la nostra guerra - Affari Italiani

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la nostra guerra - Affari Italiani
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Romanzi e Racconti 486
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Di Enrico Brizzi
nel catalogo Baldini Castoldi Dalai editore
potete leggere:
Jack Frusciante è uscito dal gruppo
Bastogne
Tre ragazzi immaginari
Elogio di Oscar Firmian e del suo impeccabile stile
L’inattesa piega degli eventi
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Enrico Brizzi
La Nostra guerra
Baldini Castoldi Dalai
Editori dal 1897
www.bcdeditore.it - [email protected]
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Progetto grafico di copertina di Valerio Taumann da un’illustrazione originale
di Herbert Bohnert (1946)
Mappe interne a cura di superitalianz.com
Francobolli a cura di Edoardo Taumann con la collaborazione di Francesca
Paltrinieri e Valentina Malaguti
Foto dell’autore di Gianluca Simoni
Sito ufficiale dell’autore www.enricobrizzi.it
Enrico Brizzi aderisce alla campagna di Greenpeace «Scrittori amici delle
foreste». Questo libro è stato stampato su carta ecosostenibile HC75 20
certificata FSC prodotta dalla cartiera svedese Holmen paper.
© 2009 Baldini Castoldi Dalai editore S.p.A. - Milano
ISBN 978-88-6073-041-1
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A nonna Pina e mamma Luisa;
al mio Amore e alla Banda delle calze rosa.
Quattro generazioni di donne, una famiglia.
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Questo romanzo è opera di fantasia.
Il riferimento a personaggi realmente esistiti, movimenti e partiti politici,
istituzioni e marchi commerciali, va letto nella chiave della finzione narrativa e non vuole rappresentare un giudizio sui medesimi.
Resta ferma la condanna dell’autore per ogni forma di autoritarismo e
limitazione della libertà d’espressione personale.
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Noi abbiamo creato il nostro mito. Il mito è una fede, è una passione.
Non è necessario che sia una realtà.
Benito Mussolini,
Discorso ai cittadini di Napoli
Per compiere il primo passo in un certo genere di azioni delittuose
non occorre una intelligenza superiore alla media; ciò che si richiede
è soltanto una mancanza di scrupoli oltre il normale.
Al momento di compiere il primo passo tutti gli altri successivi
non sono ancora previsti; ma chi comincia ad agire male continua ad
agire male, per evitare le conseguenze del primo fallo.
Solo quando la catena di cause ed effetti è arrivata alla sua conclusione, quegli uomini che quasi alla cieca hanno seguito le cose sino
ai loro imprevisti risultati fanno la figura di avere condotto gli eventi
verso la meta prestabilita.
Gaetano Salvemini,
Le origini del fascismo in Italia
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LIBRO PRIMO
1942
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CAPITOLO
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I
Nel giugno del ’42, anno XX dell’era fascista, l’Italia sembrava immune dall’incendio che divampava ai quattro angoli del mondo.
Il Paese approvava la prudente neutralità in cui ci eravamo ritirati, e la popolarità del Duce era alle stelle. Le sanzioni erano solo un
brutto ricordo: la Società delle Nazioni ci aveva riammesso da tempo
fra i suoi ranghi, la benevola Albione aveva riconosciuto le nostre ambizioni mediterranee, e l’incauto patto d’amicizia italo-germanico era
finito nel cestino della carta straccia.
Quando il pazzoide di Berlino aveva dato fuoco alle polveri,
noialtri ci eravamo tenuti in disparte: nessun conflitto avrebbe potuto giovarci più di quanto non avesse fatto la diplomazia.
Conoscevamo solo grazie al cinegiornale gli schieramenti di panzer
da sessanta tonnellate, le bombe volanti e l’inarrestabile avanzata delle armate dagli elmetti d’acciaio; per noi balilla dalla camicia nera e la
coscienza immacolata, la guerra era un tragico siparietto da cinque minuti di cui riempirsi gli occhi prima che cominciasse il film vero, qualcosa di eccitante e riprovevole che riguardava altre terre e altri popoli.
Mentre gli altri si scannavano, da noi si costruivano senza posa
strade, ponti e ferrovie, inneggiando ai magnifici e progressivi destini
dell’Italia littoria.
