Progetto Ragazzi da Stimare Prof. A. Filonenko 18 gennaio 2016

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Progetto Ragazzi da Stimare Prof. A. Filonenko 18 gennaio 2016
Progetto Ragazzi da Stimare
Prof. A. Filonenko
18 gennaio 2016
Educandato E. Setti Carraro
Sala degli specchi
Saluti di benvenuto del Rettore dell’Educandato prof. Ragusa Giorgio.
Prof.ssa Luisa Francesca Amantia, Dirigente del Liceo Scientifico
Statale Leonardo da Vinci.
Buonasera a tutti.
Vorrei innanzitutto ringraziare il rettore Giorgio Ragusa per
l’ospitalità in questi locali molto accoglienti che danno più calore
all’intervento del prof. Filonenko che ringrazio per essere nostro
ospite.
Come ben sapete il prof. Filonenko è un fisico nucleare che in seguito
si è accostato con passione anche alla filosofia e ha completato il ciclo
dei suoi studi scientifici con uno studio umanistico. Attualmente è un
docente universitario in diverse università in Russia, in Ucraina e
Bielorussia.
E’ anche da apprezzare per la sua forte sensibilità e capacità di
rivolgersi ai bisogni sociali. Nel 2011 ha fondato l’agenzia “Emmaus”
che si occupa di recupero di ragazzi disagiati e disabili.
E’ interessante averlo qui e che parli ai nostri genitori del Leonardo
perché uno dei concetti che ho avuto modo di leggere nel suo libro
“L’Oceano del mistero” è quello di amare la conoscenza, di svincolare
la conoscenza o lo studio da qualsiasi ansia da prestazione ma di
viverla con il senso del mistero, con la passione che deve cogliere ogni
persona così da creare quella magia, quell’emozione che conduce ad
affezionarsi così tanto che conoscere diventa un processo che non si
ferma mai. Questo è un po’ quello che fanno i nostri docenti del
Leonardo.
Allora qual è l’invito ai genitori? Noi spesso valutiamo i ragazzi per
quello che fanno, li spingiamo a conoscere per essere bravi nella
società e occupare un posto prestigioso. Ma ciò che dobbiamo
alimentare ora nei loro cuori è il gusto della conoscenza per sempre,
un valore che deve rimanere sempre molto forte. Questo li
appassionerà di più allo studio, li farà diventare più vincenti, li aiuterà
ancora di più. Noi dobbiamo essere vicini ai nostri ragazzi in questi
momenti così delicati in modo che siano più appassionati così che le
conoscenze confluiscano anche nel sociale così come ci ha dimostrato
il prof. Filonenko.
Ringrazio anche la Prof.ssa Discoli che ci pregia sempre di validi
interventi e le cedo la parola.
Prof.ssa Discoli
Questo appuntamento nasce da una lunga serie di incontri che in
questi anni hanno addirittura cambiato titolo in modo piuttosto
significativo. Una prima parte di questi incontri ha avuto come titolo
“Genitori non si nasce” e poneva una sottolineatura sulla capacità dei
genitori di svolgere il loro compito. Poi a seguito di un in incontro con
uno psicoanalista molto interessante il titolo è stato cambiato in
“Ragazzi da stimare”. Mi pare dunque che l’accento si sia spostato
sullo sguardo dei genitori, cosa vuol dire che gli adulti guardano in un
certo modo i loro figli e i loro studenti. Nel corso di questi ultimi anni,
in particolar modo l’anno scorso, questi incontri hanno subito
un’ulteriore modificazione. Nell’ ultimo incontro dello scorso anno
abbiamo avuto come ospite la signora Gemma Capra Calabresi e il suo
intervento ha avuto l’accento della testimonianza.
Noi - dico noi perché questi incontri nascono da una collaborazione
molto viva fra insegnanti e genitori - ci siamo accorti che la
dimensione della testimonianza è quella che più ci interessa così come
è quella che interessa di più i ragazzi.
Con questo orizzonte pertanto è stato letto questo libro, “L’Oceano del
mistero” del prof. Filonenko.
Ciò che mi ha molto sorpreso e incuriosito è il percorso che lui ha fatto
dalla fisica nucleare alla filosofia e alla teologia in una serie crescente
di curiosità e anche di domande che si sono poste alla sua conoscenza
e alla sua vita. Ma all’interno di questo libro molto nuovo, molto fresco
io ho visto anche un percorso non solo culturale ma anche umano
molto sorprendente, tanto che il professore ha fatto nascere, a causa di
incontri fortuiti con due ragazze Lenia e Tanya, abbandonate in
quelle che sono delle strutture post-sovietiche per cui, terminato il
ciclo degli studi dell’obbligo, sarebbero dovute entrare in una casa di
accoglienza per anziani,il professore, dicevo, ha pensato una casa di
accoglienza che permette a queste ragazze, che adesso sono
universitarie, di svolgere una vita non solo normale ma una vita in cui
tutte le capacità vengano espresse. In questa casa Emmaus c’è anche
una dimensione non solo educativa, non solo sociale ma anche
culturale tanto che è nata l’associazione culturale “Dante” che si
occupa di eventi culturali.
Questo intersecarsi della dimensione culturale, educativa e, diciamo
così in termini piuttosto generici, della solidarietà cioè
dell’accoglienza dell’umano, mi pare che sia di grande interesse
particolarmente per quello che sta accadendo al nostro mondo, per i
nostri figli e per i nostri studenti.
Infatti il titolo della serie di incontri è “Educazione come apertura alla
realtà”; particolarmente questo incontro vuole avere come nodo
centrale il seguente tema: “l’educazione è aiutare a scoprire la realtà”.
Brevemente dico da dove nasce questo titolo. Nasce dall’osservazione
e dalla convivenza che noi abbiamo con i nostri figli e con i nostri
studenti per cui ci accorgiamo di un grande disagio, di un diffuso
malessere in cui molto spesso nei ragazzi domina la paura di
avvicinarsi alla realtà, ai drammi della realtà, alla difficoltà della realtà.
Contemporaneamente in noi adulti, questo lo vediamo spesso nella
scuola, c’è un fraintendimento di questo disagio che pensiamo nasca
da motivi etici oppure psicologici. Per questo motivo nelle scuole
fioriscono, anche sensatamente ma forse troppo unicamente, corsi
sulla legalità, corsi di psicologia. Tuttavia il disagio rimane. Per questo
motivo a me, a noi, pare necessario andare più a fondo di questo
problema, particolarmente in un momento in cui la realtà si mostra
così drammatica e in cui i giovani invece di essere tentati di difendersi
e di ritirarsi dovrebbero cogliere il momento di lanciarsi di più nel
mondo.
