Progetto Ragazzi da Stimare Prof. A. Filonenko 18 gennaio 2016
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Progetto Ragazzi da Stimare Prof. A. Filonenko 18 gennaio 2016
Progetto Ragazzi da Stimare Prof. A. Filonenko 18 gennaio 2016 Educandato E. Setti Carraro Sala degli specchi Saluti di benvenuto del Rettore dell’Educandato prof. Ragusa Giorgio. Prof.ssa Luisa Francesca Amantia, Dirigente del Liceo Scientifico Statale Leonardo da Vinci. Buonasera a tutti. Vorrei innanzitutto ringraziare il rettore Giorgio Ragusa per l’ospitalità in questi locali molto accoglienti che danno più calore all’intervento del prof. Filonenko che ringrazio per essere nostro ospite. Come ben sapete il prof. Filonenko è un fisico nucleare che in seguito si è accostato con passione anche alla filosofia e ha completato il ciclo dei suoi studi scientifici con uno studio umanistico. Attualmente è un docente universitario in diverse università in Russia, in Ucraina e Bielorussia. E’ anche da apprezzare per la sua forte sensibilità e capacità di rivolgersi ai bisogni sociali. Nel 2011 ha fondato l’agenzia “Emmaus” che si occupa di recupero di ragazzi disagiati e disabili. E’ interessante averlo qui e che parli ai nostri genitori del Leonardo perché uno dei concetti che ho avuto modo di leggere nel suo libro “L’Oceano del mistero” è quello di amare la conoscenza, di svincolare la conoscenza o lo studio da qualsiasi ansia da prestazione ma di viverla con il senso del mistero, con la passione che deve cogliere ogni persona così da creare quella magia, quell’emozione che conduce ad affezionarsi così tanto che conoscere diventa un processo che non si ferma mai. Questo è un po’ quello che fanno i nostri docenti del Leonardo. Allora qual è l’invito ai genitori? Noi spesso valutiamo i ragazzi per quello che fanno, li spingiamo a conoscere per essere bravi nella società e occupare un posto prestigioso. Ma ciò che dobbiamo alimentare ora nei loro cuori è il gusto della conoscenza per sempre, un valore che deve rimanere sempre molto forte. Questo li appassionerà di più allo studio, li farà diventare più vincenti, li aiuterà ancora di più. Noi dobbiamo essere vicini ai nostri ragazzi in questi momenti così delicati in modo che siano più appassionati così che le conoscenze confluiscano anche nel sociale così come ci ha dimostrato il prof. Filonenko. Ringrazio anche la Prof.ssa Discoli che ci pregia sempre di validi interventi e le cedo la parola. Prof.ssa Discoli Questo appuntamento nasce da una lunga serie di incontri che in questi anni hanno addirittura cambiato titolo in modo piuttosto significativo. Una prima parte di questi incontri ha avuto come titolo “Genitori non si nasce” e poneva una sottolineatura sulla capacità dei genitori di svolgere il loro compito. Poi a seguito di un in incontro con uno psicoanalista molto interessante il titolo è stato cambiato in “Ragazzi da stimare”. Mi pare dunque che l’accento si sia spostato sullo sguardo dei genitori, cosa vuol dire che gli adulti guardano in un certo modo i loro figli e i loro studenti. Nel corso di questi ultimi anni, in particolar modo l’anno scorso, questi incontri hanno subito un’ulteriore modificazione. Nell’ ultimo incontro dello scorso anno abbiamo avuto come ospite la signora Gemma Capra Calabresi e il suo intervento ha avuto l’accento della testimonianza. Noi - dico noi perché questi incontri nascono da una collaborazione molto viva fra insegnanti e genitori - ci siamo accorti che la dimensione della testimonianza è quella che più ci interessa così come è quella che interessa di più i ragazzi. Con questo orizzonte pertanto è stato letto questo libro, “L’Oceano del mistero” del prof. Filonenko. Ciò che mi ha molto sorpreso e incuriosito è il percorso che lui ha fatto dalla fisica nucleare alla filosofia e alla teologia in una serie crescente di curiosità e anche di domande che si sono poste alla sua conoscenza e alla sua vita. Ma all’interno di questo libro molto nuovo, molto fresco io ho visto anche un percorso non solo culturale ma anche umano molto sorprendente, tanto che il professore ha fatto nascere, a causa di incontri fortuiti con due ragazze Lenia e Tanya, abbandonate in quelle che sono delle strutture post-sovietiche per cui, terminato il ciclo degli studi dell’obbligo, sarebbero dovute entrare in una casa di accoglienza per anziani,il professore, dicevo, ha pensato una casa di accoglienza che permette a queste ragazze, che adesso sono universitarie, di svolgere una vita non solo normale ma una vita in cui tutte le capacità vengano espresse. In questa casa Emmaus c’è anche una dimensione non solo educativa, non solo sociale ma anche culturale tanto che è nata l’associazione culturale “Dante” che si occupa di eventi culturali. Questo intersecarsi della dimensione culturale, educativa e, diciamo così in termini piuttosto generici, della solidarietà cioè dell’accoglienza dell’umano, mi pare che sia di grande interesse particolarmente per quello che sta accadendo al nostro mondo, per i nostri figli e per i nostri studenti. Infatti il titolo della serie di incontri è “Educazione come apertura alla realtà”; particolarmente questo incontro vuole avere come nodo centrale il seguente tema: “l’educazione è aiutare a scoprire la realtà”. Brevemente dico da dove nasce questo titolo. Nasce dall’osservazione e dalla convivenza che noi abbiamo con i nostri figli e con i nostri studenti per cui ci accorgiamo di un grande disagio, di un diffuso malessere in cui molto spesso nei ragazzi domina la paura di avvicinarsi alla realtà, ai drammi della realtà, alla difficoltà della realtà. Contemporaneamente in noi adulti, questo lo vediamo spesso nella scuola, c’è un fraintendimento di questo disagio che pensiamo nasca da motivi etici oppure psicologici. Per questo motivo nelle scuole fioriscono, anche sensatamente ma forse troppo unicamente, corsi sulla legalità, corsi di psicologia. Tuttavia il disagio rimane. Per questo motivo a me, a noi, pare necessario andare più a fondo di