Lo Scalare

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Lo Scalare
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Sabato 16 Ottobre 2010 16:42 - Ultimo aggiornamento Venerdì 17 Gennaio 2014 11:00
LO SCALARE
di Luciano Di Tizio
Scalari, sempre scalari, fortissimamente scalari. Il più amato dagli italiani? Forse. Intanto è
costante la presenza di questo pesce nei primi dieci posti in qualsiasi classifica di vendita. Una
popolarità che Pterophyllum scalare (Lichtenstein, 1823) – questa la sua esatta denominazione
scientifica - ha sempre mantenuto, sin da quando, nel 1909, venne importato per la prima volta
in Europa. Allora, per la verità, si trattata di un pesce problematico, non semplice da acclimatare
e meno che mai da riprodurre. Un po’ come sono stati, sino a tempi recenti, i Discus. La
pazienza degli allevatori e la plasticità della specie, che ha saputo presto adattarsi alle nuove
condizioni, ne hanno fatto il pesce che tutti noi oggi conosciamo: robusto quanto basta, capace
di tollerare persino qualche sbaglio da parte dell’appassionato e propenso a riprodursi in
cattività anche senza particolari accorgimenti. Una specie insomma adatta al principiante, ma
insieme capace, per la dinamica riproduttiva e per il vivace comportamento (si tratta pur sempre
di un ciclide) di affascinare anche l’esperto. Un pesce peraltro capace persino di “parlare” visto
che i maschi (forse solo loro, ma non ci sono certezze in tal senso) sono in grado di emettere
suoni simili a schiocchi di dita e lo fanno in particolare quando sono eccitati, nelle lotte territoriali
o nella fase degli amori.
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Una lunga storia, quella dello scalare. Per la prima volta ce ne parla, almeno a noi europei,
Lichtenstein che nel 1823 pubblica la descrizione scientifica di un pesce catturato in Brasile e
conservato nel Museo di Berlino, che lui battezza Zeus scalaris, un nome che la dice subito
lunga sulla “regalità” della specie, dedicata nientemeno al re degli dei. Non vi tedieremo con la
successiva querelle sulla liceità di quella denominazione e con le varie proposte tassonomiche
che si sono succedute nel tempo, limitandoci alle informazioni essenziali per arrivare al nome
oggi in vigore: fu Hechel nel 1840 a istituire il genere
Pterophyllum
, cui attribuì come specie tipo
P. scalaris
, denominazione corretta in
scalare
da Gunther nel 1862 per un puro e semplice motivo grammaticale: l’esatta concordanza con
Pterophyllum, parola che in latino è di genere neutro. Il merito della prima descrizione resta
dunque a Lichtenstein e l’anno di descrizione resta il 1823: queste due indicazioni nella
denominazione scientifica ufficiale sono però poste tra parentesi, proprio per indicare che c’è
stata una successiva revisione, nel caso specifico quella di Hechel corretta da Gunther.
Oltre allo scalare, al genere Pterophyllum sono attribuite alcune altre specie (in totale da 2 a 5
secondo gli autori). Tra queste solo
Pterophyllum
altum
Pellegrin,
1903 gode di una certa recente popolarità, ma nulla di paragonabile al nostro, presente in
migliaia di vasche e praticamente in tutti i negozi italiani che si occupino anche marginalmente
di acquariofilia.
Descrivere lo scalare ci sembra abbastanza inutile: ci limitiamo a ricordare, se mai ci leggesse
anche un neofita alle primissime armi, che ha corpo discoidale, appena più lungo che alto,
fortemente schiacciato sui fianchi, con pinne dorsale e anale particolarmente imponenti e in
posizione opposta, che danno al pesce un aspetto d’insieme quasi triangolare, “alto” e
imponente. Anche la pinna caudale è grande e vistosa mentre le ventrali sono trasformate in
due caratteristici lunghi raggi filiformi. Le pinne pettorali sono invece piccole, ma decisamente
possenti, dovendo sobbarcarsi quasi da sole la fatica di far nuotare il pesce.