Dunque la prima questione che ci pare di poter porre al prof.
Filonenko è questa: da dove può ripartire la curiosità per la realtà?
Prof. Filonenko
Grazie mille e buona sera.
In un certo senso l’opera dell’educazione è simile al lavoro di un
giardiniere. Per questo quello che vorrei fare stasera è piantare due
alberi. Penso che questi due alberi ci aiuteranno a rispondere alle
domande che ci stiamo ponendo. Il primo albero voglio piantarlo
all’inizio e il secondo sarà alla fine, se ci riuscirò.
La prima storia che voglio raccontarvi è legata ad un fotografo molto
famoso Boris Mikhailov di cui ieri ho scoperto che proprio in questi
giorni a Napoli si svolge la prima mostra personale in Italia. E’ un
fotografo contemporaneo, molto aggressivo, che ha avuto una vita già
molto lunga e che una volta è stato testimone di un caso che
fortunatamente ha documentato e che ora mostra come uno dei suoi
progetti fotografici.
Un giorno si trovava in una capitale europea per una mostra, che poi
ha avuto un grande successo. Esce in strada dopo l’apertura della
mostra e ad una fermata dell’autobus vede un uomo, una persona
molto strana che aveva le mani e le braccia tutte rosse, di un rosso
vivo. Quest’uomo aveva anche un volto molto serio. All’inizio il
fotografo si è spaventato e si è messo a fotografarlo. Molto spesso la
gente quando ha paura si comporta così. Solo alla fine si è reso conto
di quello che stava accadendo. Quest’uomo con le mani rosse non era
un assassino ma aveva comprato un sacchetto di ciliegie mature e si
stava occupando di una cosa molto seria e che richiedeva una grande
responsabilità. Quest’uomo era un pazzo: prendeva dal sacchetto una
ciliegia, con le mani la spaccava a metà, toglieva dalla ciliegia il
nocciolo, andava verso il cestino della spazzatura, buttava via il
nocciolo, tornava alla fermata dell’autobus, prendeva la ciliegia senza
nocciolo, andava verso un giardino, scavava la terra e piantava la
ciliegia. Ha fatto questa operazione fino a che non ha piantato un chilo
di ciliegie. Era un lavoro molto disciplinato e responsabile. Quell’uomo
voleva piantare un giardino di ciliegie, nessun personaggio di Cechov
ha piantato giardini in modo così serio! E lui l’ha fatto aspettandosi
che il giardino sarebbe cresciuto. Ma non è cresciuto nulla. E quando
Mikhailov ha visto tutta questa scena, chiaramente, da buon artista
contemporaneo, ha avuto subito invidia di quel pazzo e ha compreso
che quella era la formula della cultura contemporanea: noi siamo
convinti di fare un lavoro grande, un lavoro molto responsabile,
piantiamo un giardino e diventiamo tristi perché vediamo che da quel
giardino non cresce niente. La domanda fondamentale e triste è quella
sui noccioli: cosa sono questi noccioli che noi buttiamo via? E la cosa
fondamentale è perché noi abbiamo ritenuto che fosse così importante
buttare via quei noccioli.
La domanda che mi ha posto la professoressa ci permette di guardare
qual è il primo di questi noccioli che noi buttiamo via perché è vero
che noi ci troviamo a vivere in un mondo in cui si ritiene che il valore
fondamentale sia la stabilità. Non sono solo i ragazzi ad essere
spaventati davanti al compito del successo. Anche per gli adulti è cosi’.
Anche per gli adulti difendersi dal mondo è il primo punto. A noi
sembra che nel migliore dei casi il mondo rispetto a noi sia neutrale e
nel caso peggiore lo sentiamo come aggressivo. Il mondo per noi è
sinonimo di provocazione che ci porta ad una distruzione. Quindi il
compito della conoscenza consiste nel costruire una difesa efficace. E’
come se lo scopo del successo fosse legato a riuscire a costruire bene
questo qualcosa che ci possa difendere. Quindi noi ci siamo trovati in
una situazione in cui il compito della conoscenza è quello di garantire
una stabilità e sentiamo il rischio come qualcosa di distruttivo. Ma
tutte le cose più belle presuppongono un rischio e perciò è come se noi
educassimo gente infelice, gente che già in partenza si è messa in
posizione di difesa rispetto alla felicità.
Vi racconto una storia.
Io sono nato nel 1968 in Unione Sovietica, e ho frequentato una scuola
molto ideologica. Un momento molto felice è accaduto durante una
lezione di fisica. Ho capito in seguito che quello che è capitato a me era
il destino comune della gente sovietica, cioè il destino di persone che
erano divise, separate dalla realtà a causa dell’ideologia: in mezzo, tra
l’uomo e la realtà, c’era l’ideologia. Perciò per noi la proposta di un
rapporto vero con la realtà arrivava solo dalla scienza in un senso
assolutamente elementare. Vi chiedo scusa perché farò un esempio
molto elementare. Una volta a scuola è venuto a fare lezione un
insegnante che non ci aspettavamo, perché era un prof. del liceo che
era venuto a fare una supplenza alle medie. Dopo averci salutati ci ha
fatto un gioco di prestigio: ha preso un bicchiere, l’ha riempito
d’acqua, ci ha messo sopra un foglio di carta, ha girato il bicchiere, ha
tolto la mano e il foglio è rimasto attaccato. Io, che in quel periodo
amavo molto il circo, avevo deciso che lui era un prestigiatore. Ma era
un bravo insegnante quindi ha chiamato una mia compagna di classe e
ha chiesto a lei di ripetere la stessa operazione. Anche lei ci è riuscita e
il foglio è rimasto attaccato. Io sapevo che questa mia compagna non
era un prestigiatore. Quando sono tornato a casa pensavo che avevo
già vissuto una vita lunga, avevo già fatto metà del percorso scolastico
eppure non sapevo che un bicchiere aveva queste proprietà strane.