questo problema, particolarmente in un momento in cui la realtà si mostra così drammatica e in cui i giovani invece di essere tentati di difendersi e di ritirarsi dovrebbero cogliere il momento di lanciarsi di più nel mondo. Dunque la prima questione che ci pare di poter porre al prof. Filonenko è questa: da dove può ripartire la curiosità per la realtà? Prof. Filonenko Grazie mille e buona sera. In un certo senso l’opera dell’educazione è simile al lavoro di un giardiniere. Per questo quello che vorrei fare stasera è piantare due alberi. Penso che questi due alberi ci aiuteranno a rispondere alle domande che ci stiamo ponendo. Il primo albero voglio piantarlo all’inizio e il secondo sarà alla fine, se ci riuscirò. La prima storia che voglio raccontarvi è legata ad un fotografo molto famoso Boris Mikhailov di cui ieri ho scoperto che proprio in questi giorni a Napoli si svolge la prima mostra personale in Italia. E’ un fotografo contemporaneo, molto aggressivo, che ha avuto una vita già molto lunga e che una volta è stato testimone di un caso che fortunatamente ha documentato e che ora mostra come uno dei suoi progetti fotografici. Un giorno si trovava in una capitale europea per una mostra, che poi ha avuto un grande successo. Esce in strada dopo l’apertura della mostra e ad una fermata dell’autobus vede un uomo, una persona molto strana che aveva le mani e le braccia tutte rosse, di un rosso vivo. Quest’uomo aveva anche un volto molto serio. All’inizio il fotografo si è spaventato e si è messo a fotografarlo. Molto spesso la gente quando ha paura si comporta così. Solo alla fine si è reso conto di quello che stava accadendo. Quest’uomo con le mani rosse non era un assassino ma aveva comprato un sacchetto di ciliegie mature e si stava occupando di una cosa molto seria e che richiedeva una grande responsabilità. Quest’uomo era un pazzo: prendeva dal sacchetto una ciliegia, con le mani la spaccava a metà, toglieva dalla ciliegia il nocciolo, andava verso il cestino della spazzatura, buttava via il nocciolo, tornava alla fermata dell’autobus, prendeva la ciliegia senza nocciolo, andava verso un giardino, scavava la terra e piantava la ciliegia. Ha fatto questa operazione fino a che non ha piantato un chilo di ciliegie. Era un lavoro molto disciplinato e responsabile. Quell’uomo voleva piantare un giardino di ciliegie, nessun personaggio di Cechov ha piantato giardini in modo così serio! E lui l’ha fatto aspettandosi che il giardino sarebbe cresciuto. Ma non è cresciuto nulla. E quando Mikhailov ha visto tutta questa scena, chiaramente, da buon artista contemporaneo, ha avuto subito invidia di quel pazzo e ha compreso che quella era la formula della cultura contemporanea: noi siamo convinti di fare un lavoro grande, un lavoro molto responsabile, piantiamo un giardino e diventiamo tristi perché vediamo che da quel giardino non cresce niente. La domanda fondamentale e triste è quella sui noccioli: cosa sono questi noccioli che noi buttiamo via? E la cosa fondamentale è perché noi abbiamo ritenuto che fosse così importante buttare via quei noccioli. La domanda che mi ha posto la professoressa ci permette di guardare qual è il primo di questi noccioli che noi buttiamo via perché è vero che noi ci troviamo a vivere in un mondo in cui si ritiene che il valore fondamentale sia la stabilità. Non sono solo i ragazzi ad essere spaventati davanti al compito del successo. Anche per gli adulti è cosi’. Anche per gli adulti difendersi dal mondo è il primo punto. A noi sembra che nel migliore dei casi il mondo rispetto a noi sia neutrale e nel caso peggiore lo sentiamo come aggressivo. Il mondo per noi è sinonimo di provocazione che ci porta ad una distruzione. Quindi il compito della conoscenza consiste nel costruire una difesa efficace. E’ come se lo scopo del successo fosse legato a riuscire a costruire bene questo qualcosa che ci possa difendere. Quindi noi ci siamo trovati in una situazione in cui il compito della conoscenza è quello di garantire una stabilità e sentiamo il rischio come qualcosa di distruttivo. Ma tutte le cose più belle presuppongono un rischio e perciò è come se noi educassimo gente infelice, gente che già in partenza si è messa in posizione di difesa rispetto alla felicità. Vi racconto una storia. Io sono nato nel 1968 in Unione Sovietica, e ho frequentato una scuola molto ideologica. Un momento molto felice è accaduto durante una lezione di fisica. Ho capito in seguito che quello che è capitato a me era il destino comune della gente sovietica, cioè il destino di persone che erano divise, separate dalla realtà a causa dell’ideologia: in mezzo, tra l’uomo e la realtà, c’era l’ideologia. Perciò per noi la proposta di un rapporto vero con la realtà arrivava solo dalla scienza in un senso assolutamente elementare. Vi chiedo scusa perché farò un esempio molto elementare. Una volta a scuola è venuto a fare lezione un insegnante che non ci aspettavamo, perché era un prof. del liceo che era venuto a fare una supplenza alle medie. Dopo averci salutati ci ha fatto un gioco di prestigio: ha preso un bicchiere, l’ha riempito d’acqua, ci ha messo sopra un foglio di carta, ha girato il bicchiere, ha tolto la mano e il foglio è rimasto attaccato. Io, che in quel periodo amavo molto il circo, avevo deciso che lui era un prestigiatore. Ma era un bravo insegnante quindi ha chiamato una mia compagna di classe e ha chiesto a lei di ripetere la stessa operazione. Anche lei ci è riuscita e il foglio è rimasto attaccato. Io sapevo che questa mia compagna non era un prestigiatore. Quando sono tornato a casa pensavo che avevo già vissuto una vita lunga, avevo già fatto metà del percorso scolastico eppure non sapevo che un bicchiere aveva queste proprietà strane. Poi si è svolto un poema pedagogico. A casa, prima di mangiare, sono andato a verificare e l’esperimento è riuscito anche a me. Poi ho aspettato mia mamma, come mai mi era accaduto prima, per vedere che effetto avrebbe fatto su di lei. Ma mia mamma aveva molte