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Corso per l’idoneità di Responsabile Tecnico Gestione Rifiuti
Dispensa sulla sicurezza nel mondo del lavoro
Autore: Insegnante di teoria e Gestore Trasporti Mia Marta Stoppa
Sommario
1. Definizioni di carattere generale ................................................................................ 1
2. Sicurezza sul luogo di lavoro ...................................................................................... 2
3. Figure del sistema sicurezza sul lavoro ................................................................... 19
4. Valutazione dei rischi e prevenzione nei luoghi di lavoro...................................... 34
5. Misure di prevenzione e protezione ......................................................................... 44
6. Dispositivi di protezione individuale........................................................................ 46
7. Esposizione ad agenti biologici ................................................................................. 54
8. Esposizione ad agenti fisici ....................................................................................... 68
9. Esposizione ad agenti chimici ................................................................................. 104
10. Esposizione a rischi elettrici ................................................................................... 141
11. Rischi meccanici derivati dall’uso di attrezzature/apparecchiature .................. 158
12. Rischio di incendio................................................................................................... 167
13. Movimentazione manuale dei carichi .................................................................... 228
14. Attrezzature munite di videoterminali .................................................................. 233
15. Misure per la sicurezza nei cantieri temporanei e mobili .................................... 239
16. Tutela della salute e sicurezza delle lavoratrici madri ......................................... 241
17. Segnaletica di sicurezza ........................................................................................... 246
18. Emergenze ................................................................................................................ 263
19. Primo soccorso ......................................................................................................... 279
20. Responsabilità civili e penali .................................................................................. 281
21. Impatto ambientale ed economico della gestione dei rifiuti prodotti da aziende a
rischio di incidente rilevante................................................................................... 292
I
1. Definizioni di carattere generale
a. Sicurezza
Condizione in cui sono evitate le interazioni tra persone, attrezzature, macchinari, materiali ed
ambienti che possono causare danni alle persone od al sistema o anche solo perdite di tempo o
qualunque deviazione dagli obiettivi dell’impresa.
Situazione in cui i rischi sono stati eliminati o ridotti al minimo possibile, per quanto permesso
dallo stato delle conoscenze tecniche e dall’applicazione delle migliori tecnologie, compatibilmente
con le necessità delle attività da svolgere.
b. Salute
Stato di completo benessere fisico, sociale e mentale non consistente solo in un’assenza di malattia
od infermità.
c. Rischio
Probabilità del raggiungimento del livello potenziale di danno nelle condizioni di impiego o di
esposizione ad un determinato fattore od agente oppure alla loro combinazione.
d. Danno
È l’effetto negativo prodotto da un evento, determinatosi a seguito dell’esposizione ad un pericolo
che si è tradotto nella lesione psico – fisica di uno o più lavoratori.
e. Pericolo
Proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni.
f. Prevenzione
Il complesso delle disposizioni o misure necessarie, anche secondo la particolarità del lavoro,
l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute
della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno.
1
2. Sicurezza sul luogo di lavoro
1. Generalità sulla sicurezza sul luogo di lavoro
Premessa
La sicurezza sul lavoro è la condizione di svolgere un’attività lavorativa senza l’esposizione al
rischio di incidenti od al rischio di contrarre una malattia professionale.
1.1.Caratteristiche
La sicurezza sul luogo di lavoro si verifica quando lo stesso è dotato degli accorgimenti, degli
strumenti e dell’attività di prevenzione che forniscono un ragionevole grado di protezione contro la
possibilità del verificarsi di un evento pericoloso per la salute di chi lo svolge.
Le misure di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori hanno il fine di migliorare le
condizioni di lavoro, ridurre la possibilità di infortuni ai lavoratori, ai collaboratori esterni (ad
esempio subcontraenti) ed a quanti si trovano, anche occasionalmente, all’interno dei luoghi di
lavoro.
Misure di igiene e tutela della salute devono essere adottate al fine di proteggere il lavoratore da
possibili danni alla salute quali gli infortuni e le malattie professionali, nonché la popolazione
generale e l’ambiente.
Da un punto di vista giuridico, la locuzione si riferisce all’attività di prescrizione di misure di
prevenzione e protezione (tecniche, organizzative e procedurali), che devono essere adottate dal
datore di lavoro, dai suoi collaboratori, i dirigenti ed i preposti e dai lavoratori stessi.
1.2 In Italia
La salute e la sicurezza sul lavoro sono regolamentate dal Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro
(Decreto Legislativo del 9 aprile 2008, n. 81, entrato in vigore il 15 maggio 2008), e dalle relative
disposizioni correttive, ovvero dal Decreto Legislativo 106/2009.
Questo Decreto, che ha avuto molti precedenti normativi storici (risalenti al 1955 e 1956) ed altri
più recenti (Decreto Legislativo n. 626/1994), recepisce in Italia, le Direttive Europee (3 agosto
2007, n. 123) in materia di tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori, coordinandole in un
unico testo normativo, che prevede specifiche sanzioni a carico degli inadempienti.
1.3. Misure generali di tutela e sicurezza
Le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori nei luoghi di lavoro sono:
a) la valutazione di tutti i rischi per la salute e la sicurezza;
b) la programmazione della prevenzione, mirata ad un complesso che integri in modo coerente le
condizioni tecniche produttive dell’azienda nonché l’influenza dei fattori dell’ambiente e
dell’organizzazione del lavoro;
c) l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle
conoscenze acquisite in base al progresso tecnico;
d) il rispetto dei principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro, nella concezione dei posti di
lavoro, nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione, in
particolare al fine di ridurre gli effetti sulla salute del lavoro monotono e di quello ripetitivo;
e) la riduzione dei rischi alla fonte;
f) la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o lo è meno;
g) la limitazione al minimo del numero dei lavoratori che sono, o che possono essere, esposti al
rischio;
h) l’utilizzo limitato degli agenti chimici, fisici e biologici sui luoghi di lavoro;
i) la priorità delle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale;
j) il controllo sanitario dei lavoratori;
k) l’allontanamento del lavoratore dall’esposizione al rischio per motivi sanitari inerenti alla sua
persona e l’adibizione, ove possibile, ad altra mansione;
2
l) l’informazione e formazione adeguate per i lavoratori;
m) l’informazione e formazione adeguate per dirigenti ed i preposti;
n) l’informazione e formazione adeguate per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
o) le istruzioni adeguate ai lavoratori;
p) la partecipazione e la consultazione dei lavoratori;
q) la partecipazione e la consultazione dei rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;
r) la programmazione delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei
livelli di sicurezza, anche attraverso l’adozione di codici di condotta e di buone prassi;
s) le misure di emergenza da attuare in caso di primo soccorso, di lotta antincendio, di evacuazione
dei lavoratori e di pericolo grave ed immediato;
t) l’uso di segnali di avvertimento e di sicurezza;
u) la regolare manutenzione di ambienti, attrezzature, impianti, con particolare riguardo ai
dispositivi di sicurezza in conformità all’indicazione dei fabbricanti.
1.4. Statistiche degli infortuni sul lavoro in Italia
Nel dopoguerra si è avuta in Italia una progressiva riduzione degli infortuni sul lavoro, a seguito
delle graduali applicazioni delle norme di sicurezza emanate, fra cui: i Decreti del Presidente della
Repubblica 547/1955 sulla prevenzione infortuni negli stabilimenti, sulla sicurezza dei cantieri e
303/1956 sull’igiene del lavoro.
Indicativamente si è passati da un valore medio di quasi 2000 morti all’anno (anni ’50) ad un valore
di circa 1500 morti all’anno (anni ’60 e ’70) e negli ultimi decenni si sono registrati indicativamente
circa 1000 decessi sul lavoro all’anno in tutto il territorio nazionale.
Questa riduzione o dimezzamento degli infortuni è dovuta alla continua e progressiva applicazione
delle norme tecniche degli anni ’50.
Il 2 maggio 1974 l’I.N.A.I.L. diede l’avvio al C.I.D.I.- Centro di Informazione e
Documentazione Infortunistica, che fu un vero e proprio salto di qualità nella rilevazione dei dati
infortunistici nazionali e nel loro studio, finalizzato all’azione prevenzionale.
I dati relativi a tutti gli infortuni industriali, artigianali, agricoli ed alla malattia professionale
denunciati cominciarono ad essere raccolti ed immagazzinati nel cosiddetto Thesaurus, sfruttando
in tal modo le allora sorprendenti capacità dell’elaborazione elettronica dei dati.
In tal modo si iniziò la pubblicazione annuale delle I.N.A.I.L. – Statistiche per la prevenzione sia
con l’esposizione dei dati globali sia con pubblicazioni monografiche, minimonografiche, settoriali
(per esempio: gli infortuni nel settore artigiano, gli infortuni femminili, gli infortuni in un
determinato settore professionale o per distribuzione geografica).
1.5. Attuale andamento infortunistico
Dopo una prima riduzione degli infortuni dal dopoguerra agli anni ’90, nell’ultimo decennio si è
registrato un aumento infortunistico, riportato ampiamente dai mass – media.
I dati statistici confermano infatti che dal 1996 al 2006 gli infortuni a lavoratori con danni
permanenti sono aumentati in modo significativo.
Più precisamente si è passati da circa 20.000 infortuni con danni permanenti nell’anno 1996, che
sono aumentati gradualmente in circa 10 anni, fino a raggiungere il numero di circa 30.000 infortuni
con danni o mutilazioni permanenti nell’anno 2006.
La gravità della situazione è stata fatta presente dagli organi di stampa e da molti esponenti politici.
A seguito dell’aggravamento del problema infortunistico si è ritenuto opportuno nel 2008 redigere
un nuovo Testo Unico Sicurezza Lavoro, che raccogliesse tutte le norme di sicurezza fino ad allora
emanate, approvato con il Decreto Legislativo 81/2008.
A tale Decreto sono state apportate disposizioni integrative e correttive, emanate con il Decreto
Legislativo del 3 agosto 2009, n. 106, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 1180 dello 05.08.2009.
Gli ultimi dati registrati dall’I.N.A.I.L. (rilevazione al 29 febbraio 2012) parlano di una riduzione
del 6.4 % di infortuni complessivi dal 2010 al 2011: si passa da circa 776.000 a 726.000 denunce,
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cinquantamila in meno rispetto al 2010; inoltre si ha una riduzione del 4.4 % degli infortuni
mortali, si passa dalle 973 denunce nel 2010 (dato definitivo e per la prima volta al di sotto delle
mille unità) alle 930 denunce nel 2011 (stima del dato consolidato).
