3 Appunti sul genere copia definitiva 1

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3 Appunti sul genere copia definitiva 1
APPUNTI SUL GENERE
Riflessioni sulle linee-guida
di intervento psicologico e dintorni
A cura di
Paolo Valerio, Cristiano Scandurra
e Anna Lisa Amodeo
1
Edizioni Ordine Psicologi della Campania
Collana ETICA E BUONE PRASSI NELLA PROFESSIONE DI PSICOLOGO
Diretta da Raffaele Felaco
Segreteria Scientifica:
R. Felaco, A. Bozzaotra, F. Nasti, L. Sarno
Segreteria Organizzativa
C. Esposito, M. Ortoli
Responsabile eventi
M. Piccirillo
Si ringrazia Salvatore Esposito
per la gentile concessione della fotografia di copertina
© 2014 Ordine degli Psicologi
P.tta Matilde Serao, 7
80132 Napoli
Tel. e Fax 081.411617
ISBN 978-88-98561-02-5
Tutti i diritti riservati.
Stampa:
Diaconia Grafica & Stampa
Tel. 0823.805548 - Fax 0823.330111
[email protected]
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INDICE
Introduzione
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Capitolo primo
Il ruolo dello psicologo nei servizi di cura per persone transessuali, transgender e gender nonconforming: linee guida WPATH
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Capitolo secondo
Il progetto “Altriluoghi” ed il suo sportello di ascolto a bassa soglia per le persone transessuali e transgender: un lungo viaggio
verso l’isola di “Itaca”
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Capitolo terzo
Bambini e adolescenti gender variant: chi sono veramente?
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Capitolo quarto
L’intervento psicologico-clinico con persone gender variant tra
modello e individualizzazione. L’esperienza dell’area funzionale di psicologia clinica del II Policlinico di Napoli
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Capitolo quinto
Violenze, stigma e discriminazioni verso la non conformità di
genere. Quale effetto sulla salute mentale?
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Capitolo sesto
Identità, identità di genere e identità transgender
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Glossario
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Gli Autori
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INTRODUZIONE
Paolo Valerio
Sono trascorsi ormai quasi vent’anni dalla prima domanda di consultazione presentata da una persona con disforia di genere agli psicologi
dell’Unità Operativa Complessa di Psicologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria “Federico II”. Si trattò di una sfida che decidemmo di
accogliere nel 1997 e che da allora è divenuta una delle nostre expertise
che ci caratterizzano quale servizio deputato ad offrire, attraverso un
intervento di assessment psicodinamicamente orientato, non solo una
“diagnosi”, ma soprattutto ascolto e sostegno alle persone “gender variant” che ad esso si rivolgono, anche se molto spesso la richiesta esplicita che essi portano è solo quella di ottenere un certificato che consenta
loro di richiedere al giudice l’autorizzazione ad effettuare un intervento
di Riattribuzione Chirur-gica del Sesso.
Da quel lontano 1997, molte cose sono cambiate, molte teorie sono
state sviluppate ed indubbie aperture etiche verso la complessa questione dei transessualismi e dei transgenderismi o meglio, seguendo le indicazioni del DSM 5, delle “disforie di genere”, sono state accolte. Non
è un caso che se ne parli al plurale. Le persone che non si riconoscono
nel genere assegnato loro alla nascita portano in sé le più differenti
identità che poco hanno a che fare con la semplice categorizzazione
dicotomica. ‘O uomini o donne’ non è altro che una credenza errata,
schiacciata su una precisa ideologia strutturale che ha a che fare con la
divisione dei generi, ossia il genderismo. Ideologia pericolosa, portatrice di una violenza simbolica che finisce per escludere dalla sfera del
pensabile tutte quelle identità che in essa non vi si ritrovano. Eppure,
nonostante molti di noi sentano e pensino profondamente che questa
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ideologia rappresenta una violenza, le nostre istituzioni – a partire dalla
famiglia, dalla scuola, fino ad arrivare alle organizzazioni lavorative –
finiscono per esserne un ricettacolo, accogliendo nella propria struttura
tale dispositivo. Basti pensare alle difficoltà che le persone transessuali
incontrano quando cercano di entrare nel mondo del lavoro perché i
documenti di identità non corrispondono all’apparenza fisica. Ma cos’è
poi quest’apparenza fisica? È un corpo che ‘parla di sé’, che consente
all’Altro di ‘dire’ qualcosa sull’identità di chi è di fronte e di chi, dunque, è diverso da sé. È l’Altro che attribuisce un’identità e, in questo
processo, agisce una violenza simbolica, perché non ‘ascolta’ l’interno,
ma ‘vede’ l’involucro. Eppure il genere è una dimensione interna, soggettiva, che attinge dal sociale e dal culturale, e che viene comunque
rimaneggiata interiormente diventando, per questo, personale. Perché
dunque bloccare l’accesso alle risorse primarie solo perché il proprio
corpo – dimensione esterna e visibile – non corrisponde al genere – dimensione, invece, più interna ed invisibile? Probabilmente entrano in
gioco fantasmi primordiali ed angoscianti e/o logiche istituzionali basate sull’esclusione e sul primato del profitto che, in quanto tali, finiscono
per alimentare le differenze, ma in maniera sproporzionata e improduttiva. È sicuramente un bene sottolineare l’esistenza delle differenze, o
meglio proporre una cultura delle differenze, ma solo a patto che queste
diventino ricchezza e produttività. E, purtroppo, l’ideologia genderista
altro non fa che alimentare divari e creare nette separazioni ‘noi-voi’,
‘sani-malati’, e così via.
Con queste premesse e sulla base dell’ultima versione degli Standards of Care curati dalla World Professional Association for Transgender Health (WPATH)1, in questo testo che abbiamo intitolato “Appunti
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Il WPATH, già Harry Benjamin International Gender Dysphoria Association, è un’associazione internazionale multidisciplinare di professionisti che da anni mira a promuovere, per la
salute delle persone transgender, assistenza e cure basate sull’evidenza medica, la formazione,
la ricerca, l’avvocatura, l’ordine pubblico ed il rispetto. Una delle funzioni principali della
WPATH è quella di promuovere il più alto livello di standard di cure individuali attraverso gli
Standard di Cura (SOC) per la salute delle persone transessuali, transgender e gender nonconforming. I SOC si fondano sulle ricerche scientifiche più aggiornate e sul consenso di professionisti esperti. Una valida traduzione italiana delle linee guida internazionali è consultabile sul
sito www.onig.it cui si rimanda il lettore.
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sulle disforie di genere. Riflessioni sulle linee-guida di intervento psicologico” intendiamo analizzare il complesso mondo delle ‘varianze di
genere’ in un’ottica prettamente psicologica.
Esso si propone di rappresentare un agile testo fruibile dai non addetti ai lavori, da tutte quelle persone, siano essi semplici cittadini e/o
operatori dell’area socio-sanitaria che nell’ambito pubblico o privato
per qualsiasi motivo, si ritrovino a dover lavorare con persone transessuali e transgender o meglio, diremmo oggi, “gender variant”.
Lungi dal rivolgersi sempre a servizi specialistici, le persone con
disforia di genere si ritrovano spesso di fronte a professionisti non adeguatamente preparati che, pure, devono prestare assistenza sanitaria
per mandato sociale. Questo testo, veloce e di facile lettura, si propone dunque di guidare il professionista della salute verso un modello di
intervento da anni validato ed utilizzato dall’èquipe di psicologi clinici afferenti all’Unità Operativa Complessa di Psicologia dell’Azienda
Ospedaliera Universitaria “Federico II”, con un’attenzione particolare
sia a soggetti di età adulta che a bambini e adolescenti.
Sulla base dell’esperienza acquisita dagli autori che operano nell’ambito del Servizio Antidiscriminazione e Cultura delle Differenze del
Centro di Ateneo SinAPSi (per ulteriori riferimenti sugli obiettivi del
Servizio si può consultare il sito www.bullismoomofobico.it) oltre agli
aspetti più prettamente clinici, il volume si propone anche di offrire uno
sguardo alle problematiche sociali con cui, quotidianamente, le persone
“gender variant” si confrontano. Vengono, infatti, descritte le differenti
forme di violenza e stigmatizzazione che queste persone sono costrette
a subire e gli effetti che ne possono derivare sul piano della loro salute
mentale.
Con questo testo, dunque, gli autori si propongono di offrire informazioni corrette, nozioni chiare e libere da preconcetti ai più disparati
professionisti che, per una ragione o per un’altra, necessitano di conoscere il tema o di aggiornarsi sulle più recenti acquisizioni che lo
riguardano.
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CAPITOLO PRIMO
Il ruolo dello psicologo nei servizi di cura per persone
transessuali, transgender e gender nonconforming: linee
guida WPATH
Marco Ponta
La World Professional Association for Transgender Health (WPATH)
è un’associazione internazionale che vede riuniti professionisti di varie
branche e che, in un’ottica multidisciplinare ed integrata, dal 1979 si
pone l’obiettivo di promuovere la cura ed il pieno benessere delle persone transessuali, transgender e gender nonconforming2, con un impegno
costante e profuso in tutti i contesti sociali e culturali. Tale associazione
è riuscita a riunire e sostenere in ogni Paese del mondo, tutte le persone che, pur con competenze diverse, intendono dedicarsi allo sviluppo
delle migliori prassi possibili e delle più utili politiche di supporto per
migliorare la qualità della vita di una specifica parte della popolazione.
La WPATH, basandosi sui risultati delle più rigorose ricerche scienIn ambito anglosassone, “transgender” è utilizzato come termine ombrello per riferirsi ad un gruppo estremamente diversificato di persone accomunato, però, dall’attraversamento dei generi normativamente intesi. In Italia, al contrario, “transgender”
è solitamente utilizzato per indicare una precisa identità, ben distinta da quella “transessuale”. Se la persona transessuale vive una discordanza tra il genere assegnato
alla nascita ed il genere percepito, facendo ricorso a terapie ormonali o chirurgiche
finalizzate ad adattare il proprio corpo al genere sentito come proprio, la persona
transgender, sebbene viva una simile discordanza, non avverte il bisogno di sottoporsi
alle summenzionate terapie. Con il termine “gender nonconforming”, infine, si fa riferimento a quell’espressione, ruolo o identità di genere che si discosta da determinate
norme culturali prescrittive aventi a che fare con il genere e con il sesso.
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tifiche e sul consenso di professionisti esperti nel settore, tramite la stesura degli Standard di Cura (SOC), divulga gli standard più elevati
di assistenza sanitaria, nel tentativo di migliorare i servizi di presa in
carico e cura rivolti agli individui transessuali, transgender e gender
nonconforming, preservandone in tal modo la salute generale, il benessere psicologico e l’autorealizzazione.
L’ultima versione pubblicata dei SOC è la Versione 7. Le indicazioni ivi proposte vanno intese quali linee guida generali, ma è importante
sottolineare che la questione centrale è prevalentemente rappresentata
dall’attenzione ai bisogni delle persone transessuali, transgender e gender nonconforming.
In particolare si pone l’attenzione sulla necessità di promuovere
un’assistenza sanitaria ottimale per la guida al trattamento delle persone
che esperiscono una ‘disforia di genere’, termine utilizzato per descrivere il disagio e la sofferenza causata dalla discrepanza tra l’identità
di genere percepita ed il genere assegnato alla nascita, utilizzando una
terminologia approvata e condivisa in ambito medico-scientifico (APA,
2013).
Sebbene i SOC propongano indicazioni metodologiche per tutte le
diverse figure professionali coinvolte nell’assistenza sanitaria, in questa
sede si cercherà di sintetizzare alcuni punti proposti dalla Versione 7,
con l’intento di offrire una piccola guida pratica di riferimento per lo
psicologo.
Prima di esporre in maniera pratica e sintetica i punti salienti dei
SOC bisogna porre la dovuta attenzione su alcuni requisiti fondamentali che i professionisti della salute sono tenuti ad applicare sempre ed
in ogni ambito:
1. Mostrare rispetto per i pazienti con identità di genere non conforme
(non patologizzare le differenze relative alle identità e alle espressioni di genere);
2. Fornire cure in grado di sostenere le identità di genere dei pazienti
e ridurre la sofferenza della disforia di genere, quando presente
(eventualmente, se necessario, inviare ai colleghi più esperti nel
settore);
3. Essere bene informati, sulle prestazioni di cui persone transessuali,
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5.
6.
7.
transgender e gender nonconforming possono usufruire attraverso
il sistema sanitario nazionale e, in particolare, sui benefici e sui
rischi del trattamento della disforia di genere;
Abbinare approcci diversificati in relazione alle necessità dei pazienti, individuando per ciascuno gli obiettivi da perseguire per
raggiungere l’espressione di genere desiderata ed il sollievo dalla
disforia di genere;
Facilitare l’accesso alle cure appropriate;
Chiedere il consenso informato dei pazienti prima di fornire i trattamenti ed offrire continuità delle cure;
Essere adeguatamente preparati a supportare e sostenere i pazienti
all’interno delle loro famiglie e della comunità.
È utile, inoltre, porre la dovuta attenzione alla terminologia utilizzata, cercando di capirne il significato e il senso. Una terminologia condivisa è di fondamentale importanza in primis in ambito scientifico, ed
ancor più in ambito sociale, in quanto aiuta a superare barriere culturali,
stereotipi e stigma. Bisogna ricordare infatti che lo stigma rivolto alla
non conformità di genere nella società attuale ha impatto ancora molto
forte, tanto da sfociare spesso in pregiudizi e discriminazioni. Questo
fenomeno è stato recentemente approfondito nella letteratura scientifica, ed è stato denominato minority stress (Meyer, 2003), una particolare
tipologia di stress che colpisce le persone che appartengono a categorie
sociali stigmatizzate e sottoposte, nell’arco della loro esistenza, ad un
eccesso di stress, macro e micro-traumatico, causato da violenze, atteggiamenti discriminatori e stigmatizzazione (per una trattazione più
approfondita cfr. capitolo 5 del presente testo).
È bene ricordare, inoltre, che la non conformità di genere differisce
dalla disforia di genere: la non conformità di genere, infatti, si riferisce
in parte a quell’espressione, ruolo o identità di genere che differisce da
determinate norme culturali prescrittive aventi a che fare con il genere e
con il sesso (Institute of Medicine, 2011). La disforia di genere, invece,
fa riferimento al disagio ed alla sofferenza causata dalla discrepanza tra
l’identità di genere percepita ed il genere assegnato alla nascita (ed il
ruolo di genere associato) (Knudson, De Cuypere, & Bockting, 2010).
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Non è detto, pertanto, che le persone gender non conforming esperiscano anche una disforia di genere.
Le identità di genere e le espressioni di genere sono molteplici, e le
terapie ormonali e la chirurgia sono solo due tra le tante possibilità disponibili per aiutare le persone a raggiungere un benessere soggettivo.
Seguendo le indicazioni ed i criteri della quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) (APA, 2013)
è possibile diagnosticare nella popolazione transessuale, transgender e
gender nonconforming il disagio legato alla disforia di genere. L’esistenza di tale diagnosi è atta a facilitare l’accesso all’assistenza sanitaria
e ad orientare future ricerche verso trattamenti ancora più efficaci. Le
categorie del DSM hanno un’importanza socio-culturale molto rilevante. Talvolta, infatti, proprio attraverso le definizioni o la terminologia
si corre il rischio di contribuire a rafforzare falsi stereotipi o credenze
negative, che alimentano stigma e pregiudizi sulle persone transessuali,
impattando in maniera significativa e, senza alcun dubbio, molto negativa sulla qualità di vita delle persone. Un disturbo classificato nel
DSM va inteso quindi come una descrizione di un evento contro cui la
persona può combattere, e non come una descrizione della persona o
dell’identità.
1.1. Lo Psicologo e la Disforia di genere: orientare un intervento secondo gli Standard di Cura
Alleviare la disforia di genere è un percorso possibile, aperto a molteplici strade e possibilità, in base ai differenti bisogni individuali delle
persone transessuali, transgender e gender nonconforming.
Lo psicologo chiamato a fornire il proprio contributo all’interno di
tale percorso dovrà aver ben presente le diverse possibilità che gli si
prospettano, potendo infatti incontrare diverse tipologie di persone:
1. Persone tendenti ad integrare i loro sentimenti trans o cross-gender
nel ruolo di genere assegnato loro alla nascita e che non avvertono
il bisogno di femminilizzare o mascolinizzare il loro corpo;
2. Persone disposte a ritenere sufficienti solo alcuni cambiamenti nel
ruolo di genere o nell’espressione di genere per alleviare la disforia;
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3. Persone risolute nell’esplicitare una richiesta di terapie ormonali,
di un possibile cambiamento nel ruolo di genere, ma non della chirurgia;
4. Persone decise a voler ricorrere alla chirurgia per completare il percorso di transizione ed alleviare così la disforia.
Da qui si evince quanto sia rilevante per gli operatori della salute, ed
a maggior ragione per gli psicologi, comprendere e sostenere le diverse
strade e i diversi bisogni di ognuno, per far sì che il trattamento della
disforia di genere sia orientato ad esplorare le differenti possibilità di
espressione dell’identità, al fine di migliorare il benessere individuale
di chi soffre una condizione di disagio psicologico a causa della disforia
di genere.
Come descritto nei SOC la psicoterapia (individuale, di coppia, familiare o di gruppo) e l’intervento psicologico devono essere un utile
supporto per:
1. Esplorare l’identità, il ruolo e l’espressione di genere;
2. Affrontare l’impatto negativo della disforia di genere e dello stigma
sulla salute mentale;
3. Alleviare la transfobia interiorizzata;
4. Potenziare il supporto sociale e dei pari;
5. Migliorare l’immagine del corpo;
6. Promuovere resilienza.
1.2. Linee guida di intervento in bambini e adolescenti che presentano disforia di genere
Nell’approccio al trattamento per la disforia di genere, è di fondamentale importanza considerare l’età delle persone. Vi sono delle specifiche linee guida da seguire per l’assessment ed il trattamento della
disforia di genere in bambini e adolescenti. Nella tabella (Tabella 1)
seguente sono mostrate, in breve, alcune tra le differenze sostanziali
che bisogna considerare quando si affronta questa tematica in bambini
e adolescenti.
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Tabella 1. Differenze nel trattamento della disforia di genere in
bambini e adolescenti
Bambini
La disforia di genere durante l’infanzia
non persiste inevitabilmente in età adulta.
Dai 2 anni di età, i bambini possono
mostrare un’identificazione maggiore
con giochi, vestiti ed altro caratterizzante il ruolo di genere associato al il sesso
opposto.
I bambini possono esprimere il desiderio di appartenere all’altro sesso.
Generalmente la disforia di genere tende
a scomparire all’inizio della pubertà
Adolescenti
La disforia di genere permane più facilmente anche in età adulta.
Non è detto che ci sia una storia di comportamenti infantili gender non conforming.
