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scheda tecnica
titolo originale: Far from Heaven
durata: 107 minuti
nazionalità: fra-usa
anno: 2002
regia: Todd Haines
soggetto: Todd Haines
sceneggiatura: Todd Haines
fotografia: Edward Lachman
montaggio: James Lyons
musiche originali: Elmer Bernstein
scenografia: Mark Friedberg
costumi: Sandy Powell
produzione: Clear Blue Sky, John Wells Production, Killer Films, Section 8 Productions
Inc., Section Eight Ltd, TF1 International, Usa Films
interpreti: JULIANNE MOORE (CATHY WHITAKER), DENNIS QUAID (FRANK WHITAKER),
DENNIS HAYSBERT (RAYMOND DEAGAN), PATRICIA CLARKSON (ELEANOR FINE),
JAMES REBHORN (DOTT. BOWMAN), VIOLA DAVIS (SYBIL), BETTE HENRITZE (SIG.RA
LEACOCK), MICHAEL GASTON (STAN FINE), RYAN WARD ( DAVID WHITAKER), LINDSAY
ANDRETTA (JANICE WHITAKER), JORDAN PURYEAR (SARAH DEAGAN), KYLE SMITH
(BILLY HUTCHINSON), CELIA WESTON (MONA LAUDER), BARBARA GARRICK (DOREEN),
OLIVIA BIRKELUND ( NANCY), STEVE RAY DALLIMORE (DICK DAWSON)
Todd Haynes
Julianne Moore
nato a Los Angeles
nel 2 gennaio 1961
nata a Fayetteville, North Carolina, USA
filmografia
filmografia
AMERICA OGGI
SUPERSTAR: THE KAREN CARPENTER
STORY
Regia, Soggetto, Sceneggiatura - 1987
POISON
Regia, Sceneggiatura, Montaggio - 1991
SAFE
Regia, Soggetto, Sceneggiatura - 1995
VELVET GOLDMINE
Regia, Soggetto, Sceneggiatura - 1998
LONTANO DAL PARADISO
Regia, Soggetto, Sceneggiatura - 2002
il 3 dicembre 1960
Attrice - 1993
ASSASSINS
Attrice - 1995
BENNY & JOON
Attrice - 1993
BODY OF EVIDENCE - CORPO DEL
REATO
Attrice - 1992
BOOGIE NIGHTS - L'ALTRA HOLLYWOOD
Attrice - 1997
EVOLUTION
Attrice - 2001
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FINE DI UNA STORIA
Attrice - 1999
NINE MONTHS - IMPREVISTI D'AMORE
Attrice - 1995
HANNIBAL
Attrice - 2000
PSYCHO
Attrice - 1998
I DELITTI DEL GATTO NERO
Attrice - 1990
SAFE
Attrice - 1995
I SEGRETI DEL CUORE
Attrice - 1997
SURVIVING PICASSO - SOPRAVVIVERE A
PICASSO
IL FUGGITIVO
Attrice - 1996
Attrice - 1993
THE HOURS
IL GRANDE LEBOWSKI
Attrice - 2002
Attrice - 1998
THE LADIES MAN
IL MONDO PERDUTO: JURASSIC PARK
Attrice - 2000
Attrice - 1997
LA FORTUNA DI COOKIE
Attrice - 1999
LA MANO SULLA CULLA... E' LA MANO
CHE GOVERNA IL MONDO
THE SHIPPING NEWS - OMBRE DAL
PROFONDO
Attrice - 2001
UN ADORABILE TESTARDO
Attrice - 1996
Attrice - 1992
LA MAPPA DEL MONDO
UN MARITO IDEALE
Attrice - 1999
Attrice - 2000
VANYA SULLA 42ESIMA STRADA
LONTANO DAL PARADISO
Attrice - 1994
Attrice - 2002
WITHOUT APPARENT MOTIVE
MAGNOLIA
Attrice - 2004
Attrice - 1999
premi e festival
Academy Awards, USA 2003
miglior attrice protagonista Julianne Moore
migliore sceneggiatura originale Todd Haynes
nomination miglior fotografia Edward Lachman, miglior musica Elmer Bernstein
American Society of Cinematographers, USA 2003
miglior fotografia Edward Lachman
Black Reel Awards 2003
miglior attore non protagonista Dennis Haysbert
Chicago Film Critics Association Awards 2003
miglior attrice protagonista Julianne Moore
miglior fotografia Edward Lachman
miglior regia Todd Haynes
migliore musica Elmer Bernstein
miglior attore non protagonista Dennis Quaid
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Golden Globes, USA 2003
miglior attore non protagonista Dennis Quaid
migliore attrice drammatica Julian Moore
migliore sceneggiatura originale Todd Haynes
Independent Spirit Awards 2003
migliore fotografia Edward Lachman
miglior regia Todd Haynes
migliore attrice protagonista Julianne Moore
miglior attore non protagonista Dennis Quaid
Venezia Film Festival 2002
Coppa Volpi miglior attrice Julianne Moore
premio del pubblico miglio attrice Julianne Moore
nomination Leone d’Oro Todd Haynes
TODD HAYNES
di Valeria Fiordimare
Nato 42 anni fa in quel di Los Angeles, Todd Haynes è un regista che solo negli ultimi
tempi si sta facendo conoscere dal grande pubblico, anche se attivo quasi da due decenni.