In aumento, sempre secondo i dati I.N.A.I.L., sono le malattie professionali che registrano un
+ 10 % circa dal 2010, il quale registrava già un + 7.600 denunce rispetto al 2009, per approdare al
2011 con circa 46.500 denunce.
Di seguito una tabella riassuntiva dal 2006 al 2011 emessa dall’I.N.A.I.L. fotografa gli ultimi anni
con il numero di infortuni all’anno, la percentuale rispetto all’anno precedente così anche per i casi
mortali.
INFORTUNI
IN COMPLESSO
variazioni % rispetto anno precedente
CASI MORTALI
variazioni % rispetto anno precedente
2006
2007
2008
2009
2010
2011
928.140 912.402 875.144 790.112 775.669 726.000
-
-1,7
-4,1
-9,7
-1,8
-6,4
1.341
1.207
1.120
1.053
973
930
-
-10,0
-7,2
-6,0
-7,6
-4,4
I dati 2011 sono valori stimati sulla base
delle denunce acquisite dagli archivi
gestionali I.N.A.I.L. al 29 febbraio 2012
1.6. Metodi di analisi dei rischi lavorativi
In Italia con il recepimento della Direttiva 89/391/C.E.E. con la Legge 626 del 1994 si è introdotta
l’obbligatorietà della valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, in tutte le
attività pubbliche e private con lavoratori dipendenti od assimilabili.
Nel 2008 le diverse norme italiane ed europee sono state coordinate con il Testo Unico Sicurezza
Lavoro, entrato in vigore come Decreto Legislativo 81/2008.
Questo Decreto prevede agli artt. 17 e 28 che, in tutte le aziende pubbliche e private, venga
predisposto un apposito Documento di Valutazione dei rischi per i lavoratori, sotto la responsabilità
indelegabile del datore di lavoro che eventualmente può farsi supportare dalla consulenza di
professionisti esperti della materia.
Le misure di prevenzione e protezione, nonché i dispositivi di protezione individuale da adottare e
gli interventi di adeguamento, indicati su questo documento, dovranno poi essere attuati
immediatamente od a breve termine se hanno carattere di urgenza, o saranno inseriti nella
programmazione aziendale se si tratta di lavori di adeguamento previsti a medio od a lungo termine.
L’articolo 28 del Testo Unico Sicurezza Lavoro prevede che il Documento di Valutazione dei rischi
abbia i seguenti contenuti:
• relazione sulla valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza durante il lavoro:
contenente l’indicazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa.
Quest’analisi è in genere divisa secondo più fattori di rischio, ad esempio: ambienti di lavoro,
macchine, attrezzature, agenti chimici, fisici e biologici, aspetti organizzativi e gestionali, etc.
L’analisi è preceduta dalle informazioni sull’attività e sull’organigramma aziendale.
Devono inoltre essere indicati i criteri utilizzati per la valutazione dei rischi.
• indicazione delle misure di prevenzione e di protezione attuate al fine di eliminare i rischi
individuati, o nel caso in cui non sia possibile eliminarli completamente, ridurre il rischio ad un
livello “accettabile”.
• elenco dei dispositivi di protezione individuale, che sono gli indumenti di protezione che i
lavoratori indossano al fine della protezione individuale (ad esempio: calzature di sicurezza,
casco, guanti, mascherine, etc.).
• programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei
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livelli di sicurezza, in cui si indicano tutte quelle misure che devono essere intraprese al fine di
migliorare i livelli di sicurezza nel tempo (manutenzioni, verifiche, attività di informazione e
formazione dei lavoratori, etc.).
È in generale utile integrare il Documento di Valutazione dei Rischi (D.V.R.) con le seguenti
informazioni:
procedure di sicurezza sul lavoro: consistono in circolari o disposizioni scritte, rivolte ai
lavoratori, per l’uso in sicurezza delle attrezzature di lavoro. Ad esempio, si hanno procedure di
sicurezza per l’uso di scale portatili, di ponteggi e trabattelli, per l’uso di taglierine, macchine
utensili, saldatrici, trapani elettrici, mole, frese, ed in generale per ciascun dispositivo il cui uso
può comportare pericoli tipici e ripetitivi sul lavoro.
planimetrie dell’edificio analizzato: redatte in scala e con l’indicazione delle attività svolte nei
vari locali e dei dispositivi di sicurezza presenti. Talvolta si allegano alla valutazione dei rischi
anche alcune certificazioni sulle strutture e sugli impianti ed alcuni verbali di sopralluoghi
tecnici fatti nell’azienda da tecnici abilitati in materia di prevenzione, su incarico del datore di
lavoro o dei dirigenti aziendali.
Il Documento di valutazione dei rischi lavorativi deve essere predisposto in modo specifico, in
particolare per aziende di grandi e medie dimensioni.
Per attività piccole e con rischi limitati che occupano fino a non più di 10 lavoratori ed, in certe
condizioni, fino a 50 lavoratori, i datori di lavoro effettuano la valutazione dei rischi sulla base delle
procedure standardizzate di cui all’articolo 6, comma 8, lettera f) del Decreto Legislativo 81/08.
Inoltre per alcuni rischi, quali ad esempio i rischi da agenti fisici (rumore, vibrazioni, campi
elettromagnetici), agenti chimici, agenti cancerogeni, movimentazione manuale dei carichi, sono
specificamente individuati nel Testo Unico Sicurezza Lavoro, disposizioni inerenti alla valutazione
stessa, eventuali limiti all’esposizione dei lavoratori e specifiche misure di prevenzione e
protezione, in relazione all’esposizione stessa.
Le metodologie di valutazione dei rischi sono basate sui metodi ingegneristici di scienza della
sicurezza, scienza delle costruzioni, sicurezza elettrica e sulla conoscenza approfondita dei
principali dispositivi di sicurezza presenti all’interno dell’edificio aziendale, rivolti alla prevenzione
incendi (ad esempio estintore ed idrante), alla sicurezza elettrica (ad esempio resistenza di terra,
interruttore magnetotermico) ed agli altri aspetti di sicurezza dei macchinari per la produzione e dei
mezzi di trasporto.
1.7. I “6 passi” per la realizzazione del sistema di gestione ambientale e S&SL
A continuazione si presenta una linea guida con “6 passi” per la creazione di un sistema di gestione
ambientale e di S&SL (Sicurezza e Salute nel Lavoro), studiato e realizzato con particolare
riferimento alle necessità delle piccole o medie imprese:
1. Passo 1: L’analisi iniziale. In questo primo passo vengono effettuate l’identificazione degli
aspetti ambientali significativi e la valutazione dei rischi ambientali e di S&SL
dell’organizzazione. S’identificano, inoltre, le norme applicabili.
2. Passo 2: La definizione della politica “Ambiente e Sicurezza”. In questo secondo passo sono
forniti gli strumenti per la definizione della politica per l’ambiente e la S&SL.
3. Passo 3: La pianificazione di obiettivi e traguardi e lo sviluppo del programma. Completate le
analisi iniziali e definita la politica “Ambiente e Sicurezza”, le Linee guida propongono una
metodologia per pianificare obiettivi e traguardi ambientali, di salute e sicurezza sul lavoro e
sviluppare il programma per raggiungerli.
4. Passo 4: La realizzazione del sistema di gestione ambientale e di S&SL. Questo passo,
strutturato in una serie di paragrafi corrispondenti alle diverse aree del S.G.I. (Sistema di
Gestione Integrato), guida allo sviluppo del “cuore” del sistema di gestione, proponendo modelli
di procedure, manuali ed istruzioni operative.
5. Passo 5: L’effettuazione del primo audit interno. Le Linee guida forniscono in questo passo gli
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strumenti ed i consigli per completare il primo audit interno al sistema di gestione integrato.
6. Passo 6: L’effettuazione del riesame della direzione. In questo passo è proposta la modulistica
per effettuare e registrare il riesame della direzione.
Completati i primi “6 passi”, si possono effettuare le attività minime per rendere attivo ed operante
il sistema di gestione.
Qualora si desideri ottenerne la certificazione, è necessario contattare un ente di certificazione: a tal
fine, le Linee guida propongono alcuni consigli per la gestione del processo di certificazione e
considerazioni sui costi di implementazione del Sistema di Gestione Integrato.
2. La normativa in materia di sicurezza e salute dei lavoratori sul luogo di lavoro
2.1. L’evoluzione storica
L’evoluzione della normativa in tema di sicurezza e salute dei lavoratori sul luogo di lavoro
comprende un arco temporale assai vasto, coincidendo, nella sua accezione più ampia, con la
nascita stessa della legislazione sociale di tutela dei lavoratori dipendenti e, quindi, con la
rivoluzione industriale.
Le prime norme di limitazione dell’orario di lavoro e di tutela delle cosiddette mezze – forze,
ovvero di donne e fanciulli, avevano, infatti, nell’800, un chiaro intento di salvaguardia della salute
di questi soggetti in un’ottica di interesse pubblico alla sanità e salute.
Ai nostri fini, tuttavia, occorre distinguere la normativa che riguarda la salute del lavoratore da
quella che riguarda la sua sicurezza, tenendo presente che si tratta di una distinzione meramente
convenzionale, posto che la finalità ultima di entrambe le normative è sempre la medesima.
Nel corso degli anni, infatti, si è inteso distinguere i rischi propri dell’attività industriale, come gli
infortuni sul lavoro, dagli altri rischi derivanti dall’organizzazione del lavoro, come, ad esempio,
l’orario di lavoro.
Questo “distinguo” si è creato sulla base dell’assunto che l’infortunio sia connaturato al lavoro
industriale. La presunta impossibilità di affrancare il lavoro in fabbrica dall’infortunio, ha dato
origine da una parte alle assicurazioni sociali, dall’altra ad un – almeno iniziale – disinteresse del
legislatore all’attività di prevenzione degli infortuni stessi (attività evidentemente inutile se si
ragiona partendo dall’ineliminabilità di essi).
L’abbandono del modello liberista più rigoroso ha fatto maturare nel ’900 , nel solco di ideologie
diverse e con diversi fini, un’idea di sicurezza sul luogo di lavoro che è penetrata nell’ordinamento
lavoristico e che ha acquisito posizioni di sempre maggior rilievo.