ragioni serie per non guardare il mio esperimento. Aveva un grande senso del dovere per tutte le cose che aveva da fare ed è impressionante che per il nostro senso del dovere rinunciamo alla bellezza. Allora ho aspettato che tornasse mio padre che è tornato molto stanco e anche a lui ho detto che volevo fargli vedere una cosa molto interessante. Lui mi ha seguito ma dalla sua faccia si capiva che lo faceva perché doveva compiere il suo dovere di educatore. Mi ha seguito e poi ci sono stati alcuni istanti che per me significano moltissimo: io ho fatto tutto il mio lavoretto con il bicchiere e ad un tratto ho visto sul volto di mio padre uno stupore improvviso che non era riuscito a nascondere. Mi sono trovato davanti ad un uomo che aveva già vissuto mezzo secolo, che aveva vissuto la guerra, che aveva vissuto la carestia ma non sapeva che quel foglio non cadeva. Io in quel momento ho capito che la scienza era la cosa più bella che ci fosse al mondo perché ti permette di conoscere le proprietà di cose semplicissime che suscitano in te un’emozione, una commozione che puoi provare tutta la vita. Ad un certo punto mi hanno detto che c’era anche il modo di ricevere uno stipendio vivendo così: a 12 anni è un’informazione importante ed era per me come la promessa del paradiso. Ma non si può dire che tutti i miei insegnanti educassero a quello stupore. Adesso più io insegno più mi diventa evidente questo semplice paradosso dell’istruzione: solo lo stupore può rendere felice l’uomo ed è assolutamente certo che tutte le cose belle nascono, le riceviamo dallo stupore ma a scuola o in famiglia molto spesso accade che non solo lo stupore non è importante ma addirittura lo consideriamo una cosa che fa male, una cosa negativa che ci distrae da qualcosa di importante. Per me una tesi importantissima è che noi troppo facilmente rifiutiamo lo stupore, rinunciamo allo stupore. Per noi ciò che è importante è riuscire a tramandare, far passare una conoscenza, facendo fuori lo stupore. I nostri studenti riescono a passare non male gli esami, i risultati sono alti, quindi cosa manca alla nostra scuola? Niente! Ciò che manca sono occhi di persone stupite. Lo scrittore russo/americano Nabokov una volta disse che sono due le cose belle che esistono sulla terra e che entrambe queste cose sono rotonde: l’arena del circo e gli occhi di un bambino che per la prima volta vede l’arena del circo. Questi occhi spalancati per qualche ragione mancano. Vorrei raccontarvi una storia che è accaduta a Prato dove siamo stati invitati in una scuola a parlare della bellezza e dei martiri. Ci avevano detto che ci sarebbero stati due incontri prima sui martiri, poi sulla bellezza. Mentre andavo all’incontro dove avrei dovuto parlare dei martiri, ed ero convinto che avrei dovuto parlare in un liceo, ho saputo che non ci sarebbero stati solo studenti del liceo ma anche delle elementari. Mi sono trovato quindi davanti bambini molto piccoli a cui avrei dovuto parlare del gulag e ho dovuto cambiare molto in fretta quello che dovevo dire per raccontare quello che volevo raccontare ma senza parlare di Solzenicyn. Allora ho raccontato la storia d’amore tra gli uomini e i fiocchi di neve, una storia che è iniziata a Praga quando Keplero stava pensando a cosa avrebbe potuto regalare ad un amico per il suo compleanno. Questo amico era un politico di Praga che aveva tutto e diceva che l’unica cosa che amava era il niente. Allora Keplero decise di regalargli un trattato sui fiocchi di neve e camminando aveva proprio osservato un fiocco di neve che gli si era posato su una manica e così ha scritto il primo trattato di cristallografia per spiegare perché ogni fiocco di neve è fatto con sei raggi. Quindi in questo incontro io ho raccontato ai ragazzi storie diverse su come un contadino americano all’inizio del XX secolo ha iniziato a fotografare i fiocchi di neve e di come dopo un giapponese, durante la seconda guerra mondiale, invece di difendere la patria ha cercato di costruire due fiocchi di neve identici e ci è riuscito, di come poi cinquant’anni dopo un americano che non sapeva nulla di quel giapponese ha deciso anche lui di fare una produzione di fiocchi di neve identici. In quel momento è accaduto un avvenimento: in prima fila era seduto un ragazzino, aveva degli occhiali incredibili, è quello che da noi si direbbe un secchione, era seduto in modo scomposto e mi ascoltava attentissimo. Quando io ho detto che non solo questo americano costruisce fiocchi di neve identici ma che addirittura li vende su Internet quel ragazzino ha alzato subito la mano e senza aspettare che io gli dessi il permesso di fare la domanda mi ha chiesto: “Quanto costa?”. Io gli risposto che non lo ricordavo. Ha chiesto ancora dove poteva comprarli e gli io risposto che potevamo cercare il sito su Internet e che esiste anche un catalogo per ordinare un fiocco di neve personale che viene poi spedito a casa. Lui ha alzato di nuovo la mano per chiedere perché non si scioglie e io gli ho spiegato che lo mandano in un piccolo frigorifero che ha una pila. “Ma è vero?” ha chiesto. “E’ vero!” gli ho risposto Finito l’incontro siamo usciti in cortile a parlare con la Preside della scuola che ci ha detto che avrebbero dovuto riunire il Collegio docenti ma che avevano deciso di annullarlo perché l’unico punto all’ordine del giorno sarebbe stato quel ragazzino che aveva delle difficoltà per cui non riusciva a stare attento, ad ascoltare gli insegnanti; gli avevano dato persino il permesso di portare in classe il Lego e stava in un angolo a fare le costruzioni. In secondo luogo non l’avevano mai sentito fare una domanda alzando la mano in classe. Per me è stato un incontro molto vivo: si è vista molto bene la dinamica dello stupore ed è stato evidente quali sono le cose serie che sono prese dentro questa dinamica, si è visto bene a cosa noi rinunciamo quando rinunciamo allo stupore Prof.ssa Discoli Il professore ha terminato con queste “cose serie” con le quali mi pare abbia anche cominciato perché è interessante anche la dinamica del fotografo che si accorge e guarda con attenzione i movimenti e la figura di questo personaggio. Vorrei leggere un piccolo spunto tratto dal libro “L’Oceano del mistero” che parla del maestro Zusja (è una storia chassidica): “Zusja un uomo sempre molto allegro un giorno si mise a piangere a dirotto tanto che tutti i suoi amici provavano in tutti i modi a consolarlo cercando di capire perché fosse così disperato. Quando glielo chiesero lui rispose: “Perché tra poco morirò. Dio mi chiamerà a giudizio e mi chiederà una cosa a cui io non saprò rispondere”. “Ma cosa mai ti potrà chiedere? Perché non hai vissuto la vita di Mosè o la vita di Abramo?” “No”, disse “ io a queste domande so rispondere. Il problema è che non mi chiederà questo. Mi chiederà un’altra cosa a cui io non so rispondere. Mi dirà: Zusja perché non hai vissuto la vita di Zusja?”