Così il sole poteva sorgere ogni giorno libero e giocondo sulla mia
città da trecentomila anime, che giaceva intorno ai 44°30’ di latitudine boreale e 3°39’ di longitudine occidentale.
Io abitavo in via Guerrazzi all’angolo con via San Petronio Vecchio, andavo per i dodici anni e avevo appena concluso la seconda
classe del ginnasio.
L’estate precedente ero stato rimandato in latino, invece stavolta
avevo raggiunto illeso il traguardo della promozione: a mo’ di premio,
i miei genitori avevano stabilito di portarmi con loro in villeggiatura a
Riccione.
Mia madre aveva visto l’Adriatico la prima volta a vent’anni compiuti, ed era felice che babbo ci conducesse nella più celebrata fra le
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marine della nostra riviera. Lui, poi, non stava nella pelle: era laggiù
che Mussolini trascorreva i rari giorni di vacanza, e gli brillavano gli
occhi all’idea di incontrarlo in spiaggia.
«Ci pensi, Lorenzo?» aveva domandato con gli occhi che luccicavano. «Con un po’ di fortuna, potremo farci una nuotata insieme al
Duce!»
Ritrovarsi Mussolini in braghette sulla spiaggia un po’ m’intimoriva. A conti fatti, però, suonava preferibile a una nuova estate in città,
prigioniero da zia Tilde con la Grammatica di latino e il Dizionario
del Tommaseo come palle al piede.
La sorella maggiore di babbo aveva perduto prima il marito e poi
l’unico figlio, volontario in Abissinia, ma era sostenuta da una cieca
fede nel fatto che il peggio doveva ancora venire. Corazzata a quel
modo, non si era persa d’animo nemmeno nelle prove più dure. Si era
dovuta fermare al diploma ginnasiale, lei, eppure aveva mostrato un
invidiabile mordente nell’interrogarmi sugli irregolari della terza declinazione, o sulla capziosa differenza fra ìtaque e itàque, di cui temevo si fosse disinteressato – ai tempi suoi – perfino Cicerone.
Il mio successo settembrino agli esami di riparazione l’aveva esaltata. Pur facendo ampio ricorso alla minaccia e paventando continui
disastri, aveva proseguito tutto l’anno ad aiutarmi con i compiti.
«Tuo babbo ha troppo da lavorare», spiegava come per giustificarsi. «E tua mamma, santo cielo… Nelle valli dov’è nata lei, è tanto
se il latino lo sa il prete!»
Adesso godeva della mia promozione come e più dei miei genitori.
«Ce la siamo meritata, ’sta villeggiatura», aveva sospirato di sollievo alla buona notizia, come si aspettasse di venire al mare insieme
a noi.
Con la prospettiva della lunga vacanza davanti, potevo godermi a
cuor leggero gli ultimi giorni in città: saltavo in bicicletta alle otto di
mattina, appena bevuto il caffelatte, e risalivo via Guerrazzi pedalando a tutta forza sulla mia Wilier color rame. All’inizio pensavo fosse
una marca straniera, invece la fabbrica si trovava a Bassano del Grappa, e il marchio stava per W l’Italia LIbera E Redenta.
Aggredivo il pavé di via Santo Stefano come fossi al Giro delle
Fiandre e subito mi lasciavo indietro via Cartolerie, che conduceva alla mia scuola, chiusa sprangata per una stagione intera.
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Niente più corse mattutine contro la campanella, né groppi in gola mentre il professor Ettore Maria Firpo scorre con l’indice la lista
degli interrogandi, arcigno e indifferente come il comandante del plotone d’esecuzione.
I fedeli compagni che avevano condiviso settimana dopo settimana il mio destino erano già lontani: Alessandro Ardemagni detto Ardus si trovava a gozzovigliare coi suoi genitori sulle esotiche spiagge
della provincia di Pola, mentre Celeste Ferioli era in campagna dai parenti, ad aiutare con la mietitura.
Il nostro incubo era sospeso, congelato, in naftalina fino a ottobre, quando ci saremmo attentati a frequentare la terza classe del Regio Ginnasio.