Ciò di cui si tratterà in queste pagine è relativo, quindi, al solo diritto cosiddetto prevenzionistico:
l’insieme di quelle disposizioni normative che pongono in capo ai datori di lavoro un “obbligo di
sicurezza” nei confronti dei lavoratori.
2.2. La Costituzione e il Codice Civile
Se anche si può affermare che con l’art. 2087 del Codice Civile del 1942 si introduce
nell’ordinamento il moderno concetto di obbligo di sicurezza, che grava in capo al datore di
lavoro, occorre tuttavia continuare il nostro excursus storico per poter comprendere l’attuale sistema
normativo di sicurezza.
Art.2087. Tutela delle condizioni
L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro.
L’art. 2087 infatti, va inserito nel contesto storico nel quale nasce.
La disposizione, alla sua origine, aveva una chiara finalità pubblicistica: siamo nel periodo nel quale
lo Stato esercita il controllo sull’indirizzo della produzione e degli scambi in relazione all’interesse
unitario dell’economia nazionale (art. 2085 Codice Civile), l’imprenditore deve uniformarsi ai
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principi dell’ordinamento corporativo (art. 2088 Codice Civile) ed il prestatore di lavoro deve usare
la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello
superiore della produzione nazionale (art. 2104 Codice Civile).
In questo contesto la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del prestatore non
rappresenta tanto il diritto del lavoratore alla salvaguardia della propria salute quanto l’interesse
dello Stato alla salute del suddito quale possibile soldato (in una visione tragicamente obsoleta delle
forze armate).
Con l’entrata in vigore della Costituzione (1948) la salute del cittadino trova – nel contesto di una
nuova visione della persona – uno spazio proprio.
Art. 32 (Costituzione)
La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della
collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.[…omissis…]
La disposizione, peraltro, inizialmente – come è successo per altre disposizioni costituzionali –
viene letta in modo riduttivo: si pone in rilievo soprattutto l’interesse della collettività ed il
“fondamentale diritto del cittadino alla salute” è letto come una finalità che si deve porre lo Stato.
Sarà solo nella metà degli anni ’70 che la disposizione comincerà ad essere letta come norma che
pone un diritto soggettivo alla salute, che vuol dire, in altri termini, la possibilità per il singolo
individuo di vedere riconosciuto anche nei rapporti interprivati (contrattuali o non contrattuali) un
diritto alla salute in sé inteso.
Per comprendere meglio il significato anche pratico di questo passaggio essenziale, occorre
effettuare una digressione nel campo civilistico.
Il Codice Civile prevede che i danni causati da un soggetto ad un altro vadano risarciti considerando
il cosiddetto lucro cessante1 ed il danno emergente (artt. 2056 e 1223).
Ovvero, nell’ipotesi di un incidente stradale, la lesione causata ad una parte per colpa dell’altra,
andrà risarcita considerando sia le spese “vive”, quelle effettuate per curarsi, nonché per riparare il
mezzo incidentato, etc. sia il mancato guadagno sofferto dal soggetto che, per tutto il periodo
necessario a ristabilirsi, non ha potuto lavorare. Se poi la lesione causata è permanente, occorrerà
prendere in considerazione anche l’incidenza di tale lesione sulla capacità lavorativa futura.
A queste condizioni di danno si dovrà aggiungere il danno morale (cosiddetto pretium doloris) che
sorge quando l’evento integra una fattispecie di reato.
Il risarcimento così effettuato, tuttavia, non considera né il danno alla salute di per sé (cioè
scollegato a quelle che sono le conseguenze ulteriori), né le conseguenze non riconducibili ad un
valore economico (a causa dell’invalidità contratta il soggetto potrebbe non poter condurre più la
vita fatta fino ad allora: quanto vale non poter più andare in palestra o fare musica o fare shopping
con le amiche al mercato?).
Nella seconda metà degli anni ’70, la giurisprudenza di merito comincia a valutare il danno
all’integrità fisica come risarcibile di per sé, interpretando l’art. 32 della Costituzione come
disposizione applicabile anche nei rapporti interprivati e, quindi, ritenendo la salute un diritto
soggettivo perfetto da risarcire in ogni caso di lesione.
Questa interpretazione verrà successivamente suggellata dalla Corte Costituzionale con la sentenza
1
La locuzione latina lucrum cessans, corrispondente l’italiana lucro cessante, indica in giurisprudenzae nel diritto, una forma del
danno, ed in particolare una forma del danno patrimoniale.
Per alcune categorie di soggetti che abbiano patito un danno economico di natura patrimoniale, è in genere riconosciuta (sebbene con
variazioni fra i diversi ordinamenti giuridici nazionali) la fattispecie di quel danno che impedisca al danneggiato di percepire una o
più utilità economiche che avrebbe aggiunto al suo patrimonio se il danno non si fosse verificato.
Distinto quindi dal damnum emergens, danno emergente, che consiste nella diminuzione (in re ipsa riscontrabile) del patrimonio del
danneggiato (o più frequentemente nella diminuzione del valore del complesso dei beni e dei diritti afferenti al patrimonio del
danneggiato), il lucro cessante riguarda l'interruzione forzata, a causa del patimento di un evento dannoso, di un processo di
produzione e/o procacciamento di utilità che, d'ordinario, avrebbe procurato al danneggiato un legittimo accrescimento patrimoniale.
7
n. 184 del 1986.
Le suggestioni della dottrina che hanno portato a questi risultati sul piano civilistico sono state non
meno importanti sul piano dell’interpretazione della salute quale interesse pubblico.
La nuova lettura dell’art. 32, infatti, si riflette anche sul legislatore, che nel 1978, con la Legge 833,
vara il nuovo Servizio Sanitario Nazionale.
Uno dei cardini della riforma sanitaria fa perno proprio sul diritto del cittadino alla salute e non sul
diritto alla cura della malattia: la diversa prospettiva consente di considerare gli aspetti di
prevenzione come parte integrante e fondamentale del diritto alla salute.
Al Servizio Sanitario Locale sono demandati, oltre ai classici compiti di sanità ed igiene pubblica,
anche il controllo ed il monitoraggio dell’ambiente in generale e della salubrità delle condizioni di
lavoro.
La fonte primaria attuale del nostro sistema prevenzionistico risiede, dunque, nell’art. 32 della
Costituzione, ma, come si è appena visto, tale lettura è pienamente efficace solo dalla fine degli
anni ’70.
Fino ad allora il sistema si basava fondamentalmente sull’art. 2087 e sui Decreti del Presidente della
Repubblica del 27 aprile 1955, n. 547, in materia di prevenzione degli infortuni e del 19 marzo
1956, n. 303, in materia di igiene del lavoro (n.d.r. ancora oggi vigenti e solo parzialmente
abrogati).
L’art.2087, in particolare, rappresentava – e rappresenta tuttora – un principio generale ed una
norma di chiusura della legislazione prevenzionistica:
a) Principio generale in quanto pone, nell’ambito del sinallagma (n.d.r. dal greco scambio, rapporto
di reciproca implicazione) contrattuale del rapporto di lavoro un obbligo di sicurezza in capo al
datore, che si qualifica giuridicamente quale obbligazione principale e non meramente
accessoria;
b) Norma di chiusura in quanto norma che, imponendo di adottare tutte le misure “necessarie”,
demanda al giudice di accertare caso per caso e sempre in adeguamento con l’evoluzione
tecnologica, l’ottemperamento dell’obbligo. Proprio per tale ultima caratteristica, che non indica
quale siano in concreto le misure da attuare, ma impone un comportamento adeguato ai tempi, la
norma è rimasta attuale e non può subire l’obsolescenza alla quale sono destinate quelle
disposizioni che abbiano previsioni legate alla scienza ed esperienza del momento storico nel
quale vengono scritte. Per contro occorre individuare, in via interpretativa, quale debba essere, in
concreto, il comportamento imposto dalla norma al datore.
Senza tale individuazione, infatti, la norma potrebbe significare che ogniqualvolta vi sia un
infortunio, il datore sia da considerare inadempiente, e questo porterebbe far perdere di
significato la norma stessa risolvendosi in un’ipotesi di responsabilità oggettiva.
L’articolo è stato quindi interpretato nel senso di imporre al datore di lavoro di adottare le misure
che rispecchiano la massima sicurezza tecnologicamente possibile.
1) con tale locuzione, innanzitutto, si esclude l’obbligo di fare tutto quanto sia teoricamente
possibile secondo la miglior scienza ed esperienza del momento storico.
Un obbligo di questo genere, infatti, renderebbe impossibile, il più delle volte, l’adempimento
corretto dell’obbligazione stessa, in quanto implicherebbe l’adozione di misure non
praticamente possibili, posto che tra la conoscenza scientifica e la disponibilità tecnologica (la
possibilità di reperire sul mercato la scoperta/invenzione) possa intercorrere un notevole lasso
di tempo.
2) in secondo luogo si esclude l’interpretazione minimalista, che vuole siano prese tutte le
misure possibili in relazione alla situazione – anche economica – del singolo imprenditore.
Il che consentirebbe, per ipotesi, all’impresa di non adottare alcuna misura che comporti una
spesa o che incida in qualche modo sui costi di produzione.
Tale interpretazione porrebbe la disposizione in conflitto con le disposizioni costituzionali, in
quanto il diritto alla salute è sempre considerato prioritario rispetto al diritto riferito
all’iniziativa economico privata.
8
Occorre sottolineare, poi, che l’ampiezza della disposizione ha consentito, alla giurisprudenza più
recente, di leggere l’art. 2087 come una norma di verifica della legittimità della stessa
organizzazione del lavoro: cosa che, nella pratica, significa che l’obbligo del datore non è
adempiuto con il semplice rispetto formale della normativa antinfortunistica, ma implica
un’attenzione nell’organizzazione del lavoro alla salute del lavoratore; dunque anche ciò che è
consentito dalla Legge, se comporta dei rischi per il lavoratore, dovrà essere posto in essere solo se
non è possibile fare altrimenti.
La tutela del lavoratore posta dall’art. 2087, riguarda anche la sua “personalità morale”.
Anche se la disposizione utilizza un linguaggio che appare oggi desueto, la sua portata giuridica
rimane interamente valida ed importante.
La tutela, in questo modo, non si limita all’integrità fisica del lavoratore, ma riguarda anche quegli
aspetti che non rientrano in esso, come la personalità del soggetto e la sua libertà sessuale.
