Lettera di raccomandazione al presidente di giuria di un premio

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Lettera di raccomandazione al presidente di giuria di un premio
Lettera di raccomandazione al presidente di
giuria di un premio letterario
Egregio dottore,
mi perdoni se oso disturbarla ma, mi creda, lo faccio per una questione
importante, una questione di vita o di morte. Sto morendo. Sto morendo
di una malattia bruttissima: l’invidia. Ogni giorno avverto una morsa
qui, all’altezza del fegato. Non mangio più, non mi va giù niente. Passo
le giornate a mordermi le unghie, anzi non ho più unghie: le ho tutte consumate
e sono arrivato ai polpastrelli.
Lei dirà: poveretto, come ha fatto a ridursi in questo stato? E soprattutto:
sì, vabbe’, ma che c’entro io con la sua invidia?
La ragione gliela spiego subito, dottore. Vede, la mia malattia è cominciata
giusto dieci anni fa, quando un po’ per scherzo, un po’ per provare,
un po’ perché il gusto di scrivere ce l’avevo già dalle medie inferiori, decisi
di partecipare a un premio letterario. Era un premio di poesia sportiva
che facevano a Vigonza, in provincia di Padova. La mia poesia era
bella, o almeno lo era per me. Si chiamava «Fabbri è un’amarena». Era
una cosa, come dire?, tridimensionale, in cui alternavo giochi di rime a
parti riflessive, come se raccontassi pezzo per pezzo come la poesia stava
nascendo. E parlavo di giocatori, di caffè, di detersivi, insomma di parole
che nelle poesie non ci sono mai. Pensavo di stupire, di mettermi in tasca
magari un premio speciale o che ne so, e invece niente. Il giorno della
premiazione ero là e ci restai male, malissimo.
Lo ricordo ancora nitidamente, sa?, il momento in cui lessero in sala
la poesia vincente. Era di un tale che conoscevo. «Ho visto i delfini far
l’amore», diceva a un certo punto. I delfini far l’amore? Ma chi li ha mai
visti i delfini far l’amore?, urlavo dentro di me, pensando che io oltretutto
non ho neanche visto i delfini, tranne che nei documentari di Cousteau.
Ecco, in quel preciso istante, mentre la mia anima veniva sedotta e graffiata,
ho sentito per la prima volta quella cosa qui, quel senso di livore
impotente che ti s’impiglia dentro e ti esplode negli intestini. L’invidia,
dottore.
Sì, lo so, i proverbi dicono che l’invidia è un brutto vizio, ma io le rispondo
come don Abbondio a proposito del coraggio: che l’invidia a chi
tocca tocca, e chi ce l’ha non ha modo di scrollarsela di dosso. Di più:
non deve nemmeno parlarne, deve soffocarsela dentro, fare finta che non
ci sia. Una parola… Oppure un modo ci sarebbe: andare di notte sotto le
finestre della persona per la quale ti accorgi di nutrire questa cosa qua,
perché è più bella di te, più ricca, o perché ha la macchina più potente,
faccia lei, e urlargli: «Signor Tal dei Tali, io la invidio! ». Si potrebbe sì,
ma come si fa? O meglio, come faccio io, quasi vent’anni di pubblico impiego,
una moglie e due figlie, una persona che si è guadagnata una certa
posizione, una certa stima? No, io non potevo. E a quel punto non mi restava
che una sola via da percorrere: quella di vincere anch’io un premio
letterario.
Ne scelsi prima uno, poi due, poi tre. Niente. Poi cominciai
a battere a tappeto. Tutti i premi di cui venivo a conoscenza, insomma
ogni occasione era buona. Un fiasco dietro l’altro. Sognavo per mesi, mi
illudevo, mi crogiolavo nel piacere della rilettura, e più rileggevo quella
poesia e quel racconto, più dicevo a me stesso: vai, è fatta, stavolta
una menzione speciale non te le leva nessuno. Poi, un mese prima delle
premiazioni, la fibrillazione dello spirito. E non le dico il giorno, QUEL
giorno, in cui invece delle telefonata, che so?, delle lettera in cui ti dicono
complimenti, lei ha vinto, il premio le verrà consegnato il giorno tal
dei tali nel posto tal dei tali, ti arriva quel cartoncino anonimo. “La S. V.
è invitata alla cerimonia di consegna, eccetera eccetera”. Ogni volta una
botta qui, sul fegato. La pancia che balla, lo stomaco che brucia, tutto
chiuso, tutto chiuso, mia moglie che dice «che c’è? », e lo sa benissimo,
benedetta donna, cosa c’è, e io che sto male, male, male, e che faccio finta
di niente, che dico «niente, niente, Maria, non è niente».
Dieci anni così. La mia vita è diventata un inferno. Dieci premi letterari
all’anno, anche di più. E che roba, poi: almeno una volta, agli inizi,
scrivevo benino, voglio dire le cose che facevo almeno mi piacevano. Ci
credevo. Adesso non ci credo più, butto giù qualcosa di malavoglia proprio
negli ultimi giorni, le lettere le spedisco sempre in raccomandata con
il timbro dell’ultimo giorno utile, e dentro ci sono le cinque, sei, sette copie
di qualcosa che non vincerà mai, perché fa schifo, schifo, e io la odio,
e quando poi vado alle premiazioni e leggo, mi accorgo che chi vince
fa cose belle, pulite, serene, si vede che quella è gente con un equilibrio
dentro, e io invece quell’equilibrio non so nemmeno più dove sia.
Sono uno straccio, dottore. La prego, mi aiuti. La mia unica salvezza
è lei. Non m’interessano i soldi, mi basta un premio, una targa, un diploma,
una cosa qualsiasi.
Una menzione, anche un cenno, un semplice cenno con la mano. Lo
faccia per carità di Dio. Ponga fine a questo mio tormento.
Con ossequio.
P.S. Io sarò in fondo alla sala. Mi metterò una giacca a quadretti.
Racconto estratto da: La casa dei molini a vento
(Edizioni Andromeda, Bologna, 2008)
Raccolta di 20 racconti brevi, il libro è stato premiato al 3° Concorso Letterario
Nazionale “Villa Morosini” nel 2010. Contiene anche la “Lettera di raccomandazione
al presidente di giuria di un premio letterario”, racconto-epistola premiato al Premio
Letterario Nazionale “Arquà Petrarca” nel 1994.
Pagine 70, prezzo 6 euro. Può essere richiesto all’editore ([email protected])
o direttamente all’autore ([email protected])