphlet e i cataloghi sui militari italiani e, invero
in misura minore, sulla leva obbligatoria non scarseggino, uno studio sulle relazioni interne e le dinamiche discorsive centrate sull’emotività all’interno delle forze armate del
bel paese mancava.
Senza lasciarsi trarre in inganno dal titolo del volume, esso è uno studio ben più ampio (quantunque non sistematico) sulle dinamiche di potere nelle forze armate in generale
(e soprattutto nell’esercito) che si muove sul lungo periodo, dalla fine dell’800 agli anni
’50. Aperto da una prefazione autoriale in cui si esplicitano le scelte operate e il percorso
metodologico seguito, il volume è diviso in tre distinti capitoli. Nel primo, intitolato Lessico familiare (pp. 17-61), Rizzo ripercorre – setacciandola con gli arnesi degli emotional
studies – la storia della disciplina militare attraverso la saggistica specialistica e le modifiche
apportate al Regolamento di disciplina, il testo che sancisce i principi cardine dell’istituzione militare, che delinea i contorni dei dispositivi gerarchici e che stabilisce cosa debba
essere considerato lodevole, lecito, adeguato e finanche decoroso. Prendendo in considerazione i testi del 1859, 1872, 1907 e 1929 (con gli aggiustamenti del 1935), l’a. giunge
alla conclusione che si trattò di una lunga marcia verso un regime interno sempre meno
coercitivo e punitivo, all’insegna della continuità da cui nemmeno il fascismo si scostò
(visto che punire avrebbe significato riconoscere il fallimento dell’educazione scolastica
paramilitare e l’estraneità – se non l’ostilità – della gioventù allo spirito del regime). La seconda parte del volume, Rinascere liberi (pp. 62-108), tratteggia le direttrici del dibattito
sul concetto di disciplina e sul modello di difesa avvenuto nel secondo dopoguerra, con
una compagine di quadri effettivi frastornata dall’onta dell’8 settembre e dall’ebbrezza
cagionata da idee quali democrazia e libertà. Infine, nell’ultimo capitolo, Servizio di leva
(pp. 109-172), l’a. analizza le modalità relazionali tra superiori e subalterni veicolate dai
primi, basandosi sulle Memorie storiche dei reparti. Prendendo in considerazione cinque
Car (Como, Cuneo, Orvieto, Bari e Palermo) emerge come il linguaggio dei superiori fosse connotato da una retorica emozionale che attingeva dai campi semantici della famiglia,
della nazione, del dovere e delle virtù e come tra le preoccupazioni principali degli ufficiali
ci fosse anche il benessere – socio-economico ma anche psicologico – dei soldati.
Il quadro complessivo conferma come dall’800 l’ufficialità abbia riproposto con i
propri sottoposti «lo schema delle relazioni tra notabili e clienti» (p. 15) e come queste si
siano umanizzate col trascorrere del tempo. Il risultato è che lo stereotipo delle relazioni
di autorità all’interno dell’istituzione con le stellette – rappresentato, nella sua versione
iperbolica, dal sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket – ne esce considerevolmente ridimensionato.
Eros Francescangeli
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Federico Robbe, L’impossibile incontro. Gli Stati Uniti e la destra italiana negli anni Cinquanta, Milano, FrancoAngeli, 304 pp., € 36,00
Il volume ricostruisce «l’approccio, i giudizi e i tentativi di condizionamento» (p. 11)
dei vari centri decisionali americani nei confronti della destra italiana degli anni ’50, con
l’intento di smentire l’idea di un rapporto organico fra Usa e destra italiana finalizzato
ad ostacolare con ogni mezzo l’avanzata del Pci. Una tesi – diffusa per la verità più nella
pubblicistica che in storiografia – secondo la quale l’utilizzo strumentale dei neofascisti
avrebbe inoculato in Italia i germi eversivi fino alla strategia della tensione.
Basandosi su un’accurata ricerca negli archivi americani, Robbe esclude invece che
negli anni ’50 gli Stati Uniti abbiano avuto l’intenzione di aprire prospettive concrete alla
destra neofascista. Malgrado i ripetuti tentativi di accreditarsi come partner indispensabile alla lotta al comunismo, il Msi rimaneva per Washington un partito violentemente antioccidentale e antiamericano, favorevole all’autarchia economica e al neutralismo:
pertanto il suo coinvolgimento a fianco della Dc non fu mai considerato auspicabile. Il
Partito monarchico finì invece effettivamente al centro delle manovre dell’ambasciatrice
Clare Boothe Luce, che non solo caldeggiò la svolta legalitaria del Partito, ma tentò anche,
senza riuscirci, di trasformare la destra monarchica in una forza liberale «non più vincolata al sottoproletariato meridionale» e «legittimata davanti all’opinione pubblica europea
ed americana per i suoi sforzi democratici» (p. 137).
Almeno tre pregi del volume sono da segnalare. Il primo è quello di evidenziare le
differenze di vedute, anche sostanziali, fra i vari centri decisionali della politica estera
statunitense – Cia, Dipartimento di Stato, ambasciate – evitando di eludere, come purtroppo spesso accade, il problema della complessità della catena decisionale americana.
Il secondo è quello di prestare attenzione al ruolo giocato da stereotipi persistenti e reciproci: per gli americani soprattutto il pregiudizio antropologico negativo dell’italiano
tendenzialmente corrotto e poco incline alla democrazia. Da parte italiana, la convinzione che «l’anticomunismo fosse per gli Usa il criterio (e non un criterio) per rapportarsi
al nostro paese» (p. 270). L’analisi ha infine il merito di includere nel quadro la destra
cosiddetta «carsica» che faceva riferimento a figure come Montanelli e Longanesi. Un
variegato fronte conservatore distante dai partiti che talvolta godette – o credette di godere – dell’appoggio degli Usa, salvo poi formulare proposte irricevibili e scoprire che le
«pregiudiziali democratiche» statunitensi erano troppo forti, come dovette ammettere lo
stesso Montanelli (p. 159).
Meno convincenti appaiono invece i tentativi di rivisitare figure controverse come
Edgardo Sogno, o passaggi decisivi della storia italiana come il governo Tambroni: oltre
che lamentare, anche a ragione, una eccessiva parzialità della storiografia, non viene offerta un’adeguata argomentazione che delinei ipotesi davvero nuove.
Lucrezia Cominelli
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Eugene Rogan, Gli arabi, Milano, Bompiani, 764 pp., € 26,00 (ed.or. New York, 2009)
Esce in edizione italiana la storia degli arabi di Eugene Rogan, successore di Albert
Hourani alla direzione del prestigioso Middle East Center del St. Antony’s College, a
Oxford. Il poderoso volume si colloca tra le grandi sintesi anglosassoni a firma di insigni
studiosi quali lo stesso Hourani (A History of Arab Peoples, 1991) o Bernard Lewis (The
Arabs in History, II ed. 1993). Frutto di anni di ricerca e di insegnamento, il libro è basato
principalmente, per motivata scelta dell’a., su fonti locali arabe e turche, alcune note,
altre inedite. Queste ultime sono integrate da documenti di grande interesse, come il
carteggio tra re Huseyn e Ibn Saud conservato presso gli archivi del St. Antony’s College.
Quest’opera ha il pregio di consegnare al lettore italiano una sintesi accurata e di gradevolissima lettura che comprende cinquecento anni di storia degli arabi, da cui traspare tutta
la passione dell’a. per il suo oggetto di studio.
Il volume distingue quattro fasi nella storia moderna dei popoli arabi, ma, a differenza dei due volumi sopra citati, Rogan fa partire il suo racconto nel momento in cui gli
ottomani conquistano la Siria e l’Egitto all’inizio del Cinquecento. È la stessa cesura scelta
anche da Pier Giovanni Donini nel suo Il mondo islamico. Breve storia dal Cinquecento a
oggi (2003). La suddivisione cronologica proposta parte quindi dal periodo ottomano,
cui segue la fase della colonizzazione europea, il periodo della guerra fredda e quello della
globalizzazione e dell’egemonia statunitense. Pur essendo opera di un modernista, il volume è dedicato per gran parte alla storia contemporanea del mondo arabo. È senz’altro un
periodo difficile quello studiato da Rogan, che ha visto gli arabi perdere l’indipendenza e
soffrire per la sottomissione a varie dominazioni. Tuttavia, l’a. cerca di restituire agli arabi
un ruolo da protagonisti nella costruzione della loro vicenda umana e del loro futuro,
anche nei momenti più bui della loro storia. Lo fa proponendo spesso nella narrazione
i racconti dei testimoni, personaggi di primo piano o minori, tratti da diari e cronache,
come il barbiere di Damasco che a metà del ’700 registra gli umori della città (pp. 59 ss),
o il colonnello ‘Urabi che racconta nelle sue memorie l’Egitto dei khedivé e l’aggressione
inglese del 1882 (pp. 173 ss), come le belle memorie di Tahtawi sul suo viaggio a Parigi
che aprì l’Egitto alla modernità all’inizio dell’800, ampiamente citate nel testo, di cui
manca ancora, purtroppo, una traduzione italiana.
Nell’ultimo capitolo l’a. si concentra sull’attualità del mondo arabo nel post guerra
fredda. In mancanza di fonti archivistiche, Rogan usa ancora testimonianze e diari dei
protagonisti, piuttosto che fonti giornalistiche, scelta che accresce il valore narrativo e la
vivacità del racconto. Nelle vicende degli ultimi anni privilegia l’esposizione del punto di
vista degli arabi. Severo il giudizio dell’a. sulla seconda guerra americana in Iraq (p. 683).
Completa l’opera un ragionato indice analitico e un accurato apparato iconografico.
Paola Pizzo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Caterina Roggero, L’Algeria e il Maghreb. La guerra di liberazione e l’unità regionale, Milano-Udine, Mimesis, 173 pp., € 16,00
Questo libro è «la storia di un’idea […] non realizzata […] di un piano mai sbocciato, ma concepito, durante il conflitto franco-algerino» (p. 13): l’unità maghrebina, un
ideale duraturo, consacrato persino nelle Costituzioni, ma realizzato parzialmente soltanto nel 1989 con l’Unione del Maghreb Arabo.
La guerra di liberazione algerina (1954-1962) è scelta come arco temporale di riferimento, e il punto di vista del Fronte di liberazione nazionale privilegiato. Di conseguenza,
oltre a consultare le fonti militari e diplomatiche francesi, l’a. ricorre, meritoriamente, ai
documenti d’archivio algerini, all’organo di stampa del Fln, «El Moudjahid», alla memorialistica e alle interviste di leader algerini.
Il volume offre una puntuale ricostruzione cronologica, ripercorrendo le principali
tappe dell’unità maghrebina, in un contesto regionale propizio all’epoca alle unioni panarabe. Dopo l’occasione mancata della conferenza di Tunisi, prevista per il 22 ottobre 1956
e annullata a seguito del dirottamento dell’aereo con a bordo la delegazione algerina,
una rinnovata compattezza si registra alla conferenza tripartita di Tangeri (27-30 aprile
1958) dove l’estensione del conflitto ai territori vicini sembra essere all’ordine del giorno
e dove, superando formule originali quali la Tunigérie («la Repubblica tunigerina federale o unitaria», p. 78), le istituzioni della futura federazione iniziano a prendere forma.
Le divergenze tra i paesi «fratelli» non tardano, però, a riemergere. I principali ostacoli
all’unità maghrebina sono costituiti dalla politica di cooperazione che Marocco e Tunisia
intendono mantenere con la Francia, soprattutto dopo la nomina a primo ministro di de
Gaulle; dal «fattore egiziano», ovvero dai disegni egemonici di Nasser; dalla questione dei
confini e del controllo delle risorse nell’area sahariana.
La solidarietà del popolo maghrebino alla causa algerina (compreso l’arruolamento
in unità di combattimento) è nel volume spesso evocata, ma l’attenzione dell’a. è rivolta
principalmente all’operato dei dirigenti nordafricani. Si tratta dunque di una storia vista
da Sud, che attinge anche a documenti in arabo, ma la prospettiva dell’élite rimane il focus
dell’analisi. Le divisioni tra leadership interna ed esterna, così come tra ala militare e civile
del Fln sono delineate con chiarezza in un lavoro volto a esaminare strategie e poste in
gioco, distinguendo il piano della discussione interna da quello delle posizioni ufficiali.
Con l’occhio rivolto ai vertici piuttosto che alla base, l’a. non menziona neppure marginalmente Frantz Fanon, teorico di spicco del ruolo delle masse nella rivoluzione algerina.
Eppure, da Tunisi, dove si era trasferito nel 1956, Fanon godeva di un punto di osservazione privilegiato, visto che la Tunisia ospitava organi di governo e comandi militari
algerini. La vocazione panafricana di Fanon avrebbe consentito di osservare in una luce
diversa l’ideale panmaghrebino. Forme e divenire delle idee nazionali non costituiscono
comunque oggetto d’interesse dell’a., che non richiama questioni (e relativa letteratura)
connesse con l’immaginario e le rappresentazioni.
Daniela Melfa
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Marco Rossi, Livorno ribelle e sovversiva. Arditi del popolo contro il fascismo 1921-1922,
Pisa, Bfs, 110 pp., € 12,00
Già autore di una monografia sul rapporto tra Arditi di guerra e Arditi del popolo,
uscita nel 1997 e rivisitata – con significativi aggiornamenti – per una nuova edizione
nel 2011, Rossi affronta ora la specificità dell’arditismo popolare a Livorno. Nei rioni
popolari della città, infatti, dove diffusi erano gli atteggiamenti di opposizione all’autorità costituita e le forme di illegalismo di massa – e intense furono le tensioni rivoluzionarie del primo dopoguerra – nel luglio 1921 si costituì la sezione del movimento di
Argo Secondari e Giuseppe Mingrino. L’a. pone particolare risalto al legame tra la nascita
dell’organizzazione armata antifascista e la composizione sociale delle classi subalterne
livornesi (lavoratori salariati del porto e della zona industriale, piccoli artigiani e settori
sottoproletari) e la loro tradizione di comportamenti sovversivi. Non solo, quindi, i quartieri popolari rimasero impermeabili al fascismo, ma gli Arditi del popolo presero corpo e
si diffusero velocemente sulla base di un istintivo e radicato ««odio di classe» che, già nei
mesi precedenti, aveva trovato specifiche forme di autodifesa armata (per esempio, la Lega
sovversiva studentesca del febbraio 1921).
Costituitosi sulla base del rapporto con la Lega proletaria dei reduci e comandato dal
socialista ed ex tenente degli Arditi di guerra Dante Quaglierini, il battaglione di Livorno
arrivò a contare circa 500 uomini, con una consistente sezione in città, alla quale erano
collegati altri nuclei in paesi e frazioni vicine, come ad Ardenza. Nonostante le difficoltà
nell’armamento, nel corso dell’estate il movimento dette prova del suo radicamento e della sua forza, tanto che il battaglione fu indicato nei documenti nazionali dell’associazione
come esempio da seguire, al pari di altre città in cui si erano consumati scontri significativi
con le camice nere, come a Viterbo e Sarzana.
Anche a Livorno, tuttavia, la storia degli Arditi del popolo fu travagliata. Come in
gran parte delle città in cui si era diffuso il movimento, la sconfessione critica del Partito
socialista dopo il Patto di pacificazione dell’agosto e le ondate di arresti della Pubblica
Sicurezza segnarono l’aprirsi della sua crisi. Segno di questo passaggio – che forse meritava
maggiore approfondimento – fu la sostituzione del comando del battaglione con Athos
Freschi, anarchico ed ex sergente degli Arditi. L’Unione anarchica italiana, infatti, rimase
la sola componente politica a sostenere, qui come nel resto d’Italia, l’organizzazione e,
ciò nonostante, anche in essa non mancò il dibattito, sia per l’aspetto «militarista» che
per «l’incerta collocazione di classe» (p. 60). Resta il fatto che furono proprio militanti
dell’Usi e della Uai a reggere l’urto della repressione e dello squadrismo, fino alle tragiche
giornate dello «sciopero legalitario», quando la «rossa» Livorno subì omicidi, devastazioni
e le dimissioni dell’amministrazione di sinistra.
In appendice l’a. propone un breve saggio sullo sciopero di Livorno del febbraio
1920 per la liberazione dell’anarchico Errico Malatesta e l’elenco di una cinquantina di
Arditi del popolo livornesi.
William Gambetta
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Giorgio Sacchetti, Lavoro, democrazia, autogestione. Correnti libertarie nel sindacalismo
italiano (1944-1969), Roma, Aracne, 372 pp., € 21,00
La ricerca intende dimostrare l’esistenza di una corrente anarchica e libertaria nel
mondo sindacale italiano dal 1944 al 1969, valorizzando la coerenza interna che avrebbe
caratterizzato il percorso delle culture libertarie e delle tendenze autogestionarie poi riemerse con l’«autunno caldo»; una tesi che, scrive l’a., è rimasta sottotraccia e non è stata
mai chiarita in ambito storiografico.
In tal modo viene spiegato l’incontro tra forme, linguaggi, pratiche delle proteste
operaie esplose nel 1968-1969 con vecchie culture politiche dell’anarcosindacalismo e
del movimento anarchico; culture che, dalla Liberazione in poi, attraversarono l’«interminabile secondo dopoguerra» seguendo un percorso coerente, per quanto accidentato,
minoritario, carsico e non univoco. L’«autogestione come prassi e sistema “dottrinale”»,
quindi, non fu una novità sorta dal nulla con la stagione dei movimenti, ma il risultato di
«una robusta e antica corrente di pensiero, certo alimentata da nuove esperienze sociali,
culturali e finanche esistenziali», tanto da rendere possibile – spiega l’a. – una «sintonia
quasi perfetta» tra i libertari, reduci della guerra di Spagna e della lotta antifascista, e la
parte di «gioventù ribelle» che alla fine degli anni ’60 marcava una «ragguardevole distanza con l’ortodossia marxista» (pp. 11, 15, 239).