La sua opera richiama spesso temi come quelli dell’omosessualità (da lui “vissuta” in
prima persona), dell’AIDS (affrontato attraverso sottili metafore e, a sua volta,
rappresentante di un più generale malessere del tardo ventesimo secolo), della musica e
della cultura degli anni Settanta e soprattutto la sua fissazione per uno studio di Freud in
cui si esamina la trasformazione di masochismo in sadismo nelle fantasie e nei ricordi di
un giovane paziente.
Il suo debutto alla regia avviene nel 1985 (mentre ancora frequenta l’Università) con
Assassins: A Film Concerning Rimbaud, ricostruzione della “wild life” del poeta
maledetto francese e della sua relazione con Paul Verlaine, dove però il protagonista
viene rappresentato come una specie di protopunk dedito all’assenzio, a scrivere sui muri
e alla vita notturna, il tutto narrato da diverse voci over e con la musica di Iggy Pop in
sottofondo.
Nello stesso anno Haynes si laurea in Arte e Semiotica alla Brown University, ma solo
due anni dopo torna in scena e lo fa alla grande, con un film che comincia ad imporlo
all’attenzione di molti, ma che gli riserva anche una buona dose di critiche. Si tratta di
Superstar: The Karen Carpenter Story, che narra la vita di una celebre cantante
americana degli anni ’70, morta di anoressia. La particolarità di questo lungometraggio è
che i protagonisti sono delle Barbie e il regista passò mesi per creare, con le proprie mani,
tutti i loro accessori in miniatura. Haynes ricorda di aver scelto questa storia perché
riteneva che la musica dei Carpenters fosse emblematica dei primi anni ’70, periodo che
ricorda come l’ultimo di pura fantasia e falsità che ha condiviso con i suoi genitori, quando
erano ancora uniti nell’idea della tipica felice famiglia americana. Purtroppo, nonostante le
critiche favorevoli ricevute, nel 1989 è costretto a ritirare la pellicola poiché non ha
richiesto i diritti per la musica che viene suonata durante il film e l’impegno a mostrare
l’opera solo nelle scuole e nelle cliniche a scopo istruttivo e a devolvere tutti gli incassi al
fondo della Carpenter per la lotta contro l’anoressia, non serve a far cambiare idea a chi di
dovere. Tutto ciò ha naturalmente creato una specie di alone mitico intorno a questa
creazione, facendo di essa un cult a tutti gli effetti.
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Nel 1990 è la volta di Poison, trittico di episodi stilisticamente molto diversi tra loro. Il
primo, Hero, racconta, attraverso interviste fatte a vicini e amici (quindi in perfetto stile
televisivo), la storia di un bambino, Richie Beacon, che uccide il padre che abusava di lui e
poi si toglie a sua volta la vita. Qui viene per la prima volta ripreso il famoso scritto di
Freud che ha tanto appassionato il regista, in cui un paziente raccontava di aver assistito a
delle scene di pestaggio, quando, in realtà, era stato proprio lui la vittima di quelle violenze
invece di un semplice osservatore esterno. Allo stesso modo, Richie, solo dopo aver visto
la madre a letto con il giardiniere, si ricorda di aver subito violenze sessuali da parte del
padre. Il secondo episodio, Horror, è invece una parodia dei film fantascientifici di serie B
degli anni ’50, in cui uno scienziato riesce a isolare una versione liquida dell’istinto
sessuale umano, che poi, per sbaglio, beve, dando così inizio a una serie di spiacevoli e
disgustose conseguenze che lo conducono alla morte. Il terzo e ultimo episodio, Homo, è
ispirato agli scritti dal carcere di Jean Genet, e descrive i momenti di prigionia di Broom e
del suo amico d’infanzia Bolton, da cui è ossessionato. Anche qui assistiamo alla
trasformazione di Broom da masochista simpatizzante di Bolton a suo furtivo amante e
sadico stupratore, in un parallelo con l’estremo gesto di Richie. Il film è un’implicita
riflessione sul clima di crisi e sulla paura legata al sesso che l’ha provocata; un chiaro
anche se non diretto riferimento all’AIDS.
Nel 1993 Haynes torna al cortometraggio, con una produzione di 27 minuti per la serie “TV
Families”, trasmessa dalla PBS, intitolata Dottie Gets Spanked. Steven Gale, un bambino
di 7 anni, viene deriso ed etichettato come “effeminato” dai compagni di scuola a causa
della sua passione per Dottie, una star della TV. Quando vince un tour sul set del
programma, assiste alla registrazione di una puntata in cui la sua beniamina viene
sculacciata dal marito e questo innesca in lui una serie di complicazioni emotive, oltre che
visive: Dottie continuamente fuori e dentro dal personaggio e la continua immagine
(presentata allo spettatore nelle versioni a colori, in bianco e nero e disegnata a matita)
della donna sulle ginocchia dell’uomo, che lo avvolgono come in un vortice fino al
momento finale in cui Steven sotterra il disegno di Dottie che viene sculacciata. Con le
parole di Haynes, nella tipica ambiguità freudiana: “E’ un gesto che reitera l’atto che è
stato proibito e che è stato represso nell’atto di reprimere l’atto stesso”.
L’indiretto riferimento alla “malattia del ventesimo secolo” ritorna in un film del 1995: Safe.