Superato a tutta velocità lo studio di babbo in via Farini, infilavo
la serpentina del Collegio di Spagna, e sbucavo lanciatissimo sul selciato di via Saragozza. Traversavo a spron battuto i viali di circonvallazione e costeggiavo il primo tratto del portico di San Luca: i tetti
delle case erano lambiti dalle chiome di tigli e abeti che sorgevano dai
giardini retrostanti, quindi infilavo l’arco che immetteva sull’angusta
discesa di via degli Orbi.
Non serviva più pedalare fino all’imboccatura della sterrata che
solcava la proprietà agricola Reggiani, puntando a vista la torre in
mattoni rossi dello stadio Littoriale. A poca distanza dall’istituto dentistico sorgevano le villette addossate al campo sportivo di via Valeriani, dove viveva Árpád Weisz, il grande allenatore dell’immenso Bologna. Ancora pochi metri, e apparivano al limitare dei coltivi le modernissime cubature delle palazzine che formavano il Villaggio della
Rivoluzione fascista.
Al numero 13 di via dello Squadrista abitava il mio ex compagno
delle elementari Roberto Ghinelli, figlio d’un volontario caduto in
Ispagna: bastava un colpo leggero col campanello della Wilier che il
portone s’apriva, e lui era già in cortile a cavallo della sua vecchia bicicletta da donna.
«Ti aspetto per cena, Roberto!» si raccomandava dalla finestra
sua madre, una stiratrice grassa e scarmigliata che mi aveva sempre intimorito.
«A cena di quale giorno, donna?» domandava lui gradasso.
«Mi raccomando, cinno! Non fare l’asino!» gli urlava in dialetto
la vedova Ghinelli.
Io e l’asino, senza bisogno di rivolgerci più di un «ciao», ci lanciavamo a gara nell’aria tiepida del mattino: Roberto era tifoso di Bar13
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tali, mentre il sottoscritto era già un devoto del giovane Coppi, che
aveva appena vinto il suo terzo Giro d’Italia. La rivalità che li divideva rendeva facile immedesimarsi, e non mi sarei impegnato di più se
fosse stata in palio la vera maglia rosa.
«Il campionissimo Fausto in volata solitaria…» improvvisavo un
commento radio quando mi ritrovavo due lunghezze avanti. «Anche
questa tappa sembra sua…»
«…Ma attenzione, amici sportivi!» avvertiva Roberto uscendo
dalla mia scia. «Attacco improvviso del grande Gino… Lanciatissimo
su macchina Legnano!»
«…Epica resistenza di Coppi…»
«…Però Bartali… Non molla…»
Infilavamo a testa bassa l’ultima curva; il traguardo della nostra cavalcata selvaggia era sotto le aquile di bronzo che presidiavano il cancello monumentale dello stadio. Leggeri com’eravamo a quell’età, in
volata ce la giocavamo fino in fondo, e solo quando il vincitore di giornata alzava le braccia al cielo, assumevamo un’andatura più blanda.
Ripreso fiato, seguivamo i binari del tram di via Duca d’Aosta, che
qualche vecchio chiamava ancora via Andrea Costa. Passato il rione
del Lino, popolato da famiglie di carrettieri e marmisti del vicino cimitero, s’incontrava una villetta color ocra affacciata sul canale di Reno, ch’era l’ultimissimo edificio della città.
La superavamo nel silenzio solenne cui inducono i posti di confine non presidiati, per poi imboccare il sentiero che risaliva il canale:
conduceva alla Chiusa di Casalecchio, immersa nella boscaglia ch’era
la nostra Tortuga e il nostro Bengala.
Laggiù convergevano le più ardite braghe corte della zona ed era
eccitante, per me studente ginnasiale, fare ballotta coi figlioli dei cavatori di breccia e degli scalpellini. Gli amici della Chiusa mi chiamavano Pellegrini, per cognome, mentre Roberto era noto nell’ambiente come Bob l’americano – un nomignolo curioso, visto che nessuno
in casa sua aveva mai varcato l’oceano.
Il capo indiscusso era Sandrino della Barca, un quattordicenne
muscoloso e già baffuto il cui padre manovrava il traghetto sul fiume,
un paio di chilometri a valle. Sosteneva di avere già chiavato, lui: il misfatto sarebbe accaduto con una cocomeraia di Budrio, ai margini
d’una festa campestre, e nessuno osava metterlo in dubbio.