Il limite della norma è nel suo permanere sul piano del rapporto individuale: la tutela preventiva che
esplica è di fatto legata alla funzione deterrente della responsabilità.
Teoricamente in forza di tale articolo potrebbero essere esercitate delle azioni inibitorie, ma la tipica
disparità di forza sul piano contrattuale, ne ha sempre limitato l’uso.
Per lungo tempo il sindacato, che trova la sua forza proprio nella non “ricattabilità” sul piano
individuale, non ha potuto svolgere un’azione efficace sul piano della sicurezza: da una parte per la
debole presenza a livello aziendale, dall’altra perché i bassi livelli salariali inducevano a
“monetizzare” il rischio, piuttosto che ad eliminarlo.
2.3. I Decreti degli anni ’50
Per l’emanazione di un organico ed autonomo corpus legislativo, volto alla tutela preventiva della
salute dei lavoratori, si è dovuto attendere la seconda metà degli anni ’50.
La Legge delega del 12 febbraio 1955, n. 51, autorizzò il Governo ad emanare norme generali e
speciali per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro, da applicarsi in quasi tutti i
settori produttivi.
I Decreti che furono emanati dal legislatore nel 1955 e 1956 vanno citati per la rilevanza che hanno
avuto sino all’emanazione del Decreto Legisativo n. 81/2008, così modificato dal Decreto
Legislativo 106/2009:
il Decreto del Presidente della Repubblica del 27 aprile 1955, n. 547, recante le norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro;
il Decreto del Presidente della Repubblica del 7 gennaio 1956, n. 164, recante le norme per la
prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni ed in materia di igiene del lavoro;
il Decreto del Presidente della Repubblica del 19 marzo 1956, n. 303 per l’igiene del lavoro.
Tali provvedimenti segnarono un radicale mutamento di ottica rispetto alle premesse ideologiche
che avevano caratterizzato fino ad allora la legislazione nazionale, poiché portarono allo sviluppo
della “tutela preventiva dell’integrità psico – fisica dei lavoratori”, riconoscendo a questo tipo di
tutela una propria autonomia rispetto a quella riparatoria/assicurativa.
La principale peculiarità dei Decreti degli anni ’50 era l’accoglimento di un concetto di prevenzione
di tipo “tecnologico”. Con tale espressione si sottolineava il fatto che i Decreti disponevano nella
maggioranza dei casi, l’adozione tassativa di determinati accorgimenti quali: dispositivi, particolari
condizioni ambientali, mezzi personali di protezione, etc., e solo, in ipotesi limitate, il rispetto di
comportamenti uniformati a criteri di prudenza e cautela.
2.4. L’art. 9 dello Statuto dei lavoratori ed il percorso della legislazione comunitaria
Il livello di attenzione del sindacato, rispetto ai temi della sicurezza, cambia con il miglioramento
delle condizioni salariali e con l’introduzione dello Statuto dei Lavoratori (Legge del 20 maggio
1970, n. 300).
Il sindacato comincia, dunque, ad acquisire una posizione attiva nel campo della sicurezza sul
lavoro: non solo ha un diritto al controllo, ma può avere anche funzione propositiva.
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Art.9 Tutela della salute e dell’integrità fisica
I lavoratori, mediante loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme
per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca,
l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità
fisica.
Ma la svolta decisiva che rende il ruolo del sindacato e dei lavoratori momento attivo necessario per
l’adempimento dell’obbligo di sicurezza, gravante in capo al datore di lavoro, è dato dalla
legislazione comunitaria.
Dalla tragedia avvenuta nella miniera belga di Marcinelle2 (ancora esisteva solo la CECA –
Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio), la comunità ha preso in considerazione l’aspetto
della sicurezza sul lavoro.
Per molti anni, tuttavia, quest’attenzione non si è tradotta in atti concreti, ma la stessa necessità di
un mercato comune omogeneo, richiedeva che ogni singolo Stato avesse una legislazione che non
consentisse alle imprese di produrre a costi inferiori rispetto agli altri Stati, a scapito della sicurezza
delle persone.
Vengono quindi emanate Direttive comunitarie volte a determinare una soglia minima di sicurezza
dei macchinari e degli impianti.
L’evoluzione arriva all’emanazione della Direttiva quadro n. 391 del 1989, in materia di sicurezza
sul lavoro, cui faranno seguito numerose direttive – figlie relative a specifici rischi lavorativi.
La Direttiva risolve diversi problemi che si erano posti nell’applicazione delle normative nazionali,
conferma e rafforza principi, quale il concetto di sicurezza, legato all’organizzazione stessa del
lavoro, ma soprattutto introduce una nuova visione del sistema di prevenzione: l’informazione e la
formazione mirata alla sicurezza (n.d.r. il datore di lavoro deve provvedere e assicurare che sia
attuata), quali elementi principali nella prevenzione.
2.5. Il Decreto Legislativo 626 del 1994
Successivamente ai Decreti degli anni ’50 con l’emanazione del Decreto Legislativo del 19
settembre 1994, n. 626, il legislatore delegato ha proceduto a recepire importanti Direttive
comunitarie da tempo in attesa di attuazione, nello specifico la Direttiva quadro 89/391/C.E.E. e
numerose Direttive particolari e ha introdotto, così, una rigenerata mentalità nell’approccio della
prevenzione.
L’emanazione del Decreto Legislativo del 19 settembre 1994, n. 626, ha segnato una vera e propria
“rivoluzione copernicana” nel sistema della sicurezza del lavoro.
Con tale Decreto, infatti, si è affermata nel nostro Paese una nuova tutela prevenzionistica,
cosiddetta di tipo “soggettivo”, in cui la prevenzione è strutturata in maniera programmatica e
organizzata.
Tra i nuovi obblighi generali che il Decreto Legislativo n. 626 ha posto in capo al datore di lavoro,
merita una particolare rilevanza la “valutazione dei rischi”.
Altre innovazioni significative introdotte dal Decreto 626/1994 sono:
l’istituzione del Servizio di Prevenzione e di Protezione e del suo Responsabile;
la previsione dell’obbligatorietà della figura del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza
(R.L.S.);
l’istituzione della figura del medico competente che deve attuare la sorveglianza sanitaria.
In tal modo con l’emanazione del Decreto Legislativo 626/1994 la tutela della sicurezza e della
2
Il disastro di Marcinelle avvenne la mattina dell’8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, in Belgio.
Si trattò di un incendio, causato dalla combustione di olio ad alta pressione a causa di una scintilla elettrica, che, sviluppatosi vicino
al condotto dell'aria principale, riempì di fumo tutto il pozzo minerario, provocando la morte di 262 delle 275 persone ivi presenti, in
gran parte emigranti italiani. L’incidente è terzo per maggior numero di vittime tra gli italiani all’estero, dopo Monongah e Dawson.
Il sito Bois du Cazier, oramai dismesso, fa parte dei patrimoni storici dell’UNESCO.
10
salute dei lavoratori non è stata più affidata soltanto al potere gerarchico dell’imprenditore, ma sono
stati delineati dei precisi ruoli di partecipazione e collaborazione da parte dei lavoratori e dei loro
rappresentanti.
Pertanto nel Decreto Legislativo 626/1994 il lavoratore non ha un ruolo passivo, non subisce più la
prevenzione ma, grazie all’affermazione del “principio dell’auto – tutela” – di derivazione
comunitaria – , ha obblighi e diritti ben precisi, stabiliti nella stessa Legge di prevenzione.
2.5.1. Il campo di applicazione
Il Decreto 626/1994 riguarda tutti i settori di attività privati o pubblici.
Limitazioni sono previste per i lavoratori a domicilio e per i portieri, ai quali il Decreto si applica
solo quando sia espressamente previsto. Nei riguardi di particolari settori, le norme si applicano,
tenendo conto delle particolari esigenze connesse al servizio, così è per le forze armate e di polizia,
la protezione civile, le strutture giudiziarie, penitenziarie, di ordine e sicurezza pubblica.
Tra i servizi particolari, previsti dal comma 2 dell’art.1 sono ricompresi l’università, gli istituti di
istruzione universitaria e gli istituti di istruzione ed educazione di ogni ordine e grado.
Nel corpo della normativa viene spesso fatto riferimento all’impresa ed alla struttura
imprenditoriale. Da questo dato lessicale è stato evinta, da alcuni, l’applicabilità piena della norma
solo alle strutture industriali: in realtà, come è stato chiarito anche dalle modifiche introdotte
successivamente, si tratta di un utilizzo improprio dei termini: è certo che il modello preso a
riferimento sia l’impresa di dimensioni medio grandi, ma il campo di applicazione resta quello
generale. La conferma di ciò si trova sia direttamente, nelle indicazioni ministeriali, relative
all’applicazione del Decreto agli studi professionali che abbiano alle proprie dipendenze, dei
lavoratori sia indirettamente dal fatto che l’art. 2 esclude esplicitamente dalla definizione di
lavoratore gli addetti ai lavori domestici e familiari.
2.5.2. I soggetti protetti
La Direttiva comunitaria individuava i soggetti protetti in modo più generico – e quindi più ampio –
di quanto non faccia la normativa di recepimento. Infatti la normativa comunitaria prevedeva che
per lavoratore dovesse intendersi “qualsiasi persona impiegata da un datore di lavoro, compresi i
tirocinanti, gli apprendisti, ad esclusione dei domestici”, mentre il Decreto 626, che evidentemente
tiene conto della disciplina previgente, individua il lavoratore in modo più articolato e meno esteso.
In effetti, oltre all’esclusione dei collaboratori familiari, previsto anche dalla Direttiva, viene
limitata l’applicazione nei confronti dei lavoratori a domicilio e dei portieri.
Vi sono poi, tra i soggetti assimilati ai lavoratori subordinati:
1) i soci lavoratori di cooperative o di società anche di fatto, sempreché prestino la loro attività per
conto delle società e degli enti stessi;
2) coloro che usufruiscono dei servizi di orientamento o di formazione scolastica, universitaria o
professionale avviati presso datori di lavoro per agevolare o perfezionare le loro scelte
professionali;
3) gli allievi degli istituti di istruzione ed universitari, nonché i partecipanti a corsi di formazione
professionale, nei quali si faccia uso di laboratori, macchine, apparecchi ed attrezzature di lavoro
in genere, agenti chimici, fisici e biologici.