Poi si è svolto un poema pedagogico. A casa, prima di mangiare, sono
andato a verificare e l’esperimento è riuscito anche a me. Poi ho
aspettato mia mamma, come mai mi era accaduto prima, per vedere
che effetto avrebbe fatto su di lei. Ma mia mamma aveva molte ragioni
serie per non guardare il mio esperimento. Aveva un grande senso del
dovere per tutte le cose che aveva da fare ed è impressionante che per
il nostro senso del dovere rinunciamo alla bellezza. Allora ho aspettato
che tornasse mio padre che è tornato molto stanco e anche a lui ho
detto che volevo fargli vedere una cosa molto interessante. Lui mi ha
seguito ma dalla sua faccia si capiva che lo faceva perché doveva
compiere il suo dovere di educatore. Mi ha seguito e poi ci sono stati
alcuni istanti che per me significano moltissimo: io ho fatto tutto il mio
lavoretto con il bicchiere e ad un tratto ho visto sul volto di mio padre
uno stupore improvviso che non era riuscito a nascondere. Mi sono
trovato davanti ad un uomo che aveva già vissuto mezzo secolo, che
aveva vissuto la guerra, che aveva vissuto la carestia ma non sapeva
che quel foglio non cadeva. Io in quel momento ho capito che la
scienza era la cosa più bella che ci fosse al mondo perché ti permette
di conoscere le proprietà di cose semplicissime che suscitano in te
un’emozione, una commozione che puoi provare tutta la vita.
Ad un certo punto mi hanno detto che c’era anche il modo di ricevere
uno stipendio vivendo così: a 12 anni è un’informazione importante ed
era per me come la promessa del paradiso.
Ma non si può dire che tutti i miei insegnanti educassero a quello
stupore. Adesso più io insegno più mi diventa evidente questo
semplice paradosso dell’istruzione: solo lo stupore può rendere felice
l’uomo ed è assolutamente certo che tutte le cose belle nascono, le
riceviamo dallo stupore ma a scuola o in famiglia molto spesso accade
che non solo lo stupore non è importante ma addirittura lo
consideriamo una cosa che fa male, una cosa negativa che ci distrae da
qualcosa di importante. Per me una tesi importantissima è che noi
troppo facilmente rifiutiamo lo stupore, rinunciamo allo stupore. Per
noi ciò che è importante è riuscire a tramandare, far passare una
conoscenza, facendo fuori lo stupore. I nostri studenti riescono a
passare non male gli esami, i risultati sono alti, quindi cosa manca alla
nostra scuola? Niente!
Ciò che manca sono occhi di persone stupite.
Lo scrittore russo/americano Nabokov una volta disse che sono due le
cose belle che esistono sulla terra e che entrambe queste cose sono
rotonde: l’arena del circo e gli occhi di un bambino che per la prima
volta vede l’arena del circo.
Questi occhi spalancati per qualche ragione mancano.
Vorrei raccontarvi una storia che è accaduta a Prato dove siamo stati
invitati in una scuola a parlare della bellezza e dei martiri. Ci avevano
detto che ci sarebbero stati due incontri prima sui martiri, poi sulla
bellezza. Mentre andavo all’incontro dove avrei dovuto parlare dei
martiri, ed ero convinto che avrei dovuto parlare in un liceo, ho saputo
che non ci sarebbero stati solo studenti del liceo ma anche delle
elementari. Mi sono trovato quindi davanti bambini molto piccoli a cui
avrei dovuto parlare del gulag e ho dovuto cambiare molto in fretta
quello che dovevo dire per raccontare quello che volevo raccontare
ma senza parlare di Solzenicyn. Allora ho raccontato la storia d’amore
tra gli uomini e i fiocchi di neve, una storia che è iniziata a Praga
quando Keplero stava pensando a cosa avrebbe potuto regalare ad un
amico per il suo compleanno. Questo amico era un politico di Praga
che aveva tutto e diceva che l’unica cosa che amava era il niente. Allora
Keplero decise di regalargli un trattato sui fiocchi di neve e
camminando aveva proprio osservato un fiocco di neve che gli si era
posato su una manica e così ha scritto il primo trattato di
cristallografia per spiegare perché ogni fiocco di neve è fatto con sei
raggi. Quindi in questo incontro io ho raccontato ai ragazzi storie
diverse su come un contadino americano all’inizio del XX secolo ha
iniziato a fotografare i fiocchi di neve e di come dopo un giapponese,
durante la seconda guerra mondiale, invece di difendere la patria ha
cercato di costruire due fiocchi di neve identici e ci è riuscito, di come
poi cinquant’anni dopo un americano che non sapeva nulla di quel
giapponese ha deciso anche lui di fare una produzione di fiocchi di
neve identici. In quel momento è accaduto un avvenimento: in prima
fila era seduto un ragazzino, aveva degli occhiali incredibili, è quello
che da noi si direbbe un secchione, era seduto in modo scomposto e mi
ascoltava attentissimo. Quando io ho detto che non solo questo
americano costruisce fiocchi di neve identici ma che addirittura li
vende su Internet quel ragazzino ha alzato subito la mano e senza
aspettare che io gli dessi il permesso di fare la domanda mi ha chiesto:
“Quanto costa?”. Io gli risposto che non lo ricordavo. Ha chiesto ancora
dove poteva comprarli e gli io risposto che potevamo cercare il sito su
Internet e che esiste anche un catalogo per ordinare un fiocco di neve
personale che viene poi spedito a casa. Lui ha alzato di nuovo la mano
per chiedere perché non si scioglie e io gli ho spiegato che lo mandano
in un piccolo frigorifero che ha una pila.
“Ma è vero?” ha chiesto. “E’ vero!” gli ho risposto
Finito l’incontro siamo usciti in cortile a parlare con la Preside della
scuola che ci ha detto che avrebbero dovuto riunire il Collegio docenti
ma che avevano deciso di annullarlo perché l’unico punto all’ordine
del giorno sarebbe stato quel ragazzino che aveva delle difficoltà per
cui non riusciva a stare attento, ad ascoltare gli insegnanti; gli avevano
dato persino il permesso di portare in classe il Lego e stava in un
angolo a fare le costruzioni. In secondo luogo non l’avevano mai
sentito fare una domanda alzando la mano in classe.
Per me è stato un incontro molto vivo: si è vista molto bene la
dinamica dello stupore ed è stato evidente quali sono le cose serie che
sono prese dentro questa dinamica, si è visto bene a cosa noi
rinunciamo quando rinunciamo allo stupore
Prof.ssa Discoli
Il professore ha terminato con queste “cose serie” con le quali mi pare
abbia anche cominciato perché è interessante anche la dinamica del
fotografo che si accorge e guarda con attenzione i movimenti e la
figura di questo personaggio. Vorrei leggere un piccolo spunto tratto
dal libro “L’Oceano del mistero” che parla del maestro Zusja (è una
storia chassidica): “Zusja un uomo sempre molto allegro un giorno si
mise a piangere a dirotto tanto che tutti i suoi amici provavano in tutti
i modi a consolarlo cercando di capire perché fosse così disperato.