Il volume si apre con un capitolo sulla ricostruzione del movimento e delle organizzazioni anarchiche tra fascismo e guerra; il secondo capitolo analizza la fase compresa tra
la Liberazione e l’inizio della guerra fredda, con la nascita della Cgil unitaria e l’elezione
del primo Parlamento repubblicano. Il terzo è invece centrato sugli anni della repressione,
delle scissioni sindacali e della rinascita dell’Unione sindacale italiana, mentre il quarto
dalle «speranze del 1956» arriva al 1962 e agli scontri di piazza Statuto. Infine, nell’ultimo
capitolo l’a. conclude l’analisi illustrando la crescita delle lotte e delle proteste negli anni
’60, fino all’autunno caldo, alla crescita delle forze anarcosindacaliste, alla diffusione di
comitati di base e di pratiche autogestionarie di azione diretta, all’emergere di una nuova
«unità della classe» che, in antagonismo col movimento sindacale istituzionalizzato, si
incontrò con una «riflessione libertaria» finalmente «al passo coi tempi» (p. 249). Proprio
nella parte conclusiva, forse, si doveva dare più spazio non solo all’incontro, ma anche
allo scontro fra vecchie generazioni di anarchici e «giovani ribelli». Basti ricordare, ad
esempio, l’esito del congresso costitutivo dell’Internazionale delle federazioni anarchiche
(Carrara 1968), finito con una frattura tra delegazioni europee (capeggiate da D. Cohn
Bendit) e organizzatori, accusati di gestire in modo gerarchico e burocratico il congresso.
L’opera contribuisce a farci conoscere e indagare la storia dell’anarchismo, delle sue
articolazioni e dei suoi protagonisti, grazie anche alle numerose informazioni fornite (raccolte in archivi italiani e stranieri, numerosi periodici e pubblicazioni varie) e al materiale
presente nell’ampia Appendice documentaria (pp. 253-333).
Roberto Bianchi
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Angela Bianca Saponari, Il corpo esiliato. Cinema italiano della migrazione, Bari, Progedit,
136 pp., € 16,00
È noto come l’Italia sia stata terra di emigrazioni, teatro di continui movimenti di
uomini che si mettevano alla ricerca di un benessere ritenuto irraggiungibile nella propria
terra natia. È altrettanto noto come le coste dell’Italia meridionale siano successivamente
divenute, a partire dagli anni ’90, punto di approdo per migliaia di persone che si spingevano – e si spingono tuttora – verso il nostro paese. È dall’individuazione di questi
due movimenti speculari, e dall’analisi delle modalità adottate dal cinema per raccontarli
nell’arco di un sessantennio, che Angela Bianca Saponari prende le mosse nel suo libro Il
corpo esiliato.
D’altronde le intenzioni dell’a. risultano chiare già nella tripartizione che informa la
struttura del libro, dalla quale risulta una prima sezione dedicata all’emigrazione interna,
una seconda dedicata all’emigrazione esterna, e un’ultima dedicata all’immigrazione, quasi fosse un controcampo delle prime due.
Saponari ha selezionato e analizzato alcuni film appartenenti a decenni diversi, organizzandoli secondo un criterio cronologico. Dieci titoli in tutto, da Il cammino della
speranza (1950) di Pietro Germi, ai più recenti Nuovomondo e La sconosciuta (2006),
diretti rispettivamente da Emanuele Crialese e Giuseppe Tornatore, considerati come casi
di studio significativi all’interno di una ben più ampia rosa di opere che si sono confrontate col tema delle migrazioni, e delle quali l’a. ha cercato di dare sommariamente conto
nell’ampio capitolo introduttivo che inaugura questo volume.
Al centro dell’attenzione viene posta principalmente la ricerca di codici narrativi
e stilistici atti a render conto del tema. Una ricerca che, come si evince da questo testo,
ha attraversato diversi momenti della storia del cinema italiano, a partire dalla crisi del
neorealismo fino alla nuova autorialità degli anni Duemila, passando per il cinema civile
e la commedia all’italiana.
Ciascuno dei dieci film presi in considerazione viene storicamente contestualizzato e
analizzato anche oltre la specificità dell’argomento che giustifica la sua presenza all’interno di questo volume, con ampia attenzione riservata alla ricezione critica dei singoli film
al momento della loro uscita. Se da un lato questa scelta rende maggiormente esaustiva
l’analisi filmica, dall’altro rischia in alcuni casi di lasciar scivolare in secondo piano il tema
centrale del volume, il quale avrebbe forse necessitato di un più dettagliato inquadramento generale – in termini storici e sociologici – all’interno del capitolo introduttivo, in
particolare per quel che concerne i suoi legami con la complessa questione dell’identità.
Il pregio di questo libro di Saponari resta senza dubbio quello di aver gettato le basi
per una possibile rilettura della storia del cinema italiano alla luce di un argomento di
grande attualità, che può essere compreso fino in fondo soltanto se i suoi nodi irrisolti
vengono ricercati nei meandri della nostra storia nazionale, della quale il cinema ha saputo in molti casi farsi carico.
Elio Ugenti
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Paolo Savegnago, Le organizzazioni Todt e Pöll in provincia di Vicenza. Servizio volontario
e lavoro coatto durante l’occupazione tedesca (novembre 1943-aprile 1945), Verona, Cierre,
2 voll., 307+327 pp., € 24,00
Diplomato a Venezia presso l’Accademia di Belle Arti, Paolo Savegnago svolge la
professione di grafico e designer. L’interesse per alcuni aspetti particolari della seconda
guerra mondiale lo ha avvicinato alla ricerca storica. I presenti due volumi analizzano
l’opera svolta dalle organizzazioni Todt e Pöll nel territorio vicentino tra il novembre 1943
e l’aprile 1945.
Nel primo, l’a. traccia uno sguardo d’insieme: l’attività delle due organizzazioni in
provincia di Vicenza è connessa alle modalità dell’occupazione tedesca, allo sfruttamento
intensivo di risorse e alla strategia militare complessiva sul teatro italiano. È in quest’ottica
che va inquadrata la direttiva di Hitler (luglio 1944) che dispone la costruzione di uno
sbarramento difensivo nel settore dell’Italia nord-orientale, comprendente le due zone
d’operazione (Prealpi e Litorale Adriatico) e il Veneto. Le ragioni di natura militare che
spiegano quest’ordine sono molteplici, ma riflettono tutte la strategia tedesca in Italia:
nell’estate 1944, con l’approssimarsi degli anglo-americani alla linea Gotica, diviene indispensabile predisporre un’ulteriore linea di difesa sulle Alpi che impedisca la penetrazione
in direzione della Germania. È in questo periodo che la pressione esercitata dalle autorità
nazifasciste sulle popolazioni civili si fa più intensa: a partire dall’agosto 1944 ha inizio
la precettazione di manodopera, una mobilitazione che si sarebbe protratta con alterne
fortune fino all’aprile 1945. La costruzione del Vallo Veneto e della linea Blu permette di
approfondire l’analisi del sistema policratico tedesco, un’organizzazione che lascia ampi
margini di manovra: è questo il caso dei commissari supremi delle due zone d’operazione,
Hofer e Rainer, che giungono ad assumere competenze che trascendono i loro ambiti
territoriali con immediate ripercussioni sul vicino Veneto.
Il secondo volume approfondisce la situazione vicentina, ripercorre geograficamente, territorio per territorio, la costruzione della linea Blu, l’estremo baluardo che dal confine svizzero si sarebbe prolungato fino a Trieste. Fortunatamente i tedeschi non riescono
a sfruttare il potenziale offerto da queste opere difensive (parziali e incomplete): qualsiasi
ipotesi di resistenza si spegne nel caos delle giornate conclusive del conflitto. Arricchiti
da materiali fotografici e documentari in parte inediti, i due volumi riescono a ricostruire
con efficacia un pezzo di storia locale, assimilabile ad altri contesti italiani ed europei
occupati. La varietà di fonti utilizzate (archivistiche, giornalistiche, bibliografiche e memorialistiche) ha permesso all’autore non solo di far emergere i caratteri dell’occupazione
tedesca ma anche di mostrare l’impatto che questa ebbe sulle comunità civili e la complessità dei rapporti intercorsi tra civili, tedeschi, fascisti, partigiani.
Lorenzo Gardumi
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Laura Savelli, Autonomia femminile e dignità del lavoro. Le postelegrafoniche, Pisa, Felici
editore, 316 pp., € 18,00
Se dai romanzi di Matilde Serao, e più tardi di Ada Negri, le «signorine» delle Poste
escono tratteggiate nella loro fragilità emotiva, figure diafane di donne aduse alla sofferenza e al disagio di esistenze «ai margini» trascorse in uffici fatiscenti e polverosi, la realtà
della vita postale, per come appare dai documenti d’archivio, non consistette soltanto di
questo. Per le impiegate pubbliche del settore postale, il lavoro presso questa amministrazione dello Stato, decoroso certo e «rispettabilissimo» per il senso comune dell’epoca
anche se non retribuito in maniera sufficiente al bisogno, fu anche occasione, per qualche
verso, di emancipazione dal ruolo che la società imponeva loro in famiglia e consentiva di
sentirsi perlomeno al sicuro dalle incertezze alimentate da un sistema economico che nel
corso di mezzo secolo subì più di un tracollo.
Sostituite in parte agli uomini durante le due guerre mondiali, le donne delle Poste
svolsero con impegno e saldezza di spirito gli incarichi che vennero loro assegnati. Negli
uffici a contatto con l’utenza, sedute davanti agli apparati telegrafici, silenziose dattilografe di funzionari impettiti e austeri, telefoniste indaffarate dinnanzi ai commutatori dei
centralini seppero dar prova di efficienza e dedizione al servizio.
Giovane, di condotta personale irreprensibile, di solidi principi, interamente dedita
al lavoro, la «signorina» delle Poste rappresentò ben presto un idealtipo declinato al femminile che contribuì a far entrare ancor di più l’amministrazione postale, in lei quotidianamente incarnata, nell’universo simbolico degli italiani.
Il libro di Laura Savelli, un saggio costruito con notevole coerenza descrittiva e scientifica, è narrazione efficace di questo «mondo» femminile indagato da più angoli prospettici. Ci viene così restituito un diagramma socio-politico che mette in relazione funzioni
diverse e sovrapposte: il lavoro postale, la protesta sindacale – tra le prime a cavallo tra
fine ’800 e inizi ’900 a essere dotata di una sua specifica coerenza politica per così dire
«emancipativa», in particolare per i forti legami stabiliti con il movimento femminista
– l’agglutinarsi di stili di vita e di modelli di comportamento che avrebbero reso queste
donne capaci di mettersi in rapporto con la società di allora in maniera critica e al tempo
stesso di costituirne uno dei perni essenziali.
Le fonti utilizzate dall’a., carte d’archivio che spesso ci propongono ritagli di vita
ministeriale colta nel suo farsi quotidianità lavorativa, sono in aggiunta autentiche, e
preziose, miniere di informazioni per mezzo delle quali è possibile non soltanto ricostruire intere pagine di storia nazionale, ma anche intrecciarle con esistenze individuali che
di quella storia sono parte integrante e, in un certo senso, costitutiva. La strada verso il
riconoscimento di avanzamenti di carriera o trattamenti stipendiali che le mettessero sullo
stesso piano dei colleghi dell’altro sesso fu lunga e faticosa. Sino a tutti gli anni ’80 del
’900 le postelegrafoniche non riuscirono mai a ottenere ruoli di rilievo nelle gerarchie del
Ministero, nonostante la loro insostituibile funzione.
Mario Coglitore
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Emanuela Scarpellini, A tavola! Gli italiani in 7 pranzi, Roma-Bari, Laterza, 334 pp.,
€ 18,00
Cucinare, mangiare, consumare. Sono queste le tre azioni attraverso le quali l’a.
osserva 150 anni di cultura materiale italiana, dall’Unità ai nostri giorni, con l’obiettivo
di ricostruire non «una storia dell’alimentazione, ma una storia degli italiani attraverso il
loro mangiare» (p. X). Azioni che, nel linguaggio antropologico, sono interpreti di un rito
di passaggio, secondo la definizione che Claude Lévi-Strauss ha dato, «affermando che la
cucina segna il passaggio tra natura e cultura, marcando l’ingresso nella civiltà» (p. IX).
Cucinare, dunque, demarca un confine, simboleggia una trasformazione, come quella
dell’Italia dopo l’unificazione; un rito quotidiano, compiuto da tutti gli italiani e in ogni
luogo del Paese, che può spiegare il processo di costruzione dell’identità italiana attraverso
gli aspetti culturali rappresentati dal cibo.
Per farlo bisogna sedersi (sette volte, come i vizi capitali) con gli italiani alle proprie
tavole, osservando non solo cosa mangiano (e bevono), ma anche come si siedono, quali
utensili prediligono, in quali momenti del giorno consumano i pasti, con chi condividono il rito. Letteratura, fotografia, pubblicità, testimonianze orali diventano allora fonti
preziose per far emergere dalla cultura culinaria gli aspetti più significativi del processo di
costruzione dell’identità italiana. Un’evoluzione che ha due poli: da un lato la società statica e gerarchizzata dell’Italia appena unificata, dall’altro la «società dello spettacolo» (Guy
Debord), prodotto del mercato globalizzato e medializzato del Duemila. Un processo che
evidenzia le contraddizioni ben note della società italiana post-unitaria: divario fra nord
e sud, fra centro e periferia, fra ceti alti e bassi, fra politica e economia; una ricostruzione
che non trascura di indicare come il cibo e le sue modalità di consumo rappresentino anche il progresso sociale ed economico del Paese, la sua trasformazione da società contadina
a industriale, da rurale a urbana, da regionale a globale.
Affiorano così sette affreschi, composti ognuno da una sezione, che ricostruisce il
contesto storico-culturale dell’epoca, e da un rimando letterario, in alcuni casi citazione
testuale di romanzi e racconti italiani assai noti (come Il Gattopardo di G. Tomasi di Lampedusa), in altri rielaborazione di fonti orali conosciute (come nel caso di Nuto Revelli)
o originali (raccolte nel corso della ricerca), che risentono di una rielaborazione letteraria
non sempre in armonia con il racconto dei testimoni e il contesto nel quale esso è stato
elaborato e raccolto.
Il volume, che è frutto di un lavoro pluriennale condotto dall’a., si propone quindi
come un prodotto di sintesi conclusiva di tesi e riflessioni già in parte elaborate dall’a.
e rese pubbliche in altri contesti, che qui trovano spazio e linguaggio per una diffusione
più ampia.
Stefania Ficacci
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Emma Schiavon, Torino 1911. Il primo Congresso pro suffragio femminile, a cinquant’anni
dall’Unità d’Italia, Roma, Biblink, 127 pp., € 16,00
Questo agile saggio ricostruisce un evento chiave nel percorso del primo femminismo italiano: il Congresso pro suffragio femminile che ebbe luogo a Torino nel 1911 in
concomitanza con le celebrazioni del 50° anniversario dell’Unità d’Italia. L’a. ripercorre
le tappe principali dell’organizzazione dell’avvenimento (affidata a uno dei più attivi fra
i Comitati locali pro voto, quello torinese), sottolineando le difficoltà dell’operazione in
un’Italia in cui la battaglia per la cittadinanza politica femminile rappresentava un obiettivo ancora marginale anche per le forze più progressiste: sintomatico ne è l’atteggiamento
ambiguo, e a tratti apertamente ostile, del Partito socialista. Il Congresso «scaturì dunque
dalla volontà e dall’ostinazione della minoranza più radicale delle femministe italiane»
(p. 32), in primis la torinese Emilia Mariani. L’attenzione tributata dall’a. ai profili delle
organizzatrici (e degli organizzatori, data l’attitudine non separatista del suffragismo torinese) mette in rilievo la fitta ragnatela di rapporti, anche internazionali, e l’attivismo di
tali donne, le biografie delle quali meriterebbero ognuna un’approfondita ricostruzione.
Tra queste, l’a. si sofferma su Gisella Lindner, moglie di Roberto Michels, grazie allo
studio dell’archivio dei due coniugi conservato presso la Fondazione Einaudi di Torino.
Gli accenni ai rapporti fra militanti torinesi e organizzazioni di mestiere (sarte e insegnanti in primo luogo) ripropongono la complessa questione della diffusione della battaglia
suffragista fra le lavoratrici. L’a. interpreta peraltro le numerose adesioni individuali al
Congresso, in particolare di donne impegnate in professioni intellettuali, quale attestazione della presenza, sul territorio torinese, di una forma ante litteram di «femminismo
diffuso» (p. 76).
L’esaustiva lettura dell’a. degli atti del Congresso riconferma le divisioni politiche interne al movimento suffragista, al di là degli obiettivi comuni, che ne costituirono la principale debolezza. Dalle discussioni riguardo l’appoggio ai candidati alle elezioni, emerge
un’ipotesi sul tema del rapporto fra donne e politica, che potrebbe costituire spunto per
ulteriori ricerche: ovvero che «la partecipazione delle donne» di tutti gli schieramenti «alle
lotte elettorali doveva essere ormai molto più diffusa e attiva di quanto oggi si potrebbe
pensare» (p. 98).
Particolare risalto viene dato dall’a., attraverso lo studio delle fonti giornalistiche
dell’epoca, all’analisi delle reazioni suscitate dal Congresso nell’opinione pubblica. L’evento ebbe una certa visibilità, nonostante l’attenzione fosse in quel momento focalizzata
sulle operazioni belliche in Libia e sulla presenza in città di Giolitti. Viene sottolineata però l’accoglienza alquanto fredda della più parte della stampa femminile, segno che
l’istanza del voto politico era ancora considerata troppo radicale. Proprio a tale proposito
l’a. evidenzia però l’importanza del Congresso, quale forma di pubblicizzazione positiva,
all’insegna della «rispettabilità», all’interno di una strategia di propaganda consapevole dei
limiti culturali e politici dell’Italia dell’epoca.