Una bravissima Julianne Moore impersona Carol White, una casalinga della San
Fernando Valley, in preda ad una sorta di “malattia ambientale” (metafora dell’AIDS,
appunto) che la rende allergica a qualsiasi sostanza chimica in circolazione. La
descrizione della malattia e dei vari tentativi fatti per guarire, si trasforma in una ricerca
della propria identità. Muovendosi in spazi quasi completamente privi di ogni attività
umana e interrotti, nel loro silenzio, solo dal rumore dell’aspirapolvere, della radio o della
televisione, viene da chiedersi quale sia la causa del malessere della protagonista. I gas di
scarico di un camion? Una permanente? Una dieta sbagliata che le viene consigliata? Suo
marito? Lei stessa, forse?
Utilizzando uno stile di osservazione apparentemente diretto, Haynes cerca, oltre la satira,
di capire e rappresentare il disperato bisogno di controllo dell’America.
E nel 1998 il regista americano torna ad alcuni temi già affrontati in precedenza: la scena
musicale anni ’70 (in particolare Iggy Pop), l’omosessualità, i richiami all’infanzia e il
citazionismo. Il film in questione è Velvet Goldmine (che, in un progetto iniziale, doveva
intitolarsi “Glitter Kids”), tributo al glam rock inglese attraverso la storia (professionale e
d’amore) di due cantanti del periodo, Brian Slade e Curt Wild, che ricordano molto da
vicino (e non casualmente) rispettivamente David Bowie e Iggy Pop. La narrazione è
strutturata sulla stessa base investigativa di "Quarto potere" (Orson Welles, 1941); quindi
la storia dei due protagonisti è narrata attraverso continui flashback che illustrano i ricordi
di alcune persone che li conoscevano e che vengono intervistate da un giornalista
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musicale. L’atmosfera è volutamente Kitch, a volte sfiora intenzionalmente il ridicolo, la
narrazione è molto ironica (a partire dalla scritta iniziale “anche se il film che state per
vedere è un’invenzione, andrebbe proiettato al massimo del volume”) e, come se non
bastasse, Haynes scomoda un grande della letteratura anglosassone, facendone il “santo
patrono” di origine extraterrestre del glam rock (che lega tutti attraverso una semplice, ma
quanto mai bramata, spilla): Oscar Wilde. Il film viene prodotto, tra gli altri, da Michael
Stipe, front-man degli R.E.M., mentre David Bowie, probabilmente non apprezzando l’idea
del film, si rifiuta di collaborare alla realizzazione di esso e di cedere i diritti delle sue
canzoni.
Arriviamo infine all’ultima realizzazione di Todd Haynes: Far from Heaven (2002). Dopo
sette anni torna a lavorare con Julianne Moore, che anche questa volta interpreta il ruolo
di una tranquilla casalinga, la cui vita non viene però sconvolta da una misteriosa malattia,
bensì dalla scoperta dell’omosessualità del marito e dall’attrazione per il suo giardiniere,
un uomo di colore. Tutto ciò è “aggravato” dal fatto che ci troviamo in un quartiere “bene”
dell’alta borghesia americana degli anni ’50. Questa pellicola è soprattutto
un’esercitazione di stile, nel riproporre un genere molto in voga proprio negli anni in cui è
ambientato il film: il melodramma. Genere che ha come suo maggiore rappresentante
Douglas Sirk. Far from Heaven rende in particolare omaggio a "All That Heaven Allows"
(1956), in cui l’amore tra i due protagonisti veniva ostacolato dalla snobberia dei parenti di
lei che non apprezzavano lo spirito libero di lui e il fatto che fosse di dieci anni più giovane
della sua amata. Ovviamente, nel film di Haynes, i motivi sono diversi (omosessualità,
razzismo) e non si sarebbero certo potuti affrontare con tanta disinvoltura 50 anni fa.
Questo è un segno che i tempi (fortunatamente) sono cambiati, ma purtroppo non
abbastanza, visto che ancora oggi, nel 2003, si assiste a comportamenti che troppo
ricordano quello delle presunte amiche della protagonista quando scoprono il suo
interesse per una persona dal diverso colore della pelle.
Nei film di Haynes si legge spesso a chiare lettere la sua passione per certi autori e certi
film del passato. Oltre ad aver confessato un’infantile insana passione per "Mary Poppins"
(R. Stevenson, 1964) (che ricorda quella di Steven Gale per Dottie), il regista ammette di
essere stato influenzato (soprattutto nella realizzazione di "Velvet Goldmine") da film che
“probabilmente venivano dalla drug culture degli anni ‘60” come "Performance" (D.
Cammel e N. Roeg, 1970), "Women in love" (K. Russel, 1969) e i due capolavori di
Stanley Kubrick "A Clockwork Orange" (1971) e "2001: A Space Odissey" (1968), e questo
perché “invitavano a spingersi verso luoghi mai visti prima”. Ovviamente è chiara anche
l’influenza di famosi registi hollywoodiani come Orson Welles e Douglas Sirk, oltre a Fritz
Lang e Alfred Hitchcock, ma il suo regista preferito, scoperto ai tempi dell’università, resta
Werner Fassbinder, autore controverso e geniale. Con lui condivide, oltre alla passione
per il melodramma e al modernismo di stampo godardiano, anche alcuni temi (i problemi
razziali, l’omosessualità, il suicidio), come è ben testimoniato dal film che Haynes indica
come il suo preferito tra quelli del regista tedesco: "La paura mangia l’anima" (1973), storia
dell’amore considerato scandaloso tra una vedova tedesca di mezza età e un giovane
marocchino.