. E questa, dice l’autore, è una domanda incredibile perché l’uomo è una creatura così meravigliosa che può vivere una vita che non è la sua, esserne infelice e piangere per questo ma non sapere come fare per vivere la sua propria vita”. Mia pare che la domanda del bambino che lei dice essere stata un vero avvenimento sia la cosa veramente interessante. Cosa mette veramente in moto la domanda? Evidentemente non è solo perché la lezione è stata viva. Cosa mette in modo la domanda di un giovane così come anche la nostra così che possa ripartire il percorso di avvicinamento alla realtà? Prof. Filonenko Su questa storia del maestro Zusja vorrei solo aggiungere un dettaglio. Thomas Merton, un monaco cattolico dell’ordine dei trappisti, molto noto per i suoi libri, in un suo testo dà la definizione di santo: il santo è quell’uomo che è riuscito a vivere la sua propria vita. Allora se noi ci ricordiamo delle lacrime di Zusja questa definizione del santo di Merton è assolutamente stupefacente perché significa che riuscire a vivere la propria vita è altrettanto difficile che essere santi. D’altra parte significa anche che ciò che desideriamo di più è la santità. La domanda sulla autenticità della vita è: “come fare a vivere la nostra propria vita e non la vita di qualcun altro?”. Per qualche ragione questa domanda è andata perduta in modo tragico nelle nostre scuole, come se questa domanda non avesse a che fare con l’educazione. Ed è impressionante che quando io racconto questa storia del maestro Zusja in Università, agli studenti del primo anno, ci sono sempre ragazzi che conoscono queste lacrime. Può essere anche che tutta la filosofia nasca da queste lacrime. Se noi non ci rendiamo conto di come l’educazione nasca dalle lacrime di un uomo che piange perché non riesce a vivere la sua vita, le competenze professionali diventano un tormento, un martirio. In qualche modo dobbiamo riuscire a vedere quali sono quelle situazioni in cui si accende la nostra vita autentica. Questo lo si può mostrare in modi diversi. A me piace molto quello che accade nella lingua russa con la parola “coreografia”. La nostra lingua è una copia grammaticale della lingua greca perciò abbiamo delle corrispondenze precise con parole greche. La parola “coreo” viene tradotta con la parola “lic”. Per un uomo di oggi questa parola significa “volto” ma solo cento anni fa significava “assemblea di persone” o “coro”. C’è anche un terzo significato che ha a che fare con un verbo “licavat” che significa “gioire, esultare”. E’ molto strano che in una parola così breve, di tre lettere, siano contenuti tre campi semantici che apparentemente sembrano diversi. Un volto, una comunità e la gioia. Cosa hanno in comune queste tre cose? Quello che questi tre significati hanno in comune è la risposta alle lacrime di Zusja perché è la risposta alla domanda di come faccio io a riconoscere me stesso. Io non vedo mai qual è il mio vero volto; quando mi guardo allo specchio non vedo il mio vero volto, ma se riesco ad incontrare un’altra persona e io faccio l’esperienza delle gioia con l’altro, l’altro che mi guarda in quel momento vede come emerge il mio vero volto e ne diventa testimone. Ne esce qualcosa di assolutamente impressionante: la cosa più cara per me, il mio proprio volto, è invisibile a me stesso e il testimone dell’esistenza del mio volto è l’altro che vede la mia gioia. Tutto questo è compreso nella radice greca “coreo” . Quando sentiamo la parola coreografia per qualche ragione ci immaginiamo che si tratti della scienza della danza ma in senso stretto è la scienza sulla modalità di esprimere la gioia, qualcuno lo fa danzando, qualcuno cantando, qualcuno guardando fuori dalla finestra in silenzio. Ma è comunque coreografia. In un certo senso questa coreografia è la risposta alle lacrime di Zusja. Faccio l’esempio più importante per me. E’ una storia che è accaduta nella mia città ad una mia conoscente, professoressa di filosofia, una donna quasi cieca che ha deciso di prendere una seconda specializzazione ed è diventata una delle intervistatrici della Fondazione Spielberg costituita dopo il Film “Schindler’s list” per registrare tutte le storie delle persone che erano state testimoni o vittime dell’Olocausto. E’ questo un lavoro molto organizzato professionalmente, tanto che questa mia conoscente, per avere la qualificazione di intervistatrice, aveva dovuto lavorare a lungo. Poi ha registrato tantissime interviste. E tra le sue interviste ci sono storie che ormai sono famosissime ma alcune sono talmente brevi che le ha raccontate solo agli amici e ora sono io che le racconto a tutti ogni volta che ne ho la possibilità, perché sono storie incredibili. Questa donna è venuta a Kharkov, le aveva dato un indirizzo un cameraman, e così aveva conosciuto una donna che era sopravvissuta all’Olocausto. L’intervista è la più breve che abbia mai fatto perché la donna non aveva quasi nulla da dire: quando i tedeschi erano arrivati a Kharkov lei era molto piccola, avevano scoperto in fretta che la sua famiglia era ebrea, avevano chiuso la loro casa. Sua mamma aveva avuto l’intuizione di