Silvia Inaudi
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Corrado Scibilia, Tra nazione e lotta di classe. I repubblicani e la rivoluzione russa, Roma,
Gangemi, 238 pp., s.i.p.
Il sottotitolo del volume è in realtà riduttivo. All’interno di una trattazione che copre
nel complesso gli anni 1917-1922, dopo una prima parte centrata sul tema russo (19171918: La rivoluzione e l’interventismo), il volume viene infatti gradualmente trattando il
più ampio tema dei rapporti tra repubblicani e socialisti italiani, e in ultimo finisce anzi
per diventare una vera e propria storia del Pri. La convinzione di fondo dell’a. è che, accanto a socialisti e anarchici, i repubblicani fossero «l’altra forza anti-sistema dell’epoca»
(p. 7), cosa che diventa più vera se nella categoria comprendiamo, allora, anche i cattolici.
La rivoluzione del febbraio 1917 trovò comunque il Partito pienamente inserito nella
direzione politica del paese, e quindi felice di poter vedere negli avvenimenti russi una
conferma del mito interventista della guerra rivoluzionaria, salvando così un po’ proprio
quella sua anima «anti-sistema». Come per tutto il mondo politico italiano, l’ignoranza
degli avvenimenti era forte, oltre che segnata da un tradizionale razzismo strisciante (che
forse poteva essere maggiormente sottolineato), tendente a inquadrare i russi nelle categorie della supina rassegnazione e dell’«anima slava». Le citazioni dalla stampa repubblicana
dell’estate del 1917 sono gustose, quando ci mostrano un Lenin «pigmeo perduto nell’immensità della folla di Pietrogrado» (p. 28) e simbolo della «politica che non afferra il suo
attimo» (p. 49), ma il vero tema del volume è naturalmente quello dell’atteggiamento
repubblicano verso la rivoluzione socialista. Con la fine della guerra europea il partito
sterzò a sinistra, abbandonando l’anti-socialismo preconcetto legato al dovere mazziniano
della guerra, sognando di dirigere quella che pareva l’imminente rivoluzione italiana e
finendo così per scontrarsi sia con i propri dirigenti storici (Napoleone Colajanni morirà
su posizioni estremamente vicine al fascismo nel settembre del 1921, un anno dopo il
passaggio di Nenni ai socialisti), sia con larga parte dei suoi fondamentali quadri politici
intermedi. La scelta di privilegiare il dibattito giornalistico, rispetto all’analisi delle scelte
operative degli eletti, rende qui a volte meno chiara questa contrapposizione, ma allo
stesso tempo mostra con eccezionale ricchezza di documentazione il profondo (e per altro
fecondo) disordine ideologico che regnava nel mondo intellettuale e semi-intellettuale dei
repubblicani. Al di là delle critiche alla dittatura, il vero contatto ideale con la rivoluzione
russa stava nella loro convinzione del primato delle rivendicazioni sociali contadine, che
spesso li avvicinava davvero alle idee dei socialisti-rivoluzionari russi, come ben mostra
anche la collaborazione alla loro stampa di K. Kačorovskij e di qualche altro russo meno
identificabile. L’agrarismo social-repubblicano, nutrito di avversione al centralismo e alla
burocrazia, non li aiutò tuttavia a difendere il mondo delle leghe e delle cooperative agricole italiane.
Antonello Venturi
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Giambattista Scirè, Gli Indipendenti di sinistra. Una storia italiana dal Sessantotto a Tangentopoli, Roma, Ediesse, 318 pp., € 18,00
Il denso volume è frutto di una ricerca lunga e appassionata. Tuttavia, nonostante
l’importanza dei temi e delle figure che si incontrano nei quattordici capitoli, non proprio
fluidi per l’assenza di paragrafi, il libro non convince a pieno, anche per le non poche
ripetizioni e imprecisioni. La Sinistra indipendente, di fronte agli argomenti sviluppati,
talvolta è quasi sullo sfondo della narrazione. Ciò perché i temi trattati (tra cui divorzio,
aborto, concordato, nucleare, Tv) sono questioni centrali per la storia repubblicana al di
là dell’attività della SI e Scirè, già autore di monografie sul divorzio e l’aborto, li affronta
uno alla volta col risultato di fornire un’immagine fatalmente parcellizzata del trentennio
toccato, con frequenti salti e sfasature temporali che non aiutano a inquadrare al meglio
la complessità della stagione presa in esame. L’a. rimarca con severità errori e ritardi dei
partiti tradizionali nell’interpretare l’evoluzione della società, attualizzando problemi che,
pur utili a cogliere le radici di varie «anomalie» del presente, appartengono a un’altra
epoca e come tali sarebbero da trattare, anche attraverso una maggiore attenzione alla
storiografia su partiti e movimenti da cui, peraltro, provenivano indipendenti come Parri,
Anderlini, Carettoni, Basso. Nella premessa, non del tutto coerente con lo sviluppo del
volume, l’a. descrive la parabola della SI: «Se nei primi tempi, aiutati dalla presenza carismatica del presidente Ferruccio Parri, gli indipendenti tentarono di cercare una linea
politica da assumere, con l’andare del tempo questa posizione vagamente unitaria si fece
sempre meno evidente, finché non prevalse la tendenza di ciascuno a far valere le proprie
posizioni. Questo aspetto, se per un verso rappresenta un limite di quell’esperienza, per un
altro esprime una forte originalità che la arricchisce e la differenzia dal resto del panorama
politico italiano» (p. 11). L’a. prima insiste su lungimiranza, determinazione, autonomia
e spessore «etico» degli indipendenti (tra cui Antonicelli, Ossicini, Codrignani, Pasquino,
Gozzini, La Valle, Napoleoni, Rodotà, Levi, Galante Garrone, Foa, Giolitti, Arfè), poi li
giudica incapaci di incidere abbastanza «nel modificare le logiche di intervento e di azione
dei partiti» e di «contribuire adeguatamente al riformarsi e al rinnovarsi della politica» (p.
306). L’indipendente «non ha saputo dare un contributo originale, in particolare a livello
di politica economica (se non per iniziativa di singole personalità) per uscire dal sistema
stesso con riforme strutturali […] non è riuscito a contribuire quanto avrebbe potuto al
ridimensionamento dei consumi individuali, alla salvaguardia dei beni comuni» (p. 307).
Un giudizio discutibile vista l’impossibilità di una pur agguerrita minoranza, diversificata
al suo interno per formazione culturale, sempre più divisa tra laici e cattolici, indebolita
da contrasti personali e generazionali, spesso in disaccordo col Pci, di avere i numeri per
contrastare le leggi in Parlamento e il peso per limitare l’influenza delle forze retrive nella
società, attraverso «L’Astrolabio» e la collaborazione con i movimenti di base.
Andrea Ricciardi
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Mauro Scroccaro, Claudio Pietrobon, Mestre in grigioverde. La terraferma durante la Grande Guerra, Milano-Venezia, Biblion, 144 pp., € 20,00
Parte di una collezione di volumi dedicati alla storia del Veneto, il testo di Scroccaro
e Pietrobon appartiene a quel genere di storiografia molto attenta alle vicende del territorio che in alcuni casi rischia una sorta di autoreferenzialità localistica. Non è questo il caso
perché questa è la storia di Mestre negli anni cruciali dello sviluppo della città nella Grande guerra, quando la vasta piazza di Venezia – presidiata dalla III Armata – rivestì un ruolo
nevralgico. Zona strategica delle retrovie e già centro industriale, Mestre fu fondamentale
non solo nelle fasi preparatorie del conflitto ma anche e soprattutto negli anni di guerra
durante i quali rappresentò una piazza militare in alcuni momenti – e in particolare dopo
Caporetto – addirittura decisiva. Da lì partirono molti aerei e soprattutto una delle armi
più imponenti dell’intera macchina militare e cioè i dirigibili. Strumenti – gli uni e gli
altri – utilizzati per lo più per la ricognizione dei posti di combattimento e comunque
fondamentali per lo sforzo dell’esercito italiano e certamente anche per Mestre che si
impose come centro strategico della mobilitazione specializzandosi nelle armi aeree. Una
vocazione a tutto tondo quella per il volo che sembra essere confermata dalla presenza a
Mestre di una apposita sezione di addestramento di colombi viaggiatori che vennero usati
anche sul fronte italiano per agevolare i collegamenti tra i reparti di linea. Ma il ruolo
importante e quasi febbrile di Mestre viene ancor più messo in luce dalla ricostruzione
dei movimenti di soldati che transitarono per la città verso il fronte. Quasi quarantamila
uomini provenienti da varie zone d’Italia che, armati di poche nozioni di patriottismo
ma anche di una buona dose di irriverenza verso le gerarchie militari e di scarso rispetto
verso la popolazione locale, contribuirono con la loro sola presenza a scrivere una parte
della storia della città. Trasformata in una fucina della guerra e in luogo della modernità
confermata anche dalla presenza delle donne in attività produttive occupate tradizionalmente da uomini, la vita della città si piegò totalmente ai bisogni militari; dalla fornitura
delle armi al lavaggio delle uniformi, Mestre finì per configurarsi come città del fronte o
parte essenziale del fronte stesso di guerra. Una militarizzazione che non risparmiò alla
città l’esperienza del dolore del combattimento e della trincea. Soprattutto con il consolidamento della linea del Piave, Mestre divenne infatti uno dei centri sanitari fondamentali
per la cura dei feriti più gravi e dei mutilati. Dai primi preparativi fino alle tappe ultime
del lutto, Mestre e la piazza di Venezia – con i suoi edifici militari e le sue strutture di
assistenza molte delle quali costruite all’epoca per far fronte alle necessità belliche – conobbero tutte le fasi della guerra lasciando ancora oggi poche ma ben visibili tracce nel
territorio della città.
Barbara Bracco
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Pantaleone Sergi, Patria di carta. Storia di un quotidiano coloniale e del giornalismo italiano
in Argentina, Cosenza, Pellegrini, 303 pp., € 18,00
La peculiarità di questo lavoro è nel suo essere, oltre che una storia della stampa
italiana in Argentina, anche una storia, la prima, del giornalismo italiano in una delle
principali mete dell’emigrazione italiana.
Sergi ricostruisce un gran numero di biografie di professionisti e non della carta
stampata e mostra come in concreto funzionava il rapporto tra emigrati, giornali e giornalisti nel periodo della «grande emigrazione», tra la fine dell’800 e gli anni ’20 del ’900.
In questa fase gli italiani all’estero furono più che semplici lettori di giornali nella propria
lingua, perché trovarono nelle testate dei punti di riferimento cui rivolgersi per esigenze
sia pratiche (come la ricerca di un lavoro o di un alloggio) che ideali. Sergi illustra assai
bene l’importanza che ebbero le battaglie condotte dai giornali per la «difesa dell’italianità» al Plata, segnalando al contempo i limiti della loro azione, condizionata negativamente da rivalità personali e interessi materiali.
L’emblema del ruolo cruciale della stampa nelle comunità italiane al Plata, e delle reti
di relazioni, di affari, e quindi anche dei conflitti, che si sviluppavano attorno ai principali
giornali, fu costituito da un quotidiano, «La Patria degli italiani», e dal suo fondatore,
Basilio Cittadini. Dagli anni ’70 dell’800 per quasi quarant’anni Cittadini fu protagonista
di storiche campagne in difesa dei connazionali, ma nello stesso tempo si servì dei suoi
giornali anche per fare affari. Il suo complicato legame con Ferdinando Maria Perrone,
brasseur d’affaires dell’Ansaldo a Buenos Aires, e a lungo finanziatore della «Patria», rivela
come neppure la stampa italiana all’estero fosse immune dal principale vizio della nostra
stampa nazionale: la mancanza di indipendenza dai poteri economici.
Le vicissitudini della «Patria degli italiani» occupano la metà dei quattordici capitoli
del libro, ma Sergi ci offre negli altri un affresco di straordinaria ricchezza della produzione giornalistica italiana in ambito platense, facendo spazio alla stampa specializzata e
di settore, dai periodici umoristici e culturali ai fogli socialisti e anarchici, e alle testate
minori nate nell’interno del paese.
Il volume prende le mosse dagli anni ’50 dell’800, quando Giovanni Battista Cuneo
fondò i primi fogli di ispirazione mazziniana al Plata, e giunge agli anni ’30 del secolo
scorso, quando le pressioni e le manovre del regime fascista costrinsero alla chiusura la
«Patria» e, per gli effetti della crisi mondiale del 1929, l’immigrazione italiana si ridusse ai
minimi termini fino al secondo dopoguerra.
Il caso dell’Argentina, che fu considerata nei decenni del grande esodo transoceanico
una sorta di «altra Italia», per i numeri assoluti e relativi degli ingressi di italiani, è per alcuni versi eccezionale, ma la vicenda raccontata da Sergi si può assumere, crediamo, come
rappresentativa anche della parte non piccola dell’emigrazione italiana che raggiunse Stati
Uniti e Brasile, e quindi della sua stampa.
Federica Bertagna
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Giorgio Federico Siboni, Il confine orientale. Da Campoformio all’approdo europeo, Sestri
Levante, Oltre edizioni, 133 pp., € 18,00
Lo studio dell’area nord-orientale d’Italia sta incontrando un momento di fertile vitalità nella nostra storiografia e nutre anche l’interesse delle ricerche straniere. Consegnato
per decenni alla ristretta attenzione della pubblicistica locale, alla strumentalità dell’uso
della storia a fini di polemica politica, alle gore di una discussione imperniata sulla conta
delle vittime, il nodo adriatico sembra aver raggiunto finalmente il respiro del dibattito
maturo e post ideologico. Un merito particolare va a quegli storici giuliani che, a partire
dal magistero di Elio Apih, negli ultimi tre decenni si sono impegnati in questa difficile
rotta di ricerca, pur se permangono posizioni radicate in un contesto territoriale ancora
lacerato e irrigidimenti tra le contigue storiografie nazionali.
Il volume di Giorgio Siboni si aggiunge agli studi sul «laboratorio giuliano». L’a. è un
giovane ricercatore impegnato in molteplici attività presso istituzioni scientifiche e associazioni storiche e culturali. Il suo scritto, in poco più di cento pagine, ripercorre l’itinerario delle vicende della Venezia Giulia per un torno di oltre due secoli, dalla caduta della
Serenissima all’attualità. È narrazione di confini, diplomazie e sovranità, primariamente, ma anche di popolazioni, culture e identità nazionali, intersecate eppure conflittuali.
Dall’autorità di Venezia, a quella di Bonaparte, dell’Impero asburgico e del Regno d’Italia,
alle potestà provvisorie dei nazisti, dei comunisti di Tito e degli alleati, infine alle sovranità italiana e jugoslava (sino alle eredità nazionali di questa) si dipana una storia segnata dal
succedersi di fratture e momenti di avvicinamento, di governi monarchici e repubblicani,
di regimi assoluti, liberali, dittatoriali e democratici. Ed emerge come la situazione della
Venezia Giulia diventi nel ’900 realmente speculare ad altri contesti europei, in una fase
nella quale gli Stati-Nazione, nell’imporsi con la forza – e ammantandosi talora di una
identità ideologica – distillano tutto il veleno dell’intolleranza e della violenza. Foibe ed
esodo, ma non solo, stanno a ricordarlo.
Il libro si avvale di un buon repertorio bibliografico, attingendo perlopiù a una
parte qualificata della pubblicistica nazionale ed estera. L’agile struttura prescelta sembra
rinviare anche all’interesse di un pubblico non specialistico, cosicché su punti particolarmente densi e controversi il testo, pur nella sostanziale correttezza d’analisi, potrà risultare
semplificante. In particolare ciò riguarda lo schema, a mio parere circoscritto, tramite cui
viene affrontato l’intreccio storico del periodo 1918-22, momento di incubazione di ulteriori conflitti (penso alla presa di potere italiana, all’occupazione e annessione, ai primi
tratti della politica assimilatrice). Ancora, nel considerare l’italianità delle terre giulianodalmate e delle connesse rivendicazioni politico-giuridiche non sempre viene restituita
l’articolata complessità del tema.