Intervista a Todd Haynes
di Flavio Della Rocca
Perche' un film sull'America degli anni '50 con tanti riferimenti ai nostri giorni?
Lo stile deriva dall'attrazione che esercitano su di me i film di quel periodo, sono fonti di
continua ispirazione. Ho lasciato implicitamente qua e la' alcuni riferimenti, ma non sono
sicuro che il pubblico sapra' percepirli totalmente.
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Perche' parlare di omosessualita' e razzismo in relazione a quel periodo?
Nei film degli anni Cinquanta questi erano temi che non si potevano trattare tanto
apertamente (una maggiore apertura e' venuta poi negli anni Sessanta). Se
reinterpretiamo adesso i film con Rock Hudson possiamo notare come le sue storie
d'amore fossero sempre messe in crisi, come quei rapporti fossero legnosi.
Abbiamo poi saputo dalla biografie su di lui che avrebbe voluto interpretare un ruolo da
gay, ma in quella Hollywood la cosa era assolutamente improponibile.
Quanto ai problemi razziali, se ne discuteva assai di piu' negli anni Quaranta, ma nel
decennio successivo e' stato messo il silenziatore.
Non crede che il fascino e l'ecletticita' di Julianne Moore abbiano aggiunto molto ad un film
gia' ottimo con questo?
Sono convinto che siano poche le attrici ad avere un tale livello di sottigliezza. Riesce ad
essere diversa in ogni ruolo che ricopre ricostruendo il suo personaggio da zero. E'
intelligente e carismatica e porta queste sue caratteristiche nei ruoli che interpreta. Al
contrario, gli attori di oggi rassicurano il pubblico con il loro peso, ma per lei non e' cosi', si
ispira a vecchi modelli.
Le scelte di fotografia sono da imputare a motivi meramente stilistici o completano le
emozioni inespresse dai personaggi?
Direi entrambi i motivi. La fotografia ha sempre a che fare con scelte stilistiche, ma senza
dubbio con i colori e i costumi si puo' far dire ai personaggi molto di piu' di quanto non
potrebbero fare usando le parole.
Gli elementi da melodramma non mancano...
E' la mia vendetta contro chi mi accusava di fare film incapaci di suscitare emozioni.
Volevo abbracciare lo stile del melodramma senza pero' sacrificare i legami dei
personaggi, che avrebbero potuto essere attualissimi. Del resto non si tratta di eroi, e'
gente fragile come ognuno di noi, con in piu' la genuinita' della gente di quella epoca.
Crede che sia arrivato il momento in cui film tra virgolette piccoli, ma importanti come
questo diventino il successo della stagione?
Non sono bravo a fare previsioni del genere. Se gli Studios sapessero qual'e' la ricetta del
successo, sfornerebbero blockbuster a getto continuo, ma non e' facile sapere che cosa
richiedera' il pubblico in una data stagione. Oggi si richiedono successi immediati, non c'e'
spazio per film ricchi di contenuti, che magari hanno bisogno di un po di tempo...
Vorrei avere i capelli di Lana Turner ma il mio mito è Doris Day
Intervista a Julianne Moore
“Brava! Grazie per Far from Heaven, è il film che ha salvato la Mostra”. Questa
l’accoglienza della stampa a Julianne Moore. Dopo i tantissimi applausi di ieri sera a fine
proiezione, si conferma l’affetto e il successo per la diva “rossa” a Venezia.
Splendidamente diretta da un geniaccio come Todd Haynes, la Moore si cala nei panni
della casalinga perfetta degli anni Cinquanta, Miss Whitaker, una perfezione che si
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trasforma in umanissima fragilità e un personaggio che va a completare una rosa di scelte
sempre azzeccate. Lei sorride e non cela affatto la sua sincera soddisfazione: “Grazie a
voi, il fatto che questo film vi sia piaciuto tanto è un onore”. Vestita come sempre di lilla,
carnagione chiarissima tempestata di efelidi, Julianne è raggiante.
Che Julianne Moore fosse un’attrice di razza lo si sapeva dai tempi di Altman, ma in
questo ruolo è davvero perfetta, come ha fatto?
Devo essere sincera: non è stato difficile. Il film era scritto talmente bene e in modo così
dettagliato che non ho dovuto faticare molto. Todd è forse uno dei pochi registi che hanno
la stessa dose di talento visivo e di penna. E’ stato fantastico, tutto qui.
Miss Whitaker ricorda le dive degli anni Cinquanta da Lana Turner a Joan Bennet: sono
state effettivamente un punto di riferimento per lei?
Sì, certamente. Avrei voluto avere i capelli di Lana Turner, non mi sarebbe dispiaciuto
affatto, ma il mio punto di riferimento è stata la voce di Doris Day, una voce unica che
riporta un mondo, dolce, rassicurante in superficie ma percorso da una certa inquietudine.
Volevo dare l’idea di qualcuno che trasmettesse questa dolcezza di modi, questa allegria
alle volte sopra le righe.
Lei ha già lavorato con Todd Haynes, ci racconta come è nata l’idea del film?
Non vorrei apparire stucchevole, ma anche questa è stata una cosa bellissima. Todd mi
ha chiamata dicendomi che aveva scritto una parte per me, io lo prego di farmi avere la
sceneggiatura alla svelta e quando mi arriva questo copione, scritto come dicevo
benissimo, rimango di stucco, lo chiamo e gli dico: dobbiamo assolutamente fare questo
film. E’ così che è nata l’idea.