Quando glielo chiesero lui rispose: “Perché tra poco morirò. Dio mi
chiamerà a giudizio e mi chiederà una cosa a cui io non saprò
rispondere”. “Ma cosa mai ti potrà chiedere? Perché non hai vissuto la
vita di Mosè o la vita di Abramo?” “No”, disse “ io a queste domande so
rispondere. Il problema è che non mi chiederà questo. Mi chiederà
un’altra cosa a cui io non so rispondere. Mi dirà: Zusja perché non hai
vissuto la vita di Zusja?”. E questa, dice l’autore, è una domanda
incredibile perché l’uomo è una creatura così meravigliosa che può
vivere una vita che non è la sua, esserne infelice e piangere per questo
ma non sapere come fare per vivere la sua propria vita”.
Mia pare che la domanda del bambino che lei dice essere stata un vero
avvenimento sia la cosa veramente interessante. Cosa mette
veramente in moto la domanda? Evidentemente non è solo perché la
lezione è stata viva. Cosa mette in modo la domanda di un giovane così
come anche la nostra così che possa ripartire il percorso di
avvicinamento alla realtà?
Prof. Filonenko
Su questa storia del maestro Zusja vorrei solo aggiungere un dettaglio.
Thomas Merton, un monaco cattolico dell’ordine dei trappisti, molto
noto per i suoi libri, in un suo testo dà la definizione di santo: il santo è
quell’uomo che è riuscito a vivere la sua propria vita. Allora se noi ci
ricordiamo delle lacrime di Zusja questa definizione del santo di
Merton è assolutamente stupefacente perché significa che riuscire a
vivere la propria vita è altrettanto difficile che essere santi. D’altra
parte significa anche che ciò che desideriamo di più è la santità. La
domanda sulla autenticità della vita è: “come fare a vivere la nostra
propria vita e non la vita di qualcun altro?”.
Per qualche ragione questa domanda è andata perduta in modo
tragico nelle nostre scuole, come se questa domanda non avesse a che
fare con l’educazione.
Ed è impressionante che quando io racconto questa storia del maestro
Zusja in Università, agli studenti del primo anno, ci sono sempre
ragazzi che conoscono queste lacrime. Può essere anche che tutta la
filosofia nasca da queste lacrime. Se noi non ci rendiamo conto di
come l’educazione nasca dalle lacrime di un uomo che piange perché
non riesce a vivere la sua vita, le competenze professionali diventano
un tormento, un martirio.
In qualche modo dobbiamo riuscire a vedere quali sono quelle
situazioni in cui si accende la nostra vita autentica. Questo lo si può
mostrare in modi diversi.
A me piace molto quello che accade nella lingua russa con la parola
“coreografia”. La nostra lingua è una copia grammaticale della lingua
greca perciò abbiamo delle corrispondenze precise con parole greche.
La parola “coreo” viene tradotta con la parola “lic”. Per un uomo di
oggi questa parola significa “volto” ma solo cento anni fa significava
“assemblea di persone” o “coro”. C’è anche un terzo significato che ha
a che fare con un verbo “licavat” che significa “gioire, esultare”. E’
molto strano che in una parola così breve, di tre lettere, siano
contenuti tre campi semantici che apparentemente sembrano diversi.
Un volto, una comunità e la gioia.
Cosa hanno in comune queste tre cose? Quello che questi tre significati
hanno in comune è la risposta alle lacrime di Zusja perché è la risposta
alla domanda di come faccio io a riconoscere me stesso. Io non vedo
mai qual è il mio vero volto; quando mi guardo allo specchio non vedo
il mio vero volto, ma se riesco ad incontrare un’altra persona e io
faccio l’esperienza delle gioia con l’altro, l’altro che mi guarda in quel
momento vede come emerge il mio vero volto e ne diventa testimone.
Ne esce qualcosa di assolutamente impressionante: la cosa più cara
per me, il mio proprio volto, è invisibile a me stesso e il testimone
dell’esistenza del mio volto è l’altro che vede la mia gioia. Tutto questo
è compreso nella radice greca “coreo” . Quando sentiamo la parola
coreografia per qualche ragione ci immaginiamo che si tratti della
scienza della danza ma in senso stretto è la scienza sulla modalità di
esprimere la gioia, qualcuno lo fa danzando, qualcuno cantando,
qualcuno guardando fuori dalla finestra in silenzio. Ma è comunque
coreografia. In un certo senso questa coreografia è la risposta alle
lacrime di Zusja.
Faccio l’esempio più importante per me.
E’ una storia che è accaduta nella mia città ad una mia conoscente,
professoressa di filosofia, una donna quasi cieca che ha deciso di
prendere una seconda specializzazione ed è diventata una delle
intervistatrici della Fondazione Spielberg costituita dopo il Film
“Schindler’s list” per registrare tutte le storie delle persone che erano
state testimoni o vittime dell’Olocausto. E’ questo un lavoro molto
organizzato professionalmente, tanto che questa mia conoscente, per
avere la qualificazione di intervistatrice, aveva dovuto lavorare a
lungo. Poi ha registrato tantissime interviste. E tra le sue interviste ci
sono storie che ormai sono famosissime ma alcune sono talmente
brevi che le ha raccontate solo agli amici e ora sono io che le racconto
a tutti ogni volta che ne ho la possibilità, perché sono storie incredibili.