Esiste la probabilità di avere disturbi
internalizzanti associati, come ansia e
depressione, e/o disturbi esternalizzanti,
come il disturbo oppositivo- provocatorio (de Vries et al., 2010)
Forte desiderio di terapia ormonale e
chirurgia
Quali sono le competenze che uno psicologo deve possedere per
implementare un intervento in quest’ambito? Di seguito si riprendono i requisiti minimi da possedere secondo le linee-guida attuali della
WPATH:
1. Laurea in Psicologia e conseguente iscrizione all’Albo regionale
della professione;
2. Competenza nell’utilizzo del Manuale Diagnostico e Statistico dei
Disturbi Mentali (DSM);
3. Abilità nel riconoscere e diagnosticare problematiche di salute
mentale associate e di distinguerle dalla disforia di genere;
4. Una formazione supervisionata e documentata e competenze psicoterapeutiche o di counselling;
5. Consapevolezza circa le identità e le espressioni di genere non conformi e sull’assessment ed il trattamento della disforia di genere;
6. Formazione continuativa nell’assessment e nel trattamento della
disforia di genere;
7. Formazione nella psicopatologia dello sviluppo dell’infanzia e
dell’adolescenza;
8. Competenza nel diagnosticare e trattare problemi ordinari di bambini e adolescenti.
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Il compito dello Psicologo che lavora specificamente con bambini e
adolescenti con disforia di genere, invece, rientra nelle seguenti azioni:
1. Valutare direttamente la disforia di genere;
2. Offrire counselling alla famiglia ed al bambino o all’adolescente per
esplorare la loro identità di genere ed alleviare il disagio collegato
alla disforia di genere, migliorando così altre difficoltà psicosociali;
3. Valutare e trattare le problematiche di salute mentale associate (anche rivolgendosi ad altri professionisti);
4. Inviare a specialisti per la richiesta di interventi chirurgici sui pazienti. L’invio deve essere completo di tutta la documentazione valutativa sulla disforia di genere, deve indicare l’eleggibilità per gli
interventi chirurgici e contenere qualsiasi altra informazione riguardante la salute del bambino;
5. Educare e sostenere i bambini con disforia di genere, gli adolescenti
e le loro famiglie nella comunità, attraverso centri diurni, scuole, ed
altre organizzazioni, affinché si evitino comportamenti antisociali
nei loro confronti;
6. Offrire informazioni ai bambini, agli adolescenti ed alle loro famiglie per il supporto tra pari, come gruppi di supporto per genitori di
ragazzi transgender e gender nonconforming.
I SOC propongono inoltre specifiche linee-guida per l’assessment.
Di seguito si sintetizzano i punti fondamentali:
1. Non si deve mai respingere o esprimere un atteggiamento negativo
verso le identità di genere non conformi o verso i sintomi di disforia
di genere. Al contrario, è fondamentale riconoscere tale problematica e sostenere la famiglia lungo un percorso di accettazione;
2. È utile un assessment psicodiagnostico per esplorare la natura e le
caratteristiche dell’identità di genere del bambino o dell’adolescente. L’assessment dovrebbe includere una valutazione dei punti di
forza e debolezza del funzionamento familiare;
3. Nella fase di assessment è opportuno informare il giovane e la sua
famiglia sulle possibilità e sui limiti dei differenti trattamenti per
far sì che non si alimentino fantasie rispetto agli interventi possibili
e agli esiti positivi degli stessi.
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Lo psicologo, nelle fasi di intervento, dovrebbe aiutare la famiglia
a rispondere positivamente e ad accettare le preoccupazioni del loro
bambino o adolescente con disforia di genere e focalizzare l’intervento
psicologico sulla riduzione del disagio relativo alla disforia di genere e
sul miglioramento di ogni altra difficoltà psicosociale.
Non sono più ritenuti etici trattamenti che tentano di modificare l’identità di genere di una persona e l’espressione della stessa per renderla
più congruente al sesso assegnato alla nascita
1.3. Linee guida di intervento in adulti che presentano una disforia
di genere
Le motivazioni per cui una persona transessuale, transgender o gender nonconforming richiede un aiuto psicologico possono essere svariate. Le linee-guida del WPATH riportano una serie di competenze
minime dello psicologo che lavora con adulti che, in gran parte, sono
le stesse di quelle previste per chi lavora con i bambini o con gli adolescenti. Ciononostante, esse differiscono in alcuni aspetti legati soprattutto alla formazione psicologica personale. È necessario, infatti, che
uno psicologo che lavora con persone adulte con disforia di genere sia
formato alle competenze cliniche generali relative all’assessment, alla
diagnosi e al trattamento delle problematiche di salute mentale.
Le linee-guida del WPATH elenca una serie di attività in cui è richiesto l’intervento dello psicologo:
1. Individuazione della disforia di genere del cliente nel contesto di
valutazione del suo adattamento psicosociale. La valutazione deve
essere indirizzata all’identità e alla disforia di genere, all’impatto
dello stigma associato alla non conformità di genere sulla salute
mentale e alla disponibilità del supporto da parte della famiglia, degli amici e dei pari. È opportuno assicurarsi, inoltre, che la disforia
di genere non sia secondaria ad altre diagnosi.
2. Informazione sulle diverse identità ed espressioni di genere e sulle
diverse opzioni disponibili per alleviare la disforia di genere. Lo
psicologo inoltre dovrebbe aiutare e facilitare il processo di esplorazione delle differenti possibilità, in modo da trovare un ruolo o
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un’espressione di genere in cui il cliente possa sentirsi a proprio
agio.
3. Screening dei problemi di salute cui le persone che presentano disforia di genere possono incorrere. Una lunga storia di disforia e/o
lo stress cronico dovuto all’appartenenza ad una minoranza, possono portare all’insorgere di alcuni disturbi quali ansia, depressione, autolesionismo, problemi sessuali, abuso di sostanze, disturbi
alimentari e disturbi psicotici. Trattare queste problematiche può
facilitare di molto la risoluzione della disforia di genere e portare
notevoli miglioramenti nella qualità della vita. La presenza di queste problematiche non preclude necessariamente possibili cambiamenti nel ruolo di genere o l’accesso alla terapia ormonale e/o agli
interventi chirurgici di riattribuzione del sesso.
4. Sostegno psicologico nella fase iniziale della terapia ormonale. Lo
psicologo deve conoscere adeguatamente l’impatto delle terapie sul
corpo e sulla psiche e l’esito delle stesse. Le decisioni riguardanti
tali terapie, naturalmente, spettano al cliente. Tuttavia, è compito
dello psicologo far sì che la persona esplori a dovere le possibilità
per poter prendere decisioni in maniera del tutto consapevole.
1.4. Psicoterapia e disforia di genere
Nelle linee guide proposte dal WPATH vi sono, infine, alcuni aspetti salienti riguardanti la psicoterapia. Di seguito si sintetizzano i punti
fondamentali riportati dai SOC:
1. La psicoterapia, nonostante vivamente consigliata, non è un requisito indispensabile. Non è previsto un numero preciso di sedute
psicoterapeutiche prima della terapia ormonale o della chirurgia.
Le persone, infatti, possono differire nella loro capacità di raggiungimento degli stessi obiettivi in un periodo specifico e, inoltre, un
numero minimo di sedute potrebbe scoraggiare l’opportunità di crescita personale.
2. L’obiettivo di una psicoterapia è quello di trovare la modalità per
massimizzare il benessere psicologico complessivo di una persona,
la sua qualità della vita e la sua autorealizzazione. Nel caso specifi17
3.
4.
5.
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co di una persona che affronti una disforia di genere l’obiettivo terapeutico più importante è quello di aiutare la persona transessuale,
transgender, o gender nonconforming a raggiungere un benessere
a lungo termine relativo all’espressione dell’identità di genere, con
possibilità realistiche di successo nelle relazioni, nell’istruzione e
nel lavoro.
La psicoterapia può essere individuale, di coppia, familiare o di
gruppo. Quest’ultima è particolarmente importante per promuovere
il supporto tra pari.
La psicoterapia può risultare fondamentale per chiarire ed esplorare l’identità ed il ruolo di genere, affrontare l’impatto del minority
stress sulla propria salute mentale (cfr. cap. 5 del presente testo) e
sul proprio sviluppo umano, facilitare il processo di coming out che
per alcuni può prevedere modificazioni nell’espressione del ruolo
di genere.
La psicoterapia può aiutare ad alleviare tutte quelle concomitanti problematiche di salute mentali (come l’ansia o la depressione)
identificate durante lo screening e la valutazione.
La psicoterapia può offrire un utile spazio per le persone attraverso
cui è possibile cominciare ad esprimersi in un modo congruente alla
propria identità di genere e, per alcuni, a superare la paura legata ai
cambiamenti nell’espressione di genere.
La terapia familiare può essere offerta come una parte della terapia
individuale del cliente. In alternativa, è previsto un invio ad altri
terapeuti con specifiche competenze nell’approccio con i familiari.
Tale terapia può prevedere un lavoro con i coniugi o con il partner,
così come con i bambini e gli altri membri della famiglia allargata
del paziente.
Bibliografia
American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5° ed.). Washington, DC: Author.
Meyer, I. H. (2003). Prejudice, social stress, and mental health in Lesbian, gay and
bisexual populations: Conceptual issues and research evidence. Psychological
Bulletin, 129, 674-697.
IOM (Institute of Medicine) (2011). The Health of Lesbian, Gay, Bisexual, and
Transgender People: Building a Foundation for Better Understand. Washington DC: The National Academies Press.
Knudson, G., De Cuypere, G., & Bockting, W.O. (2010). Recommendations for revision of the DSM diagnoses of gender identity disorders: Consensus statement
of The World Professional Association for Transgender Health. International
Journal of Transgenderism, 12 (2), 115-118.
World Professional Association for Transgender Health. (2011). Standards of Care for the
Health of Transsexual, Transgender, and Gender Nonconforming People (7th version). Minneapolis, MN: Author. www.wpath.org.
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CAPITOLO SECONDO
Il progetto “Altriluoghi” ed il suo sportello di ascolto a
bassa soglia per le persone transessuali e transgender: un
lungo viaggio verso l’isola di “Itaca”
Paolo Fazzari
Tienila sempre in mente, Itaca.
La tua meta? Approdarvi.
Ma non far fretta la tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni;
e che ormai vecchio alla tua isola attracchi,
ricco di quel che guadagnasti per via,
senza aspettarti da Itaca ricchezze.
Itaca ti ha donato il bel viaggio.
Non saresti partito senza di lei.
(K. Kavafis)
2.1. Introduzione
Nel 2009, in occasione del Convegno Internazionale «I transgenderismi: quali possibilità di ‘integrazione’ per coloro che non si riconoscono nel genere assegnato» organizzato dall’ONIG3, ci si chiese quale
fosse il presente ed il futuro dei Serviione con il Sud, promosso e ide3
ONIG è l’acronimo di Osservatorio Nazionale Identità di Genere. Fondato nel 1998 in Italia “si propone di favorire il confronto e la collaborazione di tutte le realtà interessate ai temi
del transgenderismo e del transessualismo al fine di approfondire la conoscenza di questa realtà
a livello scientifico e sociale e promuovere aperture culturali verso la libertà d’espressione delle
persone transessuali e transgender in tutti i loro aspetti”. Il convegno al quale si fa riferimento
si è tenuto nei giorni 8 ed il 9 maggio 2009 a Napoli presso il Palazzo Serra di Cassano, sede
dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
21
ato dalla Cooperativa sociale Dedalus4,5 e l’Associazione Transessuali
Napoli (ATN)6 in collaborazione con il Dipartimento di Neuroscienze
dell’Università degli Studi di Napoli Federico II7, la Federconsumatori Napoli8, il Movimento Identità Transgender (MIT) di Bologna9, la
Asl Napoli 110, il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza
(CNCA)11, il progetto ha potuto contare, inoltre, su una sede ubicata a
Palermo ed è divenuto così il primo consultorio del Sud per la tutela
della salute e dei diritti delle persone transessuali.
Nel prossimo paragrafo sarà proposta una breve descrizione delle
molteplici attività previste dal Progetto; in quello successivo, invece,
saranno poste in evidenza alcune delle principali questioni psicologiche
emerse dall’incontro con l’utenza afferita allo “sportello di ascolto a
bassa soglia”.
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La Cooperativa Sociale Dedalus è stata fondata a Napoli nel 1981. La sua mission è quella
di perseguire l’interesse generale della comunità attraverso la costruzione di processi di promozione umana e culturale, la realizzazione delle pari opportunità di accesso ai diritti e alle
garanzie di cittadinanza per tutte le cittadine e per tutti i cittadini, senza distinzione di sesso,
nazionalità, religione, censo. Considera la comunità locale come attore sociale complesso e
assume quali obiettivi prioritari del proprio agire sociale la tutela e il potenziamento del sistema
di welfare, nonché la realizzazione di tutte quelle azioni necessarie ad attivare percorsi virtuosi
di inclusione socio-lavorativa, in un’ottica che individua nelle forme di welfare comunitario e
integrato quelle più idonee a garantire l’universalità dei diritti, attraverso la valorizzazione e la
centralità della funzione pubblica. Le aree di intervento in cui la Cooperativa si è concentrata
sono: studi e ricerche, tratta e prostituzione, dipendenze, servizi educativi, minori Stranieri
non accompagnati, orientamento al lavoro, formazione, accoglienza, mediazione culturale. Per
maggiori informazioni è possibile consultare il sito internet: www.coopdedalus.it.
5
In questa sede non possiamo non ringraziare Andrea Morniroli per l’energia e la dedizione
che ha trasmesso a tutti i livelli di questo Progetto ed un ringraziamento particolare va a Nunzia
Cipolla, coordinatrice del Progetto.
6
Per la Associazione Transessuali di Napoli hanno preso parte al progetto le operatrici: Daniela
Falanga, Loredana Rossi, Laura Matrone.
7
Un ringraziamento speciale va al prof. Paolo Valerio, responsabile del Progetto per il Dipartimento di Neuroscienze ed al Dott. Roberto Vitelli. Gli operatori dell’area psicologica sono stati
il dottor Paolo Fazzari, la dott.ssa Elena Curti e la dott.ssa Filomena Agnello.
8
Per la Federconsumatori Campania hanno partecipato il suo Presidente, Rosario Stornaiuolo,
e gli avvocati Salvatore Romano, Pasquale Boscato e Ileana Capurro.
9
Per il MIT ha collaborato al Progetto Porpora Marcasciano.
10
Per il Dipartimento Materno infantile ASL Na1 ha collaborato la sua Responsabile, la dott.
ssa Rosa Papa.
11
Per il CNCA ha partecipato il suo Presidente, Pasquale Calemme.
22
2.2. Altriluoghi: un lavoro di squadra e la costruzione di una Rete
La possibilità di realizzare “Altriluoghi” può essere considerata, di
per sé, un grande risultato. All’interno di una cultura consolidata sul
“binarismo di genere”, è molto difficile affrontare le questioni portate
da soggetti che non sentono di appartenere alle identità di genere “tipiche” di quel sistema sociale e manifestano orientamenti sessuali diversi
da quello eterosessuale.
Le occasioni di collaborazione tra i partner del progetto erano già
state numerose ma, come già sottolineato, mancava un intervento interdisciplinare (una vera e propria ibridazione di conoscenze, saperi e
saper fare) capace di prendersi cura a 360 gradi delle esigenze delle
persone transessuali e transgender. La mission del progetto, pertanto, è stata quella di realizzare in modo concreto il numero maggiore
di iniziative che consentissero di migliorare la qualità della vita delle
persone transessuali e transgender. Obiettivo di tali interventi è stato,
dunque, non solo quello di potenziare l’offerta di servizi socio-sanitari
ma, soprattutto, quello di puntare alla promozione di pari opportunità
di accesso al sistema di welfare e alla cittadinanza e favorire percorsi di
inserimento socio-lavorativo.
Il lavoro svolto da parte della cooperativa Dedalus, già da molti anni,
ha consentito di individuare, con precisione, il gruppo target del nostro
intervento sia sotto il profilo numerico che socio-culturale. La comunità
transessuale/transgender, infatti, può essere identificata come una popolazione, particolarmente variegata, composta da circa 3000 soggetti
a forte rischio di esclusione sociale e diversamente dislocata sull’area
metropolitana di Napoli (Morniroli et al., 2010). Per di più, all’interno di tale comunità, è presente un sottogruppo, circa 200 persone in
età avanzata, composto da soggetti che hanno perso legami sociali, che
hanno problemi di salute e che, in virtù delle loro problematiche, spesso, non riescono neanche a produrre una domanda di aiuto.
Per quanto attiene all’aspetto legale, la partecipazione di Federconsumatori ha permesso di istituire uno spazio di consulenza legale, gratuito, per coloro che avrebbero intrapreso l’iter burocratico previsto per
23
il “transito” verso la riassegnazione nell’identità di genere desiderata.
Grazie all’aiuto di Federconsumatori è stato possibile predisporre, altresì, uno sportello di tutela in grado di informare le persone trans ed
orientarle ai diritti civili, ai rapporti con la pubblica amministrazione
e fornire una guida ai servizi presenti sul territorio. Infine, Dedalus e
Federconsumatori hanno attivato un servizio di consulenza anche per le
persone trans di origine straniera, in riferimento alla regolarizzazione
della loro presenza in Italia.
Un’iniziativa di particolare rilievo è stata l’attivazione di una Unità
di Strada, un punto di contatto attivo direttamente “in strada”, specificamente rivolto alle persone trans che si prostituiscono. La consolidata
esperienza di lavoro di Dedalus, nei termini di interventi di riduzione
del danno rivolti ai migranti e a coloro che sono sfruttati dal sistema
della “tratta di persone”, ha permesso di allestire uno spazio di accoglienza, attivo due volte a settimana, il cui obiettivo è stato quello di offrire informazioni sulle malattie sessualmente trasmissibili ed orientare
gli utenti ai servizi socio-sanitari del territorio.
A cura di Dedalus e di ATN, inoltre, è stata attivata la casa di accoglienza “Marcella”, una struttura in grado di accogliere temporaneamente le persone transessuali in stato di bisogno. Tale iniziativa si
è resa necessaria in considerazione della situazione di emergenza che
vive una persona trans, la quale può essere allontanata dalla casa natale
e perdere ogni forma di supporto e sostegno.
Dal punto di vista psicologico, di cui approfondiremo alcuni aspetti
in seguito, è stato attivato uno “sportello di ascolto a bassa soglia”, ideato per la tutela del benessere e dei diritti delle persone transessuali e
transgender con sede in via Palmieri 43, zona Arenaccia, all’interno di
un bene confiscato alla mafia, in cui hanno interagito gli psicologi clinici e le operatrici di ATN. L’obiettivo specifico di tale attività è stato
quello di creare un punto di accoglienza e di ascolto delle domande e
dei bisogni delle persone trans, rivolgendo particolare attenzione alla
segnalazione di esperienze di abuso, sopruso e discriminazione, oltre a
favorire il l’accesso ai diversi servizi territoriali.