Facevamo il bagno nel Reno nudi come vermi, e un giorno, fra
una gara di apnea e una battaglia di spruzzi, mi era venuto in mente
che quell’acqua aveva compiuto lo stesso viaggio di mia madre.
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Era nata a Granaglione, lei, fra i pascoli e i boschi di castagno dell’Appennino. Lassù il fiume era un torrente dall’acqua limpida, ma
quando arrivava alla Chiusa aveva già traversato gli abitati di Porretta Terme, Vergato e Sasso Marconi, cosicché di limpido non aveva più
niente. Portati dalla corrente, vedevamo arrivare alberi sradicati, strane macchie oleose che facevano pensare a residui di fuochi greci, e
persino carogne di animali scivolati in acqua, caprioli e cinghiali gonfi come zampogne. Al termine dei nostri bagni risorgevamo dal greto
sporchi come ci fossimo rotolati nella vernice, e accendevamo un fuoco di sterpi per asciugarci.
Quando rimediavamo un pallone, giocavamo fino al tramonto sui
terreni incolti lambiti dal fiume, altrimenti pescavamo le gobbe, che
poi andavamo a rivendere per pochi centesimi all’Osteria di Casteldebole: il gestore le spacciava per trote ai turisti boccaloni, e noialtri
iniziavamo ad annusare da che parte gira il fumo su questa terra.
Il nostro gioco preferito, però, era calarci nella parte di feroci indiani pellerossa.
Mettevamo grande cura nel tingerci il viso con la terra o il legno
abbrustolito, poi Sandrino proclamava: «I comanci della Chiusa andare a battaglia contro uomini bianchi!»
Il nostro obiettivo erano le comitive di milordini che si spingevano in gita da quelle parti. Ne arrivavano quasi tutti i giorni, per ammirare la maestosa opera idraulica e godere del fresco per una colazione sull’erba.
Quando ne individuavamo un gruppo non accompagnato da uomini adulti, calavamo loro incontro sbucando dalla selva all’ultimo
momento. Prendevamo a urlare come indiani comanci a caccia di scalpi, Sandrino della Barca distribuiva due o tre sgabuffi ai maschietti
della compagnia, e quelli fuggivano terrorizzati, con le sorelle e le amiche dietro a strillare.
Gandolfi, l’anziana guardia campestre, aveva ricevuto molte lamentele. All’inizio aveva provato a usare con noi il pugno duro, sequestrandoci tutte le cavalcature. Nel giro di ventiquattr’ore, però, aveva ricevuto la visita del padre di Sandrino: il traghettatore gli aveva mostrato
un gancio adatto ad appendere i quarti di bue in macelleria, e aveva
spiegato che poteva servire anche per squarciare la gola ai cristiani.
La guardia campestre gli aveva offerto da bere e aveva liberato
senza indecisioni le nostre cavalcature.
Il carisma di Sandrino della Barca era aumentato a dismisura, ed
era stato lui stesso a dettare il nuovo codice alla guardia: «Uomo bian15
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co Gandolfi non rompere più i maroni a comanci della Chiusa. Io avere parlato, augh!»
Un giorno, mentre banchettavamo a panini dolci e aranciate sulle
spoglie d’un ricco picnic estorto a un gruppo di seminaristi, il capotribù Sandrino mi guardò in modo strano.
«Cosa ci sguri, a Riccione?» domandò polemico. «Non ti diverti
abbastanza, qui con la tua gente?»
Ero l’unico dei comanci che sarebbe partito in villeggiatura, e ne
provavo una sensazione di colpa, come se andarsene comportasse un
tradimento.
«Cosa vuoi che ti dica?» risposi in dialetto. «I miei partono, e io
devo andare con loro.»
«Perché sei un coglione», rispose duro. «Anche mia madre vuole
che vado a servir messa, ma io mica le do retta.»
Come il marito, anche la madre di Sandrino esercitava la sua professione sulle rive del fiume, e precisamente sotto il ponte di Borgo Panigale. Sapevamo tutti che i suoi consulti in mezzo alle frasche costavano dieci lire, ma non andava ricordato: ufficialmente era mondina.
«Ha ragione il capo», sentenziò Roberto Ghinelli. «Mica devi andare per forza. Sei un uomo, no?»