Questa donna è venuta a Kharkov, le aveva dato un indirizzo un
cameraman, e così aveva conosciuto una donna che era sopravvissuta
all’Olocausto. L’intervista è la più breve che abbia mai fatto perché la
donna non aveva quasi nulla da dire: quando i tedeschi erano arrivati
a Kharkov lei era molto piccola, avevano scoperto in fretta che la sua
famiglia era ebrea, avevano chiuso la loro casa. Sua mamma aveva
avuto l’intuizione di mettere la bimba in un sottoscala, un posto molto
umido e quando i tedeschi hanno bruciato la casa con dentro tutti la
sua famiglia è stata bruciata viva. Lei è l’unica che è sopravvissuta. Per
questo ha risposto che non aveva nulla da dire. Solo che dal quel
giorno non riusciva più a sentire l’odore della carne bruciata. Poi
aveva avuto una vita molto tragica, aveva seppellito tutti i suoi
famigliari. Ed era invalida. Allora l’intervistatrice le ha chiesto: “Ma lei
ha qualche desiderio?”, la donna le ha risposto che ne aveva uno solo:
morire il più presto possibile. A questo punto l’intervista si sarebbe
dovuta concludere ma le due donne hanno continuato a parlare e ad
un certo punto l’intervistatrice ha chiesto: “Non è possibile che nella
sua vita non ci sia stato niente di gioioso. Quando era piccola non ci
sono stati dei momenti di festa?” E lei ha risposto che certamente
c’erano stati dei momenti come il compleanno o il Capodanno e ha
aggiunto: “Se proprio devo essere onesta un desiderio ce l’avrei, ma è
un desiderio assolutamente irrealizzabile. Riguarda la cosa che
davvero mi dispiace: mi dispiace non ricordarmi il volto di mia madre.
Mia madre è stata l’unica persona che mi abbia amata e io non mi
ricordo il suo volto. E vorrei ricordarmelo.” Quindi l’intervistatrice le
ha chiesto: “Quando era piccola le facevano dei regali?”, lei ha risposto:
“Sì, per il mio compleanno mia mamma una volta mia ha regalato delle
babbucce che aveva fatto lei a maglia, molto belle”. Allora
l’intervistatrice le chiesto: “Si ricorda il momento in cui le ha viste,
quando gliele ha regalate?”, “Si me lo ricordo bene. Mia mamma mi
aveva fatto sedere su una seggiolina e me le ha infilate lei”. “Ma come
ha fatto? Era in piedi, era seduta?”, “Semplicemente si è messa in
ginocchio, mi ha infilato le scarpine e mi chiedeva se mi andavano
bene”. Mentre parlavano ad un certo punto si è interrotta e dopo
qualche istante le ha detto: “Mi sono ricordata il volto”.
Queste due donne poi sono diventate amiche e questa sopravvissuta
ha sempre avuto una grande gratitudine per l’intervistatrice perché
grazie a lei aveva potuto ricordare il volto della madre.
Questa storia ha dentro una ricchezza fenomenale. A me ha spiegato
cosa io desidero dalla storia come scienza: perché è come se quella
storica fosse una conoscenza molto tecnica, ma se ci chiediamo perché
la studiamo, la risposta abituale è molto stupida: studiamo la storia
perché queste “cose” non si ripetano mai più e queste “cose” possono
essere diversissime tra loro. Questa è una risposta molto triste. Con
l’età però capiamo che la conoscenza della storia non ci aiuta a
realizzare questo compito .
Nel 2014 io speravo che si ricordasse l’anno storico dell’inizio della
prima Guerra mondiale e una settimana prima che scoppiasse la
guerra in Ucraina io non mi sarei mai potuto immaginare che la
memoria della prima Guerra mondiale avrebbe coinciso con la guerra
nel mio paese. Perciò quella è una risposta che non va bene circa le
ragioni per cui noi studiamo la storia.
Ma la storia di queste due donne anziane mi ha convinto: noi iniziamo
un’avventura di conoscenza a partire da un rapporto molto particolare
tra di noi. Questa storia ci porta sulla soglia di qualche cosa che è lo
scopo ultimo.
Cosa vogliamo davvero dalla storia? Ciò che desidereremmo è il
miracolo della restituzione di un volto. Si può dire il restituire i volti
alla storia. Ed è molto bello vedere come la conoscenza e la
compassione ci restituiscono questo bisogno di un volto. E’
interessante invece vedere che nella teoria della conoscenza
contemporanea non ci sono volti.
Si puo’ studiare fisica all’università, anche cinque anni interi e non
aver mai visto il ritratto di Rutherford:ci sembra che quello sia solo il
nome di una legge fisica. Non sappiamo che era un uomo alto,
testardo, non sappiamo nulla di tutte le sue avventure. Qualsiasi
insegnante di fisica vi dirà: “A cosa servono queste avventure? A noi
serve la teoria dell’idrogeno”.
Ma è impressionante che la scienza abbia perso i suoi volti.
I volti sono stati persi anche nella sociologia. Nella storia gli unici volti
che sono conservati sono quelli spiacevoli. E’ facilissimo da verificare,
è un test che funziona anche in Italia. Se noi mettiamo insieme un
gruppo di persone e chiediamo: “A quali volti, persone, si associa per
voi l’anno 1953”? C’è sempre qualcuno che risponde: è l’anno della
morte di Stalin. Allora qualcuno chiede se magari in quell’anno c’è
stato qualcun altro. Ad esempio proprio lo stesso giorno è morto un
grandissimo compositore, nella stessa città, Mosca, e il fatto che sia
morto lo stesso giorno di Stalin ha creato non pochi problemi. E’ stato
l’unico, grande compositore che è stato sepolto senza fiori perché tutti
erano stati portati a Stalin. E’ Prokofiev. E nessuno ricorda il 1953
come l’anno della morte di Prokofiev.
Come se la bellezza valesse meno della paura.
Questo è il prezzo dei volti.
A me sembra che nell’educazione ricercare il volto e recuperare il
volto in ogni scienza, in ogni disciplina, sia un compito affatto banale
che ha a che fare sia con lo stupore sia con la scoperta del mio proprio
volto.
Prof.ssa Discoli
Aprirei alle domande con una sola precisazione, anche se mi pare che
quanto esposto sia piuttosto chiaro.
Per noi in Italia la parola “compassione” è un po’ ambigua. Forse vale
la pena che venga suggerita nel suo valore ultimo. Possiamo mettere
più a fuoco l’incidenza della compassione nella conoscenza e quindi
nell’educazione così seguiamo meglio e con più incisività.
Prof. Filonenko
Oggi siamo stati a Lecco a visitare il castello dell’Innominato e sono
stato spettatore di un vero miracolo. Ci ha accompagnato un signore
anziano che ci ha detto che avremmo raggiunto a piedi il castello
accompagnati dalla lettura di brani di Manzoni. Pensavo che
scherzasse. Pensavo che avrebbe letto alcuni aforismi, che ci avrebbe
raccontato delle storie. Ma non l’ha fatto. Ha dato a tutti i partecipanti i
testi con la traduzione in russo e ha letto dei brani lunghissimi.