Dal punto di vista medico, il progetto ha potuto contare su un am24
bulatorio endocrinologico “dedicato” a persone transessuali e ubicato
presso l’Azienda Ospedaliera Universitaria (AOU) Federico II di Napoli12 sotto la guida del Prof. Michele De Rosa e di uno sportello sociosanitario, ubicato presso il Distretto 31 dell’Asl Napoli 1, sotto la direzione della Dott.ssa Rosa Papa, nel quale è possibile tuttora ricevere
informazioni sul tema della prevenzione sanitaria e della educazione
alla salute13. Questi sportelli medici, hanno svolto una funzione cruciale dal momento che spesso, come è purtroppo noto, le persone trans
possono sottoporsi ad interventi e assumere sostanze medicinali ed
ormoni in modo “autonomo”, senza aver precedentemente consultato
un medico, andando incontro a grandissimi rischi per la propria salute.
Sul piano della comunicazione, non sono mancati momenti di pubblicizzazione delle attività per promuovere una cultura maggiormente
inclusiva e contrastare i pregiudizi, gli stereotipi e i luoghi comuni sulle
persone transessuali e transgender. Tra gli eventi realizzati, possiamo
qui ricordare il Transgender Day of Remembrance (TDOR)14 e il sostegno alla realizzazione della festa della Candelora15.
È da sottolineare che tutte le iniziative del progetto non sarebbero
state possibili senza il lavoro svolto dalle operatrici di ATN. Le opeL’ambulatorio si trova presso l’edificio 14/E dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico di Napoli, via Pansini 5.
13
Un sentito ringraziamento va alla dott.ssa Rosa Papa. Nell’ambito delle azioni per
il potenziamento delle attività aziendali e del coordinamento regionale, come recentemente pubblicato sul BURC del 17 marzo 2014, mediante il Decreto 14, è stato
possibile estendere gli screening oncologici alla comunità transgender MtF.
14
Il Transgender Day of Remembrance (TDoR) viene celebrato in onore di Rita
Hester, una transessuale afro-americana uccisa il 28 novembre del 1998 nella città di
Allston, Massachusetts degli Stati Uniti d’America.
15
La Candelora è una festa in onore della Madonna di Montevergine che si celebra
il 2 febbraio di ogni anno. Essa prevede l’ascesa verso il santuario a ritmo di canti e
balli al suono degli strumenti tipici della musica folcloristica napoletana. Protagonisti della festa sono i “femminielli”, devoti alla Mamma Schiavona che si narra aver
salvato una coppia di giovani omosessuali cacciati dalla città e incatenati sul monte
all’incirca nel 1200. Per approfondimenti si rinvia a due testi di Eugenio Zito e Paolo
Valerio: Corpi sull’uscio. Iidentità possibili (Filema, 2010) e Genere: femminielli
(Dante e Descartes, 2013).
12
25
ratrici di ATN, essendo loro stesse persone trans, si sono rivelate una
risorsa indispensabile per instaurare un dialogo con i soggetti target
del progetto, offrendo, a tutti gli operatori ed i professionisti che hanno
partecipato alle attività, un’irripetibile occasione per sperimentare un
lavoro multidisciplinare e profondamente animato dallo spirito di inclusione..
2.3. Uno sportello di ascolto a bassa soglia per persone transessuali e
transgender
L’equipe psicologica ha lavorato insieme alle operatrici di ATN
presso lo sportello di ascolto ubicato in via Palmieri 43. In questa sede
è stato offerto uno spazio di assistenza e supporto psicologico rivolto
ad adolescenti, giovani adulti, adulti e persone della terza età e, quando
specificamente richiesto, ai familiari degli utenti.
Come posto in luce dalla Fundamental Rights Association (2010),
la presenza di un tessuto sociale fortemente connotato in senso genderista ed eteronormativo, oltre a comportare un clima di ineguaglianza,
può rendere “invisibili” i soggetti discriminati. È evidente che, in una
tale situazione, molteplici possano essere le ricadute sulle esperienze
soggettive delle persone transessuali e transgender. L’intervento psicologico, pertanto, tenuto conto di tale peculiare aspetto, è stato orientato
non solo al riconoscimento delle diverse manifestazioni della varianza
di genere, ma ha provato a dare voce al senso di disagio e ai i vissuti di
isolamento con particolare riferimento alle esperienze di abuso, violenza e discriminazione.
Come analizzato in altre sedi (Vitelli et al., 2006; Valerio et al.,
2013), molte persone trans difficilmente “chiedono aiuto” ad uno psicologo, nonostante la presenza di eventi traumatici. Spesso, infatti, i
soggetti trans, producono una domanda di aiuto unicamente a seguito
dell’invio - da parte di un endocrinologo, di un giudice o di un avvocato - ad un percorso di valutazione psicologica richiesto in virtù della
26
legge 164 del 198216. Pertanto, le persone transessuali possono spesso
percepire l’incontro con gli psicologi come una valutazione, orientata
ad appurare la veridicità del loro essere transessuale; di conseguenza,
le persone trans possono percepire che l’unica utilità degli incontri psicologici sia quella di ricevere una “idoneità” per procedere ad interventi
ormonali e chirurgici. In tali situazioni lo psicologo può essere visto
come un gate-keeper, un “controllore”, che sbarra l’accesso alla strada
verso l’assunzione di ormoni e impedisce l’accesso agli interventi chirurgici richiesti17.
Durante gli incontri di riflessione per l’equipe, tenutisi presso il Dipartimento di Neuroscienze, è stato possibile notare una grande diversità tra le questioni affrontate, da parte degli utenti trans, allo sportello di
ascolto a bassa soglia, rispetto a quanto emerge, generalmente, quando
gli utenti richiedono una certificazione diagnostica utile a proseguire
l’iter legale verso la riassegnazione chirurgica ed anagrafica del sesso.
È possibile ipotizzare che il clima maggiormente confortevole ed accogliente, offerto da un servizio a “bassa soglia”, abbia facilitato non solo
l’accesso allo spazio psicologico ma abbia favorito l’emergere di più
In Italia, il percorso di riattribuzione chirurgica e anagrafica del sesso è regolamentato dalla legge 164 del 1982 dal titolo “Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso”. Tale legge è composta da sette articoli e l’invio ad uno psicologo
viene richiesto, stando ad una interpretazione piuttosto diffusa,in virtù del secondo
articolo di tale legge ed in particolare al comma quattro dove si recita: “Quando è
necessario, il giudice istruttore dispone con ordinanza l’acquisizione di consulenza
intesa ad accertare le condizioni psico-sessuali dell’interessato”. Per un approfondimento su alcune questioni connesse a questa legge si rinvia a Vitelli et al. (2006) e
Valerio & Fazzari (2012).
17
Secondo Bockting (2009) è a partire dagli anni ’60 che l’incontro con lo psicologo
ha iniziato ad essere connotato come una “valutazione”. Secondo questo autore la
produzione scientifica di quegli anni aveva per obiettivo quello di distinguere i fenomeni di travestimento dai fenomeni di effettivo ”transessualismo”. È importante
sottolineare che l’attuale sforzo della comunità scientifica è quello di comprendere
i bisogni di tutti i soggetti con varianza di genere, portando alla luce la specificità
delle esperienze dei soggetti “transgender” (Riley, 2011). Per un approfondimento di
tali questioni si rimanda a Vitelli, Valerio & Fazzari “Le varianti di genere e la loro
iscrizione nell’orizzonte del sapere medico-scientifico” in Corbisiero F. (A cura di)
Comunità omosessuali (FrancoAngeli, 2013).
16
27
profondi ed autentici bisogni psicologici.
Gli utenti, quindi, hanno potuto esprimere istanze più profonde,
rispetto a quanto generalmente avviene durante le fasi di valutazione
all’interno di servizi istituzionali. Schematicamente, possiamo indicare
sei tematiche particolarmente ricorrenti allo sportello di ascolto:
1. il bisogno di essere riconosciuti nella propria “singolarità”, in quanto persone con una propria specificità, al di là della condizione transessuale/transgender;
2. la volontà di uscire dal senso di solitudine e dall’isolamento manifestando un bisogno, particolarmente intenso, di ascolto e comprensione;
3. l’auspicio di superare i vissuti connessi alla paura della discriminazione, nel proprio contesto sociale, ed il desiderio di procedere al
coming out;
4. il desiderio di essere sostenuti per affrontare le problematiche familiari;
5. il desiderio di essere sostenuti per affrontare le difficoltà psicologiche, principalmente connesse a problemi di dipendenza e talvolta
correlate all’abuso di sostanze;
6. la volontà di superare le difficoltà di accesso alle strutture sanitarie.
Può essere utile sottolineare che, a più riprese, gli utenti hanno
espresso la necessità di iniziare ad affrontare il tema del coming out.
Durante molte delle consulenze, gli utenti hanno immaginato di voler
coinvolgere altre persone durante il loro percorso di transizione verso il
genere desiderato, esprimendo il desiderio di voler essere compresi, ed
accompagnati, dal proprio nucleo familiare e dalla rete amicale. Grazie
all’intervento psicologico è stato possibile sostenere gli utenti ad affrontare la paura di deludere le aspettative dei propri cari e riflettere,
di conseguenza, sulla propria paura di perdere il legame con le figure
significative. Ci è apparso di grande importanza sostenere il processo di
coming out dal momento che, l’apertura nei confronti degli altri, è un
momento essenziale anche per sperimentare una maggiore accettazione
nei confronti di se stessi.
Altresì, è stato molto utile il sostegno psicologico quando allo spor28
tello sono giunti utenti che avevano recentemente vissuto la perdita di
un familiare o che avevano terminato una relazione affettiva importante. Talvolta, in questi casi, tali cambiamenti avevano avuto l’effetto
di modificare alcuni consolidati equilibri interni. In queste circostanze,
molti utenti hanno rivendicato la “transizione”, come se, ad altri livelli,
non vi fosse più “nulla da perdere” e come se questo “radicale cambiamento” fosse l’ultima possibilità di esprimersi in modo più autentico
e tentativo estremo di ottenere l’attenzione dell’altro. Anche in questi
casi gli psicologi hanno provato a fornire un ascolto attento ed empatico, in modo da facilitare la possibilità di entrare in contatto con questi
aspetti emozionali, e ridurre, laddove reso possibile dalla relazione con
l’utente, il rischio di passaggi all’atto.
Alcuni utenti, inoltre, quando specificamente richiesto, sono stati
inviati presso l’Area Funzionale di Psicologia dell’AOU Federico II
di Napoli18 onde procedere ad un più strutturato percorso ai fini del
conseguimento della documentazione utile al processo medico-legale
di riconversione ormonale e chirurgica dei caratteri sessuali.
L’intervento psicologico dello sportello a bassa soglia ha consentito
di gettare uno sguardo, maggiormente comprensivo, sulle complesse
questioni di vita dei soggetti che presentano una varianza di genere. Il
raggiungimento di tale risultato è stato certamente dovuto anche presenza delle operatrici di ATN le quali hanno offerto un contributo prezioso soprattutto in tre aspetti: organizzando le attività dello sportello
stesso; aiutando gli utenti a sentirsi accolti; preparando gli utenti ad un
momento di confronto con gli operatori dell’area psicologica. Grazie
a questo lavoro di equipe, estremamente arricchente, abbiamo potuto
raggiungere una fascia di persone che difficilmente avrebbe avanzato
una richiesta di aiuto all’interno di servizi più specialistici.
Si tratta dell’Area Funzionale di Psicologia del Dipartimento di Neuroscienze
dell’Azienda Ospedaliera Universitaria di Napoli Federico II ubicata a via Pansini 5,
edificio 20. In tale sede risulta attivo dal 1997 un gruppo di consulenza che si occupa
di attività clinica e di ricerca rivolto specificamente a persone con Disforia di Genere
diretto dal Prof. Paolo Valerio con la collaborazione del Dott. Roberto Vitelli e del
Dott. Mario Bottone.
18
29
2.4. Conclusioni
Purtroppo Altriluoghi, nella forma in cui lo abbiamo appena descritto, è terminato a Novembre 2013. Sebbene il progetto sia durato solo
due anni è stato possibile raggiungere importanti risultati. Grazie a questo progetto è stato possibile incontrare ed aiutare una porzione molto
ampia della comunità trans di Napoli e della sua provincia.
Sebbene la presentazione del progetto, qui riportata, sia stata piuttosto veloce e riassuntiva, nonché concentrata prevalentemente sui risultati del lavoro svolto all’interno dello sportello di ascolto, obiettivo di
tale report è anche quello di proporre alcune suggestioni utili a sviluppare ulteriori riflessioni sul tema della varianza di genere.
Speriamo che, attraverso questo progetto, siano stati gettati dei semi
che consentano non solo di ampliare la conoscenza su questi fenomeni, ma che sia stato possibile iniziare a sensibilizzare la cittadinanza e
le istituzioni. In particolare, l’auspicio è che le istituzioni non restino
indifferenti di fronte a questo lavoro e possano manifestare il dovuto
interesse, rispetto a tali questioni, provando a superare le “resistenze”
che sono, purtroppo, ancora fortemente presenti nei confronti di queste
tematiche.
Allo stato attuale, un importante risultato raggiunto, di cui tutti i
membri dell’equipe possono andare fieri, è il consolidamento e l’ampliamento della Rete, composta dalle associazioni, servizi e professionisti che sono stati coinvolti dal progetto. Tale Rete può essere paragonata ad un prezioso scrigno, in quanto, essa contiene non soltanto i
diversi collegamenti burocratici tra le Entità coinvolte dal progetto, ma
contiene anche i vissuti e le professionalità messe a servizio da parte
degli operatori. Ed in questo senso, è possibile sottolineare che tutti gli
operatori, grazie all’esperienza di lavoro interdisciplinare, hanno potuto
ricevere un notevole arricchimento sotto il profilo personale e professionale.
Riprendendo i versi di Kavafis, riportati in esergo, il viaggio intrapreso da Altriluoghi può essere considerato un viaggio “necessario” ed,
allo stesso tempo, “interminabile”, alla ricerca di un’isola (Itaca) che si
30
vuole identificare qui, simbolicamente, come “la scoperta di se stessi e
l’incontro con l’altro”. Grazie ad Altriluoghi ci è stata offerta l’opportunità di “fare esperienza” e di scoprire e valorizzare realtà sociali che
troppo spesso, purtroppo, vengono ancora dimenticate ed emarginate.
Questo progetto, ha permesso di “immaginare” una realtà sociale capace di essere maggiormente inclusiva e maggiormente capace di accettare “se stessa” in armonia con la “diversità” degli altri.
In conclusione, il pensiero va a tutti gli utenti da noi raggiunti. La
speranza è che essi abbiano potuto sperimentare l’incontro con un luogo di ascolto, e di accoglienza, all’interno del quale condividere le proprie esperienze ed i propri vissuti e che, soprattutto, da tale altro-luogo,
abbiano potuto trarre fiducia e sostegno per proseguire, a testa alta, il
proprio percorso di vita.
31
Bibliografia
Bockting, W.O. (2009). Editorial. Sexual and Relationship Therapy, 24 (2), 103-107.
Fundamental Rights Association (2010). Homophobia, transphobia and discrimination on grounds of sexual orientation and gender identity in the EU Member
States. Publications Office of the European Union, Luxembourg.
Morniroli, A. (2010). Introduzione. In A. Morniroli (a cura di), Vite clandestine, frammenti, racconti e altro sulla prostituzione e la tratta di esseri umani in provincia di Napoli. Napoli: Gesco.
Riley, E.A., Tim Wong, W.K., & Sitharthan, G. (2011). Counselling support for the
forgotten transgender community. Journal of Gay and Lesbian Social Service,
23 (3), 395-410.
Valerio P., Fazzari P. (2012), “Alcune note sul “fenomeno transessuale” oggi: un
disturbo da depatologizzare? In L. Chieffi (a cura di) Bioetica pratica e cause
di esclusione sociale. Milano: Mimesis.
Valerio, P., Vitelli, R., Romeo, R., & Fazzari, P. (2013). Introduzione. In P. Valerio,
R. Vitelli, R. Romeo & P. Fazzari (a cura di), Figure dell’identità di genere.
Milano: FrancoAngeli.
Vitelli, R., Bottone, M., Sisci, P., & Valerio, P. (2006). L’identità transessuale tra storia e clinica: quale intervento per quale domanda? In P. Rigliano & M. Graglia
(a cura di), Gay e lesbiche in psicoterapia. Milano: Raffaello Cortina.
32
CAPITOLO TERZO
Bambini e adolescenti gender variant: chi sono veramente?
Fabiana Santamaria
3.1. Introduzione
Quante volte, negli ultimi anni, siamo rimasti colpiti da testate giornalistiche che annunciavano l’ennesimo suicidio di un adolescente che,
vittima di atti di bullismo omofobico e transfobico, non vedeva per se
stesso altra via d’uscita che togliersi la vita. Quante volte ci siamo arrabbiati nel constatare che dopo una sola settimana, più nessuno parlava di quanto accaduto a quell’adolescente, fino a quando il tragico
epilogo non si sarebbe ripetuto con un altro giovane. Fortunatamente
c’è, però, chi non dimentica e che si batte quotidianamente affinché sia
promulgata una cultura delle differenze che bandisca qualunque tipo di
discriminazione e chi, nel suo piccolo, prova a divulgare, attraverso la
stesura di brevi articoli, le proprie conoscenze sulle varianze di genere,
affinché possano arrivare ad un sempre crescente numero di persone.
Questo capitolo nasce proprio da questo: il desiderio di provare a far
capire veramente chi sono i bambini e gli adolescenti gender variant.
Con il termine varianze di genere si vuole indicare, in un’ottica
depatologizzante, che al di là della classica dicotomia genderista che
considera i generi esistenti solamente due, maschile e femminile, vi
possano esistere numerose varianze, definite appunto varianze di genere (Santamaria & Valerio, 2013; Santamaria et. al. 2014). I bambini e
gli adolescenti gender variant sono, quindi, persone la cui modalità di
33
espressione del genere differisce da ciò che ci si aspetterebbe da loro in
base al sesso biologico a cui vengono assegnati alla nascita.
Le varianze di genere possono essere viste, quindi, come stati nei
quali, nel corso dello sviluppo psicosessuale del bambino/adolescente,
si verifica una organizzazione dell’identità di genere atipica (Di Ceglie,
2004). I bambini e gli adolescenti che percepiscono la propria identità
di genere incongrua rispetto al proprio corpo e, quindi, al proprio sesso biologico possono essere, per questo motivo, infelici per le caratteristiche fisiche e le funzioni sessuali del proprio corpo ed esprimere
il desiderio di essere riconosciuti come appartenenti all’altro genere;
possono preferire, inoltre, abiti, giocattoli e giochi che comunemente
sono associati all’altro genere, così come amicizie dell’altro genere. A
queste caratteristiche si aggiungono difficoltà a livello emotivo e comportamentali conseguenti al loro disagio e un’enorme sofferenza per la
propria condizione, particolarmente in adolescenza.