Il Decreto MURST3 del 5 agosto 1998, n. 363, ha dettato il “Regolamento relativo all’applicazione
del Decreto Legislativo 626/1994 nell’ambito dell’Università”.
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Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica.
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In base a detto Regolamento
“Si considera per lavoratore anche quello non organicamente strutturato e quello degli enti
convenzionati, sia pubblici sia privati, che svolge l’attività presso le strutture dell’Università, salva
diversa determinazione convenzionalmente concordata, nonché gli studenti dei corsi universitari,
i dottorandi, gli specializzandi, i tirocinanti, i borsisti ed i soggetti ad essi equiparati, quando
frequentino laboratori didattici, di ricerca o di servizio ed, in ragione dell’attività
specificamente svolta, siano esposti a rischi individuati nel documento di valutazione.”
“Sono considerati laboratori, i luoghi o gli ambienti in cui si svolgono attività didattiche o di
ricerca o di servizio che comportano l’uso di macchine, apparecchi ed attrezzature di lavoro, di
impianti, di prototipi o di altri mezzi tecnici, ovvero di agenti chimici, fisici o biologici. Sono
considerati laboratori, altresì, le biblioteche, i luoghi o gli ambienti ove si svolgono attività al di
fuori dell’area edificata della sede quali ad esempio campagne archeologiche, geologiche, marittime
e di rilevamento architettonico, urbanistico, ambientale.”
2.5.3. Il datore di lavoro
È considerato tale colui il quale sia titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore, ovvero il
soggetto che ha la responsabilità dell’impresa, individuando tale soggetto in chi detiene i poteri
decisionali e di spesa.
Nell’ambito delle pubbliche amministrazioni per datore di lavoro si intende il dirigente al quale
spettano i poteri di gestione.
2.5.4. Le linee guida sulla sicurezza ed i soggetti coinvolti
Il sistema prevenzionistico che è sorto dalla normativa comunitaria si fonda su alcuni fattori ritenuti
essenziali. Innanzitutto sul fattore conoscenza, in secondo luogo sul fattore collaborazione tra i
soggetti, in terzo luogo sulle limitazioni dei fattori di rischio.
Il fattore conoscenza
La conoscenza dell’esistenza di un pericolo è il primo modo di neutralizzare il pericolo stesso.
Su questa base la normativa richiede al datore di lavoro, come prima cosa, di individuare e valutare
i rischi per la salute e la sicurezza.
Questa valutazione si deve concretizzare in un documento che contenga la valutazione dei rischi,
l’individuazione delle misure di prevenzione e protezione, il programma di aggiornamento delle
misure di protezione.
Sempre sulla base del fattore conoscenza è previsto che i lavoratori od i loro rappresentanti, in
relazione alle questioni riguardanti la sicurezza e la salute, siano informati, formati, consultati e
coinvolti; infine è previsto che siano fornite ai lavoratori “istruzioni adeguate”.
Il fattore collaborazione
Per avere la massima sicurezza possibile è necessario che tutte le parti interessate siano attivamente
coinvolte ed interessate.
Per questo motivo, la legislazione prevede una molteplicità di soggetti coinvolti e attribuisce dei
doveri anche in capo ai lavoratori che, tradizionalmente, sono sempre stati considerati solo titolari
di un diritto alla sicurezza. In quest’ottica, dunque, il datore di lavoro è affiancato da soggetti che
hanno – o ai quali vengono attribuite – delle particolari competenze:
il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione;
gli addetti al Servizio di Prevenzione e Protezione;
il medico competente.
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D’altra parte i lavoratori eleggono o designano il Rappresentante per la Sicurezza ed, ognuno di essi
ha l’obbligo giuridico:
di prendersi cura della propria sicurezza e della propria salute, nonché di quella delle altre
persone presenti sul luogo di lavoro;
non solo devono osservare le disposizioni ed istruzioni loro impartite, nonché utilizzare in modo
appropriato macchinari e dispositivi di sicurezza etc., ma devono anche segnalare
immediatamente al datore di lavoro, o a chi per esso, le deficienze dei macchinari di lavoro e dei
dispositivi antinfortunistici, nonché le altre eventuali condizioni di pericolo di cui vengano a
conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso d’urgenza, nell’ambito delle proprie competenze
e possibilità, per eliminare o ridurre tali deficienze o pericoli.
Una figura particolare è rappresentata dal “medico competente”, che svolge la sorveglianza
sanitaria, quando è prevista, e che consiste in accertamenti preventivi periodici per controllare lo
stato di salute dei lavoratori ed esprimere il giudizio di idoneità alle mansioni.
I dati raccolti dal medico competente vengono comunicati alle riunioni periodiche di prevenzione e
protezione dai rischi (previste dalla Legge), ma, in forma collettiva ed anonima, fornendo anche
indicazione sul significato di questi risultati.
Alcuni dubbi sono stati sollevati in dottrina sull’opportunità, prevista dalla Legge, che il medico sia
un dipendente del datore di lavoro (art.17, comma 5, lett.c), così come sia il datore di lavoro a poter
scegliere i medici specialisti della cui collaborazione richieda di avvalersi (art.17, comma 2).
Tali dubbi di opportunità sorgono anche dalla previsione dell’art. 5 dello Statuto dei lavoratori
(Legge 300/1970) che ha demandato alle strutture sanitarie pubbliche tutti gli accertamenti sanitari,
sottraendoli a quelli del datore di lavoro per garantire l’imparzialità del controllo medico.
In tema di accertamenti sanitari è bene ricordare che il Testo Unico 309 del 1990 prevede
l’effettuazione di accertamenti periodici “di assenza di tossicodipendenza” per i lavoratori “destinati
a mansioni che comportano rischi per la sicurezza, l’incolumità e la salute dei terzi” (dette mansioni
sono individuate da un Decreto del Ministro del Lavoro); la Legge n. 135 del 1990 vieta “ai datori
di lavoro, pubblici e privati, lo svolgimento di indagini volte ad accertare nei dipendenti od in
persone prese in considerazione per l’instaurazione di un rapporto di lavoro l’esistenza di uno stato
di sieropositività”, salvo che l’assenza di sieropositività sia condizione per l’espletamento di attività
che comportino rischi per la salute di terzi (sentenza della Corte Costituzionale n. 218 del 1994).
Limitazioni dei fattori di rischio
Oltre al dovere generale, già previsto dall’art. 2087 del Codice Civile, e ripreso dal Decreto
Legislativo 626/94 (“eliminazione dei rischi in relazione alle conoscenze acquisite in base al
progresso tecnico…”, art.3, comma 1, lett. b), ed oltre ai doveri, che si possono considerare di buon
senso, di sostituire ciò che è pericoloso con ciò che non è pericoloso, un dovere generale esplicitato
dalla normativa (peraltro già precedentemente individuato dalla giurisprudenza) è quello di
organizzare i fattori produttivi e le risorse umane in modo da ridurre i rischi e le esposizioni al
rischio.
In concreto tale obbligo significa che non è sufficiente che il datore predisponga i mezzi di
prevenzione, tecnologicamente disponibili, per ottemperare all’obbligazione di sicurezza.
Occorre anche che abbia fatto il possibile sul campo dell’organizzazione produttiva per limitare i
rischi: deve, dunque, limitare al minimo il numero delle persone esposte ai rischi, deve ruotare i
lavoratori che sono esposti a fonti di rischio da esposizione prolungata, etc.
Altra misura generale di prevenzione è preferire i mezzi di protezione collettiva a quelli individuali.
2.6. La normativa specifica
La carrellata sulle linee generali della normativa prevenzionistica può concludersi ricordando gli atti
normativi, relativi a settori oggetto di particolari disposizioni.
Come si è precedentemente ricordato, il Decreto Legislativo 626/1994, attua la Direttiva quadro 391
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del 1989 ed alcune delle Direttive particolari emanate in conseguenza della stessa.
In particolare la normativa comunitaria si è occupata di:
prescrizioni minime di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro (89/654/C.E.E. – recepita dal
Decreto Legislativo 626/1994);
requisiti minimi di sicurezza e di salute per l’uso di attrezzature di lavoro (89/655/C.E.E.;
95/63/C.E.E. – 626/1994 e Decreto Legislativo n. 359 del 1999);
prescrizioni minime in materia di sicurezza e salute per l’uso da parte dei lavoratori di
attrezzature di protezione individuale durante il lavoro (89/656/C.E.E. – 626/1994);
prescrizioni minime in materia di sicurezza e salute concernenti la movimentazione manuale dei
carichi che comportano rischi dorso – lombari (90/269/C.E.E. – 626/1994);
prescrizioni minime in materia di sicurezza e salute per le attività lavorative svolte su
attrezzature munite di videoterminali (90/270/C.E.E. – 626/1994);
protezione dei lavoratori contro i rischi, derivanti da un’esposizione ad agenti cancerogeni
durante il lavoro (90/394/C.E.E.; 97/42/CE; 99/38/C.E. – 626/1994 e Decreto Legislativo 66 del
2000);
protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti da esposizione ad agenti biologici, durante il
lavoro (90/679/C.E.; 93/88/C.E. – 626/1994);
miglioramento della sicurezza per i lavoratori con contratto a termine o temporaneo
(91/383/C.E.E.);
prescrizioni minime da attuare nei cantieri temporanei o mobili (92/57/C.E.E. – Decreto
Legislativo 494 del 1996);
segnaletica di sicurezza (92/58/C.E.E. – Decreto Legislativo n.493 del 1996);
miglioramento della sicurezza e salute delle lavoratrici gestanti, puerpere od in periodo di
allattamento (92/85/C.E.E.);
miglioramento della sicurezza e salute dei lavoratori delle industrie estrattive per trivellazione
(92/91/C.E.E.);
miglioramento della sicurezza e salute dei lavoratori delle industrie estrattive a cielo aperto e
sotterranee (92/104/C.E.E.);
prescrizioni minime di sicurezza e salute per il lavoro a bordo delle navi da pesca (93/103/C.E.E.
– recepita con Decreto Legislativo n. 298 del 1999, Decreto Legislativo n. 271 del 1999 per le
navi mercantili da pesca nazionali e Decreto Legislativo n. 272 del 1999 per le operazioni e
servizi portuali);
radiazioni ionizzanti (80/836/EURATOM; 84/467/EURATOM; 84/466/EURATOM;
89/918/EURATOM; 90/641/EURATOM; 92/3/EURATOM; 96/29/EURATOM – recepite con
Decreti Legislativi n. 230 del 1995, 187 del 2000 e 241 del 2000).