Angelo Visintin
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Giulia Simone, Il Guardasigilli del regime. L’itinerario politico e culturale di Alfredo Rocco,
Milano, FrancoAngeli, 238 pp., € 27,00
La personalità di Alfredo Rocco, il suo pensiero, il suo ruolo nella crisi dell’Italia
liberale e nella costruzione dello Stato fascista, che nella seconda metà del XX secolo non
hanno goduto di grande fortuna storiografica, se si eccettua il lavoro di Paolo Ungari
(1963), nell’ultimo decennio sono stati oggetto di ricerche che hanno colmato la lacuna
conoscitiva su una figura di primo piano della storia italiana novecentesca. Dopo gli studi
di Rocco D’Alfonso (2004) e Saverio Battente (2005), cui ha fatto seguito la pubblicazione dei Discorsi parlamentari (2005) e degli atti del convegno alla Sapienza nel 2007
(2010), Giulia Simone offre un nuovo contributo sull’itinerario politico e culturale del
giurista napoletano, risultato di una ricerca di dottorato. L’intento dell’a. è di ricostruirne
la biografia, nonostante la mancanza del suo archivio personale. Se gli studi precedenti
hanno focalizzato il pensiero di Rocco, approfondendone l’elaborazione dottrinale in connessione con la sua attività politica e la sua opera di legislatore fascista, merito del volume,
nonostante qualche ingenuità stilistica e interpretativa, è di riportare la figura del giurista
e del politico all’interno del plesso di relazioni accademiche, giornalistiche, economiche e
politiche, in cui ha svolto la sua attività e maturato il suo pensiero. Una meno rapida analisi delle dinamiche politiche del mondo nazionalista, di quelle interne al regime fascista,
nonché del ruolo della componente di origine nazionalista nel fascismo, avrebbe potuto
arricchire la ricostruzione. L’a. coglie come Rocco avesse individuato nell’irrompere delle
masse sulla scena pubblica una questione decisiva per il suo tempo, tale da disarticolare le
relazioni tra società e Stato, di cui era necessario tutelare l’autorità «al di sopra di tutto»
(p. 19), con l’elaborazione di una nuova architettura statuale centrata sul ruolo dirigente
delle élites. In questo senso sarebbe stata auspicabile una più profonda analisi dell’impatto
che il conflitto mondiale come manifestazione della guerra totale e di massa ebbe sulla
visione politica e ideologica di Rocco, e sulla sua modalità di azione politica, aldilà delle
scrupolose indagini sull’effettiva partecipazione del giurista alle attività belliche. L’a. rileva
opportunamente l’importanza della fase patavina dell’attività politica del giurista, che
rifonda e guida il gruppo nazionalista di Padova alla fine del 1913. Apprezzabile è anche
il lavoro prosopografico sui membri della sezione di Padova dell’Ani, sebbene fosse stato
preferibile per la continuità della narrazione che le loro schede biografiche fossero collocate in appendice. Emerge bene la funzione esercitata da Rocco nell’Ani, quale relatore
ai congressi nazionali, membro del comitato centrale e poi della giunta esecutiva, come
anche il ruolo giocato nella fondazione e direzione degli organi di stampa nazionalisti, sia
nel definirne l’orientamento politico che nel determinarne gli assetti proprietari, dal «Dovere Nazionale» a «L’Idea nazionale» e a «Politica», la rivista da lui fondata con Francesco
Coppola dopo la guerra.
Adriano Roccucci
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Gracco Spaziani, Paola Dalli Cani, Prigionia e deportazione nel Veronese. 1943-1945, Sommacampagna, Cierre, 189 pp., € 14,00
In questo libro ci viene offerto uno spaccato interessante di una realtà provinciale – quella di Verona – attraverso la ricostruzione della vicenda della prigionia e della
deportazione durante il periodo 1943-45. La dimensione locale è ben descritta e sempre
preceduta da un inquadramento generale che aiuta il lettore a contestualizzare gli eventi.
Verona è una città di primo piano sia per la presenza di numerosi e importanti comandi
militari tedeschi, sia perché è uno dei centri politicamente e simbolicamente rilevanti
della Rsi: qui rinasce, di fatto, il fascismo repubblicano, qui hanno sede due ministeri
e qui viene celebrato il processo contro i «traditori» del 25 luglio. Il sistema repressivo
nazifascista potrà controllare agevolmente un territorio fondamentale dal punto di vista
geografico e logistico e anche per questo motivo la Resistenza veronese non potrà avere lo
stesso grado di organizzazione di altre zone del Veneto.
Tra i luoghi della prigionia – una decina – il più grande è Forte San Leonardo,
carcere dal quale passano partigiani, ufficiali del regio esercito, uomini impegnati in
missioni militari alleate. Per molti di loro si tratta della prima tappa di un calvario che
culminerà spesso nella morte in un campo di concentramento o di sterminio. Nel volume la deportazione dal Veronese viene descritta nella sua dimensione quantitativa e
opportunamente analizzata tenendo conto anche delle vittime della Shoah, una trentina
in tutta la provincia.
In particolare viene dato spazio a due internati, Natale Mihel, detenuto nel campo di concentramento di Bolzano, e Rutilio Barca, che dal carcere militare di Peschiera
viene deportato in Germania, prima a Dachau, poi a Buchenwald e infine nel campo di
lavoro di Dora. Le loro interviste sono corredate da efficaci note esplicative sui luoghi di
detenzione. Un capitolo è dedicato ai momenti della prigionia attraverso le note autobiografiche e le memorie – opportunamente selezionate e sezionate – di alcuni ex deportati
della provincia di Verona. Sono i racconti della cattura, del viaggio nei carri piombati,
dell’arrivo al campo, del lavoro coatto, delle punizioni, della mortalità, della liberazione,
delle vendette nei confronti degli aguzzini, del ritorno a casa.
Il volume è infine impreziosito dalla testimonianza di Gino Spiazzi, presidente provinciale Aned di Verona, partigiano catturato nell’ottobre del 1944, imprigionato nelle
carceri cittadine, poi tradotto presso il campo di Bolzano e quindi deportato a Flossenbürg. Attraverso la sua memoria emergono con chiarezza le condizioni di vita all’interno del campo, il trasferimento a Lengenfeld in un sottocampo di lavoro e le fasi concitate della liberazione. Complessivamente un libro «ordinato», rigoroso dal punto di vista
bibliografico, attento e aggiornato circa la storiografia sul tema; a tratti compilativo, ma
sicuramente utile anche dal punto di vista didattico.
Daniele Ceschin
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Dieter Stiefel, Camillo Castiglioni oder die Metaphysik der Haifische, Wien-Köln-Weimar,
Böhlau, 350 pp., € 29,90
Lo storico economico Dieter Stiefel ricostruisce la parabola di Camillo Castiglioni,
ebreo triestino formatosi nel mondo delle assicurazioni e divenuto uno dei personaggi
più celebri e discussi del mondo economico fra prima guerra mondiale e anni ’20. Ricca
di dettagli è soprattutto l’ascesa di Castiglioni come imprenditore scaltro e capace di cogliere l’importanza dei settori produttivi più moderni. Fu così collaboratore di Daimler
agli albori dell’industria automobilistica, entrò come azionista nelle principali imprese
elettriche, fu amico di pionieri del settore aeronautico come il tedesco Ernst Heinkel. La
produzione di motori di aerei per l’esercito austro-ungarico durante la guerra gli garantì
enormi guadagni, permettendogli di emergere socialmente ed entrare nelle stanze del
potere della Monarchia asburgica. Per la sua aggressività negli affari si sarebbe presto
guadagnato l’appellativo di «Stinnes austriaco» (p. 58), distinguendosi però dall’austero
imprenditore tedesco per lo charme e gli interessi nel campo dell’arte.
Per Stiefel l’intuito e l’opportunismo di Castiglioni emergono con chiarezza al termine del conflitto, quando decise di prendere la cittadinanza italiana e farsi punta di
diamante della penetrazione finanziaria italiana nei paesi dell’ex Impero austro-ungarico.
Grazie alla vicinanza alla Banca commerciale italiana e all’amicizia con figure come Giuseppe Toeplitz, Castiglioni fu presente praticamente in tutte le più importanti attività
economiche dell’Austria postbellica. La sua fortuna fu tuttavia breve, poiché strettamente
legata alla speculazione del tempo di guerra e all’inflazione degli anni successivi. Con la
stabilizzazione del mercato valutario a partire dal 1923 ai successi seguirono gli scandali, le inchieste e i processi per truffa ed evasione fiscale (fu anche condannato a pagare
all’Italia una multa salata per il trafugamento di opere d’arte). Infine giunse la perdita dell’immenso patrimonio accumulato per saldare i debiti crescenti. Stiefel traccia la
parabola discendente di Castiglioni servendosi ampiamente della stampa dell’epoca, in
cui egli è rappresentato di volta in volta come re Mida della finanza, arrogante «nuovo
ricco», avventuriero, imbroglione, infine «iena dell’inflazione» (p. 293). La pessima fama
di «pescecane» avrebbe costretto Castiglioni a cedere finanche i titoli della tedesca Bmw,
che pure aveva contribuito a rilanciare nel dopoguerra come impresa automobilistica.
Castiglioni appare così, nella nitida rappresentazione fatta da Stiefel, figura simbolo di un
ceto di capitalisti rampanti e senza scrupoli, nato dal nulla grazie alla congiuntura bellica
e dotato però di vita assai breve, perché poggiante su fondamenta estremamente fragili.
Eccessivamente nozionistica risulta invece la parte finale del libro, in cui Stiefel cerca
di arricchire la controversa figura umana di Castiglioni tratteggiandone il rapporto difficile con la famiglia (in particolare con la terza moglie Iphigenie) e descrivendone il gusto
per il lusso e l’arte, nonché il ruolo di mecenate nella Vienna di inizio secolo.
Pierluigi Pironti
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Alberto Stramaccioni, Storia delle classi dirigenti in Italia. L’Umbria dal 1861 al 1992,
Città di Castello, Edimond, 778 pp., € 42,00
La vastità di materiale esaminato e la larghezza di prospettive fanno di questo volume
un contributo importante. Il capitolo introduttivo offre una panoramica degli studi sulle
classi dirigenti nazionali e umbre. Apparati molto ampi offrono allo studioso strumenti
di lavoro prosopografici relativi ai dirigenti dell’Umbria (dai politici, agli imprenditori, ai
professionisti). Il termine «classi dirigenti» è, secondo l’a., adatto a descrivere l’articolazione «plurale, territoriale e settoriale» delle personalità esaminate, che, per lo meno dal 1900
in poi, si presentano – in una regione piccola, ma policentrica – di notevole consistenza
quantitativa. Se il taglio suggerisce aperture verso l’indagine sociologica, la metodologia
è di tipo storico, basandosi su un ampio scavo archivistico. L’apparato critico comprende
circa 300 schede biografiche. Il libro è diviso in tre parti dedicate, la prima, al periodo
liberale; la seconda agli anni dal 1922 al 1948; mentre la terza, La Repubblica dei Partiti,
arriva fino al 1992.
L’a., già dirigente politico del Pd e parlamentare, è docente di Storia contemporanea
all’Università per Stranieri di Perugia. Il fatto che un politico scelga di misurarsi con la
storia potrebbe far pensare a tesi precostituite, ma questo lavoro tiene, invece, un buon
equilibrio e, se mai, fa prevalere sulle passioni civili le ragioni dell’indagine storica, con
una visione pragmatica e aperta.
Centrali, per l’a., sono i concetti di continuità delle classi dirigenti e di arretratezza
economica e sociale dell’Umbria. In questo si ripercorrono, pur con qualche accento
innovativo, precedenti interpretazioni, prevalentemente di scuola marxista. La continuità
sarebbe quella fra la classi dirigenti pre-unitarie, quelle liberali e, in una certa misura,
quella fasciste – gruppi ristretti, legati alla proprietà fondiaria, tenuti insieme dal collante
massonico e dall’interesse alla conservazione sociale. Nonostante l’emergere con il fascismo di una nuova borghesia urbana, i moderati riuscirono a far sentire il loro peso anche
all’interno del regime. La continuità viene a interrompersi, invece, nel dopoguerra, con
l’emergere dei partiti di massa, e in particolare della Dc, che riceve molta attenzione, e del
Pci, che conquisterà, dopo il 1960, grazie alla prevalenza elettorale, l’egemonia politica.
L’arretratezza dell’Umbria sembra, invece, essere una costante, interrotta brevemente
solo negli anni 1970, allorché la regione, parte della Terza Italia, raggiungeva gli standard del Centro-Nord. Purtroppo quella stagione, legata al nuovo regionalismo, ebbe vita
breve: le classi dirigenti della sinistra, attratte nell’orbita delle istituzioni, subirono una
involuzione, mentre le poche grandi aziende industriali, tra cui la Terni e la Perugina,
affrontavano ristrutturazioni dolorose. Sono processi che Stramaccioni documenta fedelmente. Peraltro, della stagione della sinistra pochi sono i nomi di dirigenti umbri che si
affermano a livello nazionale.
Ruggero Ranieri
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Teodoro Tagliaferri, La repubblica dell’umanità. Fonti culturali e religiose dell’universalismo
britannico, Soveria Mannelli, Rubbettino, 270 pp., €. 14,00
Tagliaferri offre con questo lavoro un’eccellente analisi della produzione storiografica britannica tra XIX e XX secolo, con particolare attenzione al pensiero, tra gli altri,
di Seeley, Dalberg-Acton e Toynbee. Tra gli elementi che accomunarono tali storici vi è,
in primis, la ferma fede nel valore pratico dello studio e dell’insegnamento della storia. A
loro giudizio la storiografia accademica (disciplina capace di educare lo statista) avrebbe
dovuto indicare il suo ruolo nel processo evolutivo dell’umanità. Ciò valeva, a maggior
ragione, anche per i popoli e gli imperi, in particolare quello britannico. L’a. dedica molta attenzione al lavoro di Seeley, per il quale l’orgoglio per quanto creato in decenni di
dure lotte globali tra le potenze europee e Stati extra-europei si legava alla preoccupazione per le sfide al predominio inglese. Seeley definiva l’Impero britannico prefigurazione
del Commonwealth globale che, esperite tutte le forme di unione possibile tra i popoli,
avrebbe unito gli uomini, realizzando il messaggio salvifico del Nuovo Testamento. A
sua volta, Toynbee vedeva nel Commonwealth sorto dall’Impero una sorta di minoranza
creativa dell’Occidente globalizzato e post-moderno, riprendendo le suggestioni di chi
l’aveva preceduto.
È proprio questo l’aspetto più interessante del lavoro: l’aver legato il pensiero di questi autori a una temperie religioso-politica troppo a lungo dimenticata. Con accenti meno
radicali rispetto ad alcuni loro omologhi statunitensi, anche Seeley e Toynbee elaborarono
le loro teorie partendo da un forte pronunciamento religioso e una convinzione teleologica. L’a. conduce il lettore nell’analisi dei diversi fattori che influenzarono il pensiero degli
storici britannici d’epoca imperiale, tra i quali vi furono svariati paradigmi teologici, filosofici e storiografici legati al provvidenzialismo cristiano, il pensiero storico illuminista,
lo storicismo rankiano, la scuola liberale francese e inglese, il positivismo e l’approccio
ecumenico della storia mondiale di più antica ascendenza polibiana. Gli storici offrivano
alla classe dirigente dell’Impero una versione moderna del mito protestante della nazione
provvidenziale e missionaria che, con opportuni aggiustamenti, durò a fondo nel ’900.
Parte del lavoro, infatti, è dedicato all’incidenza del protestantesimo incarnazionista sulla
cultura politica britannica, che rese molti storici diversi da quei colleghi europei che si
appoggiarono all’apparato categoriale dello Historismus tedesco. È tanto più di valore il
lavoro se si pensa che il mito della nazione provvidenziale qui enfatizzato non si esaurì con
la fine dell’Impero inglese. Ancora nel 1979, per esempio, alcuni interventi di Peter Jay
(allora ambasciatore britannico a Washington) riconoscevano al Regno Unito il compito
di favorire l’unione dei popoli europei, inserendosi in questa linea interpretativa, al pari
della controversa esperienza di governo di Margareth Thatcher, ricca di luci e ombre ma
tutta fondata sul dovere della società inglese di indicare la via a una rigenerazione del
sistema occidentale.
Lucio Valent
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Enzo Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Milano, Feltrinelli,
236 pp., € 19,00 (ed. or. Paris, 2001)
Si tratta di una raccolta di saggi già editi, anche se «completamente rimaneggiati»
(scrive l’a. nella Nota sulle fonti). Come indica meglio il titolo dell’edizione originale
francese (L’histoire comme champ de bataille) il volume si muove sul terreno della storia
delle idee, e rappresenta «un bilancio critico di alcune polemiche storiografiche che hanno
segnato gli ultimi tre decenni» (p. 14). Nell’introduzione, Traverso spiega di muoversi
nell’ambito della storia dei concetti così come è stata categorizzata da Reinhart Koselleck:
«all’incrocio tra la storia delle idee, la semantica storica e la sociologia della conoscenza,
la storia dei concetti è indispensabile per renderci consapevoli degli strumenti con i quali
lavoriamo, per decostruire i termini con i quali la storia stessa si svolge, i suoi attori la
concepiscono e la rappresentano» (p. 15).
Altra «influenza sotterranea ma onnipresente» è quella di Walter Benjamin, del quale
Traverso apprezza la riflessione sulla storia «che si ostina a non dissociare il passato dal presente», e la contrapposizione della ricostruzione del passato «dal punto di vista dei vinti»
all’empatia dello storicismo per i vincitori. Non si tratta soltanto di assumere uno sguardo
più «penetrante e critico», ma di salvare anche le prospettive di cambiamento insite nelle
battaglie del presente, di dar voce, come scrive Benjamin, alla «promessa di redenzione»
inappagata che la memoria dei vinti ci trasmette, di realizzare una storiografia critica che
si opponga al «disincanto rassegnato o [al]la riconciliazione con l’ordine dominante» (pp.
18-20).
I singoli saggi sono riflessioni sul tema della violenza del ’900, della sua genealogia,
delle sue categorie interpretative (totalitarismo, fascismo, nazismo, rivoluzione): osservazioni su opere importati come Il secolo breve di Hobsbawn, su dibattiti come quello
fra Furet e Arno Mayer sulle origini del totalitarismo, sui fascismi, riprendendo i lavori
di Mosse, Sternhell e Gentile, sul rapporto fra nazismo e Shoah, seguendo un carteggio
fra Martin Broszat e Saul Friedländer: «da una storia del nazismo senza la Shoah, siamo
passati alla storia della Shoah come evento dotato di una propria autonomia […] Oggi,
tuttavia, l’insistenza sulla unicità dell’Olocausto – una percezione sorta come una reazione compensatoria dopo un lungo periodo di rimozione – rischia di trasformarsi in
un ostacolo epistemologico se questo evento non è reinserito in un contesto storico più
ampio […] La grande sfida della storiografia consiste oggi nel reinserire l’Olocausto in
una storia globale del nazismo, e il nazismo in una storia dell’Europa, perché entrambi
appartengono alla crisi europea» (p. 104). Altri saggi approfondiscono il tema del comparativismo in materia di genocidi, del biopotere (riflessioni su Foucault e Agamben),
dell’esilio («ermeneutica della distanza»), delle «memorie d’Europa», con un’analisi che
si propone di ricategorizzare un termine oggi «abusato, spesso usato come sinonimo di
storia» (p. 13).