Sicuramente una delle domande nelle quali ci si imbatte più di frequente è se gender variant si nasce o si diventa. In realtà, sebbene numerose ricerche abbiano cercato, e cerchino tutt’ora, di individuare i
fattori plausibilmente implicati nelle varianze di genere, ancora non si è
giunti a riconoscere univocamente delle cause. Come rilevato, ad esempio, da Zucker (2013) rispetto ai fattori genetici, sebbene numerosi lavori abbiano dimostrato la loro rilevanza nel determinare una varianza
di genere, non è possibile attribuire un grande peso alle evidenze offerte
da questi studi. Secondo Zucker, infatti, sebbene gli studi di genetica
molecolare offrano un panorama altamente suggestivo per i potenziali
sviluppi della ricerca, fornendo dei risultati che si pronunciano a favore di una componente familiare, dobbiamo tenere in considerazione
che c’è ancora molta strada da fare, poiché molti fenomeni restano ancora inspiegati. Rispetto ai fattori psicosociali implicati, sicuramente
particolari dinamiche familiari possono influire sulla strutturazione di
varianze di genere, sebbene non vi siano ancora, anche in questo caso,
dati certi (Zucker, op. cit.). Non va tralasciato, infine, quanto sostenuto da Boncinelli (2011) che ritiene che alla strutturazione cerebrale
concorrono componenti complesse e di diversa natura, che investono il
34
piano biologico-ormonale, quello socio-culturale, un livello psicologico profondamente fantasmatico che attiene agli scambi relazionali tra il
bambino e i suoi genitori e, non ultimo, un fattore di tipo casuale, che
attiene appunto ad eventi casuali presenti nella primissima infanzia del
bambino che incidono sulla sua struttura cerebrale e, di conseguenza, a
nostro parere, potrebbero incidere sulla strutturazione della sua identità
di genere.
E rispetto all’evoluzione della varianza di genere? Numerosi studi,
inizialmente condotti prevalentemente su bambini con identità di genere variante (Di Ceglie et al., 1998, Di Ceglie, 2004; Zucker, op. cit.)
e l’esperienza clinica hanno riscontrato una maggiore fluidità e variabilità negli esiti finali. Solo una piccola percentuale di questi bambini,
infatti, 6-23% persiste in età adulta con l’idea di voler cambiare il proprio genere, il resto presenterà o un orientamento omosessuale oppure
un orientamento eterosessuale con un’identità di genere conforme al
proprio sesso biologico (Cohen-Kettenis, 2001; Di Ceglie, 2004; Green, 1987; Money & Russo, 1979; Zucker, op. cit.; Zucker & Bradley,
1995). Altri studi più recenti, che comprendono anche bambine, hanno
mostrato un 12-27% di persistenza della varianza di genere fino all’età
adulta (Drummond et al. 2008; Wallien & Cohen-Kettenis, 2008). In
adolescenza si osserva, invece, una maggiore persistenza della varianza
di genere. Rispetto a ciò, è importante precisare che ciò dipende proprio
dai processi di sviluppo dell’età evolutiva che comportano una certa
fluidità. In alcuni casi si può osservare, infatti, uno sviluppo dell’identità di genere tipico, in altri, atipico, quando si verifica gradualmente
una cristallizzazione dell’organizzazione atipica dell’identità di genere
(Atipical Gender Identity Organization, AGIO) (Di Ceglie, op. cit.) che
si stabilizza solitamente verso l’adolescenza e che comporterà, quindi,
una varianza di genere nel giovane. Tali persone, quindi, non riconoscendosi nel genere attribuito loro alla nascita, il più delle volte richiedono di effettuare un lungo e delicato iter che le porterà a modificare il
proprio sistema ormonale, i propri caratteri sessuali primari e secondari
e i propri dati anagrafici per essere riconosciute come appartenenti al
genere che sentono proprio fin dall’infanzia.
35
Intento di questo contributo è riflettere, in un’ottica depatologizzante, sulle varianze di genere che, in una società genderista come la nostra,
che considera i generi esclusivamente due, maschile e femminile, tende
a patologizzare tutti coloro i quali si discostano da questo binarismo
(Santamaria & Valerio, 2013). In quest’ottica, il contributo, a partire
dall’ultima versione delle linee guida del WPATH (World Professional
Association for Transgender Health), che hanno interamente dedicato
una sezione al lavoro con minori gender variant, vuole rappresentare
un adattamento al contesto italiano e, in particolare napoletano, degli
Standards of Care riconosciuti a livello mondiale per il lavoro psicologico con bambini e adolescenti con identità di genere variante.
3.2. Il nostro modello di lavoro
Sono ormai trascorsi circa 20 anni da quando si è attivato, presso
l’Unità Operativa Complessa di Psicologia, Azienda Ospedaliera Universitaria “Federico II”, un gruppo di ricerca-intervento sui transessualismi (Valerio et al., 2001). Tale gruppo ha subito negli anni profondi
cambiamenti. Dall’iniziale lavoro psicologico-clinico condotto esclusivamente con adulti transessuali che arrivavano con una “domanda” ben
precisa di rettifica del proprio genere, il gruppo ha ampliato le proprie
aree di interesse più in generale alle varianze di genere. È stata, infatti,
promossa una riflessione teorica e clinica sul lavoro psicologico con
alcune giovani persone che richiedevano una consultazione psicologica per chiarire meglio a se stesse la confusione che percepivano circa
il genere cui sentivano di appartenere che discordava dal proprio sesso biologico. Tale ampliamento di interessi scientifici è legato molto
all’utenza che si è rivolta alla nostra Unità. Negli ultimi anni si è potuto osservare, infatti, un significativo incremento di richieste di consultazione psicologica da parte di adolescenti e giovani adulti gender
variant e ciò ci ha portato, nel 2005, ad interrogarci se era necessario
riadattare il modello di intervento, che ci aveva guidato nel corso degli
anni, a questa particolare e, talvolta, difficile nuova tipologia di utenza
che si trovava ad attraversare questa fase evolutiva già di per sé molto
36
complessa. Fino ad oggi sono state seguite 87 famiglie, che ci hanno
consentito di ipotizzare un modello di intervento costruito a partire dai
contenuti che adolescente e genitori hanno presentato durante i colloqui
psicologici, in un percorso di progressiva risignificazione che finisce
per investire direttamente gli aspetti della vita quotidiana.
L’adolescenza, infatti, è un periodo molto delicato della vita perché, come fase di passaggio dall’infanzia all’età adulta, comporta in
tutti i giovani, anche se in alcuni in misura maggiore, in altri minore,
grande incertezza rispetto ai cambiamenti interni ed esterni cui il giovane andrà incontro, determinando momenti di confusione e sofferenza.
È compito dello psicologo clinico ascoltare il giovane adolescente ed
aiutarlo a mettere un po’ di ordine nella confusione che presenta per
iniziare a comprendere la sua sofferenza. In un’ottica depatologizzante, le varianze di genere si potrebbero, quindi, inscrivere in una delle
possibili variazioni dei processi evolutivi. Ciò significa che l’attenzione dell’operatore dovrebbe essere sempre rivolta alla peculiare storia
del singolo individuo, più che a modificare i suoi comportamenti. È in
questa prospettiva che intendiamo inquadrare l’intervento psicologico
con adolescenti gender variant: cercare di portare una persona confusa
a pensare secondo modalità diverse dal consueto e a chiarire la propria
confusione.
Nel nostro lavoro clinico, ci siamo, inoltre, interrogati sul rapporto
di questi ragazzi con il proprio mondo interno, e cioè con le rappresentazioni che essi avevano delle persone significative (madre, padre,
fratelli) o parti di esse. Si tratta naturalmente di rappresentazioni non
oggettive e non propriamente rispondenti alle persone reali cui si riferiscono: esse, infatti, subiscono aggiustamenti, deformazioni e cambiamenti, temporanei o duraturi, che determinano variazioni nel vissuto
relazionale con essi. Questo palcoscenico interno in cui è rappresentato
il nostro presente, ma nel quale si inseriscono rappresentazioni di momenti del futuro o del passato, ci consente l’accesso all’individuazione
del Sé, nel senso della costituzione e rappresentazione soggettiva della
propria identità.
Abbiamo riscontrato che per gli adolescenti che si rivolgevano alla
37
nostra Unità, questi processi di individuazione, nel senso della riflessione che ognuno di noi fa su se stesso per riconoscersi, già difficili
per gli adolescenti in generale, sono messi a dura prova dalla perdita di
validità delle immagini rimandate dagli adulti perché questi rimandano immagini falsate, disinvestite, ambivalentemente investite o, peggio
ancora, disprezzate, per cui il vissuto dell’immagine di Sé finisce per
non rispecchiare l’Io.
Avendo avuto anche la possibilità di incontrare i genitori dei nostri
ragazzi abbiamo potuto verificare più direttamente l’influenza adulta
sul processo di individuazione, anche alla luce della teoria elaborata da
Tommaso Senise (Aliprandi et al., 2004) relativa al processo di individuazione.
Il modello di intervento psicologio-clinico che attualmente utilizziamo con adolescenti gender variant, che si rifà in parte a quello utilizzato con gli adolescenti presso la Tavistock and Portman Clinic di
Londra, prevede un primo ciclo di colloqui, generalmente quattro, con
i giovani che giungono all’Unità facendo richiesta di una consultazione
psicologica. Questo primo ciclo di colloqui di assessment rappresenta
l’offerta di un modello di esperienza di lavoro psicologico esplorativo. La brevità dell’intervento, infatti, fa sì che l’operatore valorizzi le
componenti adulte della personalità del giovane, cercando di evitare di
stabilire un rapporto basato sulla regressione e sulla dipendenza, come
accade, invece, in una presa in carico a lungo termine secondo il modello psicoanalitico. In questo caso, quindi, l’operatore utilizza la relazione per comprendere, e far comprendere all’utente, come si relaziona col mondo esterno ed interno. Condurre una valutazione per alcune
settimane consente all’operatore di osservare la modalità attraverso la
quale l’adolescente affronta le ansie di separazione. Da qui, la scelta di
utilizzare un modello d’intervento costituito da quattro colloqui; il limite temporale dei colloqui, infatti, consente l’attivazione di sentimenti
di perdita e, talvolta, anche di invidia e risentimento, così che si possa
lavorare anche sulla separazione dalle immagini parentali introiettate
al fine di consentire a questi ragazzi di acquisire un’identità personale
(Adamo et al., 1997). Parallelamente a questi colloqui, è spesso offerto
38
anche ai genitori del ragazzo uno spazio di quattro incontri, con un altro
operatore del nostro gruppo di lavoro, per riflettere ed accogliere le loro
ansie e sofferenze, per sostenere la loro capacità di comprendere ciò che
accade al figlio e le loro qualità e funzioni parentali.
Un lavoro psicologico con bambini e adolescenti deve in generale
prevedere un sostegno psicologico anche per i genitori, ma ciò è ancora più importante nel caso di genitori di giovani gender variant; essi,
infatti, devono essere principalmente aiutati a comprendere ciò che sta
accadendo al proprio figlio che per loro, utilizzando le parole della madre di un adolescente gender variant, è “totalmente impensabile!”
Spesso, come abbiamo già detto, la relazione tra genitori e figli gender variant diventa così complessa da portare a comportamenti differenti nel figlio a seconda che si tratti di un bambino o di un adolescente,
ma spesso, una reazione comune da parte dei genitori è, purtroppo, il
rifiuto e la vergogna. Fortunatamente vi sono anche dei genitori che
riescono a capire e ad accettare quanto sta accadendo al proprio figlio,
sebbene, nella nostra esperienza, siano la minoranza. Ciò che, tuttavia,
è importante sottolineare è che il sostegno psicologico è fondamentale
che sia dato non soltanto al bambino e all’adolescente, ma anche alla
sua famiglia, intendendo anche eventuali fratelli e sorelle che, messi
di fronte ad una così nuova situazione, si trovano spesso spaesati, soli,
confusi. Non va tralasciato, inoltre, il contesto scolastico, che spesso si
trova impreparato di fronte a queste situazioni e necessita di un sostegno psicologico per essere aiutato a comprendere quanto sta accadendo
e, di conseguenza, poter veramente aiutare il bambino o l’adolescente
nell’integrazione con il gruppo dei pari (Santamaria et al. 2014; Di Ceglie op. cit.).
Nel modello da noi utilizzato, al termine dei quattro colloqui, è previsto un momento di “restituzione” di quanto emerso nel corso degli
incontri che, nel caso di bambini, avviene solo con i genitori, nel caso
di adolescenti con l’intero nucleo familiare in presenza di entrambi gli
operatori. Durante tale incontro è spesso proposto al giovane, talvolta
anche ai genitori, un percorso più approfondito che consenta di avviare
un processo di pensiero attraverso il “pensare insieme”. In generale un
39
sostegno psicologico è molto importante per contenere e sostenere le
ansie e le sofferenze delle persone gender variant che si confrontano
con un contesto sociale prevalentemente transfobico, ma esso è fondamentale per gli adolescenti affinché li si possa aiutare a districare
la confusione sulla propria identità e ad osservarne la fluidità, così da
poter parlare di Organizzazione Atipica dell’Identità di Genere (Di
Ceglie, op. cit.) che, nell’accezione di Di Ceglie, implica l’inquadrare
il fenomeno in una prospettiva evolutiva e di sviluppo, introducendo
appunto elementi di flessibilità e di maggiore variabilità, peculiari dei
percorsi evolutivi di bambini ed adolescenti con varianze di genere.
3.3. Interventi negli adolescenti: questioni e dilemmi
Qualora si riscontri una persistenza, nell’adolescente, della varianza
di genere, dopo una lunga e completa valutazione degli aspetti psicologici, familiari e sociali, di una durata che può variare notevolmente a
seconda della situazione, in Italia, da ottobre 2013, così come secondo
le linee guida internazionali del WPATH, è possibile anche ai minori
iniziare ad intraprendere un percorso di transizione stadiale in cui rientrano tre categorie di interventi:
1. Completamente reversibili: comportano l’uso di GnRH-analoghi,
bloccanti ipotalamici, ovvero di ormoni che sopprimono la produzione di estrogeni o testosterone ritardando così i cambiamenti fisici della pubertà.
2. Parzialmente reversibili: comprendono la terapia ormonale per mascolinizzare o femminilizzare il corpo, i cosiddetti ormoni cross
gender. Alcuni cambiamenti indotti dagli ormoni potrebbero necessitare di chirurgia ricostruttiva per invertirne l’effetto (per esempio,
ginecomastia causata da estrogeni), mentre altri cambiamenti non
sono reversibili (ad esempio, l’abbassamento della voce causata dal
testosterone). Per tale motivo, essi non possono essere somministrati prima dei 16 anni e solamente dopo una lunga e attenta valutazione del minore da parte di un’équipe multidisciplinare esperta
nell’identità di genere, suo sviluppo e sue varianze.
40
3. Irreversibili. Si tratta di procedure chirurgiche volte al cambiamento di sesso che possono essere intraprese solo con la maggiore età.
Si raccomanda un percorso a stadi per lasciare aperte diverse possibilità mentre si affrontano gli stadi precedenti. Non si dovrebbe passare
da una fase all’altra fino a quando non ci sia stato il tempo sufficiente
per gli adolescenti ed i loro genitori di assimilare completamente gli
effetti degli interventi precedenti (WPATH, 2011).
Naturalmente l’intervento sui minori, sebbene stadiale, ha sollevato
un delicato dibattito etico e sociale.
Attualmente una delle principali questioni sulle quali dibatte la comunità scientifica e sociale è relativa all’utilizzo dei bloccanti ipotalamici. La somministrazione di tali ormoni prima della maggiore età,
spesso prima ancora del sopraggiungere della pubertà, sopprimendo la
produzione di estrogeni o testosterone e portando il giovane in una condizione di neutralità, impedirebbe momentaneamente lo sviluppo dei
caratteri sessuali secondari con evidenti conseguenze sul piano concreto (maggiore facilità per un eventuale intervento chirurgico di riattribuzione chirurgica del sesso) e simbolico (miglior adattamento psicologico e più sereno sviluppo della propria identità). Il blocco della pubertà
può continuare per qualche anno, momento in cui l’adolescente decide
o di sospendere tutte le terapie ormonali e di proseguire il proprio sviluppo secondo il genere concorde al proprio sesso biologico o di transitare verso un regime ormonale femminilizzante/mascolinizzante. È
importante specificare che il blocco puberale non porta inevitabilmente
alla transizione sociale o alla riassegnazione chirurgica sessuale, che si
considera possa essere transitorio e, soprattutto reversibile, a differenza
delle terapie ormonali femminilizzanti o mascolinizzanti che, invece, si
dovrebbero iniziare quando la persona è sicura di voler cambiare genere
(Valerio et al., 2013).
Naturalmente una questione così delicata ha sollevato un acceso dibattito etico: quanto e fino a che punto l’intervento umano può prendere
decisioni così drastiche per un minore che, crescendo, potrebbe pentirsi
41
della decisione presa? e ancora, quali conseguenze ci possono essere?
la somministrazione dei bloccanti ipotalamici può, inoltre, contribuire
alla persistenza dell’organizzazione atipica dell’identità di genere? e,
infine, è veramente reversibile? In alcuni paesi europei, come Inghilterra e Olanda ad esempio, gli operatori hanno iniziato a somministrare
bloccanti ipotalamici ai minori tra i 12 e i 16 anni, sostenendo la reversibilità di queste procedure. Ciò significa che sospendendo la somministrazione ormonale, lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari, bloccato, riprenderebbe, senza alcuna conseguenza. Sostengono, inoltre, che i
giovani candidati al blocco della pubertà sono attentamente selezionati,
che presentano una varianza di genere fin dall’infanzia e che tutti sono
poi arrivati, con la maggiore età, a completare il percorso con l’intervento chirurgico di riattribuzione del sesso.
Alcune società scientifiche internazionali (WPATH; European Society of Endocrinology - ESE; European Society for Paediatric Endocrinology – ESPE; Lawson Wilkins Paediatric Endocrine Society
- LWPES) raccomandano fermamente l’importanza della somministrazione dei GnRH analoghi per sospendere la pubertà e i conseguenti
cambiamenti corporei. Tali raccomandazioni sono basate sull’assunto
che gli adolescenti gender variant che esperiscono un’incongruenza tra
sesso e genere possono vivere una forte ansia che, in alcuni casi, può
portare anche al suicidio.
A partire da numerosi studi (Kettenis & Pfafflin, 2003; WPATH,
2011) e riflessioni sul lavoro con bambini e adolescenti gender variant
e loro famiglie, in Italia un gruppo di psicologi ed endocrinologi esperti nell’identità di genere sua strutturazione e sue varianze ha iniziato
ad interrogarsi sull’uso dei bloccanti ipotalamici, prendendo una definitiva posizione: la somministrazione dei bloccanti ipotalamici non
causa alcun cambiamento di sesso. Essi sospendono temporaneamente
lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari ed hanno effetti reversibili.
Tale terapia è prescritta in Italia solo agli adolescenti che hanno almeno raggiunto gli stadi 2-3 Tanner e solo dopo un’attenta valutazione
da parte di un’équipe multidisciplinare, esperta nell’identità di genere,
e dopo aver avuto il consenso dei genitori del minore sulla base di un
42
protocollo comune ai centri specializzati nazionali ed internazionali.
Questo protocollo mira ad alleviare il profondo disagio vissuto da questi adolescenti rispetto al proprio genere. È importante sottolineare che
il vissuto di appartenenza all’altro genere non è temporaneo o superficiale e che, al contrario, può interferire con il naturale sviluppo. Questi
adolescenti soffrono profondamente per i cambiamenti di un corpo che
vedono diverso da come lo sentono e ciò può causare isolamento, abbandono scolastico, oltre a sviluppare comportamenti autolesionistici
volti ad attaccare un corpo responsabile delle loro angosce.