Leggeva immedesimandosi nei personaggi. Non avevo mai visto una
cosa così. Quando i miei figli erano piccoli, desideravo di saper leggere
così per loro ma tutte le volte che ci ho provato poi loro non
riuscivano ad addormentarsi. Per farli dormire dovevo leggere in
modo noioso. Invece visto che il compito del signore che ci
accompagnava non era quello di farci addormentare, leggeva con una
soddisfazione immensa. Io seguivo con il testo russo.
Ad un certo punto mentre lui leggeva io mi sono reso conto di quanto
per Manzoni fosse importante la parola “compassione”. L’ho sentita
ripetuta da tutte queste voci diverse, quella dell’Innominato, quella di
Lucia.
La cosa più importante che mi è rimasta in mente, sono addirittura
pronto a farmi un tatuaggio, è che l’unica cosa che si può paragonare
alla compassione è la paura. E’ una cosa che dice il Nibbio.
Questo punto è importante per il nostro tema.
Noi siamo partiti dal tema della paura. Sembra che non ci sia niente di
più forte della paura. Ma, ad un certo punto, ti rendi conto che solo
questa cosa così strana che è la compassione fa uscire l’uomo dalla
paura. Per l’uomo di oggi sembra che questa tesi sia fuori moda come
quel lettore di stamane.
E’ stato impressionante vedere così attenti i ragazzi che erano con noi.
Oggi sembra che la compassione sia intesa da tanta gente
semplicemente come l’accendersi ad un livello emotivo, emozionale.
Tale scatto quindi disturba la conoscenza o almeno non aiuta la
conoscenza. Dobbiamo essere ironici, dobbiamo riuscire a tenere una
distanza altrimenti diventiamo un po’ stupidi, iniziamo a piangere e
non riusciamo ad imparare.
Per me è molto importante argomentare il fatto che nella educazione
c’è un grande problema: pensiamo che a scuola la prima cosa sono le
conoscenze in secondo ordine ci sono l’educazione e la compassione.
Noi educhiamo degli esperti di conoscenze, ovviamente non è male
per noi se i nostri ragazzi poi sono capaci di provare compassione, ma
questa è una cosa in più. Dunque è molto importante vedere che in
una buona educazione, in una corretta istruzione la tesi che funziona è
esattamente quella opposta. Cioè, senza coltivare la compassione è
impossibile educare un uomo, un uomo che conosca, che sia in grado
di conoscere. E’ una tesi che oggi si vende a caro prezzo, che deve
essere difesa perché è come se tutto ci dicesse che dobbiamo essere
oggettivi. Ma questa oggettività già da molto tempo non ha nulla a che
fare con la fisica ma ha a che fare con l’indifferenza. Come se oggi non
potessimo più permetterci il lusso di provare compassione.
Per questo dico solo due parole su Rizzolatti, neurofisiologo italiano.
Di lui dico solo ciò che per me è importante non dimenticare. E’ lo
scienziato che negli anni ’90 a Parma ha scoperto i neuroni a specchio.
E’ una storia molto bella sulle fondamenta biologiche della
compassione. I suoi colleghi a Parma avevano imparato ad osservare
quei neuroni che si attivavano nelle scimmie quando provavano
dolore, quando soffrivano. Quando qualcuno faceva provare dolore ad
una di queste scimmie si vedeva che si attivavano alcuni neuroni in un
certo punto del cervello che non era mai stato interessante per i
grandi scienziati. Ma poi si è visto che a quella stessa scimmia, che
osservava un’altra scimmia, a cui stavano causando lo stesso identico
dolore fisico, (ad esempio le tagliavano un dito ) si attivavano gli stessi
identici neuroni che si erano attivati quando era lei stessa a provare
dolore. Quindi a livello dei neuroni la sofferenza e il compatire, il
soffrire per un altro, sono garantiti, sono serviti dagli stessi identici
neuroni. E’ stata una cosa impressionante e allora gli scienziati hanno
cominciato a cercare quei neuroni nell’uomo. E’ stato scoperto che
nell’uomo questi neuroni sono più numerosi che nelle scimmie. Si è
scoperto che a questa funzione della compassione sono legate le
nostre capacità comunicative e il pensiero. Ad esempio c’è un’ipotesi,
anche se non è ancora stato studiato fino in fondo, che l’autismo abbia
a che fare con il difettoso funzionamento di questi neuroni a specchio
mentre tutto il resto funzionerebbe.
Per arrivare ad una conclusione la tesi è molto semplice. La funzione
base del nostro rapporto con il mondo è la capacità di compassione su
cui si costruiscono le nostre capacità di linguaggio e di pensiero.
Questo è esattamente l’opposto rispetto a quell’approccio che per
qualche ragione ha iniziato a trionfare negli studi di pedagogia degli
anni ’90 e che ancora oggi si sente in modo molto forte. Allora si
riteneva che per essere in grado di risolvere dei problemi si dovesse
essere ironici e tenere una distanza. Adesso ci rendiamo conto che è
esattamente il contrario e che se noi vogliamo formare un uomo che
sia in grado di conoscere dobbiamo iniziare coltivando la
compassione. Mi sembra che sia proprio uno dei più profondi
ribaltamenti degli ultimi vent’anni.
Domande dal pubblico
D. Forse la compassione fa paura perché implica l’empatia, il soffrire
un po’ insieme all’altro.
R. E’ chiaro che soffrire è una cosa spiacevole ma uno dei lati più belli
della nostra esperienza è che le lacrime di gioia e le lacrime di dolore
sono le stesse lacrime. Il problema è quando noi cerchiamo di tenere
distinte queste lacrime.
Grazie alle nostre avventure italiane ho conosciuto una ragazza che ha
iniziato ad assumere narcotici quando aveva 14 anni. Un giorno è
scappata di casa, è salita su un treno senza sapere dove andava e si è
addormentata. Come spesso succedeva è stata svegliata da un
poliziotto che la stava arrestando. Tutto questo è accaduto a Pesaro.
Poi abbiamo parlato a lungo di come lei fosse riuscita a liberarsi dalla
dipendenza dalla droga.