Paolo Pezzino
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Marco Trotta, Il Mezzogiorno nell’Italia liberale. Ceti dirigenti alla prova dell’Unità (18601899), Milano, Biblion, 211 pp., € 20,00
In un arco cronologico che privilegia il secondo ’800, l’a. focalizza l’attenzione sulla realtà meridionale riconducendola nella sua evoluzione lungo i 150 anni alla efficace
sintesi di Galasso da «questione» a «problema aperto». Trotta lo fa interrogandosi sul ruolo dei gruppi dirigenti postunitari rispetto alla centralità dei problemi del Mezzogiorno
nell’agenda della politica governativa e parlamentare. A suo giudizio, l’indicazione più
originale in tale direzione sarebbe stata quella di Nicotera, le cui «parole d’ordine» erano
«modernizzazione e crescita economica» alla luce di un «modulo politico» basato «sulla
bandiera dell’autonomismo» verso «un potente modello regionalistico in chiave monarchica e non più filo repubblicana» (pp. 69-70) inseguito a partire dagli ultimi anni ’60.
I contenuti della proposta di Nicotera per l’inserimento del Mezzogiorno nei processi «di cambiamento liberale del sistema politico nazionale» erano: «la perequazione
fondiaria; la trasformazione dell’imposta sul macinato; la riforma della ricchezza mobile;
la creazione di infrastrutture per l’economia agricola» (p. 80). Il consenso sociale veniva
dalla borghesia agraria e dai ceti medi urbani.
A svuotare il disegno e a far scivolare il nicoterismo nella categoria dell’affarismo
e della caduta etica nelle strategie politiche ed elettorali, contribuì l’azione trasformistica di Depretis rivolta a segmentare il «blocco» della deputazione meridionale che aveva
condiviso il percorso di Nicotera. È in questo quadro interpretativo che Trotta cerca di
ricostruire i rapporti tra politica e territorio, tra poteri locali e rappresentanza parlamentare. Procede attraverso una campionatura non omogenea che prende in considerazione
alcuni insediamenti urbani di media dimensione del Mezzogiorno continentale: Salerno
e Avellino sul versante tirrenico; Vasto, Termoli, Lecce lungo l’Adriatico. Viene utilizzata
la consistente letteratura sull’argomento e – in quanto a fonti – soprattutto atti e verbali
dei Consigli provinciali.
Nei risultati ne soffre la mancata contestualizzazione nei sistemi territoriali regionali
in cui le realtà considerate sono inserite e che proprio negli anni ’80 conoscono significative modificazioni con relativi processi di ascesa e declini, di cui è partecipe un notabilato
più visibile nelle rappresentanze amministrative e più nascosto nelle mediazioni, che merita di essere meglio studiato attraverso le possibilità offerte dai fondi e dalle corrispondenze conservate in archivi pubblici e privati.
Tutte problematiche rispetto alle quali interessanti contributi dal punto di vista dello
Stato, del mercato, della società vengono proprio da una stagione di studi iniziata a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 che l’a. discute, criticandola nel farne un bilancio. Non si tratta di
negare il dualismo, ma piuttosto di restituire tra prerequisiti, retaggi e svolgimenti postunitari la complessità e i processi contraddittori del Mezzogiorno per verificare anche dove
i dinamismi hanno determinato «trasformazione» e dove sono prevalse le persistenze.
Maria Marcella Rizzo
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Gabriele Turi, Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’etá moderna a
oggi, Roma-Bari, Laterza, IX-388 pp., € 24,00
Già autore di una sintesi generale della storia dell’epoca contemporanea (Il nostro
mondo. Dalle grandi rivoluzioni all’11 settembre, Laterza, 2010), in questo volume Turi ne
evidenzia un aspetto cruciale: il rapporto ambiguo tra la libertà, proclamata dalle Rivoluzioni americana e francese e dai fautori del «libero» mercato, e le molte forme di lavoro
forzato esistenti su scala globale, all’interno di imperi coloniali come pure in nazioni da
essi resesi indipendenti.
Il volume contiene una sintesi dettagliata della storia della schiavitù (intesa come
chattel slavery, ossia «proprietà a tempo indeterminato di un essere umano [...] soggetto
a compravendita», p. 65) a partire dalla metà del ’700. Si concentra sulla tratta atlantica,
ma dedica alcuni paragrafi alla realtà della schiavitù in altri contesti, dalle regioni interne
dell’Africa all’Oceano Indiano, mostrando la flessibilità del sistema schiavile nello spazio
e nel tempo.
Tale complessità è altresì al centro della ricostruzione del percorso dell’abolizione, in
cui spicca la pluralità di attori e interessi coinvolti. L’a. non ricostruisce solo i movimenti
abolizionisti sviluppatisi nei principali imperi coloniali, ma pone l’accento anche sul protagonismo degli schiavi stessi e sull’impatto non solo locale dei loro atti di resistenza. Per
altro verso, di fronte al ruolo del governo britannico nell’imporre la fine della schiavitù,
Turi evita di abbracciare le tesi economiciste, sottolineando l’importanza della governance
imperiale e della dialettica tra madrepatria e colonie.
Nella stessa linea vengono analizzati anche il permanere della schiavitù illegale e il
(ri)emergere di altre forme di lavoro forzato dopo l’emancipazione formale. L’approccio
richiama quello dei saggi di Frederick Cooper, degli studi di Valter Zanin sul lavoro coatto
contemporaneo e dei volumi della collana «Studies in Global Social History» dell’editore
Brill. Il volume di Turi, pensato per fornire una panoramica della letteratura internazionale a un pubblico non necessariamente composto da specialisti, approfondisce meno le
vicende specifiche di queste forme «assimilabili alla schiavitù», e di alcune di esse in verità
non fa neppure menzione – com’è il caso del convict labour. In modo originale tuttavia
ne segue le tracce, attraverso le convenzioni internazionali dal XIX secolo ai giorni nostri,
mostrando il progressivo espandersi della definizione stessa di schiavitù finalizzato ad
estendere il divieto della tratta e del lavoro forzato a tutte le forme di lavoro non libero.
È questo procedimento, più che il riferimento a «nuove schiavitù» di cui sembra
mancare un’adeguata definizione (nel volume come nella relativa letteratura), che consente all’a. di mostrare anche il permanere di forme di radicale non-libertà all’interno del
mondo attuale. «Il cerchio si chiude con un bilancio amaro», nota l’a., sebbene la storia di
«sfruttamento vecchio e nuovo dell’uomo sull’uomo» (p. 363) sia stata accompagnata da
quella della lotta contro tale sfruttamento – e far uscire entrambe queste eredità dall’oblio
in cui sono cadute è interesse e dovere morale di ciascuno di noi.
Christian G. De Vito
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Rosa Vaccaro, I comuni nell’Italia liberale tra debito e progresso sociale, Assago (Mi), Cedam, 334 pp., € 30,00
Obiettivo dell’a. è «analizzare uno degli effetti dell’Unificazione amministrativa: il
dissesto finanziario dei comuni durante l’Italia liberale e le conseguenze sociali ed economiche che produsse nelle diverse parti del paese» (p. 2), in modo da valutare gli effetti del debito dei Comuni sulla realtà socio-economica locale delle tre regioni macroeconomiche del paese, Nord, Centro e Sud. I primi sette dei sedici capitoli del volume
riguardano l’800 e trattano dei rapporti tra realtà locale e nazionale dal punto di vista
amministrativo, economico-finanziario e fiscale, analizzano bilanci (definiti nel titolo del
cap. III, «un percorso verso l’insolvenza») e risorse locali troppo rigide; descrivono le principali competenze locali in materia di istruzione, strade, sanità e igiene. Nell’ottavo capitolo
l’a. tira le conclusioni del tentativo dell’Italia liberale post-unitaria di costruire un paese
moderno che «non fu accompagnat[o] da una adeguata attribuzione di risorse» e costrinse
i Comuni «ad indebitarsi a tassi di interesse elevati [che] portarono molti di essi sull’orlo
dell’insolvenza» (p. 155).
L’Italia giolittiana – favorita dal miglioramento sia della situazione economica nazionale, sia della finanza internazionale – fu così spinta «[al]l’inevitabile intervento dello
Stato» (p. 158) prima per i Comuni del Mezzogiorno continentale e subito dopo del
Centro (1904), del Veneto (1905) poi di tutto il paese (1906). Le positive riforme del
primo ’900 che arginarono – solo temporaneamente – il debito comunale fallirono i veri
obiettivi: diminuzione dell’analfabetismo, estensione delle vie di comunicazione locali,
miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie.
È lodevole la ricostruzione delle connessioni tra finanza locale e questione sociale,
sono interessanti le numerose citazioni da progetti di legge e atti parlamentari, la ricchezza
dei dati, la descrizione dell’attività della Cassa depositi e prestiti (1863); della Cassa di
credito comunale e provinciale (1898); della Commissione reale per il credito comunale
e provinciale istituita presso il ministero dell’Interno dalla legge sul credito comunale e
provinciale (1900). Stona invece l’utilizzo del termine autarchia come sinonimo di autonomia economica (dei Comuni, ad es. p. 171) entrato in uso solo in epoca fascista.
L’a., infine, non sembra conoscere il dilemma che divide gli storici sul passato – e
l’opinione pubblica per l’oggi – sulla responsabilità dei debiti comunali e dell’insufficienza dei servizi locali: colpa di uno Stato accentratore che scarica competenze e spese
o di Comuni inattivi e spreconi? Così, ad es., a proposito di strade comunali scrive: «i
comuni non avevano le risorse necessarie per provvedere alle manutenzioni» (p. 299), e
poco dopo, relativamente a sanità e igiene, «l’inattività dei municipi influenzò certamente
l’andamento del tasso di mortalità» troppo alto (p. 301). L’ignaro ondeggiamento tra l’attribuzione di colpe allo Stato e ai comuni sarebbe stato evitato se l’a. avesse approfondito
la storiografia – a volte pure citata – su socialismo municipale, municipalismo sociale,
movimento comunale e, non ultimo, sul «centralismo debole».
Oscar Gaspari
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Massimiliano Valente, Diplomazia pontificia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (19181922), Split, Filozofski Fakultet u Splitu – Odsjek za povijest, 331 pp., s.i.p.
Il libro è scritto con buon metodo storico tradizionale. Fondato su ampia documentazione inedita, vaticana e jugoslava, fa apprezzare la specializzazione archivistica dell’a. Il
libro è rilevante per la storia della prima Jugoslavia, specie per le sue regioni cattoliche. Le
carte della nunziatura Pellegrinetti, esaminate dall’a. per gli anni fino al 1929, constano di
ben 9.000 documenti inerenti i rapporti con lo Stato jugoslavo. Pellegrinetti non veniva
dalla scuola diplomatica vaticana ma era amico personale di papa Ratti col quale aveva
lavorato a Varsavia, sicché dopo la sua nomina nel 1922 la politica della S. Sede nel Regno
Shs quasi cessò di passare per la Segreteria di Stato vaticana e fu trattata direttamente tra
il nunzio e il papa.
Storiograficamente è acquisito il dato del predominio serbo-ortodosso nel Regno
Shs. Le carte vaticane lo confermano ma anche danno un quadro di grande confusione
interna, specie dopo la morte di Pasić: generale instabilità politica, continui cambi di
governo, rissosa frammentazione delle nazionalità, sindrome da politica etnica. Questa
fragilità era percepita dalla S. Sede, e del resto sin dal 1918 lo Stato degli slavi del Sud era
parso a Roma, ma non a croati e sloveni, qualcosa contro natura. Poi, creato lo Stato, la
S. Sede si era adattata pragmaticamente a trattare con Belgrado, mentre croati e sloveni
cambiavano rapidamente d’opinione sulla nuova entità. L’attività di Pellegrinetti consistette soprattutto nel parare l’aggressività della controparte statuale. Questa interpretava il
tipico viscerale rapporto fra nazione e religione che esiste negli Stati dei Balcani collegando la Slavia del Sud all’ortodossia, beninteso nel quadro frastagliato di governi con partiti
non sempre espressivi dell’idea serbo-ortodossa.
La storiografia jugoslava ha spesso insistito sul fatto che la diplomazia vaticana faceva
gli interessi dell’Italia contro la Jugoslavia. Non era del resto il corpo diplomatico della S.
Sede, a inizio ’900, tutto composto da italiani? In realtà, la diplomazia vaticana tutelava
in primo luogo la Chiesa cattolica. Era una diplomazia con personale italiano ma con visione sovranazionale. Lo si vede nella questione di Fiume, cui l’a. dedica parecchie pagine.
Tuttavia l’ipoteca italiana peserà sui rapporti fra Belgrado e cattolicesimo, sospettato di
essere uno strumento dell’imperialismo italiano. D’altra parte proprio i dalmati (cattolici)
ebbero un grosso ruolo nel decidere il passaggio dalla sistemazione dei territori ormai ex
asburgici quale si stava prefigurando a guerra appena finita, a quello che sarà il Regno dei
serbi, croati e sloveni a partire dal dicembre 1918, inclusivo del Nord cattolico e del Sud
ortodosso senza passato asburgico. Se i rappresentanti della Dalmazia chiesero di allargare
lo Stato slavo del Nord alla Serbia, a fine ’18, fu per meglio fronteggiare l’espansionismo
italiano, non per amore dei serbi. L’aspirazione egemonica dell’Italia favorì il coagulo del
nuovo Stato unitario in luogo dei due che si andavano prospettando (a Sud con territori
serbi, montenegrini e macedoni, a Nord con territori sloveni, croati, dalmati e bosniaci).
Roberto Morozzo della Rocca
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Roberto Valle, L’idea russa e il culto della personalità. La metamorfosi della dittatura in
Russia dall’età moderna all’età contemporanea, Soveria Mannelli, Rubbettino, 77 pp., €
10,00
Al centro del lavoro di Roberto Valle è l’interrogativo sulla cifra di lungo periodo
dell’universo politico russo, nella cui vicenda storica si è presentata con continuità l’esigenza di un potere forte identificato con una personalità carismatica, che ha assunto i
tratti dell’autocrazia zarista, del regime sovietico, della «democrazia sovrana» nella Russia
di Putin. È merito dell’a. avere dato voce a pensatori e intellettuali russi che tra Ottocento
e Novecento hanno riflettuto sul tema, sovente con intuizioni profonde, non di rado trascurate dalla storiografia occidentale. La tesi principale del libro non è priva di suggestioni
feconde, sebbene non manchi di destare qualche interrogativo. L’a. sostiene che nella
storia russa il modello autocratico abbia subito tra XIX e XX secolo una metamorfosi,
compiutasi nella comparsa della dittatura «sullo scenario del potere in Russia». Tuttavia
tale «novità» moderna è indicata, in una successione di metamorfosi, dallo zar «dittatore
consacrato», alla dittatura del proletariato fino alla «dittatura della legge» putiniana, come
filo rosso della storia del potere russo (p. 12). Ma l’utilizzo del concetto di dittatura, pur
nella dilatazione della sua valenza semantica, come paradigma di classificazione diacronica del potere in Russia dall’età moderna in poi, rende ragione di un itinerario storico
complesso con sue matrici culturali e politiche specifiche (l’eredità bizantina, l’influsso tataro-mongolo) o lo riduce all’anomalia patologica di un canone politico? Inoltre,
l’oscillazione terminologica nel testo tra autocrazia, autoritarismo, dispotismo, dittatura,
considerati quasi sinonimi, senza una precisazione del loro significato nelle differenti fasi
storiche, può indurre a semplificazioni, che il volume per lo più evita, sulla fatalità del
dispotismo russo, per evocare Montesquieu (p. 25), o sul «mito del modello autoritario
russo», per riferirci a un paradigma politologico (p. 7). Pregio dell’opera è di proporre
categorie ermeneutiche non sempre prese in considerazione dalla ricerca storica: il bolscevismo come religione politica, le interpretazioni dell’universo culturale russo elaborate
dalla scuola semiotica di Mosca-Tartu, il conservatorismo come costante di lungo periodo
della cultura politica in Russia. In questo senso non avrebbe nuociuto al libro, se fossero
state prese in considerazione l’influenza del carattere imperiale dello Stato russo sul profilo assunto dal potere, e la rilevanza decisiva dell’esperienza di guerra (1914-1921) per la
formazione della cultura politica del leninismo. Ha ragione l’a. a sostenere che «il culto
religioso del potere autocratico e della potenza dello Stato è uno dei paradigmi archetipici
dell’idea russa» (p. 11), e aggiungeremmo della storia russa. Ma anche a ricordare che per
i russi non è una «anomalia di cui liberarsi» (p. 71).