Cosa le piace tanto di questo personaggio?
La gentilezza che non è solo formale, ma un dono, una leggerezza innata e poi che
nonostante tutto rimanga un’ottimista.
L’America tiene tantissimo alla sue torte di mele, al Connecticut e quant’altro, come pensa
verrà accolto questo film a suo modo molto dissacrante che mette in piazza problemi di ieri
e di oggi come il razzismo, il conformismo?
Quando per la prima volta ho visto il film mi sono accorta che sorrido continuamente. Ecco
questo sorriso per me è il simbolo dell’ottimismo americano: tutto è possibile, noi siamo
sempre in grado di cambiare le cose, il corso degli eventi. Quando il mio personaggio
smette di sorridere è perché ha perduto per sempre delle illusioni, è consapevole che la
vita non è votata alla perfezione, anzi. E questa consapevolezza è in qualche modo quella
dell’America di oggi, dopo l’11 settembre. Credo che questo film non sia dissacrante o
offensivo, anzi è un omaggio alla natura più schietta dell'America, un omaggio a volte
impietoso, ma necessario.
Il suo personaggio è anche un po’ vittima degli eventi: è questo che la rende simpatica al
pubblico?
Io non la vedo come una vittima, ma come una persona perfettamente inserita nel suo
mondo, lei crede in ciò che fa anche quando le sue sicurezze cedono. Non è vittima,
credo, nemmeno di se stessa. Solo quando rinuncia al suo amore per Raymond è vittima
perché in quel caso sa ciò che perde, ma ancora una volta lo ritiene inevitabile.
La Moore si gode un’altra mandata di applausi e abbandona la sala, è diretta al Des Bains.
“Cosa farò questo pomeriggio? Un giro a Venezia e forse un bagno al mare.”
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Bloopers: errori
Continuità: Quando viene inquadrato lo psichiatra mentre parla con il protagonista, sul
tavolo si vede un soprammobile con una freccia che scompare ogni volta che viene ripreso
il protagonista.
Anacronismo: Poco prima che la protagonista entri nel locale per soli neri, viene
inquadrata una amica che sta salendo sulla sua auto, quella che poi provvederà ad
informare tutto il paese dell'accaduto, nell'inquadratura è possibile vedere riflesso nel
finestrino un boeing in fase atterraggio...
Anacronismo: Ma nei lontani anni 50 esistevano gia' le luci stroboscopiche? Perche'
quando l'algida Lucy balla nel locale per "negri" con lo statuario Raymond nel locale si
accendono le luci con tanto di sfera girevole luccicante!
Anacronismo: La scritta sul tendone del "Dance Studio" appare in un carattere tipografico
non propriamente anni '50.
Incongruenza: Julianne Moore è ingrassata ad arte (rappresentando la tipica donna anni
50) quando è vestita: eppure in vacanza in florida con Dennis Quaid la vediamo in perfetta
forma!
Continuità: La prima volta che la Moore apre la porta, all'inizio del film quando rientra a
casa dopo aver fatto la spesa, si possono notare 3 zucche poste in basso a sinistra che
non ci saranno più per tutto il film (autocritica: è anche possibile che fosse il periodo di
Halloween, però in questo caso, mi pare che l'abbigliamento di tutti i protagonisti non sia
conforme alle temperature del Connecticut in quel periodo).
recensioni
Sette - Claudio Carabba
Conformismo e repressione, l'impossibilità di rivelarsi gay o soltanto di parlare con amicizia a un
giardiniere nero (dettaglio disdicevole se si è una rispettabile signora bianca) nel Connecticut anni
Cinquanta. Girato come un melodramma vecchio stile (Douglas Sirk), Far from Heaven di Todd
Haynes, interpretato alla grande da Julianne Moore, è stato uno dei più applauditi alla Mostra.
Come spettatore non privo di traumi infantili (ancora mi perseguita il fantasma di Jane Wyman,
modello più volte citato) sono restato freddo, inerte, per nulla coinvolto.
La Stampa - Lietta Tornabuoni
Come potevano andare le cose della vita nel 1957, anno delle gonne larghe e delle cinture strette,
dei foulard, dei ricci, dei pregiudizi, del pettegolezzo assassino, delle donne di ferro sconfitte e
indomite? Il bravissimo regista quarantunenne Todd Haynes («Velvet Goldmine»), sostenuto
anche dai coproduttori George Clooney e Steven Soderberg, dirige un film in costume Anni
Cinquanta (non su quegli anni, ma di quegli anni) raffinato, impeccabile, molto divertente. Magari
con un sospetto di affettazione o di mancanza di senso, il metafilm è stilisticamente perfetto:
personaggi (compresa la meravigliosa Julianne Moore), ambientazioni, colori, vestiti, arredamenti,
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emozioni e regole sociali sono quelli d´epoca, ricalcati sui melodrammi o sui ritratti femminili di
Douglas Sirk o di John Stahl. In una cittadina del Connecticut, una piccola famiglia modello della
migliore società locale, governata con devozione spietata e con autoritarismo amoroso dalla
moglie-madre perennemente sorridente, viene sconvolta dalla rivelazione di un terribile segreto: il
padre-marito (Dennis Quaid) è gay e dev´essere subito aiutato a guarire dalla sua anomala
malattia sia dalla scienza (analisi, analisi), sia dall´affetto (piccola vacanza con la moglie al mare,
in Florida). La moglie, una sincera democratica antirazzista, trova conforto nell´amicizia con un
colto e bravo giardiniere nero, studioso di Mirò. Ma l´intolleranza cittadina non dà scampo: il
divorzio e il trasferimento altrove del giardiniere lasciano la protagonista sola a badare ai bambini,
mentre il marito ha trovato un amante ragazzo. Il film non presenta, almeno volontariamente,
un´ombra di ironia nè di parodia, è di una drammatica (o melodrammatica) serietà: e
probabilmente l´influenza della fiction televisiva con le sue passioni e i suoi guai farà sì che venga
preso del tutto alla lettera, che susciti anche commozione, ira o pena.