Gli esemplari di cattura raggiungono una lunghezza massima intorno ai 15 cm (dalla piccola
bocca alla coda) e una altezza di poco superiore ai 20 cm. Gli esemplari riprodotti in cattività, e
in particolare le varietà “pinne a velo” possono essere anche notevolmente più grandi.
Discorso un po’ più complesso per la colorazione: la livrea classica, l’unica inizialmente
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conosciuta, prevede un fondo grigio argenteo con sfumature più scure sul dorso, marrone e/o
verdastre. Sul corpo si stagliano quattro fasce verticali marrone scuro o, più spesso, nere, ben
visibili quando il pesce è a suo agio ma che tendono invece a sbiadire sino a scomparire in
caso di disagio (paura, malattia, condizioni ambientali inadatte…). La prima fascia attraversa
l’occhio, la seconda inizia appena dopo i primi raggi della pinna dorsale e si spinge sino
all’apertura anale, la terza, quasi sempre la più grande, attraversa il corpo in posizione un po’
arretrata e raggiunge anche le pinne dorsale e anale, la quarta è nei pressi del peduncolo
caudale.
Partendo da questa livrea di base (ma anche da esemplari punteggiati di rosso scoperti non
moltissimi anni or sono in natura) pazienti allevatori ne hanno creato tantissime varietà:
argentata, grigia, bianca, dorata, marmorizzata, tigrata, nera, fumè, verde, “panda” e persino
rossa. Un elenco certamente incompleto e destinato sempre più ad allungarsi. Alcune varietà
sono oggettivamente molto belle, ma per quanto ci riguarda continuiamo a preferire la livrea
selvatica, non foss’altro perché l’ha “inventata” Madre Natura, che ha sempre dimostrato di
saperne più di noi. Ma questa è soltanto una preferenza personale.
Abbiamo fatto cenno al fatto che la prima descrizione è stata effettuata su esemplari catturati in
Brasile: lo scalare (per inciso: pesce angelo, pesce paradiso, pesce vela e “angelfish” nei paesi
anglofoni sono alcuni dei nomi comuni col quale è indicato) colonizza in effetti una vasta area
del continente sud americano: il rio della Amazzoni centrale con i suoi affluenti sino al Perù e
all’Ecuador orientale, dove è segnalato in compagnia di Mesonauta festivus. Gli esemplari oggi
in commercio provengono tuttavia pressoché esclusivamente da riproduzioni in cattività
effettuate ormai da moltissime generazioni. Riproduzioni che se da una parte hanno
“rusticizzato” una specie un tempo problematica, l’hanno anche un po’ degenerata: oggi non
sono rari gli esemplari rachitici e, soprattutto, sono frequenti le coppie incapaci di allevare la
loro prole.
Ma andiamo con ordine, cominciando col dire che chi vuole allevare degli scalari deve
acquistarne un gruppetto e non un esemplare isolato, che mal si adatterebbe all’acquario. Da
adulto questo pesce vive di norma in coppie complessivamente stabili ed è, nelle fasi
riproduttive, abbastanza territoriale. Ciò non toglie che vasche grandi con un certo numero di
esemplari rappresentino la soluzione più “naturale” e idonea. Nel caso dei giovani questa scelta
è addirittura obbligata.
Occorre un acquario da non meno di 100x40x40 cm, meglio se di più. Importante anche
l’altezza, visto il notevole sviluppo che possono raggiungere le pinne. Nella letteratura si legge
di riproduzioni positive in acquari anche notevolmente meno capienti rispetto alle misure
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indicate e noi stessi abbiamo a lungo riprodotto scalari in vasche 40x40x40, ciascuna dedicata
a una singola coppia. Si trattava però di partner che si erano già scelti e in ogni caso di due soli
pesci in una cinquantina di litri di capienza reale. Situazione particolare, insomma, e comunque
non ideale.
Torniamo al nostro acquario: ghiaietto di granulometria media sul fondo, qualche legno di
torbiera o di savana e piante robuste, qualcuna a foglia larga, con almeno una zona più
riccamente piantata che possa servire da rifugio agli esemplari eventualmente in difficoltà.