«Uomo bianco, però, e milordino!» salì la voce di Pirèn Scimmia,
un monello di dieci anni perfettamente analfabeta.
«Ma taci», gl’intimai, «che hai ancora la bocca sporca di latte. Anzi, di merda!»
«Milurdèn, milurdèn», mi sfidò la sua baia, ma appena tentai di
zittirlo Sandrino mise su una faccia feroce.
«È inutile che fai la commedia, Pellegrini. A noi ci lasci qui, e tu
te ne vai in vil-leg-gia-tu-ra», ripeté il concetto scandendo le sillabe,
come fossero il certificato della mia colpa. «Sei solo un milordino
schifoso.»
«Che colpa ne ho?» domandai, mentre il cuore cominciava a battermi a tamburo. «Siamo amici lo stesso, vero?»
Silenzio.
«Non siamo una banda? Eh, Bob? Non eravamo una tribù?»
Quel giuda di Roberto Ghinelli sfuggiva il mio sguardo, e compresi che ormai si erano messi d’accordo per cacciarmi.
«Pellegrini non essere più comanci», proclamò Sandrino. «Io avere detto, augh», e, per essere sicuro che avessi capito, mi mollò un
ceffone che schivai solo in parte.
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«Ahio, Sandro!» protestai. «Ma che vi ho fatto?»
Mi si fecero intorno anche Roberto, Pirèn Scimmia e gli altri, e
tutti insieme me le suonarono come non le avevo mai sentite.
Mi sforzai solo di riparare la testa e di non piangere, ma non ci
riuscii del tutto.
Quando mi risollevai, terrorizzato e lacero com’ero, iniziai a correre verso il capanno dove Gandolfi ci lasciava nascondere le bici.
«Ziga, ziga!» mi urlavano dietro. «Piangi, milurdèn! E mandaci
una cartolina da Riccione!»
Montai sulla Wilier col cuore in gola e mi diressi in fretta fuori
dalla boscaglia, verso la villa padronale e la strada maestra. Solo quando mi ritrovai alla Croce di Casalecchio smisi di guardarmi indietro
ogni pochi colpi di pedale.
La mia maglietta da marinaio era ridotta a brandelli, avevo una
ciocca di capelli in meno e un orecchio che pulsava come volesse
esplodere, ma ero ancora intero.
Con la improvvisa lucidità del superstite, riflettei che dovevo dimenticare la Chiusa. Sandrino della Barca era un bullo fatto e finito,
manesco e solito agli scoppi d’ira: prendersela con lui, Pirèn Scimmia
e i figlioli semiselvatici dei cavabreccia sarebbe stato come arrabbiarsi con la pioggia, o col vento.
Però non riuscivo a perdonare il tradimento di Roberto. Lui era
mio amico da prima, e non aveva il diritto di allearsi con gli altri contro di me.
All’arco del Meloncello superai un carro della nettezza urbana
stracolmo d’immondizia: tanto il netturbino quanto il cavallo sfiancato mi fissarono colmi di pena.
In cerca d’un contegno mi fermai alla fontanella del convento di
San Giuseppe, lavai il viso e tirai un bel sospiro. La maglietta ormai
era da buttare: nemmeno l’abilità proverbiale di zia Tilde con ago e filo avrebbe potuto ricucire lo strappo che attraversava il petto.
Dovevo andare a casa a cambiarmi. Solo che, se ci fossi arrivato
conciato così, mia madre avrebbe urlato e pianto. Mi avrebbe chiuso
in camera, e non mi sarei potuto vendicare di Roberto Ghinelli.
Meditai di andare in via dello Squadrista e denunciare Roberto a
quella cicciona di sua madre. Vigliaccata per vigliaccata, gli sarebbe
stato bene come un vestito nuovo.
Macché. No, non sarebbe bastato. Forse dovevo tendergli un agguato e accoltellarlo col mio temperino da balilla: per tagliare non valeva niente, ma la punta era una punta seria. Quanto alla tecnica, la
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conoscevo per aver visto una tavola a colori dedicata alla congiura dei
Pazzi: bisognava affondare la lama dall’alto in basso, appena sotto la
clavicola della vittima, gridando frasi sconclusionate.