Linee guida internazionali hanno dimostrato che l’uso dei bloccanti
ipotalamici migliora la qualità di vita di questi ragazzi, riavvia percorsi
educativi e relazioni sociali (Kettenis & Pfafflin, 2003; WPATH, 2011).
3.4. Conclusioni
Come si può evincere da quanto detto finora, il sostegno a bambini
e adolescenti con varianze di genere e loro genitori è particolarmente
delicato e complesso, visto che attiene ad una fase evolutiva particolarmente difficile e si colloca in una società fortemente genderista e
transfobica.
Il nostro intervento psicologico, in un’ottica depatologizzante, mira
quindi in particolar modo a sostenere questi giovani, qualunque decisione essi vogliano prendere, aiutandoli principalmente a fare chiarezza
nella propria confusione e ad aiutare i loro genitori affinché accettino
la possibilità di avere un figlio diverso da come lo aveva immaginato,
anche completamente diverso, che spesso soffre e che necessita dell’appoggio e del sostegno della sua famiglia.
Nella pratica psicologico-clinica, quindi, non consideriamo l’identità di genere di una persona, soprattutto di un adolescente, prioritaria
rispetto ad altre questioni legate alla crescita e allo sviluppo, ma come parte integrante del giovane e del suo sviluppo. Il genere, infatti,
dovrebbe essere visto, in un’ottica depatologizzante, come una delle
possibili espressioni dell’identità di genere di una persona, espressione
che, inserita in un continuum ai cui estremi sono collocati i generi ma43
schile e femminile, può condurre a numerose varianze di genere, tutte,
di per sé, possibili.
Purtroppo, la società nella quale viviamo ha ancora una visione fortemente dicotomica, considera i generi esclusivamente due e discrimina tutti coloro i quali se ne discostano.
Da quanto detto, possiamo riuscire a comprendere le difficoltà che
in questa società devono incontrare quotidianamente bambini e adolescenti gender variant e loro genitori, ma questo non significa arrendersi
e divenire spettatori passivi e impotenti di quanto accade e di quanto
queste persone sono costrette a subire quotidianamente.
Naturalmente auspichiamo che tutti i professionisti che si confrontano con queste realtà concordino con noi, con il principio di autodeterminazione e la necessità di depatologizzare le varianze di genere.
Siamo consapevoli della complessità di un lavoro psicologico-clinico con bambini e adolescenti gender variant e, proprio per tale motivo,
riteniamo che esso debba essere svolto da persone altamente qualificate
non soltanto nel lavoro psicologico con l’età evolutiva, ma anche nello
specifico nell’identità di genere, sua strutturazione e sue varianze.
44
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46
CAPITOLO QUARTO
L’intervento psicologico-clinico con persone gender variant tra modello e individualizzazione. L’esperienza
dell’area funzionale di psicologia clinica del II Policlinico
di Napoli
Elena Curti
4.1. Introduzione
Il presente capitolo intende mostrare il modello operativo di intervento psicologico-clinico adottato presso l’Unità Operativa Complessa
di Psicologia, Azienda Ospedaliera Universitaria “Federico II” di Napoli ed una riflessione su alcuni aspetti teorico/clinici che sottendono
alla scelta dello stesso e che sono in linea con i principi espressi nella
settima versione degli Standards of Care (SOC) per la salute di persone
transessuali, transgender e gender nonconforming, edite dalla World
Professional Association for Transgender Health (WPATH).
Presso l’Unità Operativa Complessa di Psicologia Clinica del II Policlinico della Federico II di Napoli è attivo dal 1997 un gruppo di riflessione teorica, ricerca/intervento, consulenza e intervisione clinica
che accoglie persone che presentano domande di consultazione relative
a questioni legate alla varianza di genere: tali domande possono riguardare una certificazione che consenta l’accesso alle cure ormonali o uno
spazio di riflessione, accoglienza e accompagnamento lungo un percorso di conoscenza di sé (Valerio et al. 2000; 2001).
Il servizio clinico prevede interventi di assessment psicologico che
47
comportano un primo ciclo di incontri con un operatore psicologo/psichiatra finalizzato ad un’iniziale analisi della domanda di aiuto ed alla
raccolta di dati quali-quantitativi tramite la somministrazione di una
batteria di test (Vitelli et al., 2013).
A questa prima fase ne segue una seconda con un altro operatore
dell’area della salute mentale, psicologo o psichiatra, che prevede uno
spazio di consultazione clinica di quattro colloqui psicologici ad orientamento psicodinamico (Noonan, 1997; Adamo, 1990).
L’operatore che segue l’utente per i colloqui provvede a stilare un
protocollo degli stessi, che viene letto e discusso settimanalmente nel
gruppo di intervisione clinica cui si accennava. Alla fine del percorso
di assessment i due operatori che hanno incontrato l’utente, stilano insieme una relazione/certificazione che è oggetto di riflessione, condivisione e confronto con un referente esperto nelle tematiche di genere e
psichiatriche e membro del gruppo di lavoro.
Durante un successivo incontro di restituzione, i due operatori che
hanno incontrato l’utente gli consegnano la certificazione/relazione sul
percorso svolto, sui principali elementi emersi ed una eventuale diagnosi che consenta l’accesso alle cure endocrinologiche: questo incontro è
finalizzato anche a rimandare il senso dell’intervento attuato in modo
da rendere l’utente consapevole e attivamente partecipe del percorso
svolto e che si accinge ad intraprendere. Il ciclo di assessment presentato ha una doppia valenza: diagnostica e terapeutico/supportiva. La
prima ha lo scopo di valutare clinicamente la situazione e la condizione
di varianza di genere, mentre la seconda mira a creare uno spazio di
accoglienza, ascolto e pensiero per offrire un’occasione di contattare,
insieme ai sentimenti disforici, anche eventuali dubbi e incertezze legati al proprio progetto ed alle sofferenze psichiche personali. In tal
senso, lo spazio clinico mira a costituirsi come una risorsa per affrontare in modo più consapevole il percorso che si intende intraprendere
o riarticolare il progetto iniziale in modo che rappresenti le differenze
individuali rispondendo a pieno ai bisogni reali della persona che richiede l’intervento.
La complessità dell’intervento psicologico con persone presentanti
48
una varianza di genere rende necessaria la presenza di operatori competenti e di un sistema flessibile per rispondere al meglio alle domande
esplicite e implicite portate dalle persone gender variant. Si è scelto,
per rendere il senso di questa complessità, di presentare una riflessione
sul senso dell’intervento psicologico attuato al Policlinico di Napoli e
di esplicitare il ruolo del gruppo di intervisione clinica che rappresenta,
come ribadito anche nelle linee guida, un elemento imprescindibile ed
una risorsa preziosa nel lavoro clinico.
Il modello di intervento presentato costituisce un punto di riferimento per gli operatori che lavorano presso l’area funzionale di psicologia
clinica del Policlinico di Napoli, ma, nell’ottica del rispetto delle differenze degli utenti, a seconda della necessità, viene riarticolato in modo
da costituire una cornice, all’interno della quale la singola relazione
terapeutica viene salvaguardata e flessibilmente adattata, al fine di favorire i migliori standard di cura.
Considerando le difficoltà che le persone presentanti una condizione
gender variant sono potenzialmente chiamate ad affrontare - si fa riferimento sia alla realtà esterna che interna- a tutti gli utenti che si sono rivolti al Policlinico, sinora, è stata offerta la possibilità di intraprendere,
qualora lo ritenessero necessario, un percorso di consultazione psicologica prolungata. Nel rispetto della libertà dell’individuo che richiede
una consultazione per questioni relative alla varianza di genere e seguendo lo spirito dei SOC del WPATH, l’utente è libero di avvalersi o
meno di un percorso di psicoterapia; è chiarito all’utente che il rifiuto di
intraprendere tale percorso psicoterapeutico non costituisce, nella stragrande maggioranza dei casi, un criterio ostativo all’accesso ai percorsi
medico/legali finalizzati ad intraprendere un percorso di Riattribuzione
Chirurgica del Sesso (RCS).
4.2. Come tradurre i principi espressi nelle linee guida internazionali
in buone pratiche? Possibili interpretazioni
Le linee guida emanate dal WPATH sottolineano e ribadiscono in
più punti la necessità etica e professionale di rispettare i pazienti pre49
sentanti una identità di genere non conforme, evitando di patologizzare
le differenze di identità o di espressione di genere e mirando, invece, a
fornire cure atte a ridurre l’eventuale malessere provocato dalla disforia
di genere. Queste raccomandazioni, lungi dall’essere scontate, focalizzano l’attenzione sulla necessità che gli operatori che si occupano di varianza di genere abbandonino fantasie e progetti di trattamenti finalizzati a cambiare l’identità, l’espressione o i vissuti di genere delle persone
gender variant per portarli a assumere una identità più congruente con
il sesso biologico. Questo tipo di intervento, infatti, oltre ad essere risultato fallimentare in passato (Cohen-Kettenis & Kuiper, 1984; Pauly,
1965), non è eticamente condivisibile ed accettabile.
Partendo da questa indispensabile premessa, è importante riflettere
sul significato che la parola “rispetto” può veicolare nel lavoro psicologico di presa in carico di persone presentanti una varianza di genere. Il
primo passo da compiere per impostare una relazione terapeutica basata
sul rispetto, è una chiara analisi della domanda di aiuto, considerando
che un utente può richiedere assistenza psicologica in momenti diversi
del suo percorso di vita e per diversi motivi: per chiedere assistenza psicoterapeutica; per esplorare la propria identità o espressione di genere;
per facilitare un processo di coming out; per ottenere una certificazione
che consenta l’accesso ad interventi medici femminilizzanti o mascolinizzanti; per ottenere un sostegno psicologico per i familiari; per richiedere una psicoterapia non direttamente correlata a problematiche
di genere; o per altre questioni. È fondamentale che il clinico presti un
ascolto attivo ed aperto alle diverse questioni portate dal paziente non
chiudendo mentalmente la relazione terapeutica una volta individuata
ed approfondita la questione del genere, consentendo, invece, all’utente
la possibilità di declinare la sua domanda in base al suo personale vissuto.
Lo specialista che incontra persone gender variant, infatti, quand’anche animato dalle migliori intenzioni, può procedere troppo presto ad
incasellare in categorie diagnostiche o mentali le persone presentanti
disforia di genere. Questa rapidità può, talvolta, essere dettata dall’esigenza di “rassicurare” gli operatori della salute più che rappresentare
50
la realtà (Fisk, 1974; Knudson et al., 2010). È importante, allora, per
realizzare un intervento efficace, da un lato avvalersi del consulto con
specialisti esperti per condividere difficoltà e dubbi e, dall’altro, procedere ad una consultazione clinica attenta sia ad aspetti diagnostici che a
rispondere alle effettive esigenze dei diversi utenti.
Lo staff del Policlinico di Napoli che si occupa di varianza di genere,
condividendo queste indicazioni, offre un intervento di consultazione
clinica che persegue obiettivi diversi.
Il percorso psicologico che le persone gender variant possono intraprendere presso la nostra struttura, come si accennava, ha una doppia
valenza: diagnostica e terapeutico/supportiva. L’indagine diagnostica
riveste un’importanza fondamentale ed persegue lo scopo di vagliare
correttamente la situazione e la condizione di varianza di genere, visto anche l’impatto che gli eventuali passi successivi del percorso in
ambito medico, endocrinologico e\o chirurgico, possono sortire sulla
persona. Partendo, quindi, dal presupposto che gli utenti che presentano una varianza di genere sono innanzitutto persone e, in quanto tali,
necessariamente diverse, è importante valutare i diversi modi in cui la
disforia di genere si declina in ciascuno. Come sottolineato in letteratura (Bockting et al, 2006; Lev, 2004; 2009) e come anni di clinica
nel settore ci insegnano, per operare un esame clinico esaustivo della
disforia di genere è importante procedere ad una valutazione ampia del
singolo utente che tenga conto anche del suo adattamento psicosociale.
Alcuni aspetti dei quali è importante che il clinico si occupi riguardano: il livello d’identità di genere e di disforia, la storia e lo sviluppo di
sensazioni di disforia di genere, l’assetto delle difese psichiche dell’utente, la presenza di eventuali conflitti inconsci, l’impatto dello stigma
collegato alla non-conformità di genere sulla salute mentale, se e come
è stata condivisa la notizia della propria disforia con persone significative per l’utente, quale disponibilità e che tipo di sostegno l’utente ha
ricevuto dai familiari, dal gruppo sociale di appartenenza, dai colleghi.
È importante, inoltre, valutare se la disforia di genere non sia secondaria o meglio espressa da altre diagnosi ed individuare eventuali
aspetti di comorbilità.
51
Gli utenti che chiedono una consultazione per la presenza di varianza di genere, infatti, possono, a volte, presentare una serie di problemi
di salute mentale (Gomez-Gil et al., 2009; Murad et al., 2010), anche
connessi ad una lunga storia di disforia di genere e/o di minority stress.
Come sottolineato da diversi studi è possibile riscontrare, in persone
presentanti una varianza di genere, la presenza di ansia, depressione,
autolesionismo, storie di abuso o di abbandono, compulsività, abuso
di sostanze, problemi sessuali, disturbi della personalità, disturbi alimentari, disturbi psicotici e disturbi dello spettro autistico (Bockting et
al., 2006; Nuttbrock et al., 2010; Robinow, 2009). Lo specialista della
salute mentale è tenuto a individuare questi ed eventuali altri aspetti
di sofferenza psichica in modo da lavorare con l’utente su eventuali
comorbilità che, se non inserite ed affrontate nel piano di trattamento
globale, possono provocare grave disagio e complicare il processo di
esplorazione dell’identità di genere e la risoluzione della disforia (Fraser, 2009; Lev, 2009). Un lavoro diagnostico che includa e vada oltre
l’aspetto della varianza di genere, considerando la persona globalmente, può facilitare la risoluzione della disforia di genere, portare ad eventuali modifiche nel ruolo di genere, scegliere in modo consapevole gli
interventi medici più rispondenti ai propri bisogni. È importante, a tal
proposito, lavorare con gli utenti sul consenso informato. Un operatore
esperto delle tematiche di genere dovrebbe essere in grado di sondare
le reali conoscenze dell’utente e, qualora fosse necessario, presentare
le varie opzioni disponibili per alleviare la disforia di genere accertandosi che quest’ultimo possa valutare le implicazioni che diverse scelte
possono comportare sulla propria realtà psicofisica. Lo specialista può
costituire una risorsa per l’utente per facilitare il processo di scelta consapevole tra queste diverse opzioni, sottolineando anche la necessità di
chiedere adeguate spiegazioni ai medici sugli interventi cui si intende
accedere, con l’obiettivo di trovare un ruolo o un’espressione di genere in cui l’utente si senta a proprio agio. (Bockting et al., 2006 ; Lev,
2004).
Il lavoro diagnostico, in questo senso, non mira ad etichettare e “giudicare” i pazienti, ma funge da sestante per orientare l’intervento clinico.
52
La seconda valenza del percorso psicologico cui si faceva riferimento
è relativa all’aspetto terapeutico/supportivo: lo spazio clinico, in questo
senso, può costituirsi come un valido supporto alla persona, per aiutarla
nei momenti difficili del percorso che intende perseguire e come spazio
di ascolto nel quale poter riflettere sulle difficoltà, analizzare e condividere le esperienze che hanno contrassegnato il percorso esistenziale
del soggetto, monitorare e analizzare i cambiamenti psicofisici e sociali
che dovessero intervenire durante eventuali percorsi di RCS. La scelta
di offrire all’utente la possibilità di accettare o rifiutare di intraprendere
un percorso prolungato è finalizzata a svincolare il lavoro psicologico,
la persona che chiede aiuto e l’operatore della salute mentale dallo spettro della valutazione diagnostica e, quindi, rappresenta un tentativo di
aprire spazi di riflessione più autentici e liberi da vissuti persecutori e
stigmatizzanti.
Il senso dell’intervento, allora, oltre che valutare ed eventualmente
confermare la diagnosi di disforia di genere, è quello di offrire l’occasione, a persone, che troppo spesso non hanno avuto la possibilità di un
confronto sereno e non giudicante sui propri vissuti, di esplorare insieme ad uno specialista le differenti possibilità di espressione dell’identità di genere riflettendo e valutando le opzioni disponibili e le possibili
implicazioni per le diverse scelte.
Il percorso psicologico e la psicoterapia, quindi, non mirano ad alterare l’identità di genere di una persona, anzi, possono aiutare un individuo ad esplorare le questioni di genere e a trovare il modo per alleviare
la disforia, se presente (Bockting et al., 2006; Bockting & Coleman,
2007; Fraser, 2009a; Lev, 2004). L’obiettivo da perseguire, riassumendo, è duplice: produrre una diagnosi che tenga conto anche di eventuali
patologie e sofferenze correlate alla condizione di disforia e che rappresenti la persona in modo globale e fornire uno spazio del pensiero
scevro da giudizio dove elaborare vissuti dolorosi, occuparsi di aspetti
patologici, contattare eventuali dubbi e timori e, se necessario, dove
gli utenti possano cominciare ad esprimersi in modo congruente con la
propria identità di genere e superare la paura dei cambiamenti nell’espressione di genere. Un buon incontro con gli operatori della salute
53
mentale, inoltre, può favorire l’accesso ad un accompagnamento durante tutti i passaggi che la persona intende intraprendere, garantendo una
migliore compliance anche dal punto di vista medico e può aiutare le
persone gender variant ad ottenere dei benefici a lungo termine nell’espressione della loro identità di genere, con realistiche possibilità di
successo nei loro rapporti interpersonali, a scuola o nel lavoro.
L’obiettivo generale della psicoterapia, quindi, è quello di costituirsi come uno spazio accogliente all’interno del quale portare dolore e
speranze, bisogni e desideri, difficoltà e risorse per elaborarle al fine di
massimizzare il benessere psicologico complessivo di una persona, la
sua qualità di vita e la realizzazione di sé. Il lavoro degli operatori della
salute mentale con persone gender variant può essere molto complesso
e delicato esponendo l’operatore stesso a preoccupazioni, ansie e vissuti controtransferali non sempre facili da elaborare. Come sottolineano i
SOC è importante che gli operatori che incontrano persone presentanti
una varianza di genere provvedano ad un continuo aggiornamento sulla
tematica e si avvalgano del confronto con specialisti esperti su questioni di genere. È anche per rispondere a queste necessità e indicazioni
che, presso la nostra struttura, è attivo da anni il gruppo di studio sulle
tematiche di genere di cui si accennava, che costituisce un valido strumento di lavoro per gli operatori dell’area della salute mentale che si
occupano di tematiche di genere.
4.3. Il gruppo di intervisione clinica sulle varianze di genere: il valore
aggiunto dal confronto
Il gruppo di lavoro e intervisione clinica sulle varianze di genere attivo presso l’Unità Operativa Complessa di Psicologia Clinica del II Policlinico della Federico II di Napoli costituisce un concreto strumento
di lavoro e risponde ai principi espressi nelle linee guida internazionali.