Adriano Roccucci
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Claudio Vercelli, Triangoli viola. Le persecuzioni e la deportazione dei testimoni di Geova nei
Lager nazisti, Roma, Carocci, 181 pp., € 19,00
Il volume fornisce finalmente un’equilibrata, essenziale e, al tempo stesso, integra
ricostruzione delle vicende di persecuzione di una comunità ancora al margine della storiografia sulle deportazioni. «Egemonia culturale» e «istituzionale» di un culto sugli altri,
«diffidenza diffusa» nella società civile, «scarsa propensione autobiografica» dei credenti,
difficoltà di accesso a fonti primarie (spesso di natura apologetica), sono alcuni dei fattori
che hanno orientato tale misconoscimento (p. 9). Il lavoro è stato organizzato attorno al
presupposto che «la Congregazione dei testimoni di Geova è una presenza oramai più che
centenaria, ha un seguito corposo, ha conosciuto periodi diversi nella sua storia secolare,
ha un corpus dottrinario in evoluzione e vive dinamiche interne complesse» (p. 10). Da
qui un’analisi che evita giudizi di valore, sempre attenta a rinviare al contesto. L’a. pone
in rilievo come la diffusione della denominazione in Germania fu subito segnata da un
rapporto conflittuale con le autorità, su cui pesarono le posizioni neutraliste (astensione dal servizio militare e dalla vita politica) e l’impianto teologico della predicazione
(percepita come eresia ideologica). Il pregiudizio si strutturò ben prima dell’avvento del
nazionalsocialismo, favorendo l’isolamento del movimento. Con la radicalizzazione del
quadro politico, vennero rapidamente meno ogni spazio d’azione e la speranza che la
«differenza» potesse garantire il distacco dall’involuzione in corso (a partire dal decreto di
«dissoluzione» in Prussia, 24 giugno 1933). In un breve periodo di ambivalenza tra azione clandestina e scontro frontale con il regime, si approdò a una normativa persecutoria
omogenea (27 aprile 1935), fondata sull’assunto di un’entità «eversiva» ed «estranea» alla
«comunità nazionale di popolo» (pp. 57, 59). L’a. ricompone le tappe dell’intensificarsi
della repressione: il passaggio dalla persecuzione collettiva – nei tribunali – a quella individuale; le modalità di distruzione delle basi dell’esistenza civile e sociale dei Bibelforscher;
il passaggio alla clandestinità e le forme della resistenza, con il ruolo di «difesa» attribuito
alle donne. Grande interesse suscita l’analisi del particolare meccanismo di persecuzione
a spirale che intendeva «spezzare la resistenza rompendo le famiglie» (pp. 73-88). Ne
furono vittime soprattutto i minori, costretti in una condizione di «dissonanza cognitiva»
e «scontro interiore» tra valori dell’ambiente familiare e pressione del sistema educativo
nazista (p. 77), ma anche oggetto di un ratto realizzato per tappe successive: dalla «sorveglianza protettiva» e dalla revoca della potestà genitoriale alla «formazione correttiva».
Nel quadro di una deportazione che fu attuata a partire dal 1935, il punto di rottura si
ebbe con l’inizio della guerra, quando l’obiezione di coscienza andò incontro alla pena
estrema. Un denso capitolo sulla presenza, la condotta, il ruolo e il destino nell’universo
concentrazionario dei testimoni di Geova, colti nella loro posizione «salda» di fronte agli
aguzzini, conclude un libro bello e utile, scritto con rigore e sobrietà.
Antonella Salomoni
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Stefano Verdino, Genova reazionaria. Una storia culturale della Restaurazione, Novara, Interlinea, 196 pp., € 20,00
È una Genova insolita quella che ci presenta Verdino, docente di Letteratura italiana
all’Università di Genova. È la città delle prediche contro Napoleone e contro le sette; la
città dove s’incrociano e s’installano, accanto a campioni del liberalismo, portavoce della
reazione europea; la sede di un’università asfittica e il perimetro percorso dal tradizionalista Spotorno e dall’anti-romantico Bresciani. In quattro brevi capitoli (ma corredati da
lunghe note) l’a. accompagna il lettore nella Genova reazionaria, facendo parlare i suoi
primi attori. Sullo sfondo, la maturazione di Mazzini, fino alla vigilia della fondazione
della Giovine Italia. Il contrasto tra vecchio e nuovo si sente di più negli ultimi due capitoli, nei quali molto si parla di letteratura.
Affiorano realtà cittadine da tempo dimenticate e all’epoca vitali, come il «Giornale
ligustico» e come certe chiese, con i loro padroni intenti a far la guerra ai principii nuovi
del secolo e alla cattiva letteratura. Grazie a una struttura che forse troppe volte predilige
la citazione a discapito del racconto e della sintesi, l’a. si immerge in una quantità di
testi tratti dalle fonti più disparate. Non mancano accenni al debole mercato librario,
all’assenza di un giornalismo degno di competere con quello più avanzato della penisola,
all’arretramento della didattica universitaria verso un insegnamento attardato e retorico.
Figure e figuri è intitolato il capitolo dedicato all’Università di Genova e sarebbe stato un
buon titolo per l’intero libro, popolato com’è di attori di primo e secondo piano. Verdino
coglie i nodi dell’interpretazione storiografica, e restituisce una Genova «officina della Reazione, non meno di Torino e Modena» (dalla quarta di copertina), della quale non è però
dato sapere il grado di successo riscontrato presso gli abitanti. Mancano del tutto dati utili
a cogliere l’udienza della cittadinanza, mentre assai efficace è il panorama delle posizioni
espresse. Le fonti su cui si è basato l’a. si trovano tra Genova e Roma e comprendono
diversi archivi ecclesiastici, mentre i periodici dell’epoca sono percorsi in lungo e in largo.
Una maggior estensione, basata sull’analisi puntuale degli scritti riportati e su una loro
più distesa contestualizzazione avrebbe giovato al complesso dell’opera, che finisce per
fungere più da (utilissima) antologia che da opera di sintesi. Verdino si è prefissato il fine
di fare una «storia culturale», facendo parlare molto i testi. Lo sfondo, benché tratteggiato,
viene penalizzato. Mancano del tutto gli eventi, che soli avrebbero potuto fare di questo
libro una compiuta storia di Genova nell’età della Restaurazione.
In definitiva, si tratta di un testo documentatissimo e di piacevole lettura, ma al
quale occorrerà affiancare la lettura di storie locali più complete. Resta il plauso per la
quantità di testi riportati alla luce, esposti in bell’ordine nella nutritissima bibliografia,
nella quale si sente semmai la mancanza della più aggiornata letteratura sull’età della
Restaurazione.
Maria Pia Casalena
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Valerio Vetta, Il PCI in Puglia all’epoca dei «poli di sviluppo» (1962-1973), Argo, Lecce,
224 pp., € 17,00
Il decennio che va dai primi anni ’60 ai primi anni ’70 rappresenta un passaggio
cruciale nella storia del Partito comunista italiano: da Togliatti a Berlinguer, passando per
Luigi Longo; dal testamento di Yalta al compromesso storico. Sopra ogni cosa, tuttavia,
sono gli anni in cui il Pci (a partire dall’importante convegno del Gramsci, nel 1962) fa i
conti con la realtà sociale ed economica, prendendo atto del grande e profondo cambiamento avvenuto nel paese.
Il libro di Vetta ci parla di questo processo di riflessione e ripensamento interno, a
partire dalla peculiare postazione regionale pugliese. In altri termini, l’a. apre lo sguardo
da uno dei più importanti territori del Mezzogiorno, con una struttura produttiva molto
differenziata, investita da una crescente attenzione da parte delle politiche nazionali d’intervento straordinario, alla quale corrispondeva una altrettanto disomogenea forza organizzativa e politico-elettorale del partito. In quella frammentarietà, tuttavia, emergono
almeno due tratti connettivi e costanti: la scarsa presenza urbana del Pci, con il prevalere
di iscritti provenienti dalle realtà agricole; la contrapposizione dei braccianti (o comunque
dei lavoratori salariati) al mondo contadino e alla piccola e media impresa (p. 27). Tutti
elementi che riassumono la presenza acuta e determinante di un «settarismo diffuso» (p.
123) che Vetta legge come una resistenza, residuale e di retroguardia, nei confronti della
via italiana al socialismo: contro «l’impostazione togliattiana, di allargare progressivamente gli spazi democratici conquistati con la Resistenza» (p. 197). Mentre la storia del decennio in esame (1962-1973) si rappresenterebbe come una tentativo ben riuscito, non senza
il prezzo di uno scontro interno a tratti assai ruvido, per adeguare cultura e insediamento
sociale all’altezza della proposta e dell’impostazione nazionale.
Una interpretazione corretta, a condizione di non considerarla solo (o in primo
luogo) come una sorta di tardiva resa dei conti in salsa locale tra un riformismo di fatto praticato in sede parlamentare (a partire dal Congresso nazionale del 1956) e uno
schematismo settario, magari di ascendenza secchiana, tipico di una certa impostazione
rivoluzionaria novecentesca dura a morire. Quel che sembra prevalere, a mio avviso, è
un originale intreccio tra vecchio e nuovo: una certa persistenza del tradizionale millenarismo agrario, alimentato dalla ben più recente contrapposizione del Pci pugliese al
movimento per la Rinascita del Mezzogiorno, alla sua strategia di una larga politica delle
alleanze sociali e politiche.
In ogni caso, anche se con questa necessità di approfondimento ulteriore, il lavoro
si presenta come un contributo storiografico ricco ed equilibrato; assolutamente utile per
comprendere le trasformazioni, e soprattutto le sue originalità regionali, indotte dall’impatto della Puglia con la seconda fase dell’intervento della Cassa per il Mezzogiorno,
passando prima per la costruzione del centro-sinistra in sede municipale e provinciale,
per approdare poi agli appuntamenti periodizzanti della stagione dei movimenti del ’68 e
allo shock petrolifero del ’73.
Giovanni Cerchia
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Giovanni Vian, Il modernismo. La Chiesa cattolica in conflitto con la modernità, Roma,
Carocci, 186 pp., € 17,00
Dopo alcune opere dedicate al modernismo, tra le quali in particolare i lavori di
Pietro Scoppola, Emile Poulat e le numerose ricerche di Lorenzo Bedeschi, per un certo
periodo vi fu una certa fioritura di studi su quella delicata stagione della Chiesa contemporanea, ancorché, in buona parte, debitori degli autori ricordati. Dopo una fase di stallo,
in anni recenti nuove originali ricerche sono state presentate sia nell’ambito di convegni
sia all’interno di pubblicazioni che hanno messo a disposizione degli studiosi una serie
di documenti archivistici di particolare interesse. Sono anche apparse le prime sintesi dei
problemi sollevati dal modernismo, o meglio dalla «crisi modernista». Il libro di Giovanni
Vian si colloca proprio in questa linea, come appare immediatamente dall’organizzazione del lavoro. Un progetto che racconta una vicenda specifica ma che al contempo si
inquadra agilmente nella più generale storia dei difficili rapporti tra Chiesa cattolica e
modernità.
L’a. prende dunque in considerazione il contesto in cui si svilupparono i germi o
le premesse della crisi modernista, i diversi ambiti in cui apparvero testi destinati a fare
discutere (esegesi biblica, storia del cristianesimo, studi filosofici e teologici, il contribuito
degli autori tedeschi e il nuovo protagonismo femminile). Quindi passa a una trattazione
degli studiosi e dei temi specifici di quel movimento, prestando una particolare attenzione ai lavori di Alfred Loisy (in tal senso, troppo poco spazio è forse dedicato a un altro
esponente emblematico quale George Tyrrell). Un’altra sezione del libro presenta invece
il modernismo in campo sociale, con particolare riguardo all’esperienza di Romolo Murri
e al movimento di Marc Sangnier, il Sillon. Proseguendo ancora cronologicamente, vengono analizzati i documenti che la curia romana pubblicò per preparare, e poi attuare,
la condanna del movimento, in particolare il decreto Lamentabili sane exitu e l’enciclica
Pascendi.
Nel volume di Vian, sono due, a mio avviso, i capitoli più innovativi per gli studi
sul modernismo: il primo è quello dedicato alle conseguenze di lungo periodo di quella
crisi, che si spinge fino al Vaticano II (lo storico francese Fouilloux aveva scritto che la
vera fine del modernismo è rappresentata dal Concilio Vaticano II). Il secondo rappresenta invece un primo tentativo di presentare elementi riconducibili alle istanze del modernismo all’interno del mondo riformato e ortodosso, così come nel mondo ebraico e
nell’islam. È questo un capitolo di indubbio interesse, anche se per il momento il percorso
di ricerca appare solamente accennato. Conclude infine il volume un’utilissima messa a
punto della bibliografia, che segue l’andamento dei diversi capitoli, e viene poi integrata
dall’indicazione di ulteriore materiale storiografico. Un apparato che aiuta lo storico e il
lettore ad approfondire i singoli temi presentati da Vian, senza però perdere la dimensione
complessiva del problema.
Maurilio Guasco
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
Luciano Villani, Le borgate del fascismo. Storia urbana, politica e sociale della periferia romana, Milano, Ledizioni, 383 pp., € 28,00
Villani chiarisce da subito il suo punto di vista: l’intenzione è quella di uscire dalla
sola storia del costruito (D. Calabi, 2010), per indagare scelte politiche e condizioni
sociali che ebbero come teatro le borgate romane, agglomerati realizzati a partire dagli
anni ’20 del ’900 e che conobbero il loro exploit negli anni ’30. La scelta è impegnativa
perché secondo l’a. l’argomento è ancora poco dissodato: viene tracciato infatti un quadro
metodologico utile per chi vorrà tornare sul tema, suggerendo nuovi archivi da poco resi
accessibili, e altri finora scarsamente indagati.
L’a. in premessa sottolinea la motivazione delle scelte del suo studio: si può capire
meglio la Roma contemporanea studiandone le borgate, con le quali la città ha sempre
avuto un rapporto inestricabile. Innanzitutto perché le scelte delle collocazioni borgatare
ebbero la funzione di linee direttrici per l’espansione della città che venne dopo. Poi perché con la storia dell’edilizia pubblica romana, con le scelte del Governatorato capitolino
e dell’Ifacp, si racconta in parte il ventennio romano, le sue politiche urbanistiche, sociali
ed assistenziali, nonché quelle di controllo e repressive; infine perché si racconta della
vita di borgata. Il Governatorato di Boncompagni Ludovisi, esautorando l’Ifacp, costruì
alleanze con i proprietari fondiari e l’industria edilizia, dando vita a veri e propri «sconci
urbanistici» (p. 14) che nella loro costituzione e forma imposero ai primi borgatari condizioni disumane di vita. Con il Governatorato di Bottai i rapporti con l’Ifacp cambiarono
e all’Istituto venne conferito un ruolo centrale nella gestione della cogente questione abitativa, frutto degli sventramenti del centro cittadino (che avrebbero trasformato Roma in
città-vetrina del duce), ma anche della crisi degli alloggi e della crescente disoccupazione
che fu causa di un avvicinamento massiccio verso le città delle popolazioni extraurbane.
L’a. sostiene che non esiste una sola origine che portò al popolamento di quelle periferie:
gli abitanti del centro sventrato scelsero spesso l’edilizia privata o quella edilizia pubblica
che l’Ifacp stava realizzando in zone intermedie tra la città e le borgate; mentre furono
disoccupati e immigrati a essere indirizzati prevalentemente verso le borgate (pp. 16-17).
L’Istituto realizzò insediamenti con criteri diversi da quelli «sciagurati» (p. 66) del Governatorato, seppure non sempre ispirati alla necessaria qualità. Eppure le borgate Ifacp, ci ricorda l’a., costituirono una salda connessione tra luoghi e memoria storica. L’Istituto fungeva da vero e proprio organizzatore della vita sociale, politica ed educativa dei borgatari,
scelti in base al grado di adesione al fascismo, alla prole e alle raccomandazioni. Si trattava
di un «laboratorio di educazione fascista» (p. 299), che alla carota degli enti assistenziali
sapeva alternare il bastone della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Nel corposo
volume c’è spazio anche per questa riflessione: luoghi «elettivi» per brave famiglie fasciste,
nelle borgate non mancò la maturazione del dissenso, sempre punito duramente.
Francesco Mannino
i libri del 2012 / 2 - monografie
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Claudia Villani, Un buco nel cielo di carta. La nuova storiografia globale, la guerra fredda,
l’Italia, Bari, Progedit, 160 pp., € 25,00
Questo breve ma denso volume prende le mosse dall’insoddisfazione per una lettura
«penitenziale» del ’900 come secolo dei totalitarismi e delle guerre mondiali, quando
invece è stato anche l’epoca «in cui una molteplicità di “vinti” ha preso coscienza dei suoi
diritti, il secolo della democrazia ripensata alla luce dei diritti sociali, dei diritti della persona, del diritto alla pace» (p. 87). L’intento dichiarato è di restituire voce a istanze e opzioni che, pur a suo tempo sconfitte, hanno contribuito a plasmare la loro epoca e lasciato
un’eredità da raccogliere per chi intenda lavorare al cambiamento. Il libro si pone quindi
in antitesi alle tentazioni di una storiografia apologetica, pronta a eleggere il presente il
migliore dei mondi possibili e a dichiarare «finita» la storia.
Il libro è strutturato in cinque capitoli. Nel primo si afferma l’esigenza di rivoluzionare contenuti e metodi del fare storia e superare letture eurocentriche alla luce del tramonto
della supremazia dell’Occidente. I successivi due capitoli, attraverso un’estesa disamina
della più recente storiografia, riflettono sui caratteri di fondo della storia internazionale
post 1945. La guerra fredda è intesa come conflitto a più livelli (bipolare, multilaterale,
nazionale/locale), in cui interagiscono, nel tentativo di dare una nuova organizzazione ai
rapporti economici e politici mondiali, «globalismi» diversi: antifascista, statunitense, sovietico, del Terzo Mondo. L’a. argomenta con efficacia la necessità di una storiografia che
superi i pregiudizi derivanti da una lettura dalla parte dei vincitori. Così l’Onu – filiazione
diretta della coalizione antifascista –, emarginata da una certa storiografia che ne afferma
l’irrilevanza nel contesto della politica di potenza, alla luce di recenti studi risulta invece
essere stata una palestra fondamentale per l’emersione di paradigmi economici e sociali
alternativi a quelli occidentale e sovietico. Parimenti, l’a. contesta letture liquidatorie del
ruolo del comunismo sulla scena mondiale, sostenendo che, pur nell’incapacità dell’Urss
di rendersi egemone sulle istanze di cambiamento, la semplice esistenza dell’alternativa
sovietica ha permesso di pensare ad altri «mondi possibili».
Gli ultimi due capitoli calano nel caso italiano questa lettura, mettendo in rilievo
la complessità del nesso nazionale/internazionale attraverso la disamina delle dinamiche
messe in moto dal disgelo post-staliniano a metà anni ’50, quando l’allentarsi della competizione bipolare consente il riaffiorare della coalizione antifascista a livello nazionale,
con chiare ripercussioni sia in politica interna, che in quella estera.