2.7. Decreto Legislativo n. 81 del 9 aprile 2008
In Italia la salute e la sicurezza sul lavoro sono regolamentate dal Decreto Legislativo n. 81 del 9
aprile 2008, anche noto come Testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, entrato in
vigore il 15 maggio 2008, e dalle relative disposizioni correttive, ovvero dal Decreto Legislativo 3
agosto 2009 n. 106 e da successivi ulteriori Decreti.
Per Testo Unico in materia di Salute e Sicurezza nei luoghi di lavoro (noto anche con l’acronimo
T.U.S.L.) si intende, nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano, l’insieme di norme contenute
nel Decreto Legislativo del 9 aprile 2008 n. 81.
Il Decreto Legislativo n. 81/2008 e ss.mm.ii. riunisce in un unico testo le norme esistenti in materia
di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro.
Tale Decreto si occupa della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori sui luoghi di lavoro e
si applica:
alla persona sotto ogni aspetto: salute, sicurezza, dignità, tenendo conto della provenienza
geografica e del genere;
al lavoro, in qualunque forma svolto, in tutti i settori, sia pubblici sia privati, cui siano adibiti
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lavoratori dipendenti o ad essi equiparati. Riconosce il principio dell’effettività della tutela:
diritto di tutti coloro che operano negli ambienti di lavoro, qualunque sia il rapporto o contratto
di lavoro. Ciò implica altresì un’effettività di doveri e l’esercizio di fatto dei poteri direttivi,
esercizio che stabilisce che le posizioni di garanzia relative ai soggetti (Decreto Legislativo
81/08 art. 2, c. 1 lett. b), d), e) gravano su colui il quale, pur sprovvisto di regolare investitura,
eserciti in concreto i poteri giuridici riferiti al Datore di Lavoro (D.L), ai Dirigenti ed ai Preposti
(Decreto Legislativo n. 81/2008 art. 299).
2.7.1. Contenuto
La norma, in attuazione dell’articolo 1 della Legge 3 agosto 2007 n. 123, ha riformato, riunito ed
armonizzato abrogandole, le disposizioni dettate da numerose precedenti normative in materia di
sicurezza e salute nei luoghi di lavoro succedutesi, nell’arco di quasi sessant’anni, al fine di
adeguare il corpus normativo all’evolversi della tecnica e del sistema di organizzazione del lavoro.
In ambito legislativo, la denominazione Testo Unico è tra l’altro erronea, in quanto la sicurezza è di
competenza concorrente tra Stato e Regioni, ai sensi dell’art. 117 comma 3 della Costituzione
Italiana; difatti all’art.1 comma 2 si sottolinea la clausola di cedevolezza di questo Decreto
Legislativo, ovvero nel caso in cui un soggetto, con competenza in materia di sicurezza (Regioni),
legiferi in opposizione al Decreto Legislativo 81/2008, esso viene a decadere sul territorio di
competenza dell’organo legiferante.
2.7.2 Struttura del T.U.S.L.
Il Decreto Legislativo n. 81/2008 è formato da 306 articoli e 51 allegati, suddivisi nei seguenti titoli:
Titolo I (art. 1 – 61 ): Principi comuni (Disposizioni generali, sistema istituzionale, gestione della
prevenzione nei luoghi di lavoro, disposizioni penali);
Titolo II (art. 62 – 68): Luoghi di lavoro (Disposizioni generali, Sanzioni);
Titolo III (art. 69 – 87): Uso delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione
individuale (Uso delle attrezzature di lavoro, uso dei dispositivi di protezione individuale,
impianti ed apparecchiature elettriche);
Titolo IV (art. 88 – 160): Cantieri temporanei o mobili (Misure per la salute e sicurezza nei
cantieri temporanei e mobili, Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle
costruzioni e nei lavori in quota, sanzioni);
Titolo V (art. 161 – 166): Segnaletica di salute e sicurezza sul lavoro (Disposizioni generali,
sanzioni);
Titolo VI (art. 167 – 171): Movimentazione manuale dei carichi (Disposizioni generali,
sanzioni);
Titolo VII (art. 172 – 179): Attrezzature munite di videoterminali (Disposizioni generali,
obblighi del datore di lavoro, dei dirigenti e dei preposti, sanzioni);
Titolo VIII (art. 180 – 220): Agenti fisici (Disposizioni generali, protezione dei lavoratori contro
i rischi di esposizione al rumore durante il lavoro, protezione dei lavoratori dai rischi di
esposizione a vibrazioni, dai rischi di esposizione a campi elettromagnetici, dai rischi di
esposizione a radiazioni ottiche, sanzioni);
Titolo IX (art. 221 – 265): Sostanze pericolose (protezione da agenti chimici, protezione da
agenti cancerogeni e mutageni, protezione dai rischi connessi all’esposizione all’amianto,
sanzioni);
Titolo X (art. 266 – 286): Esposizione ad agenti biologici (obblighi del datore di lavoro,
sorveglianza sanitaria, sanzioni);
Titolo XI (art. 287 – 297): Protezione da atmosfere esplosive (disposizioni generali, obblighi del
datore di lavoro, sanzioni);
Titolo XII (art. 298 – 303): Disposizioni diverse in materia penale e di procedura penale;
Titolo XIII (art. 304 – 306): Disposizioni finali.
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La struttura del Decreto è impostata prima con l’individuazione dei soggetti responsabili e poi con
la descrizione delle misure gestionali e degli adeguamenti tecnici necessari per ridurre i rischi
lavorativi; alla fine di ciascun titolo sono indicate le sanzioni in caso di inadempienza.
2.7.3 Innovazioni
Tra le principali novità, introdotte dal Decreto 81/08, rispetto alla normativa previgente si
segnalano:
l’attuazione di particolari misure per la promozione del benessere sul luogo di lavoro e, quindi,
di contrasto a potenziali rischi collegati allo stress lavoro – correlato, in grado di provocare danni
con produzione di malessere a carico di gruppi di lavoratori;
l’ampliamento del campo di applicazione – oggettivo e soggettivo – della normativa in materia
di sicurezza e tutela della salute sul lavoro: in particolare per quanto concerne i beneficiari della
normativa antinfortunistica, il Decreto Legislativo 81/2008 ha regolamentato espressamente
accanto alla promozione dei lavoratori subordinati anche gli utenti di stage aziendali, gli allievi
che fanno uso di laboratori, macchine, apparecchiature, etc., i volontari, i lavoratori in
somministrazione, i lavoratori distaccati, i collaboratori a progetto, i collaboratori coordinati e
continuativi, i lavoratori a domicilio ed i telelavoratori;
una più puntuale ripartizione degli obblighi di prevenzione e protezione tra i diversi destinatari
della normativa antinfortunistica (datori di lavoro, dirigenti e preposti);
il rafforzamento del ruolo, svolto dal medico competente, e dalle prerogative dei rappresentanti
dei lavoratori per la sicurezza in azienda, in particolare quelle dei rappresentanti dei lavoratori
per la sicurezza territoriale;
l’inserimento nei programmi scolastici ed universitari della materia sulla salute e sicurezza sul
lavoro;
la revisione, nonché l’inasprimento, dell’intero sistema sanzionatorio;
e infine va menzionato, per la sua importanza, sotto il profilo della nuova cultura, l’istituto dei
modelli di organizzazione e di gestione.
Il Decreto Legislativo 81/2008 propone un sistema di gestione della sicurezza e della salute in
ambito lavorativo preventivo e permanente, attraverso:
l’individuazione dei fattori e delle sorgenti di rischi;
la riduzione, che deve tendere al minimo del rischio;
il continuo controllo delle misure preventive messe in atto;
l’elaborazione di una strategia aziendale che comprenda tutti i fattori di un’organizzazione
(tecnologie, organizzazione, condizioni operative, etc.).
Il Decreto, inoltre, ha definito in modo chiaro le responsabilità e le figure in ambito aziendale per
quanto concerne la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Al testo degli articoli del Decreto sono stati aggiunti altri 51 allegati tecnici che riportano, in modo
sistematico e coordinato, le prescrizioni tecniche di quasi tutte le norme più importanti emanate in
Italia dal dopoguerra ad oggi.
2.7.4. Abrogazioni
Il nuovo Testo unico ha previsto l’abrogazione (con differenti modalità temporali) delle seguenti
normative:
Decreto del Presidente della Repubblica del 27 aprile 1955, n. 547;
Decreto del Presidente della Repubblica del 7 gennaio 1956 n. 164;
Decreto del Presidente della Repubblica del 19 marzo 1956, n. 303, fatta eccezione per l’art. 64;
Decreto Legislativo del 15 agosto 1991, n. 277;
Decreto Legislativo del 19 settembre 1994, n. 626;
Decreto Legislativo del 14 agosto 1996, n. 493;
Decreto Legislativo del 14 agosto 1996, n. 494;
16
Decreto Legislativo del 19 agosto 2005, n. 187;
art. 36 bis, commi 1 e 2 del Decreto Legge 4 luglio 2006 n. 223, convertito con modificazioni
dalla Legge 5 agosto 2006 n. 248;
artt. 2, 3, 5, 6 e 7 della Legge 3 agosto 2007, n. 123.
Il Decreto Legislativo 81/2008 abroga, tra le altre norme, prima di tutte il Decreto Legislativo
626/94, anche il precedente decreto Decreto Legislativo 494/1996 riguardante i cantieri temporanei
o mobili, integrandone le disposizioni nel Titolo IV, introducendo importanti modifiche ed
inserendo specifiche norme tecniche negli allegati.
Il Decreto Legislativo 81/2008 non ha invece abrogato il Decreto Legislativo 27 luglio 1999, n. 271
“Adeguamento della normativa sulla sicurezza e salute dei lavoratori marittimi a bordo delle navi
mercantili da pesca nazionali”.
Attualmente si sta lavorando per cercare di integrare il Decreto Legislativo 271/99 con il Decreto
Legislativo 81/2008: azione di non semplice fattibilità che dovrà necessariamente tener conto di
importanti aspetti che connotano il settore della Navigazione.