Come sottolineato nei SOC del WPATH, infatti, i professionisti che
si occupano delle varianze di genere oltre ad una specifica competenza
diagnostica e ad una cultura specifica sulle tematiche di genere, dovrebbero avvalersi del confronto e dell’aiuto di professionisti esperti nella
54
clinica e sulle tematiche in oggetto: in tale spirito e spinti dal desiderio/
bisogno di mantenere un dialogo aperto e dinamico sulle questioni della
varianza di genere negli anni, gli operatori del gruppo hanno accolto
diversi professionisti che hanno chiesto un confronto su casi clinici o
problematiche legati al genere costituendo, in ambito regionale, uno
dei principali riferimenti per operatori del settore.
Il gruppo gender variant presente presso il Policlinico di Napoli,
infatti, non è solo un gruppo di intervisione clinica, ma si occupa, anche, di approfondire questioni teoriche, socio-politiche, emozionali e
cliniche legate alle questioni di genere, oltre a costituire uno spazio di
riflessione condiviso e di contenimento delle tensioni legate alla complessità del lavoro psicologico con persone presentanti una condizione
di disforia di genere. Il gruppo ha visto susseguirsi nel tempo la partecipazione di diversi professionisti che a vari livelli intervengono e
arricchiscono il lavoro: psicologi, psicoterapeuti, psichiatri, psicoanalisti, specializzandi in psicologia clinica, borsisti, dottorandi, volontari,
tirocinanti psicologi.
Questo staff ha lavorato, nel tempo, anche sul materiale relativo alle
consultazioni di utenti seguiti per percorsi psicologici prolungati, mettendo in luce possibilità e limiti che progressivamente sono emersi nel
lavoro prolungato con la popolazione di riferimento e costituendo per
i clinici della salute mentale una risorsa in termini di tutela, possibilità
di usufruire di uno spazio di riflessione e confronto, sostegno, stimolo.
Come suggeriscono di Falco e di Blasi (2013), infatti, la supervisione
clinica nasce all’interno della tradizione psicoanalitica quale strumento
di formazione e svolge un’azione di accompagnamento e di supporto
volta a facilitare il raggiungimento delle funzioni e degli obiettivi terapeutici attraverso la rielaborazione dei vissuti e l’analisi dei processi.
Attraverso l’intervento di un terzo nell’attività del terapeuta con il
paziente, infatti, la supervisione si occupa dello specifico funzionamento del dispositivo terapeutico, ponendo particolare attenzione ad una
pluralità di fenomeni che possono influenzare e limitare la capacità di
pensare e lavorare.
È interessante notare come la costruzione di uno spazio di supervi55
sione di gruppo, secondo Correale (1991), consenta di perseguire due
obiettivi: da un lato esplorare e approfondire la relazione terapeutica tra
operatore e paziente; dall’altro utilizzare e regolare la discussione attraverso il gruppo che viene considerato un elemento propulsore, nella
misura in cui consente di introdurre nuovi spunti conoscitivi, flussi di
pensiero, riconoscimento di emozioni.
Il gruppo di supervisione per le varianze di genere ha consentito agli
operatori impegnati nella clinica di migliorare la rielaborazione delle
emozioni ed analizzare, attraverso processi di confronto intersoggettivo, il processo terapeutico: gli operatori condividono le proprie esperienze cliniche in un setting strutturato che consente loro di discutere,
riflettere e migliorare i propri standard di cura.
Il gruppo di intervisione sulle varianze di genere ha costituito e costituisce uno strumento prezioso e fondamentale per gli operatori che
si occupano delle persone presentanti una varianza di genere non solo
costituendo, come si è sostenuto, un supporto, ma anche consentendo
agli operatori di avvalersi di uno strumento di lavoro per una potenziale
crescita personale e professionale.
56
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Alcune riflessioni a partire da una ricerca tesa ad indagare la relazione tra la
Condizione Clinica, gli Stili di Attaccamento, i Meccanismi di Difesa e l’Alessitimia. In Valerio P., Vitelli, R., Romeo, R., & Fazzari, P. (2013), Figure
dell’identità di genere: uno sguardo tra psicologia, clinica e discorso sociale.
Milano: FrancoAngeli.
58
CAPITOLO QUINTO
Violenze, stigma e discriminazioni verso la non conformità di genere. Quale effetto sulla salute mentale?
Cristiano Scandurra
5.1. Premessa
Le persone transgender e transessuali sono spesso oggetto di soprusi,
aggressioni ed insulti. Balzer e Hutta (2012), all’interno del progetto
Transrespect versus Transphobia Worldwide, riportano che tra Gennaio 2008 e Dicembre 2011 sono state uccise ben 831 persone transgender
in tutto il mondo a causa della transfobia sociale. Si tratta dei cosiddetti hate crimes, particolari tipologie di crimini agiti in nome dell’odio
verso la non conformità di genere. Uno studio europeo di Turner et al.
(2009) riporta, invece, che tra 2669 persone transgender, il 79% di esse
ha subito qualche forma di molestia sessuale e/o verbale nel corso della
propria vita.
Perché queste percentuali così elevate? Quali le motivazioni più profonde dell’odio verso la non conformità di genere? E, inoltre, come
spiegare questo tipo di violenza? Queste domande rappresentano il fil
rouge di questa breve disamina che ha l’obiettivo di chiarire alcune
questioni di base relative alla violenza anti-transgender.
5.2. Violenze e pregiudizi agiti contro la non conformità di genere.
Alcune evidenze
In letteratura sono riportati dei dati molto preoccupanti relativi alle
violenze agite contro le persone transgender. Ad esempio, Lombardi
59
et al. (2001) riportano che il 59.5% di un campione di 402 persone
transgender ha vissuto violenze fisiche ed abusi sessuali e che il 37.1%
ha subito discriminazioni economiche. Queste percentuali vengono
confermate da Xavier (2000) che riporta che ben il 43% di 252 persone
transgender ha subito qualche forma di violenza. In uno studio di Kenagy (2005) questa percentuale sale al 71%.
È facilmente intuibile che tutte queste forme di violenza hanno una
ricaduta diretta sulla sfera del suicidio. A tal proposito, Clements-Nolle
et al. (2006) hanno riscontrato una percentuale del 32% di tentativi di
suicidi. Similmente, anche Kenagy (2005) riporta una percentuale per
lo più uguale (30.1%) sostenendo però che la motivazione di questi
tentativi di suicidio è da legare alla stessa identità transgender, vissuta
con vergogna e repulsione.
In realtà, sembra che la transfobia sociale abbia origini ancora più
lontane. Spesso, quando i genitori percepiscono la non conformità di
genere dei propri figli, ne rimangono profondamente colpiti e possono
mettere in atto una serie di difese atte a denegarla o a volerla violentemente “cancellare”. Quest’ultima possibilità è quella che più si avvicina al discorso che stiamo ponendo in essere, ovvero a quella violenza
rumorosa, assordante che finisce per essere visibile ed agita. Alcuni
studi, infatti, riportano che i fratelli non transgender riescono a ricevere un supporto di gran lunga maggiore rispetto ai fratelli gender non
conforming (Factor & Rothblum, 1998), che gli agenti della violenza
spesso sono il padre e la madre (Gerini et al., 2009) e che spesso questi bambini subiscono delle dure punizioni che possono giungere fino
all’esser cacciati di casa (Gagne & Tewksbury, 1998).
Le discriminazioni subite dalle persone transessuali e transgender
sono molto elevate anche in ambito lavorativo. Si è soliti pensare, in
maniera molto stereotipata, che le persone transessuali siano dedite
alla prostituzione. Questo grosso stereotipo tende ad inglobare in una
macro-etichetta tutte le persone che presentano una disforia di genere
o una non conformità di genere, non differenziando tra MtF ed FtM, o
ancora, tra le infinite possibilità di identificazione del genere. La domanda relativa al “perché” molte persone transgender si prostituiscono
60
sembra denegata, non pensata. Nemoto et al. (2004) sostengono che
la motivazione che spinge molte persone transgender MtF (perché le
persone FtM difficilmente lo fanno) a prostituirsi trova le sue origini
nell’assenza di supporto da parte di tutta la società allargata che non
appare ancora pronta a creare delle reali opportunità di lavoro. Si tratta
di un’immensa barriera transfobica che finisce per aumentare i rischi di
esperire differenti traumi. In letteratura, infatti, si riportano spesso aggressioni da parte di clienti o minacce con o senza arma (Valera et al.,
2001). Allontanandoci dalla prostituzione, il campo del lavoro legale
non sembra più rassicurante. Hill e Willoughby (2005) riportano casi di
persone transessuali e transgender costrette a cambiare il proprio lavoro
a causa della non conformità di genere mal giudicata. Lombardi et al.
(2001), a tal proposito, riportano tassi molto elevati di discriminazioni
lavorative, affermando che il 37% subisce licenziamenti, retrocessioni e azioni disciplinari ingiuste. E come riscontrato da Nemoto et al.
(2004) molte persone transessuali e transgender riportano che sono proprio queste discriminazioni a spingerle alla prostituzione.
5.2. Violenza anti-transgender. Un tentativo di inquadramento teorico
“La violenza transgender non è solo un’epidemia confinata negli
Stati Uniti. Questa è infatti una pandemia che abbraccia il globo, oltrepassando continenti, culture e linguaggi” (Kidd & Witten, 2007/08, p.
44, corsivi miei). Con queste parole Kidd e Witten (2007/08) concludono un saggio molto interessante che tenta di chiarire quali sono quei
fattori in grado di spiegare la violenza contro le persone transessuali e
transgender. Gli autori sostengono che tale violenza deriva dall’azione
di 4 fattori: 1) L’ignoranza del pubblico generale che non è davvero a
conoscenza del significato dell’identità transgender, evidenza deducibile, ad esempio, dal linguaggio omofobico piuttosto che transfobico
utilizzato per offendere e “violentare” queste persone; 2) I bias istituzionalizzati derivanti dalla produzione di un sapere scorretto da parte
delle istituzioni sulle questioni sessuali e di genere (pensiamo, ad esempio, ai corsi di biologia in cui si insegna che i sessi sono solo due); 3) La
61
marginalizzazione da parte dei sistemi sanitari che non sono sufficientemente preparati ad accogliere le specifiche domande delle persone
transgender; 4) La preservazione del binarismo di genere, un potente
dispositivo ideologico che tende a “punire” i trasgressori, coloro che
mettono in crisi questa pericolosa credenza, con lo scopo di rimettere le
cose al loro posto.
Le considerazioni di Kidd e Witten, però, non ci aiutano a comprendere profondamente quali sono le dimensioni di ciò che Hill (2003)
definisce violenza anti-transgender. Quando Hill parla di violenza si
riferisce ad un doppio livello: la violenza interpersonale e la violenza istituzionale. Se la prima indica quel tipo di violenza tra persone o
gruppi – come nel caso della violenza subita all’interno della famiglia
d’origine o sul posto di lavoro – la seconda indica, piuttosto, una violenza del tutto indipendente dall’individuo che, spesso, finisce per non
sentirla direttamente sulla propria pelle. Eppure è la violenza più pervasiva, perché precede l’individuo e blocca l’accesso ad una serie di risorse sociali all’insaputa dell’individuo colpito. Secondo Hill, dunque,
la violenza anti-transgender è costituita dall’intreccio di tre dimensioni
tra loro interdipendenti: 1) il genderismo è un’ideologia strutturale che,
dentro ognuno di noi, spinge a valutare in maniera fortemente negativa
ogni comportamento, atteggiamento, istituzione che non si rifà alla logica del binarismo di genere. La credenza di base – errata naturalmente
– è che esistano solo due generi e che tutto ciò che da loro si discosta
è fortemente malato, disturbato, perverso; 2) la transfobia, molto similmente all’omofobia, è quella forza che motiva le reazioni negative
verso la non conformità di genere. In qualche modo, la transfobia è la
controparte individuale, intrapsichica ed interpsichica del genderismo,
tanto che Hill e Willoghby (2005, p. 533) la definiscono quale “disgusto
emozionale provato verso le persone che non risultano conformi alle
aspettative sociali legate al genere”; infine, 3) il gender-bashing, è la
componente più comportamentale della violenza anti-transgender, dato
che indica la violenza agita, il pestaggio individuale e gruppale. Ricapitolando, Hill (2003, p. 10) riassume come segue la relazione tra queste
tre dimensioni: “Il genderismo riguarda l’atteggiamento culturale nega62
tivo, la transfobia alimenta l’atteggiamento con la paura, il disgusto e
l’odio, e il gender bashing è l’espressione violenta di queste credenze.
Sebbene genderismo e transfobia spesso esitino in espressioni nascoste
di discriminazione ed antipatia, il gender bashing è un espressione manifesta di ostilità”.
5.3. Effetti della violenza sulla salute psicofisica. Fattori di rischio e
protezione
La violenza e le discriminazioni che alcune minoranze subiscono
pone le stesse a rischio di sperimentare uno stress particolare che va
sotto il nome di minority stress (Meyer, 1995; 2003; 2007). Si tratta di
uno stress sociale e cronico che le minoranze – in questo caso di genere
– esperiscono a causa della continua stigmatizzazione sociale proveniente da ogni settore della vita. Come sostenuto da Meyer (2007), il
minority stress è: 1) unico, poiché rappresenta un fattore aggiuntivo di
stress a quello generale vissuto da tutte le persone. Questa caratteristica
di unicità finisce per richiedere uno sforzo di adattamento sociale maggiore rispetto alle categorie non stigmatizzate; 2) cronico, perché esso è
strettamente collegato a delle sovrastrutture sociali stabili che sono indipendenti dall’individuo e che, dunque, lo preesistono; 3) socialmente basato poiché deriva da una serie di processi sociali, istituzionali e
strutturali che, al pari di prima, sono indipendenti dall’individuo.
Seguendo questo modello, il soggetto è inserito in un ambiente stigmatizzante che è costituito da una serie di processi di stress posti su un
continuum: dai processi di stress distali a quelli più prossimali all’individuo. Se i processi di stress distali indicano degli stressor oggettivi che
non dipendono dagli individui, i processi di stress prossimali, invece,
denotano quegli stressor soggettivi che dipendono dalle percezioni individuali. Meyer (2007) enuclea i seguenti stressor, partendo da quelli
oggettivi ed arrivando a quelli più soggettivi: 1) eventi e condizioni
stressanti esterni ed oggettivi, cronici ed acuti, come ad es., le violenze
sessuali, verbali, fisiche subite (stigma vissuto); 2) aspettative che gli
eventi prima esplicati si realizzano e vigilanza che questa aspettativa
63
comporta (stigma percepito); 3) occultamento del proprio orientamento
sessuale e/o della propria identità di genere e 4) interiorizzazione degli
atteggiamenti negativi della società aventi a che fare con l’orientamento
sessuale o con l’identità di genere (omofobia o transfobia interiorizzata).
Il minority stress ha un effetto molto profondo sulla salute mentale
e rappresenta il primo fattore di rischio capace di aumentare la probabilità di sviluppo di sintomatologia. A tal proposito, Lombardi (2009)
ha riscontrato un legame diretto tra la frequenza di violenza subita e la
depressione e l’ansia in persone transessuali e transgender. L’autrice
sostiene che tanto più elevata è la frequenza di eventi transfobici, tanto
più aumenta anche la probabilità che queste persone sviluppino sintomatologia ansiosa e depressiva. Allo stesso modo, Nuttbrock et al.
(2010) riportano il medesimo legame tra abusi legati al genere e depressone. E così anche Shipherd et al. (2011) riportano che il 98% del loro
campione ha subito almeno un evento traumatico nella vita e che il 91%
ne ha subiti multipli. Tra coloro che hanno subito eventi traumatici, il
42% ha riportato che questi eventi erano legati all’identità transgender,
il 17.8% ha riportato sintomi di disturbo post-traumatico da stress e il
64% sintomi depressivi.
Le violenze e le prevaricazioni quali principali fattori di rischio sono presenti in ogni fascia d’età, anche in adolescenza. Basti pensare al
bullismo transfobico e/o omofobico (ad es., Murdock & Bolch, 2005;
Birkett et al., 2009; D’Augelli et al., 2002) e ai loro effetti sulla probabilità di sviluppare problematiche di salute mentale, quali depressione,
ansia, insonnia, comportamenti autodistruttivi.
È facilmente intuibile, dunque, che i disturbi mentali delle minoranze sessuali e di genere non sono collegati all’identità in sé, ma possono
manifestarsi come risultato della marginalizzazione, dello stress derivante dal nascondere la propria sessualità e/o identità o dal subire abusi
verbali, emotivi, fisici e/o sessuali da una famiglia o da una comunità
intolleranti (Mayer et al., 2008).
64
5.4. Conclusioni
Questa breve disamina sulla violenza agita contro le persone
transgender e gli effetti che tale violenza arreca al benessere psicofisico
delle stesse, ci spinge verso una riflessione relativa alle conseguenze
dannose e disastrose del binarismo di genere. Il genere sembra assurgersi a dispositivo sociale finalizzato a regolare le relazioni interpersonali. Facendo uno sforzo, a noi tutti può risultare familiare la percezione di modificare il nostro atteggiamento, il nostro linguaggio ed anche i
nostri pensieri a seconda del genere dell’interlocutore. Questo “adattamento” altro non è che un meccanismo che ha che fare con la socialità
e che è divenuto così automatico da non poter essere pensato. Agisce
spontaneamente perché fa parte della nostra cultura e della nostra identità. Ma quando di fronte a noi si situa una persona, una categoria o
un gruppo sociale che non è immediatamente individuabile quale aderente alle rappresentazioni (stereotipate) del maschile o del femminile,
la reazione immediata può essere quella del disgusto, della sorpresa,
dell’incredulità. E queste possono poi trasformarsi in violenza, allontanamento, scherno. Non importa se davvero la persona ha effettuato
degli interventi chirurgici di modificazione delle proprie caratteristiche
sessuali, siano esse primarie o secondarie. Ciò che importa è che quella
persona è percepita come un gender outlaw (Bornstein & Bergman,
2010), un fuorilegge, un trasgressore di quel binarismo di genere che
è funzionale ad un supposto e desiderato ordine sociale e morale. Ed il
paradosso è che spesso questa trasgressione del genere attrae enormemente, è desiderata e, contemporaneamente, spaventa (Norton, 1996).
Quel desiderio – che può essere sessuale o meno – deve allora essere
nascosto, rimosso, cancellato dalla mente. Ma come è noto, ogni desiderio “rimosso” deve pur sempre manifestarsi altrove. E a volte la sua
manifestazione è proprio il contrario della sua origine. Ecco che dunque
può trasformarsi in violenza agita, simbolica, strutturale. Una violenza
che finisce per negare l’accesso alle risorse più basilari per potersi dire
essere umani.
65
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67
68
CAPITOLO SESTO
Identità, identità di genere e identità transgender
Anna Lisa Amodeo e Simona Picariello
Come sopportare in me quest’estraneo? Quest’estraneo che ero io stesso per me? Come non vederlo? Come non conoscerlo? Come restare per
sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori
intanto della mia?