mettere la bimba in un sottoscala, un posto molto umido e quando i tedeschi hanno bruciato la casa con dentro tutti la sua famiglia è stata bruciata viva. Lei è l’unica che è sopravvissuta. Per questo ha risposto che non aveva nulla da dire. Solo che dal quel giorno non riusciva più a sentire l’odore della carne bruciata. Poi aveva avuto una vita molto tragica, aveva seppellito tutti i suoi famigliari. Ed era invalida. Allora l’intervistatrice le ha chiesto: “Ma lei ha qualche desiderio?”, la donna le ha risposto che ne aveva uno solo: morire il più presto possibile. A questo punto l’intervista si sarebbe dovuta concludere ma le due donne hanno continuato a parlare e ad un certo punto l’intervistatrice ha chiesto: “Non è possibile che nella sua vita non ci sia stato niente di gioioso. Quando era piccola non ci sono stati dei momenti di festa?” E lei ha risposto che certamente c’erano stati dei momenti come il compleanno o il Capodanno e ha aggiunto: “Se proprio devo essere onesta un desiderio ce l’avrei, ma è un desiderio assolutamente irrealizzabile. Riguarda la cosa che davvero mi dispiace: mi dispiace non ricordarmi il volto di mia madre. Mia madre è stata l’unica persona che mi abbia amata e io non mi ricordo il suo volto. E vorrei ricordarmelo.” Quindi l’intervistatrice le ha chiesto: “Quando era piccola le facevano dei regali?”, lei ha risposto: “Sì, per il mio compleanno mia mamma una volta mia ha regalato delle babbucce che aveva fatto lei a maglia, molto belle”. Allora l’intervistatrice le chiesto: “Si ricorda il momento in cui le ha viste, quando gliele ha regalate?”, “Si me lo ricordo bene. Mia mamma mi aveva fatto sedere su una seggiolina e me le ha infilate lei”. “Ma come ha fatto? Era in piedi, era seduta?”, “Semplicemente si è messa in ginocchio, mi ha infilato le scarpine e mi chiedeva se mi andavano bene”. Mentre parlavano ad un certo punto si è interrotta e dopo qualche istante le ha detto: “Mi sono ricordata il volto”. Queste due donne poi sono diventate amiche e questa sopravvissuta ha sempre avuto una grande gratitudine per l’intervistatrice perché grazie a lei aveva potuto ricordare il volto della madre. Questa storia ha dentro una ricchezza fenomenale. A me ha spiegato cosa io desidero dalla storia come scienza: perché è come se quella storica fosse una conoscenza molto tecnica, ma se ci chiediamo perché la studiamo, la risposta abituale è molto stupida: studiamo la storia perché queste “cose” non si ripetano mai più e queste “cose” possono essere diversissime tra loro. Questa è una risposta molto triste. Con l’età però capiamo che la conoscenza della storia non ci aiuta a realizzare questo compito . Nel 2014 io speravo che si ricordasse l’anno storico dell’inizio della prima Guerra mondiale e una settimana prima che scoppiasse la guerra in Ucraina io non mi sarei mai potuto immaginare che la memoria della prima Guerra mondiale avrebbe coinciso con la guerra nel mio paese. Perciò quella è una risposta che non va bene circa le ragioni per cui noi studiamo la storia. Ma la storia di queste due donne anziane mi ha convinto: noi iniziamo un’avventura di conoscenza a partire da un rapporto molto particolare tra di noi. Questa storia ci porta sulla soglia di qualche cosa che è lo scopo ultimo. Cosa vogliamo davvero dalla storia? Ciò che desidereremmo è il miracolo della restituzione di un volto. Si può dire il restituire i volti alla storia. Ed è molto bello vedere come la conoscenza e la compassione ci restituiscono questo bisogno di un volto. E’ interessante invece vedere che nella teoria della conoscenza contemporanea non ci sono volti. Si puo’ studiare fisica all’università, anche cinque anni interi e non aver mai visto il ritratto di Rutherford:ci sembra che quello sia solo il nome di una legge fisica. Non sappiamo che era un uomo alto, testardo, non sappiamo nulla di tutte le sue avventure. Qualsiasi insegnante di fisica vi dirà: “A cosa servono queste avventure? A noi serve la teoria dell’idrogeno”. Ma è impressionante che la scienza abbia perso i suoi volti. I volti sono stati persi anche nella sociologia. Nella storia gli unici volti che sono conservati sono quelli spiacevoli. E’ facilissimo da verificare, è un test che funziona anche in Italia. Se noi mettiamo insieme un gruppo di persone e chiediamo: “A quali volti, persone, si associa per voi l’anno 1953”? C’è sempre qualcuno che risponde: è l’anno della morte di Stalin. Allora qualcuno chiede se magari in quell’anno c’è stato qualcun altro. Ad esempio proprio lo stesso giorno è morto un grandissimo compositore, nella stessa città, Mosca, e il fatto che sia morto lo stesso giorno di Stalin ha creato non pochi problemi. E’ stato l’unico, grande compositore che è stato sepolto senza fiori perché tutti erano stati portati a Stalin. E’ Prokofiev. E nessuno ricorda il 1953 come l’anno della morte di Prokofiev. Come se la bellezza valesse meno della paura. Questo è il prezzo dei volti. A me sembra che nell’educazione ricercare il volto e recuperare il volto in ogni scienza, in ogni disciplina, sia un compito affatto banale che ha a che fare sia con lo stupore sia con la scoperta del mio proprio volto. Prof.ssa Discoli Aprirei alle domande con una sola precisazione, anche se mi pare che quanto esposto sia piuttosto chiaro. Per noi in Italia la parola “compassione” è un po’ ambigua. Forse vale la pena che venga suggerita nel suo valore ultimo. Possiamo mettere più a fuoco l’incidenza della compassione nella conoscenza e quindi nell’educazione così seguiamo meglio e con più incisività. Prof. Filonenko Oggi siamo stati a Lecco a visitare il castello dell’Innominato e sono stato spettatore di un vero miracolo. Ci ha accompagnato un signore anziano che ci ha detto che avremmo raggiunto a piedi il castello accompagnati dalla lettura di brani di Manzoni. Pensavo che scherzasse. Pensavo che avrebbe letto alcuni aforismi, che ci avrebbe raccontato delle storie. Ma non l’ha fatto. Ha dato a tutti i partecipanti i testi con la traduzione