la Repubblica - Roberto Nepoti
Hartford, Connecticut, 1957. I Whitaker sono una prefetta famigliola americana buona per la
pubblicità dei fiocchi d'avena. Frank ha un lavoro solido, Cathy cura la casa, le relazioni sociali e i
due piccoli Whitaker, una femminuccia e un maschietto. L'equilibrio si spezza con la scoperta
dell'omosessualità dell'uomo. Urge correre ai ripari, "curandolo" con la terapia analitica e con un
viaggio in Florida assieme alla mogliettina: ma Frank, proprio durante la vacanza, si fidanza con un
giovanotto. Per Cathy ha inizio una lunga via crucis: maldicenze di provincia, amore impossibile
per il giardiniere di colore Raymond, divorzio e solitudine. Prodotto da Steven Soderbergh e
George Clooney, Lontano dal Paradiso è un film inaspettato, raffinato, sottilmente crudele, un po'
sterile nel suo manierismo ma che esce al momento giusto per servire da antidoto alle
melensaggini natalizie. Todd Haynes lo ha costruito interamente sulle marche formali (modo di
comporre le inquadrature, dissolvenze...), i colori, le scenografie, le musiche (di Elmer Bernstein), i
titoli e il tipo di recitazione dei melodrammi anni '50, nei quali il suo - una storia alla Douglas Sirk di
amori negati, conflitti razziali, drammi familiari - si riflette come in uno specchio. Tanto che potresti
prenderlo per un film restaurato se, a differenziarlo, non ci fossero riferimenti espliciti a situazioni
(l'omosessualità del marito) che all'epoca si sarebbero sottaciute. Quanto a Julianne Moore,
premio a Venezia per la migliore interpretazione, sembra un'attrice del passato tanto bene imita le
colleghe di allora. Apprezzando l'oggetto cinematografico, impeccabile, resta da chiedersi dove
stia il senso di un'operazione del genere: se di film fatti come una volta (da Peter Bogdanovich a
Woody Allen) ne abbiamo visti parecchi Lontano dal Paradiso, più che un film alla maniera di
quegli anni, è un film "di" quegli anni. A pensarci bene, però, il mélo di Haynes non è destinato al
pubblico ristretto dei cinefili consumatori di vhs e dvd, ma a una platea molto più vasta e in
continua espansione: quella dei nostalgici del bel tempo che fu. E' come se Todd invitasse lo
spettatore a un viaggio nel passato, lontano dai clamori e dalle furie di un presente di attentati e
guerre che lo spaventa. Però: ricordiamo male oppure quelli erano i tempi della guerra fredda,
costantemente affacciati sul bordo della catastrofe nucleare?
Il Giorno - Silvio Danese
Una moglie, che scopre nel marito un omosessuale represso e disperato, s'innamora del gentile
giardiniere di colore. Immaginate di tornare nella società borghese americana degli anni '50, tra
signore con gonne plissettate, cucine lucide e frigoriferi bombati, puritanesimo sessuale e razzismo
bianco. Immaginate lo sguardo del cinema melodrammatico di quegli anni che, da un lato,
promuoveva la nuova società del consumo e della levigata pulizia (le commedie edificanti di Donen
e McCarey), dall'altro denunciava inadeguatezza e un sospetto di omertà sul tragico (i melò di
Douglas Sirk). Nel primo caso ipocrisia, nel secondo autocensura, o meglio limitazione obiettiva di
un contesto culturale. Non credete a chi dirà che questa bellissima riscrittura filmica di una società,
proprio attraverso l'abbattimento di ipocrisia e censura, è «un'operazione di raffinatissima nostalgia
cinefila». Che scemenze!. Haynes dispiega l'emancipazione culturale e politica del cinema di oggi
per fare critica storica e culturale. Parte da Oscar per la Moore, già Coppa Volpi a Venezia.