(Pirandello - “Uno, nessuno, centomila”)
6.1. Introduzione
Il presente capitolo si propone di presentare degli spunti teorici
sull’identità di genere e sull’identità transgender, partendo dalle teorie
psicologiche classiche sulla costruzione dell’identità.
L’identità, nel corso del tempo e nell’ambito di differenti approcci
teorici e di ricerca, è stata definita in maniera non univoca, dando spesso adito a contraddizioni e confusioni concettuali (Schwartz, 2001).
In maniera molto semplice, si potrebbe dire che l’identità è la risposta alla domanda “Chi sono io?”. Una facile domanda, appunto, la cui
risposta tuttavia non appare altrettanto scontata.
Se ponessimo questa domanda a tutti coloro che leggono, probabilmente avremmo una risposta diversa per ogni lettore, non solo perché
essi sono tutti effettivamente differenti, ma anche perché ognuno si focalizzerebbe su aspetti diversi della propria persona e avrebbe un modo
proprio di presentarli.
69
L’identità, infatti, comprende una molteplicità di aspetti, domini e
sfaccettature che non possono essere assimilati in una semplicistica e
generica sommatoria. Proprio per questa sua caratteristica, l’identità
può essere considerata un bridging construct, ovvero un concetto che
fa da ponte e abbraccia dimensioni plurime e interconesse in maniera
complessa.
Prima di procedere, dunque, appare opportuno richiamare una distinzione che William James precisò già nel 1890 tra l’Io (I-Self) e il
Me (Me-Self). Il primo fa riferimento al soggetto che conosce, alla parte
attiva nella conoscenza di se stessi, mentre il secondo è l’oggetto che
viene conosciuto. Quando l’Io diventa consapevole del Me, il primo
può fare attribuzioni riguardo alla capacità di agire e alla continuità nel
tempo del secondo (Ryan & Deci, 2006; Vignoles, 2011).
Il concetto di Sé19 diventa gradualmente più complesso man mano
che gli individui maturano e iniziano a comprendere che essi esibiscono diversi aspetti di sé nelle disparate situazioni sociali. Klimstra et al.
(2010) parlano in questo senso di fluttuazioni situazionali nel senso d’identità generale della persona. Ad esempio, il bambino gradualmente
fa propria la consapevolezza di essere sempre la stessa persona sia che
si trovi a giocare con i nonni al parco, sia che si trovi a casa in un litigio
con i fratellini.
Emerge, in questo modo, il concetto di un’identità multidimensionale, la quale, seppur composta da molteplici elementi, deve tuttavia
conservare un carattere unitario e di continuità spazio-temporale, necessario affinché l’individuo si riconosca e sia riconosciuto come se
stesso, a prescindere dalla condizione specifica in cui si trova.
Erikson (1950) definisce questa dinamica attraverso il concetto di
sintesi d’identità, laddove invece la confusione d’identità rappresenta
l’incapacità o la difficoltà di estrapolare un “me” sottostante alle diverse auto-rappresentazioni situazionali (cfr. anche Côté & Levine, 2002).
Erikson, contestualmente alla sua Teoria Epigenetica dello Sviluppo
19
Esiste in letteratura un’ampia discussione a proposito della distinzione tra i concetti e i termini Sé e Identità (si veda ad esempio il contributo di Alsaker & Kroger, 2006). Tuttavia, esula
dagli scopi di questo contributo presentare argomentazioni così dettagliate e specifiche.
70
Psicosociale, sostiene che la sintesi dell’identità sia qualcosa che l’individuo ricerca e riorganizza durante l’intero ciclo di vita, ma che essa sia
il compito su cui ci si focalizza specificamente durante l’adolescenza.
Uno sviluppo importante della teoria eriksoniana è costituito dalla
Teoria degli Stati di Identità di Marcia (1966; 1980), basata sull’intersezione di due dimensioni: l’esplorazione di possibili alternative di
scelta individuale in diversi ambiti della vita (scuola, professione, etc)
e l’impegno (committment) di perseguire le scelte intraprese. L’intersezione di queste due dimensioni dà origine a quattro possibili stati di
identità: Raggiungimento dell’Identità, Moratoria, Blocco e Diffusione. La condizione ideale verso cui tendere è quella del Raggiungimento
dell’Identità, che avviene dopo un periodo di esplorazione, seguito da
un investimento sulla scelta effettuata. Gli altri stati si caratterizzano
per i livelli più o meno alti di esplorazione e impegno.
Tali teorie sono state ulteriormente approfondite ed ampliate nel
corso degli anni (tra gli altri, Berzonsky, 1989; Côté, 1996b, 1997; Crocetti et al., 2008; Grotevant, 1987; Kroger et al., 1989, 1996; Meeus,
1992), ma non rientra nel merito del nostro contributo affrontare questo
argomento. Tuttavia, è importante sottolineare come queste teorie pongano l’accento sul processo di integrazione che sottende alla costruzione dell’identità.
In un’ottica più generale, l’evoluzione delle teorizzazioni sul Sé e
l’identità sono andate gradualmente nella direzione di una concezione multidimensionale di tali concetti. Da qui deriva l’opportunità di
considerare l’intersezione tra i diversi domini dell’identità e della loro
interazione con i diversi ambiti della vita in cui l’individuo interagisce
(Harter, 2006). L’essere inseriti inevitabilmente in un contesto sociale,
infatti, fa in modo che la costruzione dell’identità e la percezione di sé
che ciascuno possiede siano influenzate in maniera significativa dagli
altri.
I domini dell’identità che si è chiamati ad integrare possono fare
riferimento, ad esempio, all’età, al genere, alla nazionalità, alla razza,
alla religione, alla professione, alla classe sociale, all’orientamento sessuale, all’aspetto fisico e così via. Ciascuno di noi interpreterà ognuno
71
di questi domini in una maniera del tutto personale ed idiosincratica.
Inoltre, il modo di esprimere questi aspetti della propria identità e la salienza di ciascuno di essi dipende dall’ambiente in cui di volta in volta
ci si trova, dalle persone con cui si interagisce e dall’immagine di noi
che esse ci rimandano.
La percezione che gli altri hanno di noi, la corrispondenza o meno
di questa con la nostra auto-percezione e l’intreccio che ne deriva sono aspetti tutt’altro che secondari nella definizione dell’identità individuale. Come afferma pioneristicamente Cooley (1902) attraverso il
concetto di looking-glass self (sé specchio) da lui elaborato, le persone
modellano la concezione di sé in base alla loro comprensione di come
gli altri li percepiscono. Per Cooley la società è un intreccio e un’interdipendenza di Sé.
In quest’ottica, l’identità di genere, che qui è di nostro interesse
approfondire, si configura come una delle molteplici dimensioni che
compongono l’identità personale. E contestualmente ad essa, l’identità
transgender costituisce una specifica declinazione dell’identità di genere.
6.2. L’identità di genere
L’identità di genere costituisce una dimensione complessa dell’identità generale di una persona, in cui convergono aspetti biologici, psicologici, comportamentali e sociali che si riferiscono al sentimento che la
persona ha relativamente al proprio genere, ovvero all’essere maschio,
femmina, o una qualsiasi combinazione di queste due possibili definizioni.
La consapevolezza di appartenere ad una categoria di genere si sviluppa attraverso fasi successive. Secondo Slaby e Frey (1975), all’età di due anni e mezzo–tre la maggior parte dei bambini sa definirsi
“maschietto” o “femminuccia”; tuttavia soltanto qualche anno dopo i
bambini acquisiscono la costanza del genere, ovvero comprendono che
il sesso rimane costante nel tempo, mentre a cambiare sono solo le manifestazioni superficiali. Una bambina rimane tale, cioè, anche se inizia
a indossare abiti più “tipicamente” maschili. Un bambino è sempre un
72
“maschietto”, anche se si fa crescere i capelli. All’età di 6-7 anni tutti
(o quasi) i bambini acquisiscono pienamente la costanza del genere.
Secondo questa prospettiva teorica, quando la costanza del genere è
raggiunta, i bambini, attraverso l’acquisizione di modelli stereotipici
presenti nel loro ambiente, arrivano a credere che il loro genere sia
fisso e immodificabile. Di conseguenza, tendono a comportarsi sempre
e soltanto in maniera conforme alla propria auto-percezione (Kohlberg,
1996).
L’auto-percezione della propria aderenza agli stereotipi di genere è
forse la dimensione che è stata più frequentemente assunta come oggetto di studi e ricerche (tra gli altri, Brown, 1956; Bem, 1981), che
hanno finito per considerarla sovrapponibile all’identità di genere nella
sua globalità. Solo successivamente è stato riconosciuto alla tipicità di
genere un carattere di multidimensionalità: le persone non mostrano
sempre nella stessa misura la loro adesione agli stereotipi maschili o
femminili, ma ne modulano l’espressione a seconda del contesto specifico in cui si trovano (Hustin, 1983; Ruble & Martin, 1988; Spence &
Hall, 1996). Ritorniamo, dunque, al discorso fatto in precedenza relativamente all’intersezione dominio identitario/contesto di vita.
In un interessante ampliamento delle componenti dell’identità di genere Egan e Perry (2001) ne individuano ulteriori tre in riferimento alla
tipicità di genere: il senso di compatibilità psicologica con la categoria
di genere “di appartenenza”; la percezione di una pressione esterna ad
assumere condotte congruenti con il genere; la credenza di una superiorità del proprio genere rispetto all’altro (bias intergruppi). Tralasciando in questa sede l’approfondimento di queste singole dimensioni, riteniamo tuttavia che esse siano di estremo interesse per quanto segue.
Da un punto di vista squisitamente psicodinamico, la dimensione
psicologica dell’identità di genere include, a sua volta, molteplici dinamiche differenziate, ma connesse tra loro. Il bambino, infatti, avrà sin
dalla nascita una predisposizione innata ad orientarsi verso un genere
piuttosto che un altro. Tuttavia, tale inclinazione entrerà da subito in
contatto con elementi esterni, che provengono dall’ambiente prossimale (famiglia, soprattutto) e distale (cultura di appartenenza, ad esem73
pio), e dagli Altri significativi che si prendono cura di lui (Khan, 1963).
In questa relazione entrano in gioco non solo fattori concreti, come il
sesso biologico dell’Altro, ma anche le aspettative e i desideri più o meno inconsci che quell’Altro nutre nei confronti di quel bambino, nonché
tutti i portati del processo psicodinamico snodatosi nella definizione di
genere di quell’adulto. Cosa vuol dire per un genitore avere un figlio
maschio o una figlia femmina? Quanto e in che modo la nascita di un
figlio o una figlia richiamerà in quella madre e quel padre ciò che ha
significato per loro e per i propri genitori essere un figlio o una figlia?
Rispondere a queste domande è senz’altro fondamentale in quei casi in
cui il processo evolutivo del bambino s’imbatte in difficoltà o blocchi,
ma in generale è utile per comprendere in che modo si sviluppa l’identità di genere, ancor più quando si tratta di una declinazione di genere
che esula dal binarismo maschio/femmina.
Come le teorie de-costruzioniste hanno messo in evidenza ormai da
qualche decennio (Butler 2006; Fausto-Sterling 1993), la netta distinzione maschio/femmina è frutto di dispositivi culturali che tendono a
categorizzare in maniera riduzionistica quella che in realtà è un’ampia
gamma di possibili sfumature. Lungo il continuum maschio/femmina,
infatti, il genere può trovare tante declinazioni quanti sono gli individui
esistenti. Nello specifico del nostro contributo, si affronterà sinteticamente la declinazione transgender e transessuale dell’identità di genere.
6.3. L’identità transgender e transessuale
In letteratura esistono diversi modelli che spiegano la specificità del
percorso di costruzione dell’identità transgender e transessuale (Baumbach & Turner, 1992; Bolin, 1988; Devor, 2004; Lewins, 1995). Tutti i
modelli delineano un processo per tappe, che prende avvio dal vissuto
di non riconoscimento dell’individuo nel sesso assegnato alla nascita.
Uno dei modelli maggiormente elaborati e complessi è quello teorizzato da Devor (2004), che, seppur non basandosi su evidenze empiriche,
trova un generale riscontro clinico e offre preziosi spunti di riflessione.
Nella sua concettualizzazione, Devor individua un processo di co74
struzione di identità che comprende ben 14 fasi, attraversate da due dimensioni trasversali: l’essere visti per ciò che si è (witnessing) e l’esser
rispecchiati così come ci si vede (mirroring). Questi concetti rimandano in certa misura a quello di looking-glass self di Cooley menzionato
in precedenza e fanno riferimento a due aspetti distinti ma complementari: essere riconosciuti per come si è e trovare conferma negli altri della
propria auto-percezione. Nel caso delle persone transessuali, queste due
dimensioni assumono una crucialità ancora maggiore, in quanto i meccanismi di categorizzazione socio-culturale spesso non consentono un
riconoscimento della donna o dell’uomo transessuale “per come è e per
come si sente”, quanto piuttosto viene vista come fuori dagli schemi di
“come dovrebbe essere e come ci si aspetta che si comporti”. In questo
senso, sarebbe interessante studiare la relazioni di tali dimensioni con il
controverso concetto di passing, descritto da Bockting (2010) come il
tentativo di passare per una persona del sesso desiderato, nascondendo
la propria identità transgender.
Senza qui entrare nello specifico di tutti e quattordici gli step individuati da Devor, appare importante evidenziare come dal suo modello
emergano gradualmente la presa di coscienza, l’accettazione e l’integrazione dell’identità transgender e transessuale, a partire da uno stato
di confusione identitaria, passando per l’esplorazione di alternative e
l’individuazione della propria “strada”.
La similarità di queste fasi con quelle delineate da Erikson e Marcia
summenzionate è lampante e offre stimolanti spunti di riflessione con
importanti ripercussioni cliniche.
La formazione e definizione dell’identità transgender e transessuale
presenta, senza dubbio, una complessità specifica, ulteriormente “complessizzata” da una sorta di impingement ambientale e culturale, che
ne limita lo sviluppo e l’espressione. Tuttavia, è fondamentale riconoscere che il percorso evolutivo delle persone transgender e transessuali
conserva le dinamiche nucleari del processo di costruzione d’identità
universale. Pertanto, nel lavoro clinico con queste persone, soprattutto
quando si tratta di accompagnarle nella comprensione e nella definizione della propria identità, diventa imprescindibile tenere in mente, da un
75
lato, la figurazione identitaria idiosincratica della persona che si ha di
fronte, dall’altro i processi evolutivi universali che costituiscono una
preziosa bussola nell’orientamento clinico.
6.4. Conclusioni
La formazione e definizione dell’identità transgender e transessuale
presenta, senza dubbio, una complessità specifica, ulteriormente “complessizzata” da una sorta di impingement ambientale e culturale, che
ne condiziona lo sviluppo e l’espressione. Tuttavia, è fondamentale
riconoscere che il percorso evolutivo delle persone transgender e transessuali conserva le dinamiche nucleari del processo di costruzione
d’identità universale. Pertanto, nel lavoro clinico con queste persone,
soprattutto quando si tratta di accompagnarle nella comprensione e nella definizione della propria identità, diventa imprescindibile tenere in
mente, da un lato, la figurazione identitaria idiosincratica della persona
che si ha di fronte, dall’altro i processi evolutivi universali che costituiscono una preziosa bussola nell’orientamento clinico.
In altre parole, approcciarsi in ambito clinico alle persone transessuali con il pregiudizio di una diversità assoluta nella formazione del sé
e dell’identità può pregiudicare non solo la comprensione dei processi
psicologici, ma anche la possibilità di sviluppare un’empatia che favorisca lo stabilirsi di un’alleanza terapeutica e l’attivarsi di un processo
di cambiamento.
76
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78
GLOSSARIO
Assessment psicologico: Con la definizione di assessment si fa riferimento ad un processo di valutazione globale e differenziale della persona, nell’unicità e complessità psicologica che la caratterizza. La psicologia clinica considera l’assessment come un processo di conoscenza,
comprensione e descrizione, che tenga anche conto delle risorse e dei
limiti della persona; può avvalersi, anche, di metodiche di analisi e misurazione della personalità (es. test psicodiagnostici standardizzati). In
altre parole, nella valutazione individuale, l’assessment costituisce un
processo di valutazione, individuazione delle competenze e del potenziale dell’utente. In questo processo lo psicologo si avvale della propria
competenza nel rilevare empaticamente lo stato emotivo ed il vissuto
interiore della persona in modo da avere ulteriori elementi per tracciare un profilo completo della personalità dell’utente che ne comprenda
aspetti profondi, relazionali e sociali ed evidenzi eventuali aree di disagio o disturbo, fattori di rischio, ipotesi eziopatogenetiche, prognostiche, individuando anche tecniche e strumenti più adeguati a sostenere
eventuali prese in carico.
Binarismo di genere: sistema ideologico e non scientificamente basato che spinge a credere nell’esistenza di soli due generi, quello maschile e quello femminile.
Coming out: processo che indica la volontà e l’atto di rivelare agli
altri (coming out esterno) così come a sé stessi (coming out interno) il
proprio orientamento sessuale e/o la propria identità di genere. Se nella
prima accezione indica il gesto dell’esternazione della propria omosessualità ed identità di genere, nella seconda accezione indica l’accettazione interiore degli stessi. Il termine coming out deriva dall’espressione inglese coming out of the closet, il cui significato letterale indica l’uscire fuori dall’armadio, dal nascondiglio, ovvero uscire allo scoperto,
dichiararsi. Spesso il termine coming out è confuso con outing che, al
79
contrario, indica quel processo tramite cui un terzo svela l’orientamento
sessuale e/o l’identità di genere di una persona senza il suo consenso.
Counselling psicodinamico: Il counselling ad orientamento psicodinamico è uno strumento di intervento psicologico che permette di esplorare, in un periodo di tempo breve, risorse e difficoltà attuali dell’utente, individuando fattori che ostacolano il perseguimento di obiettivi e
la realizzazione di progetti. Grazie alla breve durata e alla flessibilità
dell’intervento, una consultazione di counselling può risultare particolarmente indicata per le persone che riconoscono di avere delle difficoltà, ma che non riescono da sole a inserirle in un universo di senso chiaro. I colloqui di consulenza offrono quindi la possibilità di usufruire di
uno spazio e di un tempo in cui si può parlare con un operatore esperto
per essere aiutati a raggiungere una migliore conoscenza di sé e delle
proprie difficoltà. In questo modo è possibile trasformare un periodo di
crisi in un’occasione per comprendere ed elaborare le difficoltà e trovare nuovi punti di vista con cui affrontare anche problemi che ci accompagnano da lungo tempo costituendo, quindi un’opportunità di crescita.
Discriminazione: trattamento non egualitario che un individuo o un
gruppo di persone subiscono poiché appartenenti ad una specifica categoria identitaria o sociale. Tali categoria sono trattate in maniera diversa dalla maggioranza senza una giustificazione razionale ed eticamente
valida.