in russo e ha letto dei brani lunghissimi. Leggeva immedesimandosi nei personaggi. Non avevo mai visto una cosa così. Quando i miei figli erano piccoli, desideravo di saper leggere così per loro ma tutte le volte che ci ho provato poi loro non riuscivano ad addormentarsi. Per farli dormire dovevo leggere in modo noioso. Invece visto che il compito del signore che ci accompagnava non era quello di farci addormentare, leggeva con una soddisfazione immensa. Io seguivo con il testo russo. Ad un certo punto mentre lui leggeva io mi sono reso conto di quanto per Manzoni fosse importante la parola “compassione”. L’ho sentita ripetuta da tutte queste voci diverse, quella dell’Innominato, quella di Lucia. La cosa più importante che mi è rimasta in mente, sono addirittura pronto a farmi un tatuaggio, è che l’unica cosa che si può paragonare alla compassione è la paura. E’ una cosa che dice il Nibbio. Questo punto è importante per il nostro tema. Noi siamo partiti dal tema della paura. Sembra che non ci sia niente di più forte della paura. Ma, ad un certo punto, ti rendi conto che solo questa cosa così strana che è la compassione fa uscire l’uomo dalla paura. Per l’uomo di oggi sembra che questa tesi sia fuori moda come quel lettore di stamane. E’ stato impressionante vedere così attenti i ragazzi che erano con noi. Oggi sembra che la compassione sia intesa da tanta gente semplicemente come l’accendersi ad un livello emotivo, emozionale. Tale scatto quindi disturba la conoscenza o almeno non aiuta la conoscenza. Dobbiamo essere ironici, dobbiamo riuscire a tenere una distanza altrimenti diventiamo un po’ stupidi, iniziamo a piangere e non riusciamo ad imparare. Per me è molto importante argomentare il fatto che nella educazione c’è un grande problema: pensiamo che a scuola la prima cosa sono le conoscenze in secondo ordine ci sono l’educazione e la compassione. Noi educhiamo degli esperti di conoscenze, ovviamente non è male per noi se i nostri ragazzi poi sono capaci di provare compassione, ma questa è una cosa in più. Dunque è molto importante vedere che in una buona educazione, in una corretta istruzione la tesi che funziona è esattamente quella opposta. Cioè, senza coltivare la compassione è impossibile educare un uomo, un uomo che conosca, che sia in grado di conoscere. E’ una tesi che oggi si vende a caro prezzo, che deve essere difesa perché è come se tutto ci dicesse che dobbiamo essere oggettivi. Ma questa oggettività già da molto tempo non ha nulla a che fare con la fisica ma ha a che fare con l’indifferenza. Come se oggi non potessimo più permetterci il lusso di provare compassione. Per questo dico solo due parole su Rizzolatti, neurofisiologo italiano. Di lui dico solo ciò che per me è importante non dimenticare. E’ lo scienziato che negli anni ’90 a Parma ha scoperto i neuroni a specchio. E’ una storia molto bella sulle fondamenta biologiche della compassione. I suoi colleghi a Parma avevano imparato ad osservare quei neuroni che si attivavano nelle scimmie quando provavano dolore, quando soffrivano. Quando qualcuno faceva provare dolore ad una di queste scimmie si vedeva che si attivavano alcuni neuroni in un certo punto del cervello che non era mai stato interessante per i grandi scienziati. Ma poi si è visto che a quella stessa scimmia, che osservava un’altra scimmia, a cui stavano causando lo stesso identico dolore fisico, (ad esempio le tagliavano un dito ) si attivavano gli stessi identici neuroni che si erano attivati quando era lei stessa a provare dolore. Quindi a livello dei neuroni la sofferenza e il compatire, il soffrire per un altro, sono garantiti, sono serviti dagli stessi identici neuroni. E’ stata una cosa impressionante e allora gli scienziati hanno cominciato a cercare quei neuroni nell’uomo. E’ stato scoperto che nell’uomo questi neuroni sono più numerosi che nelle scimmie. Si è scoperto che a questa funzione della compassione sono legate le nostre capacità comunicative e il pensiero. Ad esempio c’è un’ipotesi, anche se non è ancora stato studiato fino in fondo, che l’autismo abbia a che fare con il difettoso funzionamento di questi neuroni a specchio mentre tutto il resto funzionerebbe. Per arrivare ad una conclusione la tesi è molto semplice. La funzione base del nostro rapporto con il mondo è la capacità di compassione su cui si costruiscono le nostre capacità di linguaggio e di pensiero. Questo è esattamente l’opposto rispetto a quell’approccio che per qualche ragione ha iniziato a trionfare negli studi di pedagogia degli anni ’90 e che ancora oggi si sente in modo molto forte. Allora si riteneva che per essere in grado di risolvere dei problemi si dovesse essere ironici e tenere una distanza. Adesso ci rendiamo conto che è esattamente il contrario e che se noi vogliamo formare un uomo che sia in grado di conoscere dobbiamo iniziare coltivando la compassione. Mi sembra che sia proprio uno dei più profondi ribaltamenti degli ultimi vent’anni. Domande dal pubblico D. Forse la compassione fa paura perché implica l’empatia, il soffrire un po’ insieme all’altro. R. E’ chiaro che soffrire è una cosa spiacevole ma uno dei lati più belli della nostra esperienza è che le lacrime di gioia e le lacrime di dolore sono le stesse lacrime. Il problema è quando noi cerchiamo di tenere distinte queste lacrime. Grazie alle nostre avventure italiane ho conosciuto una ragazza che ha iniziato ad assumere narcotici quando aveva 14 anni. Un giorno è scappata di casa, è salita su un treno senza sapere dove andava e si è addormentata. Come spesso succedeva è stata svegliata da un poliziotto che la stava arrestando. Tutto questo è accaduto a Pesaro. Poi abbiamo parlato a lungo di come lei fosse riuscita a liberarsi dalla dipendenza dalla droga. Ciò che mi aveva colpito di più era il suo racconto di come aveva cominciato a drogarsi. Veniva dall’Albania ed era stata adottata da una famiglia italiana gioiosa e felice di Salò. Ad un certo punto il padre di quella famiglia è morto e la mamma era assolutamente