Il volume non è esente da difetti. Soprattutto, presenta una struttura non facile,
caratterizzata da un susseguirsi incalzante di autori e volumi, in cui il lettore rischia di
smarrire il filo del discorso. Un sistema di riferimenti bibliografici un po’ macchinoso e
l’assenza di conclusioni non facilitano l’orientamento. Si tratta quindi di un libro non
facile, ma prezioso, sia per la ricchezza del panorama storiografico presentato, sia per gli
stimoli che possono derivarne.
Francesco Petrini
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
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i libri del 2012 / 2 - monografie
George Weigel, La fine e l’inizio. Giovanni Paolo II: la vittoria della libertà, gli ultimi anni,
l’eredità, Siena, Cantagalli, 621 pp., € 29,00
Giornalista e teologo americano, George Weigel ha già pubblicato una biografia di
Giovanni Paolo II, Testimone della speranza: la biografia di Giovanni Paolo II, pubblicata a
New York e a Milano (Mondadori) nel 1999, e ristampata con aggiornamenti nel 2001 e
nel 2005. Si trattava, piuttosto, di una cronaca della vita e del pontificato di papa Wojtyła.
La forza dell’a. è di avere molti contatti in Vaticano che gli permettono di raccogliere
numerose informazioni. In questo senso si trattava di un libro prezioso per gli storici,
soprattutto perché ricco di informazioni spesso inedite. Il suo nuovo libro vuole essere
una riflessione sul senso del pontificato wojtyliano a partire da due chiavi di lettura: il
rapporto di Karol Wojtyła con il comunismo dal dopoguerra al 1989, che costituisce la
prima parte con quattro capitoli, e gli ultimi anni del papa, dal 2000 (quindi includendo
il Grande Giubileo) alla morte nell’aprile 2005, che formano la seconda parte del volume,
con undici capitoli. Purtroppo, come nel caso del libro precedente, ci troviamo di fronte
non a una ricerca scientifica, ma a un ammucchiamento di informazioni raccolte qua e là,
mescolate a ricordi personali, arricchiti da una bibliografia ricca, ma ancora incompleta,
essenzialmente in lingua inglese e italiana. Soltanto i due ultimi capitoli cercano di volare
più alto, e di offrire una visione d’insieme della personalità di papa Wojtyła e del suo pontificato. Il decimo capitolo della seconda parte, col titolo Dal di dentro, propone un’analisi
spirituale del personaggio, con la presentazione delle virtù del papa, in due parti, le virtù
teologali, «fede, speranza, carità», e quelle morali, «prudenza, giustizia, fortezza, temperanza», con un’attenzione particolare alla coscienza di Giovanni Paolo II, durante tutta la
sua vita, di combattere «una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre» (p. 474), ciò
che l’a. chiama «il nodo cruciale del dramma». È il passaggio più interessante del libro.
Il capitolo undicesimo è un bilancio del pontificato, una sorta di riassunto del regno di
Giovanni Paolo II. In conclusione, l’insieme del libro riporta della cronaca e non riesce a
uscire da un tono apologetico, ma nello stesso tempo potrà essere di grande utilità per gli
storici a motivo delle numerose informazioni contenute. Dal punto di vista scientifico, la
grande biografia di Giovanni Paolo II pubblicata da Andrea Riccardi nel 2011 (Edizioni
San Paolo), resta insostituibile.
Jean-Dominique Durand
i libri del 2012 / 2 - monografie
325
Massimo Zaccaria, Anch’io per la tua bandiera. Il V battaglione ascari in missione sul fronte
libico (1912), Ravenna, Giorgio Pozzi, 263 pp., € 17,00
Il volume è un bell’esempio di studio sul colonialismo capace di tenere insieme storia politico-militare, sociale e culturale. E non inganni il titolo, che tace del ruolo degli
ascari nel discorso ufficiale e del loro essere «terreno di scontro di valutazioni diametralmente opposte sull’esperienza coloniale italiana» (p. 10). La ricerca di Zaccaria va infatti
ben oltre la vicenda del V battaglione durante il conflitto italo-turco, volendo essere «una
sorta di romanzo visivo che vuole indagare l’uso strumentale di una presenza, quella dei
soldati eritrei, che venne esibita per motivi che andavano oltre il significato puramente
militare» (p. 9). Perciò, il libro copre un arco cronologico che eccede la guerra di Libia
(1911-12) per comprendere l’intero ventennio della guerra italiana per la Libia (191131), e offrire così diversi spunti per un’analisi delle politiche e delle strategie comunicative
con cui l’Italia liberale e poi fascista affrontò l’impresa libica e, più in generale, il suo status
di potenza imperialista. Gli sforzi delle autorità civili e militari per mantenere il difficile
equilibrio fra il rispetto della racial etiquette e la necessità di celebrare gli ascari come prodotto di un colonialismo buono e civilizzatore, capace d’instillare nei sudditi d’oltremare
gratitudine e senso d’appartenenza tali da morire per la nuova patria, è investigato, sia
con riferimento al contesto interno che a quello coloniale, attraverso un’ampia gamma di
fonti e un ricchissimo apparato iconografico, la cui unica comprensibile pecca è un certo
schiacciamento sulla prospettiva italiana. Se infatti la visione dei soldati eritrei è affidata
a manuali scolastici d’età fascista, canzoni popolari e a Storia di un giovane coscritto (il
primo romanzo in lingua tigrigna uscito in Eritrea nel ’49), la costruzione stereotipica
dell’indomito guerriero africano disciplinato dal paternalistico ufficiale bianco, è illustrata
da cartoline, foto e vignette che ne disegnano la parabola dal campo di battaglia alla visita
di Roma con cui governo ed esercito ostentarono il nuovo corpo e rafforzarono il legame
di questi uomini con la monarchia per farne efficace strumento di propaganda. Ancor
più interessanti dei capitoli sull’«ascarite acuta», che la sovraesposizione mediatica del V
battaglione generò negli italiani fino a creare imbarazzo nelle stesse autorità che l’avevano
alimentata, appaiono infine le parti che investigano – interconnettendoli nella prospettiva
di un’Europa creazione del Terzo mondo – il peso dell’universo coloniale nell’identità
nazionale italiana e il modo in cui l’esperienza della guerra incise sull’orizzonte mentale
degli eritrei arruolati. Di questo colonialismo «storia con due protagonisti», l’a. mostra
aspetti come la progressiva appropriazione da parte degli ascari del valore simbolico delle
calzature e il moltiplicarsi delle relazioni amorose interrazziali, che restituiscono bene la
complessità della relazione colonizzatori-colonizzati e la fragilità di quel «prestigio della
razza» sulla cui interiorizzazione da parte dei popoli sottomessi si fondava in primis l’azione di controllo esercitata dalle potenze europee oltremare.
Marco Rovinello
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
326
i libri del 2012 / 2 - monografie
Tara Zahra, I figli perduti. La ricostruzione delle famiglie europee nel secondo dopoguerra,
Milano, Feltrinelli, VII-381 pp., € 30,00 (ed. or. Cambridge, Mass. & London, 2011)
Il volume di Tara Zahra rappresenta uno dei contributi che hanno ricevuto maggiore
attenzione nell’ambito della ricca produzione storiografica anglosassone sul displacement
e l’Europa postbellica. Studi recenti hanno messo a fuoco l’importanza assegnata alla
popolazione profuga nelle operazioni di soccorso e assistenza che nel secondo dopoguerra
furono pensate non solo per rispondere all’emergenza, ma anche per avviare un più ampio
programma di ricostruzione. L’insieme delle ricerche ha efficacemente incrociato ambiti
di studio diversi: la storia del lungo dopoguerra, i refugee studies, il dibattito sui diritti
umani, la storia dell’umanitarismo internazionale.
Inserendosi in questo filone, il libro di Zahra ricostruisce le vicende relative ai bambini che durante la guerra erano stati separati dalle loro famiglie, e che alla fine della
Liberazione si trovavano nei campi di concentramento, negli orfanotrofi, nei centri collettivi per i profughi, nelle case dei tedeschi, spesso sotto falsa identità. Per dare un’idea
delle dimensioni del problema, l’a. ricorda che tra il 1945 e il 1956 l’apposito servizio
della Croce rossa internazionale ricevette 343.057 segnalazioni di bambini dispersi. Ma
soprattutto l’a. sottolinea che la questione dei «figli perduti» occupò «un posto speciale
nell’immaginario della società postbellica» (p. 14), poiché il destino dei bambini strappati
alle famiglie sembrava costituire un tassello fondamentale per la rinascita dell’Europa
dalle macerie del conflitto.
La priorità riconosciuta all’infanzia nei programmi dell’umanitarismo internazionale non costituiva una novità, si era già affermata fra gli anni ’20 e ’30 (cfr. cap. 1). Nel
secondo dopoguerra si rivendicò un approccio del tutto nuovo al problema, in nome
del diritto fondamentale di ogni bambino a ottenere ciò che era nel suo «più autentico
interesse». Non c’era però accordo su che cosa corrispondesse al «più autentico interesse»
dei bambini, e la questione fu ampiamente discussa. Zahra ricostruisce il dibattito – a
cui parteciparono psicologi, pedagogisti, assistenti sociali – ma anche le soluzioni adottate al termine di complesse procedure che coinvolgevano le organizzazioni umanitarie, i
governi dei paesi di origine dei bambini, le autorità militari dei paesi occupati, spesso in
contrasto fra loro. La priorità, conclude Zahra, venne accordata alla ricostruzione tanto
delle famiglie, quanto delle comunità nazionali a cui i bambini dovevano ricongiungersi
o in cui dovevano integrarsi. Si ebbe cioè una riformulazione dei «programmi e [de]gli
ideali nazionalisti secondo il linguaggio più individualistico del “più autentico interesse”
e dei diritti umani di ogni singolo bambino» (p. 39). I figli perduti è dunque una ricerca
importante, che mette in luce tensioni e contraddizioni dell’Europa postbellica.
Silvia Salvatici
i libri del 2012 / 2 - monografie
327
Alessio Zanardo, Dall’autarchia all’austerity. Ceto politico e cultura d’impresa nell’industria
nazionale del metano (1940-1973), Roma, Aracne, 404 pp., € 23,00
Le traiettorie imprevedibili dell’innovazione tecnologica hanno ribadito, nel nostro
secolo, la centralità del gas sulla scena globale, liberando una unconventional source ignorata fino a pochi anni fa: lo shale gas. Come nel ’900, per primi, gli Usa svilupparono
dorsali di metanodotti per alimentare industrie e città – seguiti in Europa anzitutto
dall’Eni, cui il libro di Zanardo è dedicato – oggi le «nuove» riserve li candidano all’autonomia energetica, rimescolando le carte della competizione internazionale. Dall’autarchia all’austerity esamina la situazione italiana dal 1940 al 1973 e quindi necessariamente
non tratta di questi rivolgimenti recenti, i quali tuttavia confermano come il settore sia
da studiarsi al crocevia tra tecnologia, storia e politica. L’a. ripercorre i prodromi della
ricerca di idrocarburi, la nascita di Eni nel 1953, l’affermazione del metano quale «cassaforte» nazionale, calcando l’intreccio tra fattori strutturali e scelte delle tecnostrutture,
dirette a piegare le funzioni – energia per l’Italia del dopoguerra – ai fini, cioè alle attese,
di sviluppo collettivo.
La vasta letteratura su Eni consta di studi storici anche recenti e memorialistica dei
protagonisti. Zanardo stesso vi ha già contribuito con Una storia felice. Il gas naturale in
Italia da Mattei al Transmediterraneo (Aracne, 2008). In Dall’autarchia all’austerity attinge
dall’Archivio centrale dello Stato e dall’archivio Eni per indagare i processi decisionali:
nel periodo bellico, quando i tecnici dell’Ente nazionale metano intravedono la futura
integrazione tra produzione, trasporti e distribuzione; o dopo la Liberazione, quando
il ministro dell’Industria Gronchi propone di devolvere le funzioni dell’Enm all’Agip,
aprendo un dibattito duro e caotico con gli operatori privati. Emerge il ruolo ordinatore
di personalità rimaste in ombra come Alfredo Scaglioni, commissario dell’Enm e poi direttore generale della Cassa del Mezzogiorno, nell’indicare le vie per valorizzare il metano
(utilizzo per la sintesi chimica, reti di distribuzione per usi civili). Il case study della Stei
(Società termoelettrica italiana), ricostruito su documentazione Snam da poco riordinata,
è la genesi della prima centrale elettrica a metano europea. Vi collaborarono pubblico e
privato in consorzio – Agip, Montecatini, Edison, Falck e Aem di Milano – appoggiandosi sui finanziamenti Erp. Spunti originali vengono dai contratti di somministrazione,
nel 1948, alle prime grandi industrie settentrionali (Pirelli, Magneti Marelli, Alfa Romeo,
Dalmine): una «palestra» per infrastrutture e prezzi. Tra le fonti ancora poco frequentate,
i duecento fascicoli «incarichi speciali» sui dirigenti a contatto con Mattei dopo la creazione dell’Eni illuminano la peculiare cultura dell’ente di Stato. Zanardo non trascura
l’influsso sulla politica estera italiana attraverso la stipula di contratti più favorevoli rispetto a quelli imposti ai paesi produttori dalle cosiddette «sette sorelle»: importazioni di
gas russo e libico, cui si affianca l’analisi dei materiali preparatori per i viaggi di Mattei
in Urss e Cina.
Francesco Samorè
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
328
i libri del 2012 / 2 - monografie
Fabio Zucca, The international relations of local authorities, Bruxelles, Peter Lang, 219 pp.,
€ 35,00
Il testo, dedicato alla pratica dei gemellaggi nell’ambito delle relazioni internazionali
fra autorità locali europee, richiama alla mente la polemica di Milward nei confronti della
monumentale ricerca di Lipgens sul pensiero federalista europeo. La domanda di M.
rimane valida: se è appurato, com’è ampiamente appurato, che un pensiero federalista ha
attraversato l’Europa del ’900 e che una parte vitale di esso scaturiva dal municipalismo
e dalle sue battaglie, in che misura questo pensiero trovò consenso fra i cittadini europei,
oltre l’élite di intellettuali che se ne fece energicamente promotrice, e ancora, quanto condizionò concretamente il processo di integrazione europea introducendovi temi e istanze
precise? Il ritorno della storiografia nazionale e internazionale al federalismo delle autonomie locali come nodo del processo d’integrazione nasce con ogni evidenza dall’esigenza
di ritrovare le ragioni stesse dell’integrazione in luoghi più nobili di quelli presidiati dagli
interessi nazionali, di fronte alla crisi dell’Europa delle banche. L’a. stesso denuncia la
natura «militante» di questa ricerca che, come altre da tempo in corso, riallaccia i fili delle
relazioni internazionali del federalismo europeo, fatte di profili biografici eccellenti e di
idealità somme. La mappa del federalismo europeo e nazionale raccolto intorno al Cce e
all’Aicce si arricchisce qui di dettagli, grazie anche alla lunga e articolata presentazione di
Maurizio Degl’Innocenti (pp. 19-39). La prima parte restituisce un quadro generale e si
chiude introducendo il tema chiave cui l’a. dedica la seconda metà del volume: la pratica
dei gemellaggi studiata attraverso i casi di Firenze, Torino e Milano. Tema intrigante e
nuovo quello dei gemellaggi, difficile per la scarsa accessibilità delle fonti. Il discorso
dell’a. si centra sul background culturale e politico dei promotori di queste iniziative e
sulle relazioni internazionali che li vedono protagonisti. Ne deriva una narrazione fatta di
lunghe ricostruzioni di contesto, scandita dalla menzione di viaggi, discorsi ufficiali e cerimonie. Fa eccezione il caso milanese, più «denso» non tanto per il richiamo alla tradizione
federalista locale quanto per l’emergere di contenuti specifici: nel riferimento al comune
problema della dimensione metropolitana, ad esempio, il gemellaggio di Milano con città
come Francoforte, Lione, Birmingham, a cavallo tra i ’60 e i ’70, acquista temporalità e
concretezza. Si tratta però di un cenno agli obiettivi che nulla dice sugli esiti concreti in
termini di progettualità o esperienze condivise, né aiuta a valutare il contributo di queste
pratiche all’emergere di un europeismo o di un’integrazione «dal basso». Il testo, insomma, apre un ambito nuovo di ricerca e offre un primo quadro di riferimento ma, tenendosi spesso sul livello delle dichiarazioni di principio, non basta a spazzare lo scetticismo
di quanti, sin dalle origini, criticarono i gemellaggi come uno strumento di promozione
turistica, o peggio, il vezzo intellettualistico di pochi (Degl’Innocenti, p. 35). La domanda
iniziale (tutt’altro che retorica) attende ancora una risposta convincente.