Con l’entrata in vigore del 271/99 i lavoratori marittimi hanno ottenuto anche essi “importanti
vantaggi” a salvaguardia della propria salute ed integrità fisica, uno tra tanti risulta essere
sicuramente l’estensione dell’obbligo di Sorveglianza Sanitaria (art. 23. Decreto Legislativo
271/99) a cura del medico competente, del Lavoratore Marittimo che sino all’entrata in vigore del
suddetto Decreto era assoggettato a visite mediche volte a constatare l’idoneità/inidoneità alla
navigazione attraverso la visita biennale, svolta dalla Sanità Marittima, senza che fosse verificata da
medici specialisti l’idoneità/inidoneità alla mansione specifica, svolta a bordo delle unità navali,
fondamentale per prevenire l’insorgenza di tecnopatie.
Attualmente il C.I.S.P.I. – Centro Italiano Sicurezza Prevenzione Informazione detiene la più ampia
ed importante banca dati in Italia, riguardante “l’andamento della Sorveglianza Sanitaria in favore
del personale marittimo” ciò in quanto impegnato sin dall’entrata in vigore del Decreto 271/99 in
attività di medicina del lavoro in favore di diverse migliaia di lavoratori delle più grandi Compagnie
di Navigazione Italiane sia pubbliche sia private (ad esempio Tirrenia di Navigazione, Adriatica di
Navigazione, Campania Regionale Marittima, Sicilia Regionale Marittima, Sardegna Regionale
Marittima, Toscana Regionale Marittima, etc.).
La banca dati, oltre ai dati strettamente sanitari ed a quelli in cui si evidenziano tecnopatie,
raccoglie una serie di dati riferibili alle diverse classificazioni di rischio, variabili in funzione delle
diverse tipologie navali esaminate (Navi merci, Navi traghetto, Aliscafi, Unità veloci, Catamarani,
Moto pontoni etc.).
Dall’omissione delle precauzioni in materia consegue sia la responsabilità penale del datore di
lavoro sia il diritto al risarcimento del danno in favore del lavoratore subordinato.
Gli indennizzi ai lavoratori infortunati vengono erogati da parte dell’I.N.A.I.L. (Istituto Nazionale
per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro), che è l’istituto assicurativo al quale tutti i
lavoratori devono essere iscritti, con il pagamento dei relativi contributi da parte della Azienda.
2.7.5 Integrazioni
Il Decreto Legislativo 81/2008 è stato successivamente integrato dal Decreto Legislativo n. 106 del
3 agosto 2009, recante Disposizioni integrative e correttive del Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n.
81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Le norme contenute nel cosiddetto “Decreto correttivo” sono entrate in vigore il 20 agosto 2009.
2.7.6 Figure che vigilano il Decreto Legislativo 81/2008
Di seguito sono riportate le principali figure che esercitano la vigilanza nel rispetto del Decreto
Legislativo 81/08:
• Aziende A.S.L. (Azienda Sanitaria Locale);
• D.R.L. (Direzione Regionale del Lavoro);
• Vigili del Fuoco;
17
•
•
I.N.A.I.L.;
I.S.P.E.S.L.
2.7.7. Figure introdotte dal Decreto Legislativo 81/2008 nel panorama della sicurezza
Dal 15 maggio 2008, data di entrata in vigore del Decreto Legislativo 81/08, come era sancito già
nel Decreto Legislativo 626/94, i nuovi soggetti con responsabilità sulla sicurezza dei lavoratori non
sono necessariamente appartenenti all’impresa, ma possono assumere vincoli di responsabilità
attraverso i contratti esterni.
Il datore di lavoro è diventato colui che ha, sia la titolarità del rapporto di lavoro con il lavoratore,
sia la responsabilità dell’organizzazione, nella quale questo opera, comprendendo perciò anche le
interferenze nell’organizzazione stessa.
Requisito indispensabile è la titolarità nel potere decisionale e di spesa dell’impresa.
È responsabile unico della valutazione dei rischi aziendali.
Dirigenti e preposti detengono poteri collegati ad incarichi, conferiti dal datore di lavoro o dalle
posizioni funzionali dei rispettivi contratti lavorativi, inerenti rispettivamente: la funzione direttiva
ed il controllo sull’applicazione di direttive specifiche da parte dei lavoratori.
Il requisito è l’acquisizione dell’incarico perciò non è detto che debbano essere dipendenti diretti
dell’impresa.
È previsto e dettagliato all’art. 16 il sistema della delega di funzioni che è esclusa solo per quanto
concerne la valutazione dei rischi e la nomina del Responsabile del Servizio di Prevenzione e
Protezione e che consente di trasferire parte delle responsabilità dal datore di lavoro ai dirigenti ed
ai preposti.
I lavoratori sono definiti come coloro che svolgono l’attività lavorativa all’interno
dell’organizzazione del datore di lavoro, e sono ricompresi tutti i tipi di contratto lavorativo vigente.
Possono eleggere loro rappresentanti con funzioni legate alla collaborazione con il datore di lavoro
sull’applicazione della sicurezza ed al controllo del suo operato, (rappresentanti dei lavoratori per la
sicurezza detti R.L.S.); in mancanza di soggetti eletti assumono l’incarico rappresentanti di zona o
di categoria, nonché rappresentanti di sito produttivo nelle organizzazioni complesse.
Ogni impresa dovrà comprendere un Servizio di Prevenzione e Protezione, diretto da un
responsabile (detto R.S.P.P.), addetto specificamente all’analisi, individuazione dei rischi,
valutazione e ricerca dei metodi di eliminazione degli stessi, quale servizio di “consulenza” del
datore di lavoro. Responsabile e addetti all’S.P.P. possono essere anche incaricati esterni, eccetto
che per le attività considerate problematiche secondo l’articolo 31 comma 6, per le quali è
obbligatorio il servizio interno.
Il medico competente, in genere libero professionista, con il contratto stipulato con il datore di
lavoro, o con i dirigenti, assume precise responsabilità, legate non solo alla regolarità dei protocolli
sanitari e delle visite mediche, ma anche alla “gestione” delle cartelle sanitarie, delle idoneità alle
mansioni, all’individuazione delle possibili patologie legate alle attività svolte.
È confermato l’obbligo della nomina degli addetti all’antincendio, emergenza e pronto soccorso, da
inviare a corsi specifici di formazione di adeguato contenuto e numero di ore.
Ogni soggetto della prevenzione concorre, per le sue specifiche competenze a garantire la salute e la
sicurezza dei lavoratori, strumento indispensabile per tale garanzia è la valutazione dei rischi.
A tutti i soggetti indicati spetta l’applicazione del Decreto, secondo le rispettive attribuzioni e
competenze.
Sono previste sanzioni differenziate per la mancata applicazione di numerosi obblighi a carico delle
diverse figure professionali, la cui entità è spesso condizionata da comportamenti diversi nelle
situazioni.
18
3. Figure del sistema sicurezza sul lavoro
(DECRETO LEGISLATIVO 9
52)
aprile 2008, n. 81, TITOLO I, CAPO I, art. 2, CAPO III artt. 15 – 26; 31 – 42; 47 –
Premessa
Di seguito sono riportate le principali figure coinvolte nel sistema di sicurezza aziendale, previste
dal Decreto Legislativo 81/08 e sue successive modificazioni ed integrazioni:
• Datore di lavoro (D.L.);
• Dirigente;
• Preposto;
• Medico Competente (M.C.);
• Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (R.S.P.P.);
• Addetto al Servizio di Prevenzione e Protezione (A.S.P.P.);
• Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (R.L.S.);
• Lavoratore.
1. Datore di lavoro
Il datore di lavoro, nell’ambito di un rapporto di lavoro, è una delle parti del contratto di lavoro
subordinato.
Requisito caratterizzante è quello di avere alle proprie dipendenze un lavoratore subordinato: si
pensi al datore di lavoro domestico, cioè colui che ha alle proprie dipendenze una colf, un
domestico, etc.
Il datore di lavoro (D.L.) è il titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore od il soggetto che ha la
responsabilità dell’organizzazione o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di
spesa; nelle Pubbliche Amministrazioni è il Dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero
il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi nei quali sia preposto ad un ufficio
avente autonomia gestionale, individuato dall’organo di vertice della singola amministrazione, e
dotato di poteri decisionali e di spesa.
In caso di omessa individuazione o di individuazione non conforme ai criteri sopraindicati, il datore
di lavoro coincide con l’organo di vertice medesimo.
La sua posizione è molto complessa per la compresenza di situazioni attive e passive, di diritti e
obblighi corrisposti e correlati con quelli del lavoratore.
Non è necessario porre in essere particolari norme od atti per essere datore di lavoro, salvo quanto
previsto dalla Legge: la loro forma è del tutto libera potendo assumere sia la forma orale che quella
scritta attraverso l’emanazione di circolari od ordini di servizio.
1.1. Poteri del datore di lavoro
Il complesso dei poteri del datore di lavoro viene sintetizzato nell’espressione potere direttivo, che
consiste in un insieme di facoltà nei confronti dei lavoratori subordinati:
• nel potere strettamente direttivo;
• nel potere di vigilanza e controllo sui lavoratori;
• nel potere disciplinare.
1.2. Obblighi del datore di lavoro non delegabili
In capo al soggetto “datore di lavoro” sono previsti obblighi delegabili e non delegabili.
Il datore di lavoro non può delegare le seguenti attività:
la valutazione dei rischi con la conseguente elaborazione del documento di valutazione dei rischi
(D.V.R.);
la designazione del Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione dai rischi;
l’elaborazione del piano di sicurezza.
19
Per le altre funzioni, per le quali la delega non è espressamente esclusa, rimane in capo al datore di
lavoro l’obbligo di vigilanza in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni
trasferite (Decreto Legislativo 81/2008 art. 16).
Tuttavia il datore di lavoro può, anzi deve, avvalersi dell’opera del Responsabile del Servizio di
Prevenzione e Protezione per valutare i rischi.
In tal caso come si distribuiscono le responsabilità del datore di lavoro e del Responsabile del
Servizio di Prevenzione e Protezione in caso di inadeguata od incompleta valutazione dei rischi?
Secondo la Corte di Cassazione tre sono gli obblighi che il datore di lavoro deve assolutamente
assolvere:
1. valutare le capacità tecniche di chi redige materialmente il documento, altrimenti c’è “colpa in
eligendo”;
2. valutare preventivamente quali siano i rischi maggiormente significativi;
3. verificare, poi, se questi rischi siano stati presi in considerazione nel documento e se siano state
prospettate soluzioni idonee a contrastarli.