Ciò che mi aveva colpito di più era il suo racconto di come aveva
cominciato a drogarsi. Veniva dall’Albania ed era stata adottata da una
famiglia italiana gioiosa e felice di Salò. Ad un certo punto il padre di
quella famiglia è morto e la mamma era assolutamente inconsolabile e
non riusciva a celare in nessun modo questa sua sofferenza. Questa
ragazza ha descritto l’inizio del suo cammino con la droga in modo
molto semplice. Mi ha detto: “Un giorno, quando avevo 14 anni, ho
deciso di essere felice”. E per lei, in quel momento, quella decisione
significava non soffrire. Lei non sapeva cosa volesse dire essere felice ,
lei pensava che avrebbe raggiunto questo scopo di essere felice se
fosse fuggita dalla sofferenza. E nei racconti della sua vita questo si
vede benissimo.
La vera tragedia accade quando noi vogliamo separare la felicità dalla
sofferenza.
Noi rinunciamo all’amore perché sappiamo che nell’amore c’è sempre
sofferenza. Noi rinunciamo all’amicizia perché sappiamo che ci sarà la
morte e sicuramente soffriremo. Nell’uomo contemporaneo rinunciare
alla sofferenza, che a prima vista sembra la strada alla felicità, in realtà
è l’inizio di un movimento che va in senso opposto.
Allora bisogna capire come fare a muoversi in un altro modo.
Per fare un esempio parafraserò dei versi.
C’è una meravigliosa poetessa russa contemporanea Olga Sedakova,
famosa in Italia non meno che in Russia e la poesia di cui voglio
parlare adesso esiste tradotta in Italiano.
Questa poesia si intitola “L’angelo di Reims”.
Si tratta di un angelo che si trova sulla cattedrale di Reims e che è
sopravvissuto a molti secoli. Durante la seconda guerra mondiale è
stato in parte distrutto e sorride. In questa poesia parla l’angelo che
guarda l’uomo di oggi e gli dice: “Sei pronto?” ed elenca cose su cui
non chiede nulla. Dice: “Non ti sto chiedendo se sei pronto alla guerra,
alla carestia, se sei pronto ad un terremoto, ad un’alluvione”. L’unica
domanda seria è: “Sei pronto ad una felicità incredibile?” e per qualche
ragione questa domanda è molto più seria che non la domanda se
siamo pronti per una guerra.
Senza coltivare la compassione noi non possiamo essere pronti ad una
felicità incredibile.
D. Sono rimasta molto colpita da questo binomio misericordia e
stupore, lo sguardo di stupore del bambino; infatti guardando me e la
realtà che mi circonda a livello mondiale colgo una grande fatica e
vedo che ciò che ci circonda ha delle sfumature grigie. Chiedo: se la
vita è un connubio tra responsabilità e compassione, questa
compassione da chi ci viene? Viene da noi o ci viene chiesta? Ci viene
data? E come si fa in una situazione così faticosa a mantenere uno
sguardo di luce, lo sguardo pieno di stupore del bambino?
R. Il problema non è che noi non abbiamo compassione ma il problema
è che a noi sembra che ci siano cose più importanti. Allora noi
mettiamo temporaneamente da parte la compassione per occuparci
delle cose che sono più importanti.
Vi racconto una storia che in un certo senso mette insieme tutte le
storie e ho promesso di raccontarla. E’ una storia sui trattori. E’ una
storia vera.
Una mia conoscente è una brava mamma e suo figlio quando aveva 5
anni aveva con lei un rapporto molto tenero. Un giorno questa
mamma capisce che era tanto tempo che non rivedeva le sue
compagne di scuola. Decidono di vedersi e vanno insieme al bar. Lei è
molto stupita dalle sue amiche che avevano anche loro dei bambini. Il
dialogo tra queste mamme era un po’ così: “La mia bambina ha un
talento musicale e studierà violino” e un’altra diceva: “Il mio bambino
è un artista”. Tutte le mamme parlavano di queste cose e la mia amica
diventava sempre più triste perché si rendeva conto che non aveva
nemmeno mai chiesto a suo figlio chi volesse diventare da grande. Si
era persa qualcosa per strada. Quando torna a casa gli chiede: “Tu chi
vuoi diventare?” e lui le risponde: “Posso pensarci un attimo?” e lei
pensa: “Grazie a Dio un bambino normale!”. Contenta di questa
risposta va a fare le sue cose ma dopo un po’ di tempo il bambino
torna e le dice: “Ci ho pensato. Ho capito che da grande voglio fare il
trattorista” e lei dice: “Oh che bel lavoro! Perché proprio un
trattorista?”. Il bambino risponde: “Perché quando sarò un trattorista
mi daranno un grande trattore, potrò lavorare sulle strade e
finalmente comprenderò il mistero dell’universo”.
Questa capacità di un bambini di fare il nesso tra il sogno di un
trattore e come è costruito l’universo è qualcosa che per qualche
ragione noi perdiamo. L’uomo adulto per qualche ragione riesce a
distinguere il lavorare sul trattore dalla conoscenza dell’universo. Al
lavoro noi ci stanchiamo mentre conoscere l’universo ci rende
contenti ma di conoscere l’universo non ci rimane il tempo.
Questa capacità di porre una divisione tra il trattore e l’universo è
legata al problema della compassione.
In Russia abbiamo il libro di un meraviglioso insegnante di letteratura
che aveva chiesto ai bambini della scuola elementare di scrivere delle
lettere a Dio. E’ importante notare che il nostro è un paese ateo,
abbiamo avuto 70 anni di lotta dello Stato contro la Chiesa. Perciò
quando i bambini iniziano a parlare di Dio gli adulti non sono mai
pronti. I discorsi su Dio dei bambini nel nostro paese sono molto
ingenui. Ad esempio un bambino scrive una lettera a Dio: “Oggi a
scuola ci hanno detto che Tu esisti. Buongiorno”. Un altro scrive:
“Quando io vedo una donna da sola mi viene vergogna per Te”. Alcune
di queste frasi sono davvero grandi soprattutto quando da un
bambino viene fuori la preghiera più vera. Questi bambini non
vengono da famiglie religiose, cristiane. Una bimba di 8 anni scrive:
“Non voglio andare né in paradiso né all’inferno, voglio venire da Te”.
Tra queste lettere ce n’è una che mi piace molto, ho paura che abbia a
che fare con una realtà troppo ucraina ma spero che capiate quello che
voglio dire. Una bimba scrive: “Signore perché tu hai fatto il mondo
così che mia mamma quando le si rompono le calze piange?”.
Questa capacità di fare il nesso tra il Creatore di tutto con le lacrime di
sua mamma per una sciocchezza è una cosa assolutamente
fondamentale.