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Corriere della Sera - Maurizio Porro
Non perdetevi il film più bello e seducente di queste feste, Lontano dal Paradiso (Far from heaven)
scritto e diretto dall'indipendente americano Todd Haynes, autore di culto per Safe e Velvet
Goldmine. Nello stile del melodramma anni ' 50, quando la natura rispettava le scelte del
technicolor, il regista riprende, ricalca e virgoletta una classica soap opera di famiglia ipocrita
borghese di provincia a Hartfort, Connecticut, addì 1957. Ispirandosi agli specchi della vita di Stahl,
alle multicolori foglie al vento dei capolavori di Douglas Sirk, specie a Secondo amore, rifatto poi
da Fassbinder in Tutti gli altri lo chiamano Alì. C'è Cathy una moglie e madre di due bravi piccini
apparentemente felice, nel Paradiso in technicolor fra chiffon, taffetas, rossetti e modelli
scampanati alla Lana Turner che, improvvisamente l'autunno scorso, scopre che il marito,
venditore di televisori, è omosessuale; tanto che, nonostante i tentativi di guarire dal «vizio» con
l'elettroshock, se ne andrà con un ragazzo. Non solo: quando la donna diventa affettuosamente
amica del giardiniere vedovo di colore, esperto di magnolie e di Mirò, scopre anche che il razzismo
impera e la gente mormora. Accettare le regole della convivenza o liberare la femmina folle e
fatale che si nasconde nelle pieghe di una società asservita al Paradiso perbenista e razzista? Con
i Grandi Delitti dei ' 60, tutto cambierà e il sogno americano diventerà incubo, la vita passerà dal
rosa al noir. Cathy attende sola il futuro nella mirabile panoramica-dolly d'addio. Visti oggi sono
«quasi» falsi problemi, ma l'intelligenza dell'operazione sta proprio nel riesumare un genere, il
melò con grancassa sentimentale, iniettandogli dentro i germi, i dubbi, le insicurezze che avrebbe
poi seminato un diverso comune sentimento del pudore. Non è solo cinema, c'è dentro anche la
vita, due magnifiche e speculari ossessioni: non a caso Dennis Quaid, il marito, recita virilmente
alla Robert Stack il ruolo ideale che Rock Hudson non ottenne mai. Perciò Lontano dal Paradiso è
un grande film non solo per cinefili, ma capace di attualizzare i sentimenti e di riprenderli con i toni
vividi di allora: la fotografia da Oscar è di Edward Lachman, la colonna sonora sinfonico-roboante
è di Elmer Bernstein e l'interpretazione è di una Julianne Moore, in larghe gonne, foulard e riccioli
cotonati, disperatamente sorridente, quasi allucinata. Meravigliosa nel calarsi nel matriarcato
d'epoca alla Doris Day - delizioso il pollo, cara - ma trasmettendoci allarmata e consapevole un
temporale in arrivo. E di cui ancora oggi, ascoltando bene, possiamo sentirne in lontananza tuoni,
gossip e fulmini.
l'Unità - Dario Zonta
Todd Haynes é un miniaturista. Dipinge, attraverso i suoi film, delle perfette e mirabili miniature,
compone complessi e realistici modellini. In Velvet Goldmine ricostruiva una scena e un'epoca,
quella glam della musica pop anni settanta a cavallo tra l'Inghilterra di David Bowie e l’America di
Iggy Pop. Questa volta, però, Todd Haynes non imita la vita bensì il cinema e la sua epoca anni
cinquanta, prendendo a modello il melodramma di Douglas Sirk. Fin dal titolo: Far from heaven
(Lontano dal Paradiso) appare sullo schermo nello stile fumettistico e graffiato con cui venivano
strillati negli anni cinquanta i melodrammi sirkiani, come All That Heaven Allows (Secondo amore),
di cui riprende anche il tema. In Secondo amore una vedova si innamorava del giardiniere ben più
giovane di lei, in Lontano dal paradiso una moglie generosa e sorridente, perfetta madre e membro
stimato della piccola comunità cittadina, vive una passione segreta per il suo giardiniere di colore
mentre il marito consuma passioni omosessuali. Julianne Moore, una perfetta Lana Turner con la
voce di Doris Day, é l'immagine sorridente dell'ottimismo americano dei fifties che nasconde, sotto
la patina dorata del perbenismo puritan,(il caos delle emozioni e le contraddizioni della vita. Dannis
Quaid è un probo uomo d'affari con il «vizio» dell’omosessualità. Li troviamo nel mezzo
dell'imitazione di una vita; quella che la società dell'epoca voleva che vivessero, ma lontani da
quella che avrebbero vissuto se avessero seguito l'impulso libero delle loro passioni. Lontani dal
loro paradiso e persi nello specchio del loro presente, in una casa borghese con giardinetto, due
bambini, una festa da organizzare, cene a cui andare, fotografie da farsi scattare per il quotidiano
locale di pettegolezzi che li ha nominati coppia e famiglia dell'anno. Ma il marito la mattina nel caffè
versa il cognac e la sera, dopo il lavoro, invece di tornare a casa, si nasconde in un cinema che dà
La donna dei tre volti (altra storia di sofferenza al femminile) per adocchiare probabili e promettenti
seduttori. Mentre l'impeccabile moglie si trattiene in giardino parlando d'arte con il gentile
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giardiniere. E’ chiaro che il calco di Haynes é ampiamente deformato nei contenuti. Un esempio di
schizofrenia cinematografica perché la Hollywood di quei tempi non avrebbe mai permesso che il
tema dell'omosessualità e quello dell'attrazione di una lattiginosa americana per un corpulento e
colto giardiniere di colore potessero essere così schiettamente rappresentati. Quindi l'operazione
di Haynes rifugge dal semplicismo di una riproduzione di maniera perché vuole essere attuale.
Questo perfetto melodramma sirkiano ha il pregio di ricordare che il cinema é una cosa seria
(come quello americano anni cinquanta), che la rappresentazione sociale ci vuole mimi di una vita
che non ci appartiene e che il presente mente, nascondendoci il reale. Cosa che la Hollywood più
intelligente sta ripetendo ossessivamente e in maniera subliminale.