Illuminazione media. Buon impianto di filtraggio. Se avessimo scritto questa nota una trentina di
anni or sono a questo punto vi avremmo anche consigliato un’acqua tenera e acida, simile a
quella presente negli ambienti naturali della specie. Oggi possiamo limitarci a scrivere che
saranno ben accetti un pH tra 6,5 e 7 o anche 7,5 e una durezza tra 5 e 15°dGH (con
tolleranza sino a 20°); temperatura tra i 26 e i 30°C. Per la riproduzione tuttavia un’acqua un
po’ acida e tenera darà risultati certamente migliori.
Un breve discorso anche per i compagni di vasca: si è detto del Mesonauta festivus, che ne
condivide in alcuni areali l’habitat in natura. Per il resto la gran parte dei piccoli e tranquilli pesci
di branco, purché allevati nella stessa vasca nella quale gli scalari sono stati accresciuti
(altrimenti saranno scambiati per cibo vivo),i
Microgeophagus
e gli stessi Discus saranno ottimi coinquilini, insieme ai Corydoras e ad altri pesci di fondo non
aggressivi e non eccessivamente vivaci. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Basterà invece
consultare un buon libro che indichi gli areali di provenienza delle varie specie se si vogliono
allevare insieme solo pesci teoricamente delle stesse zone geografiche, ma che in realtà sono
stati riprodotti in tutt’altre parti del mondo.
Per completare il discorso dell’allevamento in cattività dobbiamo ancora dirvi dell’alimentazione,
anche questa un tempo problematica (dall’epoca delle prime importazioni e sino agli anni ’50
del secolo scorso era praticamente indispensabile il cibo vivo) ma oggi semplicissima: vengono
accettati con voracità praticamente tutti i cibi di produzione industriale.
Qualche informazione infine sul comportamento e sulla riproduzione, a cominciare dalla
gerarchia che inevitabilmente si formerà in acquario (non è certo se ciò avvenga o meno anche
in natura). Attraverso parate di minaccia e prove di forza, che due scalari attuano afferrandosi
per la bocca e cercando di spingersi vicendevolmente sino a quando uno dei due non cede e
fugge via, si determina una scala gerarchica instabile, continuamente messa in discussione,
che dà vantaggi nella corsa al cibo e, forse, nella scelta del partner. Quando si formano le
coppie, saranno invece il maschio e la femmina, in tandem, a misurarsi con gli altri, per cercare
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di avere un migliore territorio. Capita in questi casi che la coppia più forte riesca a far suo
l’intero acquario costringendo in un angolo tutti gli altri pesci, che l’acquariofilo dovrà “salvare”
spostandoli altrove.
Non c’è un vero e proprio dimorfismo sessuale: al di là di quel che si sente dire o si legge,
soltanto la presenza della papilla genitale (conica nei maschi, a cono tronco nelle femmine), che
compare in epoca riproduttiva, potrà darci infatti certezze assolute nella determinazione del
sesso. Le coppie tuttavia si possono identificare con sufficiente attendibilità in base al
comportamento: in un branco di giovani quando due esemplari tendono a isolarsi e si dedicano
insieme alla pulizia di una foglia o altro substrato sono quasi certamente una coppia che si
avvia alla deposizione. Attenzione, però. analoga certezza non c’è se alleviamo due soli scalari,
perché sono segnalate finte riproduzioni che si spingono sino alla deposizione delle uova,
ovviamente sterili, nel caso vengano erroneamente allevate due femmine e non una vera
coppia.
Ma procediamo in un racconto “normale”: gruppetto di giovani che cresce insieme, si forma una
coppia e l’appassionato la isola in una vasca tutta per loro, con al più qualche Corydoras a
fungere da “fattore nemico”, per indurre i pesci a difendere le proprie uova. L’acquario per la
riproduzione (consigliamo una vasca da almeno 60x40x45 cm) può essere arredato come un
normale impianto di allevamento, ed è la soluzione che ci sembra migliore, oppure “nuda”,
semplicemente con una pianta a foglie larga in vaso. Quale che sia la scelta, le cose procedono
allo stesso modo: la coppia pulisce una foglia (o un altro substrato) per qualche giorno, con
lena, e la difende da ogni eventuale intruso. Intorno alla foglia, quando saranno pronti, i due
partner si concederanno vivaci danze al culmine delle quali, quasi sempre nelle ore del
pomeriggio, si affiancano e si muovono freneticamente uno accanto all’altra, sino a quando lei
non comincerà a deporre il suo carico di uova (da poche decine sino a un migliaio) in filari
ravvicinati che il maschio, seguendola da presso, subito feconda. In un tempo che varia da
pochi minuti sino a un’ora a mezza, secondo l’affiatamento e l’esperienza dei riproduttori,
l’operazione sarà conclusa, e i due si dedicheranno insieme alla pulizia e alla ventilazione delle
uova oltre che alla difesa del territorio. Schiusa in circa trenta ore a 30°C, in tre giorni a 27°C.