Noi sempre operiamo questa divisione, separiamo queste due parti.
Questa divisione che noi facciamo non è mai a vantaggio della
misericordia, della compassione. Per educare alla compassione
dobbiamo ritornare a quel punto primo.
Quando con gli amici di Emmaus abbiamo iniziato ad andare negli
orfanotrofi nessuno di noi era un esperto ma i ragazzi che abbiamo
incontrato avevano un destino tale che non riuscivamo a reggere i loro
racconti. Ed è diventata chiara una cosa incredibile: quando un adulto
vuole aiutare un bambino in situazioni catastrofiche, come quelle che
sono gli orfanotrofi in Ucraina, porta tutta la sua vita e gli sembra di
portare tantissimo. Quando arriva da questo bambino si accorge che
tutta la sua vita non è abbastanza e per l’adulto quello è un momento
molto drammatico. Tu sei pronto a tutto ma quel tutto risulta essere
una cosa molto piccola, non è abbastanza.
Ma cosa è abbastanza?
Ci siamo accorti che l’unica cosa che si può portare è qualcosa che sia
molto più grande di se stessi. Io posso portare le cose che davvero
stupiscono me. Allora ci si può incontrare. Ci si può incontrare solo
portando negli occhi la memoria della bellezza.
Questo è molto importante per capire qual è l’origine, la sorgente della
compassione, dello stupore e dell’incontro con la bellezza.
D. Lei ci ha portato a livelli altissimi ma volevo tornare ad argomenti
apparentemente banali ma che alla fine sono fondamentali visto che
questa è una riunione di genitori di un liceo.
Io non so se in Ucraina i programmi ministeriali della scuola siano
come quelli italiani ma faccio fatica a vedere i temi della compassione
nei nostri programmi ministeriali. Ho due figli uno in seconda e una in
quinta e ho la sensazione, condivisa con altri genitori, che i nostri figli
siano visti come dei contenitori. Il nostro lavoro principale come
genitori è l’educazione dei nostri figli ma loro passano molto tempo a
scuola. Ciò che le chiedo è: in che modo la scuola in generale, ma anche
gli insegnanti, possono tradurre il tema della compassione avendo a
disposizione questi programmi ministeriali? Esiste a suo parere una
guida fondamentale che dovrebbero seguire i docenti in questa fase?
La nostra parte di genitori mi è chiara.
R. Chiedo scusa per la brevità della risposta. Il tema della compassione
non è un tema in più da aggiungere ai programmi, non è che dobbiamo
aggiungere una disciplina. In ogni materia, in ogni disciplina abbiamo
bisogno di tornare all’origine, all’inizio.
Cos’è questo inizio? Qualsiasi conoscenza, compresa la matematica,
nasce dallo stupore. Se anche quando facciamo lezione di matematica
non torniamo allo stupore da cui è nata, lo studente non potrà capirla
davvero e sarà condannato ad essere infelice. Qualsiasi conoscenza
che io trasmetto deve tornare a quel principio che l’ha originata. Un
uomo stupito si vede sempre, non riesce a celare la sua gioia. E’ la
stessa cosa che ci capita quando vediamo due persone innamorate per
strada. Quando vedrete vostro figlio felice per una lezione di biologia
significherà che sta imparando bene la biologia, vorrà dire che è
tornato a quello stupore.
La seconda cosa assolutamente grandiosa è legata a ciò che accade ai
ragazzi al di fuori del confine della famiglia e della scuola: il problema
dello stupore e della bellezza è che a noi sembra che si tratti di cose
molto fragili. Un bambino non sa che lo stupore e la bellezza sono per
lui il cammino alla felicità, ha bisogno di certezza, ha bisogno che delle
persone adulte gli dicano: “Dai, vai, guarda come è bello! Non avere
paura, fai matematica per tre anni!”.
Il nostro compito di educatori e di insegnanti è quello di dare ai
ragazzi coraggio, di mettere la bellezza al primo posto della loro vita.
Ma per noi è molto difficile perché molto spesso non è così per noi e
questo è un problema vero perché sono gli adulti a non assomigliare a
degli uomini stupiti.
Noi abbiamo solo una modalità per rispondere alla nostra
preoccupazione sulla vita dei nostri figli fuori dai confini della
famiglia: dobbiamo noi per primi conservare, custodire in noi stessi
questo coraggio di vivere della bellezza. Se noi stessi non riusciamo a
farlo questo diventa il problema più grande e dobbiamo ricominciare
tutto da capo.
E’ per questo che mi ha così impressionato l’esperienza di questo
gruppo di genitori della vostra scuola. Ci siamo incontrati quasi per
caso. Io non riuscivo a capire che cosa fosse questa strana compagnia
che mi ero trovato davanti. Dopo un po’ di tempo ho capito che si
trattava di persone adulte che prendevano seriamente la sfida della
felicità dei loro figli . Ed era paradossale perché non era gente che si
ritrovava per pensare a come aiutare i ragazzi ma che si trovava per
pensare come aiutare se stessi. Per me questo è stato un esempio
impressionante.
Prof.ssa Discoli
Vorrei sottolineare quello che ha detto il professore perché ogni volta
che ci incontriamo, benché siano solo due volte l’anno, è sempre un
passo ulteriore. In questa immensa provocazione che è stata questa
relazione ci sia la possibilità per tutti, fra noi genitori e anche fra noi
insegnanti – per la prima volta tra noi questa sera ci sono diversi
insegnanti – ci sia la possibilità di un inizio di lavoro proprio sul nodo
che è stato colto questa sera: che la grande sfida è all’adulto. Se non ci
sono adulti liberi e felici di quello che vivono e studiano non è
possibile tirar su delle personalità coraggiose e innamorate della vita.
Vi do l’avviso per il prossimo incontro. Sarà sempre qui, il 19 febbraio
alle 20.45. Abbiamo invitato un professore di lingua araba, Wael
Farouq, che ha visto nascere attorno a sé un gruppo vario di ragazzi di
nazionalità, tradizioni e radici diverse. Ne parlava il Corriere della Sera
qualche settimana fa, si chiama SWAP (Solidarietà, condivisione con
ogni uomo). Questo relatore può ulteriormente aiutarci in questo
percorso di concezione di educazione come apertura alla realtà in
modo particolare come possibilità di aiutare ognuno dei nostri ragazzi
a diventare protagonista.
Buonasera e grazie tantissimo a tutti.
(Appunti non rivisti dal relatore)