Disforia di genere: nuova categoria diagnostica entrata in vigore dalla pubblicazione della quinta edizione del DSM. Indica il disagio e la
sofferenza causati dalla discrepanza tra l’identità di genere percepita ed
il genere assegnato alla nascita, così come tra l’identità di genere percepita e il ruolo di genere associato e/o le caratteristiche sessuali primarie
e secondarie. Solo alcune persone gender nonconforming* (cfr. “non
conformità di genere”) esperiscono una disforia di genere. Il termine
disforia di genere ha sostituito la vecchia dizione di Disturbo dell’identità di genere, in uso nella quarta edizione del DSM e nella versione
80
revisionata della stessa.
DSM: ovvero Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, è
uno dei sistemi nosografici dei disturbi mentali più utilizzato al mondo.
È infatti utilizzato da medici, psichiatri e psicologi e consente una comunicazione efficace ed uniforme tra i professionisti.
Gender-bashing: assalto, pestaggio e/o violenza agita ai danni di persone transgender. Si tratta della componente più comportamentale della violenza anti-transgender*.
Genderismo: ideologia strutturale che porta a valutare negativamente
tutti i generi che non rientrano in una visione binaria (maschio/femmina). Si tratta della convinzione che esistano solo due generi e che
il genere di ciascuno debba corrispondere automaticamente al sesso
assegnato alla nascita. È la componente ideologica della violenza antitransgender*.
Genere: denota l’appartenenza alla categoria sociale e culturale di maschile o femminile costruita sulla base delle differenze biologiche dei
sessi, ovvero del sesso maschile e femminile. Questa definizione indica
che il genere è un concetto molto differente da quello di sesso*.
GnRH-analoghi: sono ormoni sintetici simili al GnRH, acronimo che
sta per Gonadotropin Releasing Hormone. Il GnRH è una gonadoliberina, ossia un ormone di origine ipotalamica che induce il rilascio di
gonadotropine. Gli analoghi del GnRh hanno l’effetto di sopprimere la
produzione spontanea di ormoni sessuali.
Hate crimes: ovvero crimini d’odio, indicano tutte quelle violenze
perpetrate verso persone appartenenti a specifiche categorie o gruppi sociali identificati sulla base dell’etnia, della razza, della religione,
dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere o di particolari condizioni psico-fisiche. Solitamente, i crimini d’odio sono motivati dalla
semplice appartenenza ai suddetti gruppi sociali e, ad essi, è accostato
un aggravio di pena.
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Identità di genere: senso intimo, profondo e soggettivo di appartenenza alle categorie sociali e culturali “maschio/femmina”, ovvero il riconoscimento soggettivo e profondo, conscio e inconscio, di appartenere
ad un sesso e di non appartenere all’altro. In alcuni casi, si può percepire di non appartenere strettamente a nessuno dei sessi e trovarsi, dunque, in una condizione non definita accettandola serenamente come la
propria. Si tratta di un processo di costruzione che prende l’avvio dalla
nascita e perdura fino ai 3 anni di vita circa, arrivando ad affermazioni
quali: “Io sono maschio”, “Io sono femmina”. Tale processo multifattoriale è il risultato di strette interazioni tra aspetti biologici, attitudini
genitoriali, educazione ricevuta e contesto socioculturale.
Identità sessuale: dimensione soggettiva e personale del proprio essere sessuato. Risponde ad un’esigenza di classificazione e stabilità.
Ciò non toglie, però, che contiene in sé elementi di imprevedibilità ed
incertezza poiché rappresenta l’esito di un complesso processo denotato dall’interazione tra aspetti biologici, psicologici, socioculturali ed
educativi. L’identità sessuale è, infatti, composta da 4 fattori: (1) sesso
biologico*, (2) identità di genere*, (3) orientamento sessuale* e (4)
ruolo di genere*.
Minority stress: stress cronico vissuto dalle minoranze sessuali, così
come dagli altri gruppi minoritari, causato dalla continua stigmatizzazione sociale. La premessa è che tutte le condizioni sociali caratterizzate da pregiudizio, rifiuto e discriminazione rappresentano dei fattori
stressanti che causano il vissuto del minority stress. Esso è 1) unico
poiché rappresenta uno stress additivo ai fattori di stress generali vissuti
da tutte le persone quotidianamente, 2) cronico, perché collegato a delle
strutture sociali e culturali relativamente stabili ed indipendenti dall’individuo (si pensi all’eterosessismo) e 3) socialmente basato, poiché deriva da processi sociali, istituzionali e strutturali, anch’essi indipendenti
dall’individuo. Il minority stress si situa nelle circostanze ambientali
all’interno delle quali si ritrovano processi di stress distali (stressor oggettivi che non dipendono dall’individuo) e processi di stress prossimali (stressor soggettivi che dipendono dalle percezioni dell’individuo).
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Il minority stress si situa lungo un continuum tra questi due processi e,
da quelli più distali a quelli più prossimali assume le seguenti forme: 1)
eventi e condizioni stressanti esterni ed oggettivi, cronici ed acuti (violenze subite); 2) aspettative che questi eventi accadano a sé e vigilanza
(stigma percepito); 3) occultamento del proprio orientamento sessuale
e/o della propria identità di genere e 4) interiorizzazione degli atteggiamenti negativi della società (omofobia e/o transfobia interiorizzata).
Non conformità di genere: dall’inglese gender nonconformity,
espressione, ruolo o identità di genere di una persona che differisce dalle norme culturali prescrittive rivolte ad uno specifico sesso.
Omofobia: la prima definizione viene generalmente attribuita a George Weinberg che la definisce come “il timore di essere con un omosessuale in un luogo chiuso e, per quel che riguarda gli omosessuali, l’odio
verso sé stessi; paura di trovarsi a stretto contatto con una persona omosessuale che spinge a reazioni di ansia, disgusto, avversione e disagio”.
Il termine omofobia, però, risulta scientificamente inadeguato poiché
non ha a che fare con la sua radice etimologica “fobia”. Manca, infatti,
la consapevolezza che la paura verso l’oggetto fobico sia irrazionale ed
eccessiva, il desiderio di liberarsi della fobia e l’evitamento dell’oggetto fobico. Dunque, tale significato di omofobia si limita a descrivere le
forme psicologiche irrazionali del costrutto, a discapito delle dimensioni sociali e culturali che alimentano l’omofobia. Un termine più adatto
sembra allora omonegatività che, oltre al disagio e alla paura, contiene
in sé anche i concetti di pregiudizio e disapprovazione. L’omonegatività è dunque costituita da una dimensione personale ed individuale (di
natura affettiva e cognitiva che si manifesta nell’insieme di pregiudizi,
stereotipi e credenze soggettive circa l’omosessualità), da una dimensione culturale, sociale ed interpersonale (sfera agita e comportamentale dei pregiudizi che, nella dimensione precedente, rimanevano attivi
ad un livello più soggettivo ed intimo) e, infine, da una dimensione istituzionale (ovvero, l’omonegatività agita a livello familiare, lavorativo,
scolastico).
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Omofobia interiorizzata: insieme di atteggiamenti e sentimenti negativi provati da una persona omosessuale verso se stessa o altre persone omosessuali. Indica l’interiorizzazione dei pregiudizi e degli atteggiamenti discriminatori che provengono dal sociale. Spesso, l’omofobia interiorizzata è associata a scarsa accettazione di sé, sentimenti di
vergogna, inferiorità ed odio nei confronti della propria persona ed, in
generale, verso le altre persone omosessuali, difficoltà ad effettuare il
coming out* che può essere considerato come un processo protettivo
e altamente funzionale.
ONIG: Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere, associazione
italiana nata nel 1998 che, per statuto, “si propone di favorire il confronto e la collaborazione di tutte le realtà interessate ai temi del transgenderismo e del transessualismo al fine di approfondire la conoscenza di
questa realtà a livello scientifico e sociale e promuovere aperture culturali verso la libertà di espressione delle persone transessuali e transgender in tutti i loro aspetti”. Per approfondimenti cfr. www.onig.it.
Organizzazione Atipica dell’Identità di Genere o AGIO (Atipical
Gender Identity Organization): Organizzazione Atipica dell’Identità
di Genere è un termine coniato da Di Ceglie per indicare nello sviluppo del bambino gender variant manifestazioni atipiche in alcune aree,
quali il modo di vestirsi, le relazioni con i coetanei, l’uso di giocattoli,
i giochi di ruolo, i manierismi, il tono di voce, i giochi aggressivi, la
disforia anatomica (intesa come ripugnanza del corpo sessuato). L’utilizzo di questo concetto, secondo l’Autore, implica l’inquadrare il fenomeno in una prospettiva evolutiva e di sviluppo, introducendo elementi
di flessibilità e di maggiore variabilità, peculiari dei percorsi evolutivi
di bambini ed adolescenti con varianze di genere.
Pregiudizio: valutazione solitamente negativa di una categoria di persone basata su massicce generalizzazioni e sull’attribuzione di una caratteristica specifica ad una persona o ad un gruppo ancor prima di conoscerla. Esso nasce a causa dell’opera di due meccanismi sociali: 1) la
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categorizzazione, ovvero la creazione di categorie entro cui collocare
le informazioni provenienti dall’ambiente, strategia di semplificazione
della percezione della realtà che classifica i vari aspetti di un fenomeno
sotto un unico concetto; 2) la generalizzazione, ovvero l’estensione di
quell’aspetto a tutti gli elementi di un gruppo.
Resilienza: termine derivante dall’ingegneria ed indicante la capacità
di un materiale di resistere a forti sollecitazioni improvvise. In psicologia, indica la capacità dell’individuo di accedere alle risorse di cui ha
bisogno per superare le avversità e di negoziare con il contesto per far
sì che esso fornisca quelle risorse in maniera funzionale.
Ruolo di genere: insieme di comportamenti, agiti all’interno delle
relazioni sociali, e delle attitudini che, nell’ambito di un dato contesto
socio-culturale, sono riconosciute come proprie dei maschi e delle femmine. Costruito concettualmente a partire dai 2 anni di vita e suscettibile di trasformazione nel tempo, il ruolo di genere esprime adattamento
sociale alle norme condivise su attributi e condizioni fisiche (apparenza), gesti (manierismi), adornamenti, tratti di personalità, igiene personale, discorso e vocabolario, interazioni sociali, interessi, abitudini,
definiti “tipicizzati” o inappropriati per genere.
Sesso: Con tale termine si denota l’appartenenza ad una categoria biologica e genetica, ovvero maschio/femmina. Esso è costituito da caratteristiche sessuali biologiche: i cromosomi sessuali (XY per il
maschio e XX per la femmina), i genitali esterni, gonadi e caratteri
sessuali secondari (peluria, seno, ecc.) che si sviluppano durante la pubertà.
Stigma: fenomeno sociale che attribuisce una connotazione negativa
ad un membro o ad un gruppo di una comunità tale da declassarlo ad
un rango inferiore. Esso viene costruito in 4 fasi: 1) scelta delle differenze che possono essere utilizzate per discriminare gli individui; 2)
attribuzione degli stereotipi negativi a queste categorie artificiali; 3)
distinzione tra stigmatizzati e non-stigmatizzati e 4) perdita di status
per l’individuo stigmatizzato.
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Terapie riparative: psicoterapie che, partendo dal pregiudizio non
fondato che l’omosessualità sia espressione di una psicopatologia,
affermano che sia possibile modificare l’orientamento da omosessuale ad eterosessuale. Si fondano su premesse ideologico-religiose
e non scientifiche, ragion per cui sono state vietate dalle più autorevoli
organizzazioni mondiali per la Salute Mentale (cfr. American Psychological Association, l’American Psychiatric Association, il Royal College of Psychiatrists, così come l’organo italiano dell’Ordine Nazionale
degli Psicologi) poiché dati scientifici dimostrano l’impatto negativo
e disfunzionale che tali terapie possono arrecare agli individui che vi si
sottopongono.
Transessuale: persona che vive una discordanza tra il genere assegnato alla nascita ed il genere percepito. Queste persone, a differenza di
quelle transgender*, necessitano di sottoporti Riattribuzione Chirurgica del Sesso* come previsto dalla legge n. 164/82 (Norme in materia
di rettificazione di attribuzione di sesso). Credenze e sentimenti tipicamente riscontrati sono “ho un’anima femminile intrappolata in un
corpo maschile” nel caso delle persone transessuali MtF (da Maschio
a Femmina – male to female) o “ho un’anima maschile intrappolata
in un corpo femminile” nel caso delle persone transessuali FtM (da
Femmina a Maschio – female to male). Tale condizione è indipendente
dall’orientamento sessuale.
Transfobia: reazione di paura, disgusto e discriminazione nei confronti
delle persone transessuali o transgender. Il terreno fertile da cui nasce l’atteggiamento discriminatorio e pregiudiziale è il genderismo. La
transfobia è la componente della violenza anti-transgender* che alimenta il genderismo con la paura, il disgusto e l’odio.
Transfobia interiorizzata: estremo e profondo disagio verso la propria condizione transgender/transessuale derivante dall’interiorizzazione delle norme della società riguardanti il genere. Essa si manifesta
principalmente in due modi: 1) allo scopo di conformarsi al binarismo
di genere ed evitare stigmatizzazioni, le persone transgender/transes86
suali potrebbero nascondere i propri sentimenti e la propria identità agli
altri; 2) le persone transgender/transessuali potrebbero sviluppare atteggiamenti fortemente negativi nei confronti delle altre persone
transessuali/transgender e desiderare di non essere associati alla loro
comunità.
Transgender: persona che non si riconosce nel binarismo di genere,
ovvero nel modello dicotomico maschio/femmina che la società impone, travalicando così ruoli ed atteggiamenti legati al proprio genere e non producendo alcuna domanda di modificazione dei caratteri
sessuali primari o secondari. In sostanza, questo termine viene
utilizzato per descrivere tutte quelle persone che non sentono di rientrare nei modelli socioculturali rigidamente imposti di mascolinità
e femminilità. Per estensione, oggi viene anche utilizzato per riferirsi
a tutte quelle condizioni di non-congruenza tra il genere ed il sesso
(transessuali, cross-dresser o travestiti, drag-queen, drag-king, ecc.),
assumendo la valenza di un termine ombrello.
Varianza di genere: sinonimo di non conformità rispetto alle norme
culturali (occidentali) che impongono una certa espressione, un certo
ruolo e/o una certa identità di genere al maschio e alla femmina.
Violenza anti-transgender: violenza agita a danno delle persone transessuali/transgender. Per violenza si intende un doppio livello: quello
interpersonale, ovvero relativo alla famiglia d’origine, al posto di lavoro, ecc. e quello istituzionale, relativo appunto alle istituzioni che,
solitamente, non considerano la possibilità di inserimento di una persona transessuale/transgender. La violenza anti-transgender è costituita
dall’intreccio di tre dimensioni: genderismo*, transfobia* e genderbashing*.
WPATH: World Professional Association for Transgender Health, è
un’associazione professionale ed interdisciplinare no profit che si occupa, a livello internazionale, della salute psico-fisica delle persone transessuali e transgender. Per approfondimenti cfr.www.wpath.org.
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GLI AUTORI
Amodeo Anna Lisa: Ricercatrice in psicologia clinica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, Dottore di Ricerca in psicologia, psicologa clinica e psicoterapeuta. Ha coordinato e partecipato a
numerosi progetti e gruppi di ricerca nazionale ed internazionali sulla
prevenzione del rischio individuale e di gruppo. Le sue aree principali
di interesse e ricerca sono l’omofobia, il bullismo omofobico, l’identità
sessuale e di genere, i transessualismi, i metodi di intervento psicologico nelle istituzioni e il counselling di gruppo.
Curti Elena: Psicologa, specialista in psicologia clinica e psicoterapeuta.
Fazzari Paolo: Psicologo e psicoterapeuta, dottorando in Mind Gender
and Languages presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II.
Da diversi anni svolge attività clinica e di ricerca scientifica nell’ambito
della Varianza di Genere, è autore di pubblicazioni di ricerca su questo
tema e co-autore del volume “Figure dell’Identità di Genere” (FrancoAngeli, Milano 2013).
Picariello Simona: Psicologa Clinica, dottore di ricerca in Scienze
Psicologiche e Pedagogiche presso l’Università degli Studi di Napoli
Federico II, Specializzanda in psicoterapia psicoanalitica dell’età evolutiva, adolescenza e della coppia (ASNE-SIPsIA), esperta in psicodiagnostica. Ha collaborato e collabora tutt’oggi in progetti di ricerca ed
intervento nazionali ed internazionali per la prevenzione della discriminazione nei confronti dei gruppi di minoranza sessuale. Le sue principali aree di ricerca riguardano lo sviluppo dell’identità in adolescenza
e prima età adulta, l’identità sessuale e di genere, l’omo-transfobia e il
bullismo omofobico.
Ponta Marco: Psicologo, laureato con tesi sperimentale dal titolo
“Identità di genere e transessualismi: un’esperienza di ricerca”. Ha
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partecipato alla ricerca “Ben-essere Trans: identità, salute, sessualità e
relazione” presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università degli
Studi di Napoli Federico II, in collaborazione con l’INSERM (Institut
national de la santè et de la recherche mèdicale). Attualmente è impegnato nell’ambito di progetti di assistenza psicologica sul territorio.
Santamaria Fabiana: Psicologa, psicoterapeuta, specialista in psicologia clinica, dottore di ricerca in Studi di Genere, professore a contratto
di psicologia dello sviluppo, Università degli Studi di Napoli Federico
II. Attualmente è socio dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere (ONIG). Fa parte del gruppo clinico su “ I bambini, gli adolescenti
gender variant e loro famiglie” presso l’Unità di Psicologia Clinica e
Psicoanalisi Applicata dell’Università degli Studi di Napoli Federico II.
Si occupa da numerosi anni di questioni relative all’identità di genere e
sue varianze in età evolutiva. Ha pubblicato numerosi articoli e partecipato a numerosi convegni su tali temi.
Scandurra Cristiano: Psicologo, specializzando in psicoterapia psicoanalitica (S.I.P.P.), dottore di ricerca in Studi di Genere presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Contrattista a progetto di
“Empowering LGT young people against violence: a P2P model” cofinanziato dal Daphne III Programme. Marie Curie Fellow di “Disguise
Ritual Music – DRUM” (7th Framework Programme Marie Curie Actions – People – IRSES). Training Fellow press il Summer Institute in
LGBT Population Health (The Fenway Institute & Boston University
School of Public Health) e Visiting Student presso la Columbia University (Heilbrunn Department of Population and Family Health, Mailman
School of Public Health).
Valerio Paolo: Professore ordinario di psicologia clinica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II. Delegato del Rettore per
gli studenti con disabilità, Direttore del Centro di Ateneo SInAPSi e
del Servizio di Psicologia Clinica e Psicoanalisi Applicata del Policlinico Universitario di Napoli. Presidente della Fondazione “Genere
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Identità Cultura” e dell’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere (O.N.I.G.). Coordinatore scientifico di “Hermes – Linking network
to fight sexual and gender stigma” co-finanziato dal Daphne III Programme. È attualmente Marie Curie Fellow di “Disguise Ritual Music
– DRUM” (7th Framework Programme Marie Curie Actions – People
– IRSES) e membro dell’advisory group di “Empowering LGT young
people against violence: a P2P model” co-finanziato dal Daphne III
Programme.
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