Per un po’, seduto di fianco alla fontanella, mi cullai in quel sogno e scoprii che immaginare Ghinelli steso in un bagno di sangue,
mentre gorgogliava col petto aperto, aiutava a lenire la rabbia e la frustrazione che provavo.
Subito dopo mi vidi preso a cinghiate da mio padre, spedito in
collegio, col cranio rasato al riformatorio, quindi in catene al bagno
penale. Forse le armi da taglio era meglio dimenticarle.
Riempirlo di botte uno contro uno, come faceva Dick Fulmine,
ecco cosa. Aspettare Ghinelli sotto casa e dargliene così tante da farlo vergognare, come si fa coi cani quando esagerano. Però io non ero
esattamente Dick Fulmine: a occhio e croce, mancavano trenta centimetri di statura e altrettanti chili di muscoli.
Allora, come un giovane homo sapiens, stabilii che dovevo mettermi alla ricerca d’un ramo bello grosso. Dentro gli orti dei frati, ne
pescai fra gli avanzi della legnaia uno che ricordava in maniera passabile un manganello da squadrista. Mi affrettai a picchiarlo a due mani contro la ringhiera che proteggeva la statua di San Francesco: salì
nell’aria un fischio promettente che s’interruppe in un lamento metallico, e il rinculo quasi mi fece saltare l’arma dalle mani.
Se il legno era abbastanza flessibile da non spezzarsi contro la ringhiera, sulle chiappe di Bob l’americano avrebbe fatto faville.
Assicurai la mia nuova arma al portapacchi della bici e scivolai fino al Villaggio della Rivoluzione fascista. Prima o poi, quell’infame
doveva pur tornare a casa.
Con la fantasia avevo levato i panni di Dick Fulmine per indossare quelli del patriotta Diego di Villahermosa, poi quelli del tamburino
Gianni, di Cino, Franco e di tutti gli altri eroi giovani incontrati sulle
pagine del Vittorioso e di Giungla! Unanime saliva la voce dei miei
amici di carta: vendetta, vendetta, vendetta!
Quel fiero impulso, però, cominciava a scontrarsi con la noia: ormai erano due ore che ronzavo in via dello Squadrista tenendo d’occhio casa Ghinelli. Mi ero appena arreso a sedere sui gradini dell’edificio di fronte, quando dal portone uscì un uomo di una quarantina
d’anni in uniforme della Milizia ferroviaria.
Mi squadrò incredulo, lì seduto con la maglietta a brandelli, e subito domandò se mi sentivo bene.
«Benissimo, grazie.»
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«Ma porca miseria! Chi ti ha conciato così, cinno?»
La scusa era già pronta. «Al fiume, signore. Ho litigato con gli zingari.»
«Quegli schifosi», strinse i pugni. «Il Duce dovrebbe buttarli tutti a mare.»
«Quelli delle giostre», specificai. «Volevano rubarmi la bici, ma
non gliel’ho mollata.»
Ammirò brevemente la Wilier, ma non sembrò vedere il bastone
custodito nel portapacchi.
«Be’, le hai prese per bene. I tuoi lo sanno?» indagò come fossi un
poppante.
«Mi sa che domani ci torno coi miei amici», mi ero dato un tono,
«e vediamo chi ride per ultimo.»
«Ossignore! Ma quanti anni hai?» sorrise il miliziano.
«Quasi dodici.»
«Il fegato non ti manca, ma facciamo così: se quei ladroni dalla
faccia di terracotta ti danno di nuovo fastidio, non fai altro che darci
una voce qui al Dopolavoro del Villaggio, in fondo alla via. Lo sai cosa facciamo?» propose sottovoce. «Mettiamo insieme una bella squadra come ai tempi d’oro e li facciamo cagare sangue, quei ladroni dalla faccia di terracotta.»
Era una proposta lusinghiera, peccato che l’offerta non valesse
contro i miei veri nemici.
L’uomo si lisciò il mento con due dita, sorrise remoto e considerò:
«Siamo specializzati nel raddrizzare i torti, noi della vecchia confraternita».
«Confraternita?»
«San Manganello: è lui il nostro protettore», mi strizzò l’occhio.
«Grazie», mi toccò dire. «Nel caso non mancherò di avvertirvi, signore!»