inconsolabile e non riusciva a celare in nessun modo questa sua sofferenza. Questa ragazza ha descritto l’inizio del suo cammino con la droga in modo molto semplice. Mi ha detto: “Un giorno, quando avevo 14 anni, ho deciso di essere felice”. E per lei, in quel momento, quella decisione significava non soffrire. Lei non sapeva cosa volesse dire essere felice , lei pensava che avrebbe raggiunto questo scopo di essere felice se fosse fuggita dalla sofferenza. E nei racconti della sua vita questo si vede benissimo. La vera tragedia accade quando noi vogliamo separare la felicità dalla sofferenza. Noi rinunciamo all’amore perché sappiamo che nell’amore c’è sempre sofferenza. Noi rinunciamo all’amicizia perché sappiamo che ci sarà la morte e sicuramente soffriremo. Nell’uomo contemporaneo rinunciare alla sofferenza, che a prima vista sembra la strada alla felicità, in realtà è l’inizio di un movimento che va in senso opposto. Allora bisogna capire come fare a muoversi in un altro modo. Per fare un esempio parafraserò dei versi. C’è una meravigliosa poetessa russa contemporanea Olga Sedakova, famosa in Italia non meno che in Russia e la poesia di cui voglio parlare adesso esiste tradotta in Italiano. Questa poesia si intitola “L’angelo di Reims”. Si tratta di un angelo che si trova sulla cattedrale di Reims e che è sopravvissuto a molti secoli. Durante la seconda guerra mondiale è stato in parte distrutto e sorride. In questa poesia parla l’angelo che guarda l’uomo di oggi e gli dice: “Sei pronto?” ed elenca cose su cui non chiede nulla. Dice: “Non ti sto chiedendo se sei pronto alla guerra, alla carestia, se sei pronto ad un terremoto, ad un’alluvione”. L’unica domanda seria è: “Sei pronto ad una felicità incredibile?” e per qualche ragione questa domanda è molto più seria che non la domanda se siamo pronti per una guerra. Senza coltivare la compassione noi non possiamo essere pronti ad una felicità incredibile. D. Sono rimasta molto colpita da questo binomio misericordia e stupore, lo sguardo di stupore del bambino; infatti guardando me e la realtà che mi circonda a livello mondiale colgo una grande fatica e vedo che ciò che ci circonda ha delle sfumature grigie. Chiedo: se la vita è un connubio tra responsabilità e compassione, questa compassione da chi ci viene? Viene da noi o ci viene chiesta? Ci viene data? E come si fa in una situazione così faticosa a mantenere uno sguardo di luce, lo sguardo pieno di stupore del bambino? R. Il problema non è che noi non abbiamo compassione ma il problema è che a noi sembra che ci siano cose più importanti. Allora noi mettiamo temporaneamente da parte la compassione per occuparci delle cose che sono più importanti. Vi racconto una storia che in un certo senso mette insieme tutte le storie e ho promesso di raccontarla. E’ una storia sui trattori. E’ una storia vera. Una mia conoscente è una brava mamma e suo figlio quando aveva 5 anni aveva con lei un rapporto molto tenero. Un giorno questa mamma capisce che era tanto tempo che non rivedeva le sue compagne di scuola. Decidono di vedersi e vanno insieme al bar. Lei è molto stupita dalle sue amiche che avevano anche loro dei bambini. Il dialogo tra queste mamme era un po’ così: “La mia bambina ha un talento musicale e studierà violino” e un’altra diceva: “Il mio bambino è un artista”. Tutte le mamme parlavano di queste cose e la mia amica diventava sempre più triste perché si rendeva conto che non aveva nemmeno mai chiesto a suo figlio chi volesse diventare da grande. Si era persa qualcosa per strada. Quando torna a casa gli chiede: “Tu chi vuoi diventare?” e lui le risponde: “Posso pensarci un attimo?” e lei pensa: “Grazie a Dio un bambino normale!”. Contenta di questa risposta va a fare le sue cose ma dopo un po’ di tempo il bambino torna e le dice: “Ci ho pensato. Ho capito che da grande voglio fare il trattorista” e lei dice: “Oh che bel lavoro! Perché proprio un trattorista?”. Il bambino risponde: “Perché quando sarò un trattorista mi daranno un grande trattore, potrò lavorare sulle strade e finalmente comprenderò il mistero dell’universo”. Questa capacità di un bambini di fare il nesso tra il sogno di un trattore e come è costruito l’universo è qualcosa che per qualche ragione noi perdiamo. L’uomo adulto per qualche ragione riesce a distinguere il lavorare sul trattore dalla conoscenza dell’universo. Al lavoro noi ci stanchiamo mentre conoscere l’universo ci rende contenti ma di conoscere l’universo non ci rimane il tempo. Questa capacità di porre una divisione tra il trattore e l’universo è legata al problema della compassione. In Russia abbiamo il libro di un meraviglioso insegnante di letteratura che aveva chiesto ai bambini della scuola elementare di scrivere delle lettere a Dio. E’ importante notare che il nostro è un paese ateo, abbiamo avuto 70 anni di lotta dello Stato contro la Chiesa. Perciò quando i bambini iniziano a parlare di Dio gli adulti non sono mai pronti. I discorsi su Dio dei bambini nel nostro paese sono molto ingenui. Ad esempio un bambino scrive una lettera a Dio: “Oggi a scuola ci hanno detto che Tu esisti. Buongiorno”. Un altro scrive: “Quando io vedo una donna da sola mi viene vergogna per Te”. Alcune di queste frasi sono davvero grandi soprattutto quando da un bambino viene fuori la preghiera più vera. Questi bambini non vengono da famiglie religiose, cristiane. Una bimba di 8 anni scrive: “Non voglio andare né in paradiso né all’inferno, voglio venire da Te”. Tra queste lettere ce n’è una che mi piace molto, ho paura che abbia a che fare con una realtà troppo ucraina ma spero che capiate quello che voglio dire. Una bimba scrive: “Signore perché tu hai fatto il mondo così che mia mamma quando le si rompono le calze piange?”