Gli avannotti alla nascita sono grandi più o meno come una virgola in questo testo stampato.
Nei primi giorni di vita consumeranno il sacco vitellino e resteranno sempre nei pressi del sito di
nascita, mentre dopo 4 o 5 giorni cominceranno a muoversi liberamente, sempre curati e vigilati
da entrambi i genitori. In questa fase sarà necessario l’intervento dell’appassionato che dovrà
nutrire i pesciolini con infusori, rotiferi, Artemia appena schiusa e anche cibo in polvere per
avannotti, che andrà servito, più volte al giorno, con l’aiuto di una pipetta o di un tubetto di
plastica, direttamente nei pressi del branco dei neonati, badando bene a non innervosire i
genitori che, dal momento della deposizione in poi, vanno lasciati più che mai tranquilli: di fronte
a un qualsiasi pericolo potrebbero infatti reagire mangiando le uova o gli avannotti. Un
comportamento solo apparentemente anomalo: in natura in presenza di un predatore troppo
forte per essere allontanato, meglio per i genitori nutrirsi essi stessi della loro prole ormai
indifendibile, per avere energie adeguate a una nuova riproduzione, piuttosto che abbandonarla
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nelle fauci dell’aggressore.
La dinamica riproduttiva sin qui descritta è quella ideale, che la specie, più o meno, effettua
anche in natura e che è stata osservata decine di volte in acquario. Accennavamo però al fatto
che lunghi anni di riproduzioni in cattività hanno sia migliorato sia peggiorato la specie. Molti
esemplari sembrano oggi incapaci di allevare la prole: dopo la deposizione e la fecondazione
vanno avanti per qualche ora o qualche giorno e poi invariabilmente la predano. Si ipotizza che
ciò avvenga per il fatto che negli allevamenti industriali i genitori vengono regolarmente privati
delle uova appena deposte e che questo alla lunga abbia finito col modificarne il
comportamento. L’appassionato che vuole cimentarsi nella riproduzione degli scalari deve
tuttavia provarci: se riuscirà a ottenere l’allevamento da parte dei genitori ne trarrà grandi
soddisfazioni e avrà comunque contribuito a preservare un comportamento corretto, codificato
in natura da millenni. Se i suoi riproduttori mangeranno le uova, provi innanzitutto a migliorare le
condizioni di allevamento e a rendere i valori chimico fisici quanto più possibile adatti (pH 6,5;
dGH 5-10°; T 28°C). Se tutto ciò fosse inutile, ma solo allora, si dovrà gioco forza ricorrere a
un metodo alternativo prelevando la foglia con il suo prezioso carico e trasferendola, senza farla
uscire dall’acqua, in un nido parto schermato con una fitta rete, all’interno dello stesso acquario:
qui avverrà la schiusa e qui le larve andranno inizialmente nutrite con l’acquariofilo che dovrà
sostituire i genitori rimuovendo le uova eventualmente non fecondate (quelle che diventano
bianco latte) e ventilandole con l’aiuto di una lieve corrente d’acqua o inserendo un areatore. Gli
scalari in ogni caso per alcuni mesi si riproducono con frequenza, anche ogni 20 giorni,
alternando queste fasi feconde ad altre di riposo. Prima di arrendersi e prelevare la foglia,
meglio attendere, anche a rischio di fare andare a male più di una covata. Se papà e mamma
inizieranno a darsi da fare la vostra pazienza sarà infatti largamente ripagata. Ve lo possiamo
garantire.
6/6