«Ma quale signore! Qui al Villaggio della Rivoluzione fascista di
signori non ce n’è: siamo tutti camerati!»
«Giusto, signor camerata», balbettai.
«Ci vai ai balilla?» indagò.
«Come no!» drizzai la schiena. «Terzo manipolo del centurione
Pelagalli!»
«Allora qui di amici ne trovi quanti ne vuoi», sorrise l’uomo. «Siamo il rione-modello della nuova Italia, e una specie di grande famiglia.» Eh, proprio.
Assentii finché non salutò a palmo levato e s’incamminò in discesa verso via Duca d’Aosta.
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Forse un giorno mi sarei trasformato in un uomo senza paura come lui e mio padre. Oh sì: qualche miracolo mi avrebbe reso capace di
camminare a testa alta per le strade del mondo e portare sempre la pelle a casa. E non solo dalle zuffe fra ragazzini, ma anche dagli scontri di
piazza e persino dalle guerre. Per il momento, valutavo il bastone prigioniero del portapacchi, e speravo di saperlo usare con la forza giusta.
Potevano essere le sette quando, annunciato da un cigolio di freni, vidi sbucare in cima alla strada Roberto Ghinelli. L’infame rientrava per la cena, fischiettando spensierato. Non si aspettava che il sottoscritto volesse offrirgli l’aperitivo.
Incredulo che non mi avesse ancora notato, presi il bastone e balzai in strada nell’attimo in cui Bob smontava alla bersagliera di fronte al cancello di via dello Squadrista 13.
«Ciao, pezzo di merda!» lo salutai. Finalmente mi vide, e il suo
sguardo terrorizzato mi fornì la convinzione per mulinare il bastone a
due mani e colpirlo alla cieca.
Più che gemere, lasciò andare un muggito mentre franava con tutta la bicicletta.
«Vigliacco d’un vigliacco», lo insultai. «Giuda schifoso! Non eravamo amici, noi due?»
Non provò nemmeno a discolparsi, e per la prima volta mi trovai
padrone di bastonare un cristiano come fosse un pupazzo da fiera,
sulle costole, in mezzo alle spalle e dove capitava.
«Adesso ti spacco il culo, milordino!» minacciava Roberto Ghinelli parandosi il capo, ma era imprigionato dalla bicicletta e non poteva rialzarsi in fretta quanto avrebbe voluto. «Basta, Lorenzo!» passò a supplicare quando lo colsi per bene sul naso. «Aiuto!» gridò con
voce straziante poiché non smettevo. «Mi uccidono!»
Le sue urla richiamarono alle finestre un paio di donne, ma la prima a uscire in strada fu la vedova Ghinelli, in ciabatte e scarmigliata
come al solito.
Non appena comprese che il ragazzino in difficoltà era il suo nobile figliolo, prese a tirarsi i capelli gridando con voce da far paura:
«Allarmi, camerati! Ammazzano mio figlio!»
Era tempo di filare, prima che la confraternita di san Manganello
sbucasse dal Dopolavoro decisa a linciarmi.
«Lorenzo!» mi riconobbe la vedova mentre lanciavo lontano il
bastone. «Cos’hai fatto al mio ragazzo?» Accennò due passi di corsa
in ciabatte, poi si fermò, ne raccolse una e me la scaraventò dietro gridando: «Fermati, assassino!»
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Mi beccò in piena nuca, ma a restar lì non ci pensavo neppure:
trascinai in strada la Wilier e balzai in sella con un solo fluido movimento. Via, adesso! Spinsi a tutta forza sui pedali, ma prima di poter
prendere velocità sentii Roberto che rideva.
Così quel giuda non ne aveva prese abbastanza?
Mi girai una frazione di secondo e lo vidi seduto sull’asfalto col
naso sanguinolento, ai piedi della madre che adesso piangeva.
«È inutile che fai lo sborone, Pellegrini!» si sgolò lui puntandomi
contro l’indice. «Tanto sei solo un bastardo!»
Ormai filavo verso via Duca d’Aosta, ma la voce stravolta della vedova m’inseguì come una maledizione: «Domanda a quel puttaniere
di tuo babbo! Lo sa tutta la città! Tua madre non è tua madre!»
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