Sole 24 Ore - Roberto Escobar
Un ramo coperto di fiori bianchi attraversa lo schermo. Sullo sfondo, inquadrata dall'alto, la regìa
mostra la periferia residenziale di Hartford, nel Connecticut. La storia di Cathy (Julianne Moore,
sorprendentemente brava), del marito Frank Whitaker (Dennis Quaid) e di Raymond Deagan
(Dennis Haysbert) è ormai finita. E ora, come accadeva tanto tempo fa, la scritta "The End"
compare sull'ultima immagine di Lontano dal Paradiso (Far from Heaven, Usa e Francia, 2002,
107'). C'è molto più che nostalgia per il cinema che fu, in queste due parole che hanno segnato a
lungo il nostro immaginario. E molto più che cinefilia c'è in tutto il film girato e scritto da Todd
Haynes. Certo, la messa in scena, i piani di ripresa, i ritmi narrativi, gli arredi, i dialoghi, i visi, i ruoli
sociali e sessuali, i colori, le luci, le musiche; tutto evoca e ricrea il cinema hollywoodiano degli
anni 50. Lo stesso Haynes ha ricordato le sue fonti più dirette: oltre al Max Ophüls di The Reckless
Moment (Sgomento, 1949), soprattutto il Douglas Sirk di All That Heaven Allows (Secondo amore,
1955) e di Imation of Life (Lo specchio della vita, 1959). E tuttavia Lontano dal Paradiso resta
profondamente suo, oltre che profondamente nostro, di noi che certo amiamo il cinema di questi
nostri anni, tanto più immediato e disincantato. A farne un film "modemo", è l'assenza di
compiacimento narrativo. Haynes non gira un film alla Sirk o alla Ophüls. Non vuole essere un
virtuoso della citazione. I suoi personaggi sono vivi. Valgono per i sentimenti, ottimi o pessimi, che
esprimono, non come ombre del cinema di mezzo secolo fa, riesumate per l'occasione. I loro
sentimenti, ancora, non sono tenuti a distanza dalla messa in scena come residui risibili, come
stereotipi svuotati dal tempo. Lontano dal Paradiso non patisce la necrofilia che, tanto spesso,
segna la cinefilia. E neppure soffre, all'opposto, l'ironia sotterranea e cinica che, per paradosso, più
d'una volta le si accompagna. E nella vita e nei sentimenti di Cathy subito entra il film. Fin dalle
prime inquadrature se ne avverte l'impegno, e anzi la fatica di stare dentro un ruolo che le è stato
assegnato, e che lei stessa condivide. Cathy non è Cathy, ma è Mrs. Whitaker. Anzi, è Mrs.
Magnatech, l'ombra domestica e fedele di Frank, a sua volta socialmente identico alla sua
funzione di dirigente della Magnatech, appunto. Tutto è troppo perfetto, troppo ordinato - troppo
Hollywood anni 50 -, nella grande casa di Cathy. Il suo giardino è troppo trionfante di rossi e di
gialli, troppo splendidamente autunnale. I suoi figli sono troppo educati. E lo stesso vale per
Eleonor (Patricia Clarkson), la sua migliore amica: troppo aderente al modello ideale dell'amica
migliore. L'equilibrio e la normalità sono tanto dichiarati e insistiti, che in platea se ne attende e se
ne soffre una veloce smentita. Anche questa smentita viene dal cinema degli anni 50, e dai
melodrammi cui Haynes si ispira. Come in Secondo amore, l'insoddisfazione nascosta di Cathy la
porta verso il figlio del suo vecchio giardiniere. Come in Lo specchio della vita, il pregiudizio
razziale mette a nudo l'ipocrisia cattiva che sta sotto il perbenismo sociale. E ancora come in
Written in the Wind (Come le foglie al vento, Sirk, 1956), con l'omosessualità di Frank emerge lo
scandalo "indicibile" della separazione netta dei ruoli sessuali. Ciò che Lontano del Paradiso
aggiunge di proprio sono l'immediatezza e il disincanto con i quali insoddisfazione, pregiudizio e
scandalo sono appunto detti. Ed è questa la modernità del film: questo mostrare e raccontare ciò
che mezzo secolo fa veniva solo alluso (l'omosessualità) o, comunque, veniva attenuato dal
pathos del melodramma, dalle lacrime che esso induceva e giustificava. E infatti, pur dentro i modi
narrativi e lo stile visivo del melodramma, Haynes gira un film ben più secco, ben più consapevole,
quasi crudele. Non c'è modo di consolarsi, in platea, per l'espulsione di Cathy dal falso paradiso di
Hartford, per la sofferenza che le tocca di accettare per essere davvero se stessa e unica, come le
dice Raymond. Anche quel "The End" che dovrebbe suggellare l'extraterritorialità del film dalla
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serietà della vita vera, che ne dovrebbe cioè sancire agli occhi dello spettatore l'autonomia e la
felicità di finzione, anche quelle due piccole parole magiche, dunque, non sostituiscono alcun
nuovo equilibrio sentimentale a quello ormai contraddetto e smentito. Non c'è risarcimento
emotivo, quando finisce la storia di Cathy. Anzi, c'è il sospetto che, proprio in quanto spettatori
"moderni", noi stessi siamo senza rimedio lontani dal paradiso.
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