. Questa capacità di fare il nesso tra il Creatore di tutto con le lacrime di sua mamma per una sciocchezza è una cosa assolutamente fondamentale. Noi sempre operiamo questa divisione, separiamo queste due parti. Questa divisione che noi facciamo non è mai a vantaggio della misericordia, della compassione. Per educare alla compassione dobbiamo ritornare a quel punto primo. Quando con gli amici di Emmaus abbiamo iniziato ad andare negli orfanotrofi nessuno di noi era un esperto ma i ragazzi che abbiamo incontrato avevano un destino tale che non riuscivamo a reggere i loro racconti. Ed è diventata chiara una cosa incredibile: quando un adulto vuole aiutare un bambino in situazioni catastrofiche, come quelle che sono gli orfanotrofi in Ucraina, porta tutta la sua vita e gli sembra di portare tantissimo. Quando arriva da questo bambino si accorge che tutta la sua vita non è abbastanza e per l’adulto quello è un momento molto drammatico. Tu sei pronto a tutto ma quel tutto risulta essere una cosa molto piccola, non è abbastanza. Ma cosa è abbastanza? Ci siamo accorti che l’unica cosa che si può portare è qualcosa che sia molto più grande di se stessi. Io posso portare le cose che davvero stupiscono me. Allora ci si può incontrare. Ci si può incontrare solo portando negli occhi la memoria della bellezza. Questo è molto importante per capire qual è l’origine, la sorgente della compassione, dello stupore e dell’incontro con la bellezza. D. Lei ci ha portato a livelli altissimi ma volevo tornare ad argomenti apparentemente banali ma che alla fine sono fondamentali visto che questa è una riunione di genitori di un liceo. Io non so se in Ucraina i programmi ministeriali della scuola siano come quelli italiani ma faccio fatica a vedere i temi della compassione nei nostri programmi ministeriali. Ho due figli uno in seconda e una in quinta e ho la sensazione, condivisa con altri genitori, che i nostri figli siano visti come dei contenitori. Il nostro lavoro principale come genitori è l’educazione dei nostri figli ma loro passano molto tempo a scuola. Ciò che le chiedo è: in che modo la scuola in generale, ma anche gli insegnanti, possono tradurre il tema della compassione avendo a disposizione questi programmi ministeriali? Esiste a suo parere una guida fondamentale che dovrebbero seguire i docenti in questa fase? La nostra parte di genitori mi è chiara. R. Chiedo scusa per la brevità della risposta. Il tema della compassione non è un tema in più da aggiungere ai programmi, non è che dobbiamo aggiungere una disciplina. In ogni materia, in ogni disciplina abbiamo bisogno di tornare all’origine, all’inizio. Cos’è questo inizio? Qualsiasi conoscenza, compresa la matematica, nasce dallo stupore. Se anche quando facciamo lezione di matematica non torniamo allo stupore da cui è nata, lo studente non potrà capirla davvero e sarà condannato ad essere infelice. Qualsiasi conoscenza che io trasmetto deve tornare a quel principio che l’ha originata. Un uomo stupito si vede sempre, non riesce a celare la sua gioia. E’ la stessa cosa che ci capita quando vediamo due persone innamorate per strada. Quando vedrete vostro figlio felice per una lezione di biologia significherà che sta imparando bene la biologia, vorrà dire che è tornato a quello stupore. La seconda cosa assolutamente grandiosa è legata a ciò che accade ai ragazzi al di fuori del confine della famiglia e della scuola: il problema dello stupore e della bellezza è che a noi sembra che si tratti di cose molto fragili. Un bambino non sa che lo stupore e la bellezza sono per lui il cammino alla felicità, ha bisogno di certezza, ha bisogno che delle persone adulte gli dicano: “Dai, vai, guarda come è bello! Non avere paura, fai matematica per tre anni!”. Il nostro compito di educatori e di insegnanti è quello di dare ai ragazzi coraggio, di mettere la bellezza al primo posto della loro vita. Ma per noi è molto difficile perché molto spesso non è così per noi e questo è un problema vero perché sono gli adulti a non assomigliare a degli uomini stupiti. Noi abbiamo solo una modalità per rispondere alla nostra preoccupazione sulla vita dei nostri figli fuori dai confini della famiglia: dobbiamo noi per primi conservare, custodire in noi stessi questo coraggio di vivere della bellezza. Se noi stessi non riusciamo a farlo questo diventa il problema più grande e dobbiamo ricominciare tutto da capo. E’ per questo che mi ha così impressionato l’esperienza di questo gruppo di genitori della vostra scuola. Ci siamo incontrati quasi per caso. Io non riuscivo a capire che cosa fosse questa strana compagnia che mi ero trovato davanti. Dopo un po’ di tempo ho capito che si trattava di persone adulte che prendevano seriamente la sfida della felicità dei loro figli . Ed era paradossale perché non era gente che si ritrovava per pensare a come aiutare i ragazzi ma che si trovava per pensare come aiutare se stessi. Per me questo è stato un esempio impressionante. Prof.ssa Discoli Vorrei sottolineare quello che ha detto il professore perché ogni volta che ci incontriamo, benché siano solo due volte l’anno, è sempre un passo ulteriore. In questa immensa provocazione che è stata questa relazione ci sia la possibilità per tutti, fra noi genitori e anche fra noi insegnanti – per la prima volta tra noi questa sera ci sono diversi insegnanti – ci sia la possibilità di un inizio di lavoro proprio sul nodo che è stato colto questa sera: che la grande sfida è all’adulto. Se non ci sono adulti liberi e felici di quello che vivono e studiano non è possibile tirar su delle personalità coraggiose e innamorate della vita. Vi do l’avviso per il prossimo incontro. Sarà sempre qui, il 19 febbraio alle 20.45. Abbiamo invitato un professore di lingua araba, Wael Farouq, che ha visto nascere attorno a sé un gruppo vario di ragazzi di nazionalità, tradizioni e radici diverse. Ne parlava il Corriere della Sera qualche settimana fa, si chiama SWAP (Solidarietà, condivisione con ogni uomo). Questo relatore può ulteriormente aiutarci in questo percorso di concezione di educazione come apertura alla realtà in modo particolare come possibilità di aiutare ognuno dei nostri ragazzi a diventare protagonista. Buonasera e grazie tantissimo a tutti. (Appunti non rivisti dal relatore)