Melania Nucifora
indicI
Indice degli autori e dei curatori*
Africa/Asia/Medio Oriente
Abdullah, Thabit A. J., 157
Cangemi, Luca, 183
Cardini, Franco, 186
Coquery-Vidrovitch, Catherine, 202
Cresti, Federico, 206
Cricco, Massimiliano, 206
Guasco, Maurilio, 237
Kreiser, Klaus, 244
Pellitteri, Antonino, 279
Rogan, Eugene, 293
Roggero, Caterina, 294
Ambiente/città/territorio
Barbagli, Marzio, 167
Barbera, Giuseppe, 169
Belli, Attilio, 172
Belli, Gemma, 172
Berrino, Annunziata, 174
Chiola, Giovanni, 194
Lazzarini, Antonio, 248
Piccioni, Lidia, 281
Pisati, Maurizio, 167
Villani, Luciano, 322
Americhe
Battistini, Matteo, 170
Bertaccini, Tiziana, 156
Fioravanti, Marco, 224
La Bella, Gianni, 245
Pompejano, Daniele, 284
Il mestiere di storico, V / 1, 2013
Pretelli, Matteo, 287
Chiesa/istituzioni e figure religiose
D’Arrigo, Andrea, 144-145
De Giorgi, Fulvio, 209
De Mattei, Roberto, 210
Menozzi, Daniele, 264
Pennacchini, Piero, 280
Sandoni, Luca, 56
Trinchese, Stefano, 144-145
Trionfini, Paolo, 144-145
Vian, Giovanni, 321
Weigel, George, 324
Colonialismo
Giorgi, Chiara, 230
Zaccaria, Massimo, 325
Ebraismo/antisemitismo/Shoah
Bondy, Ruth, 178
Cavaglion, Alberto, 189
Contini, Bruno, 60
Contini, Leo, 60
Contini, Nino, 60
Drudi, Emilio, 215
Marzi, Giuseppe, 257
Matta, Tristano, 259
Maryks, Robert A., 59
Mazzini, Elena, 261
Porro, Simona, 286
Taieb, Karen, 63
indici
330
Economia/società/lavoro/impresa
Baietti, Stefano, 151-152
Becchetti, Margherita, 171
Bigatti, Giorgio, 151-152
Cantagalli, Alessandra, 185
Capalbo, Cinzia, 187
Castronovo, Valerio, 188
Ciuffetti, Augusto, 151-152
Colombo, Paolo, 200
Dellacasa, Erika, 211
Farese, Giovanni, 151-152
Ferrandino, Vittoria, 221
Gallo, Stefano, 229
Giulianelli, Roberto, 231
Greco, Oscar, 234
Leonardi, Andrea, 249
Leonetti, Fausto, 250
Lorandini, Cinzia, 249
Marcelli, Angelina, 253
Mattei, Enrico, 47-48
Parisi, Roberto, 151-152
Pellegrino, Anna, 278
Poggio, Pier Paolo, 152
Ruzzenenti, Marino, 152
Stiefel, Dieter, 309
Tacchi, Francesca, 141
Tasca, Cecilia, 57
Zanardo, Alessio, 327
Editoria/giornalismo/cinema/mass media
Allotti, Pierluigi, 52-54
Alonge, Giaime, 160
Anania, Francesca, 52-54
Benadusi, Lorenzo, 37-40
Cherubini, Donatella, 192
Colarizi, Simona, 37-40
Colin, Mariella, 199
Esposito, Assunta, 218
Forno, Mauro, 52-54
Galli della Loggia, Ernesto, 37-40
Glynn, Ruth, 153
Lombardi, Giancarlo, 153
Malfitano, Alberto, 37-40
Nicolosi, Gerardo, 272
O’Leary, Alan, 153
Orsitto, Fulvio, 153
Romani, Marzio Achille, 37-40
Sangiovanni, Andrea, 52-54
Saponari, Angela Bianca, 297
Varni, Angelo, 37-40
Emigrazione
Barbera, Gabriella, 168
Colucci, Michele, 201
Frigerio Martina, Marina, 226
Marchesano, Laura, 254
Richter, Hedwig, 290
Richter, Ralf, 290
Sergi, Pantaleone, 305
Europa centrale e orientale/Balcani/Russia/Urss
Buttino, Marco, 154-155
Cinnella, Ettore, 197
Cioni, Paola, 198
Clementi, Siglinde, 142
D’Alessandri, Antonio, 154-155
Di Michele, Andrea, 142
Frigerio, Alessandro, 225
Greble, Emily, 233
Ivetic, Egidio, 241
Kirchner Reill, Dominique, 288
Nemec, Gloria, 271
Nemeth Papo, Gizella, 154-155
Papo, Adriano, 154-155
Piras, Simone, 282
Pitassio, Armando, 154-155
Renzetti, Emanuela, 142
Rosselli, Alessandro, 154-155
Schneider, Ingo, 142
Siboni, Giorgio Federico, 306
Valente, Massimiliano, 316
Valle, Roberto, 317
Europa occidentale/Germanie
Cavallaro, Maria Elena, 190
D’Ottavio, Gabriele, 214
Falanga, Gianluca, 219
Lanza, Orazio, 246
Marchi, Michele, 255
Fascismo
Amore Bianco, Fabrizio, 161
Arthurs, Joshua, 164
Borgognone, Giovanni, 180
indici
Calabrese, Antonio, 182
Corner, Paul, 203
Duggan, Cristopher, 216
Ferris, Kate, 222
Pompeo, Augusto, 285
Rossi, Marco, 295
Simone, Giulia, 307
Vivarelli, Roberto, 41-43
Genere/femminismo/biografie di donne
Ascenzi, Anna, 165
Bianciardi, Silvia, 177
Cretella, Chiara, 62
Imprenti, Fiorella, 239
Lussu, Joyce, 62
Savelli, Laura, 299
Schiavon, Emma, 301
Italia pre-unitaria/Risorgimento/Italia liberale
Aglietti, Marcella, 159
Baioni, Massimo,136
Ballini, Pier Luigi, 55
Berti, Giampietro, 137
Chiapello, Duccio, 193
Conti, Fulvio, 58, 136
Giunipero, Elisa, 232
Greppi, Edoardo, 137
Lazzaretto, Alba, 247
Merlo, Simona, 265
Morelli, Maria Teresa A., 269
Pagella, Enrica, 137
Quirico, Stefano, 139
Riall, Lucy, 289
Ridolfi, Maurizio, 136
Tesoro, Marina, 140
Trotta, Marco, 313
Truffelli, Matteo, 136
Vaccaro, Rosa, 315
Verdino, Stefano, 319
Italia repubblicana
Badino, Anna, 166
Berti, Silvia, 147
Bertucelli, Lorenzo, 176
Cooke, Philip, 49-51
Crainz, Guido, 205
Donato, Gabriele, 213
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
331
Finocchiaro, Sebastiano M., 223
Franzinelli, Mimmo, 67
Gallo, Stefano, 228
Giacone, Alessandro, 67
Gordon, Robert S. C., 49-51
Occhetta, Francesco, 273
Parisini, Roberto, 276
Rizzo, Domenico, 291
Robbe, Federico, 292
Vetta, Valerio, 320
Opere generali/storiografia
Angelini, Giovanna, 139
Bistarelli, Agostino, 138
De Francesco, Antonino, 208
Ferrara, Antonio, 44-46
Isnenghi, Mario, 240
Judt, Tony, 242
Koskenniemi, Martti, 35-36
Loriga, Sabina, 252
Pianciola, Nicolò, 44-46
Scarpellini, Emanuela, 300
Schianchi, Matteo, 33-34
Snyder, Timothy, 242
Stramaccioni, Alberto, 310
Tagliaferri, Teodoro, 311
Traverso, Enzo, 312
Turi, Gabriele, 314
Politica/cultura/istituzioni
Affortunati, Alessandro, 158
Amato, Giuliano, 148
Antonioli, Maurizio, 146, 147
Aragno, Giuseppe, 162
Bellucci, Franca, 173
Berti, Giampietro, 175
Bertolucci, Franco, 146
Borbone, Giacomo, 179
Canright Chiari, Eleanor, 184
Cavaglià, Gabriela, 135
Chessa, Fiamma, 146
Cottino, Gastone, 135
Delpech, Jean-Marc, 212
Fedele, Santi, 220
Finelli, Pietro, 135
Focaccia, Miriam, 70
Fruci, Gian Luca, 135
indici
332
Fusaro, Diego, 227
Franzinelli, Mimmo, 67
Galimi, Valeria, 135
Giacone, Alessandro, 67
Giulianelli, Roberto, 146, 231
Granata, Mattia, 68
Guidali, Fabio, 238
Linguerri, Sandra, 70
Martellini, Amoreno, 256
Marzillo, Massimiliano, 258
Mastroleo, Gianvito, 148
Mattera, Paolo, 260
Mengozzi, Dino, 263
Minesso, Michela, 266
Moroni, Sheyla, 270
Pannunzio, Mario, 66
Passione, Roberta, 277
Pivetta, Oreste, 283
Ruocco, Giovanni, 133
Sacchetti, Giorgio, 296
Scibilia, Corrado, 302
Scirè, Giambattista, 303
Scuccimarra, Luca, 133
Thermes, Diana, 134
Teodori, Massimo, 66
Tonini, Lucia, 140
Tremelloni, Roberto, 68
Valiani, Leo, 66
Prima guerra mondiale
Bracco, Barbara, 181
Papadia, Elena, 275
Pietrobon, Claudio, 304
Scroccaro, Mauro, 304
Relazioni internazionali
Ballini, Pier Luigi, 143
Cuomo, Pasquale, 207
Ellwood, David W., 217
Frascani, Paolo, 143
Grote, Georg, 235
Lomellini, Valentine, 251
Mechi, Lorenzo, 262
Monzali, Luciano, 267, 268
Ungari, Andrea, 268
Villani, Claudia, 323
Zucca, Fabio, 328
Scuola/Università
Bandini, Gianfranco, 149-150
Bellatalla, Luciana, 149-150
Bianchi, Angelo, 149-150
Cerasi, Laura, 191
Gaudio, Angelo, 69
Genovesi, Giovanni, 149-150
Guarnieri, Patrizia, 236
Illich, Ivan, 69
Marescotti, Elena, 149-150
Polenghi, Simonetta, 150
Seconda guerra mondiale/Resistenza
Affinito, Michele, 65
Agostini, Pino, 64
Cicalò, Piero, 196
Corni, Gustavo, 204
Cretella, Chiara
Dalli Cani, Paola, 308
Dettori, Pietro, 196
Gecchele, Mario, 64
Keeny, Spurgeon Milton, 65
Kershaw, Ian, 243
Kirchheimer, Otto, 61
Laudani, Raffaele, 61
Marcuse, Herbert, 61
Mazza, Mario, 64
Muravera, Salvatore, 196
Neumann, Franz, 61
Osti Guerrazzi, Amedeo, 274
Piras, Natalino, 196
Savegnago, Paolo, 298
Spaziani, Gracco, 308
Vercelli, Claudio, 318
Zahra, Tara, 326
Sport
Archambault, Fabien, 163
Battente, Saverio, 141
Ciampi, Paolo, 195
indici
333
Indice dei recensori
Acanfora, Paolo, 144-145
Acciai, Enrico, 93-103, 158
Adorno, Salvatore, 73-87, 172, 278
Albanese, Giulia, 180
Andreazza, Fabio, 153
Arisi Rota, Arianna, 55, 73-87, 137
Armani, Barbara, 256
Arru, Angiolina, 290
Badino, Anna, 254
Ballini, Pier Luigi, 192, 272
Baritono, Raffaella, 287
Basciani, Alberto, 154-155, 233
Battilani, Patrizia, 174
Battimelli, Giovanni, 70
Becherucci, Andrea, 107-124
Belfanti, Marco, 187
Benzoni, Maria Matilde, 170, 224
Beonio Brocchieri, Vittorio, 167, 186
Bertagna, Federica, 168, 305
Bertilotti, Teresa, 269
Betta, Emmanuel, 107-124
Bettanin, Fabio, 225
Bianchi, Roberto, 296
Bidussa, David, 179
Bigatti, Giorgio, 67
Bitti, Angelo, 201
Bonini, Francesco, 141
Bracco, Barbara, 263, 304
Brizzi, Riccardo, 52-54, 135
Bruno, Roberto, 147
Caglioti, Daniela L., 35-36
Canavero, Alfredo, 232
Cappi, Valentina, 141
Capuzzo, Ester, 189
Carli, Maddalena, 107-124
Carnevale, Franco, 277
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
Carocci, Roberto, 212
Carotenuto, Gennaro, 37-40
Casalena, Maria Pia, 73-87, 138, 319
Cassamagnaghi, Silvia, 160
Causarano, Pietro, 150
Cavallaro, Maria Elena, 246
Cavarocchi, Francesca, 236
Cazzola, Franco, 169
Cerasi, Laura, 58
Cerchia, Giovanni, 320
Ceschin, Daniele, 308
Chenaux, Philippe, 209
Cherubini, Daniela, 173
Coglitore, Mario, 299
Colarizi, Simona, 205
Colozza, Roberto, 255
Cominelli, Lucrezia, 292
Corner, Paul, 222
Corni, Gustavo, 243
Cristina, Giovanni, 276
Cumoli, Flavia, 166
Curli, Barbara, 73-87, 107-124, 262
D’Alessio, Vanni, 142, 288
D’Amico, Giovanna, 215, 259
Damonte, Federico, 286
D’Angelo, Augusto, 273
Dau Novelli, Cecilia, 194
De Donno, Daria, 265
De Giorgi, Fulvio, 208
De Giuseppe, Massimo, 73-87, 107-124, 245
Del Prete, Rossella, 57
De Napoli, Olindo, 93-103
Detti, Tommaso, 240
De Vito, Christian G., 184, 314
Di Giacomo, Sergio, 159
Di Michele, Andrea, 107-124, 207
Dogliani, Patrizia, 275
indici
334
Dogo, Marco, 44-46, 241
D’Onofrio, Andrea, 93-103, 219
Durand, Jean-Dominique, 324
Duranti, Simone, 182
Elli, Mauro, 47-48
Ercolessi, Maria Cristina, 206
Ficacci, Stefania, 300
Fincardi, Marco, 270
Fiorani, Matteo, 283
Fioravanzo, Monica, 61, 274
Foa, Anna, 178
Forti, Carla, 60
Forti, Steven, 93-103
Francescangeli, Eros, 93-103, 107-124, 291
Fumi, Gianpiero, 253
Gagliani, Dianella, 62
Gagliardi, Alessio, 93-103, 203
Galimi, Valeria, 73-87, 242
Gallo, Francesca, 238
Gambetta, William, 295
Gardumi, Lorenzo, 298
Garruccio, Roberta, 73-87, 151-152, 200
Gaspari, Oscar, 315
Gaudio, Angelo, 149-150, 199
Giannattasio, Valerio, 284
Giuntini, Andrea, 73-87, 195
Gorla, Gioia, 33-34
Guasco, Maurilio, 321
Höbel, Alexander, 258
Impagliazzo, Marco, 237
Inaudi, Silvia, 301
Isnenghi, Mario, 181
La Banca, Domenica, 65, 107-124, 239
La Manna, Fabrizio, 140
Landoni, Enrico, 163
Lapesa, Giuliano, 228
Lazzaretto, Alba, 280
Lenzi, Antonio, 107-124
Leonzio, Marco, 56
Lo Jacono, Claudio, 157
Loreto, Fabrizio, 171
Luppi, Marco, 223
Macry, Paolo, 289
Maifreda, Germano, 250
Manfredi, Marco, 146
Mangiameli, Rosario, 204
Mannino, Francesco, 322
Mariuzzo, Andrea, 161
Marzano, Arturo, 93-103, 107-124
Masoero, Alberto, 197
Mattera, Paolo, 107-124, 148, 176, 177, 193
Mazzini, Elena, 59
Melfa, Daniela, 294
Mellinato, Giulio, 231
Mezzalira, Giorgio, 271
Miccichè, Andrea, 107-124, 190
Millan, Matteo, 216
Minerbi, Alessandra, 63, 64
Mocarelli, Luca, 248, 249
Morelli, Giovanna, 69
Moretti, Mauro, 252
Morgante, Michela, 281
Moro, Renato, 264
Moroni, Sheyla, 133
Morozzo della Rocca, Roberto, 316
Nucifora, Melania, 328
Paladini, Anna Pina, 221
Palumbo, Enrico, 93-103, 257
Paniga, Massimiliano, 186
Paolini, Rita, 183
Papa, Catia, 73-87
Pavese, Claudio, 188
Peretti, Luca, 153
Petrini, Francesco, 107-124, 143, 323
Pezzino, Paolo, 312
Pinto, Carmine, 73-87
Pironti, Pierluigi, 309
Pizzo, Paola, 107-124, 279, 293
Platania, Luca, 152
Pons, Silvio, 251
Ranieri, Ruggero, 310
Rapone, Leonardo, 162
Raspagliesi, Roberta, 266
Ricciardi, Andrea, 66, 68, 93-103, 135, 148,
220, 303
Rinauro, Sandro, 226
Rizzo, Maria Marcella, 313
indici
335
Robbe, Federico, 268
Roccucci, Adriano, 73-87, 93-103, 139, 140,
143, 198, 307, 317
Romanelli, Raffaele, 230
Romero, Federico, 214
Ronchi, Veronica, 156
Rossini, Ilenia, 107-124, 213
Rovinello, Marco, 325
Signori, Elisa, 93-103
Sofia, Francesca, 134
Soldani, Simonetta, 165
Sotgia, Alice, 229
Spadaro, Barbara, 107-124
Steinacher, Gerald, 235
Tarozzi, Fiorenza, 136
Traniello, Francesco, 210
Sabbatucci, Giovanni, 41-43
Salomoni, Antonella, 318
Salvatici, Silvia, 326
Salvatori, Paola S., 164
Samorè, Francesco, 327
Sanna, Daniele, 196
Scarano, Federico, 267
Scarpellini, Emanuela, 217
Schiera, Pierangelo, 227
Schwarz, Guri, 49-51
Scirocco, Giovanni, 260
Scornajenghi, Antonio, 139, 247
Scotto di Luzio, Adolfo, 191
Segreto, Luciano, 211
Ugenti, Elio, 297
Il mestiere di storico, V / 2, 2013
Valent, Lucio, 311
Vecchio, Giorgio, 261
Venturi, Antonello, 302
Venza, Claudio, 175
Vetta, Valerio, 234
Villani, Luciano, 285
Visintin, Angelo, 306
Vitale, Alessandro, 282
Zamponi, Mario, 202
Zanini, Paolo, 218
Zuccolo, Luca, 244
Questo volume è stampato su carta Palatina
delle Cartiere Miliani Fabriano S.p.A.
Finito di stampare nel mese di novembre 2013
dalla CDC Arti Grafiche s.r.l. - Città di Castello (PG)