Se il datore di lavoro rispetta tali condizioni non potrà essere ritenuto responsabile di una scelta
errata da lui non controllabile.
1.3. Obblighi del datore di lavoro
In Italia gli obblighi del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori subordinati sono
essenzialmente:
• corrispondere il trattamento economico e normativo dovuto: e cioè la retribuzione (art. 2099
Codice Civile), con i relativi accessori, provvedere agli obblighi previdenziali e assistenziali
previsti dalla Legge e dal contratto collettivo;
• garantire la sicurezza sul lavoro;
• tutelare la privacy dei lavoratori;
• informare e formare i prestatori di lavoro (ai quali devono essere comunicati qualifica,
mansioni, periodi di ferie, prospetto paga etc.), ed il sindacato che deve essere informato non
solamente sul rapporto di lavoro in corso di svolgimento, ma anche sulla gestione complessiva
dell’impresa;
• nominare il “Medico Competente” nei casi in cui la Legge preveda la sorveglianza sanitaria
obbligatoria per i lavoratori a rischio, ai sensi del Testo Unico sulla Sicurezza sul Lavoro
(Decreto Legislativo 81/2008, art. 18, comma 1, let. a));
2. Dirigente
Nello specifico, il dirigente è quella persona che, in ragione delle competenze professionali e di
poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli, attua le direttive del
datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e vigilando su di essa.
2.1. Obblighi del datore di lavoro e del dirigente
Il datore di lavoro, che esercita le attività e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività
secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono:
nominare il medico competente per l’effettuazione della sorveglianza sanitaria nei casi previsti
dal presente Decreto Legislativo;
designare preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione
incendi e lotta antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave e
immediato, di salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione dell’emergenza;
nell’affidare i compiti ai lavoratori, tenere conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in
rapporto alla loro salute ed alla sicurezza;
fornire ai lavoratori i necessari ed idonei dispositivi di protezione individuale, sentito il
Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione ed il medico competente, ove presente;
prendere le misure appropriate affinché soltanto i lavoratori, che abbiano ricevuto adeguate
20
istruzioni e specifico addestramento in materia di salute e sicurezza, accedano alle zone che li
espongono ad un rischio grave e specifico;
richiedere l’osservanza, da parte di tutti i lavoratori, delle norme vigenti e di tutte le disposizioni
aziendali in materia di sicurezza, di igiene del lavoro e di uso dei Dispositivi di Protezione
Individuale (DP.I.) e dei Dispositivi di Protezione Collettiva (D.P.C.) messi a loro disposizione;
inviare i lavoratori alla visita medica entro le scadenze previste dal programma di sorveglianza
sanitaria e richiedere al medico competente l’osservanza degli obblighi previsti a suo carico nel
presente Decreto;
nei casi di sorveglianza sanitaria, comunicare tempestivamente al medico competente la
cessazione del rapporto di lavoro;
adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenza e dare
istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato ed inevitabile, abbandonino
il posto di lavoro o la zona pericolosa;
informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave ed immediato
circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione;
adempiere agli obblighi di informazione, formazione ed addestramento;
astenersi, salvo eccezione debitamente motivata da esigenze di tutela della salute e sicurezza, dal
richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un
pericolo grave ed immediato;
consentire ai lavoratori di verificare, mediante il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza,
l’applicazione delle misure di sicurezza e di protezione della salute;
consegnare tempestivamente al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, su richiesta di
questi e per l’espletamento della sua funzione, copia del documento di valutazione rischi;
elaborare il documento, anche su supporto informatico e, consegnarne tempestivamente copia ai
rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza: il documento è consultabile esclusivamente in
azienda.
prendere appropriati provvedimenti per evitare che le misure tecniche adottate possano causare
rischi per la salute della popolazione o deteriorare l’ambiente esterno verificando periodicamente
la perdurante assenza di rischio;
comunicare in via telematica all’I.N.A.I.L. ed all’I.P.S.E.M.A., nonché per loro tramite, al
sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro entro 48 ore dalla
ricezione del certificato medico, a fini statistici e informativi, i dati e le informazioni relativi agli
infortuni sul lavoro che comportino l’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello
dell’evento e, a fini assicurativi, quelli relativi agli infortuni sul lavoro che comportino
un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni;
consultare il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza;
adottare le misure necessarie ai fini della prevenzione incendi e dell’evacuazione dei luoghi di
lavoro, nonché per un caso di pericolo grave e immediato. Tali misure devono essere adeguate
alla natura dell’attività, alle dimensioni dell’azienda o dell’unità produttiva, ed al numero delle
persone presenti.
nell’ambito dello svolgimento di attività in regime di appalto e di subappalto, munire i lavoratori
di apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del
lavoratore e l’indicazione del datore di lavoro;
nelle aziende con più di 15 lavoratori, indire, direttamente o tramite il Servizio di Prevenzione e
Protezione, una riunione con cadenza minima annuale;
aggiornare le misure di prevenzione in relazione ai mutamenti organizzativi e produttivi che
hanno rilevanza ai fini della salute e sicurezza del lavoro, od in relazione al grado di evoluzione
della tecnica della prevenzione e della protezione;
comunicare in via telematica all’I.N.A.I.L. ed all’I.P.S.E.M.A., nonché per loro tramite, al
sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro, in caso di nuova elezione
o designazione, i nominativi dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza; in fase di prima
21
applicazione l’obbligo di cui alla presente lettera riguarda i nominativi dei rappresentanti dei
lavoratori già eletti o designati;
vigilare affinché i lavoratori per i quali vige l’obbligo di sorveglianza sanitaria non siano adibiti
alla mansione lavorativa specifica senza il prescritto giudizio di idoneità;
fornire al Servizio di Prevenzione e Protezione ed al medico competente informazioni in merito
a:
1. natura dei rischi;
2. organizzazione del lavoro;
3. programmazione ed attuazione delle misure preventive e protettive;
4. descrizione degli impianti e dei processi produttivi;
5. dati relativi alle malattie professionali;
6. provvedimenti adottati da organi di vigilanza.
3. Medico competente
3.1. La sorveglianza sanitaria
La Sorveglianza Sanitaria Obbligatoria (S.S.O.) è effettuata dal Medico Competente nei casi
previsti dalla Legge, e/o su richiesta del lavoratore.
Non è prevista per ogni lavoratore ma viene attuata solamente per i lavoratori esposti a rischi
specifici individuati dalla normativa vigente.
Comprende:
accertamenti preventivi intesi a constatare l’assenza di controindicazioni al lavoro cui i lavoratori
sono destinati, ai fini della valutazione della loro idoneità alla mansione specifica;
accertamenti periodici per controllare lo stato di salute dei lavoratori ed esprimere giudizio di
idoneità alla mansione specifica:
su richiesta;
al cambio di mansione;
a cessazione del rapporto di lavoro.
3.2. Il medico competente
La figura del medico competente, all’interno del panorama legislativo in materia di sicurezza, ed
all’interno del Servizio di Prevenzione e Protezione aziendale, gioca un ruolo fondamentale affinché
il servizio stesso risulti efficace e funzionale.
Questa figura professionale accompagna l’evoluzione dell’intero contesto industriale e lavorativo
Italiano, chiamato dapprima “medico di Fabbrica”, successivamente “medico del lavoro”, oggi il
Medico Competente interviene direttamente nell’attuazione del servizio di prevenzione, a fianco del
datore di lavoro e del Responsabile del Servizio.
Se infatti una volta il Medico Competente si limitava alla valutazione fisico – sanitaria del
lavoratore, ora è invece coinvolto fin dall’inizio del processo di prevenzione interno – aziendale.
Nelle aziende in cui viene impiegato un certo numero di lavoratori è richiesta la presenza del
medico competente, il quale viene nominato dal datore di lavoro allo scopo di svolgere un’attività di
sorveglianza sanitaria e di prestare collaborazione a questi in occasione della valutazione dei rischi.
La funzione di medico competente è esercitata soltanto da persone in possesso di una delle seguenti
competenze:
oltre alla laurea in medicina è necessaria specializzazione in medicina del lavoro od in medicina
preventiva dei lavoratori e psicotecnica od in tossicologia industriale od in igiene industriale od
in fisiologia ed igiene del lavoro od in clinica del lavoro od in igiene e medicina preventiva od in
medicina legale e delle assicurazioni ed altre specializzazioni individuate, ove necessario, con
Decreto del Ministro della Sanità di concerto con il Ministro dell’Università e della Ricerca
Scientifica e Tecnologica;
comprovato periodo di insegnamento in qualità di docente in medicina preventiva dei lavoratori
e psicotecnica od in tossicologia industriale od in igiene industriale od in fisiologia ed igiene del
22
lavoro;
aver svolto il ruolo di medico del lavoro all’interno di uno dei corpi delle Forze Armate.
I medici che possono svolgere questo ruolo aziendale sono inseriti nell’elenco dei medici
competenti, tenuto presso il Ministero della Salute, e sono obbligati a partecipare al programma di
educazione continua in medicina.
L’attività di medico competente può essere prestata da un professionista esterno, cioè non alle
dipendenze dirette del datore di lavoro, bensì alle dipendenze di un’azienda od una struttura esterna
pubblica o privata, oppure in qualità di libero professionista.
In caso contrario si tratterà di un medico che decide di essere un dipendente del datore di lavoro.
È obbligo del datore di lavoro fornire al medico competente una struttura idonea ed attrezzata per lo
svolgimento del proprio incarico, senza poter dare delle direttive e senza alcuna interferenza
lavorativa.
Inoltre in alcuni casi particolari, il medico può disporre che un lavoratore sia sottoposto a visite
specialistiche e ad accertamenti diagnostici per i quali il datore di lavoro deve sopportare i costi.
Elabora in collaborazione con il datore di lavoro il Documento di valutazione dei Rischi, lo rivede
periodicamente, apportando suggerimenti e migliorie, effettua un sopralluogo agli ambienti di
lavoro e partecipa in maniera proattiva alla riunione periodica sulla sicurezza indetta ai sensi
dell’art. 35 del Decreto Legislativo 81/08 una volta all’anno.
In alcuni casi, previsti dalla Legge o su richiesta dei lavoratori, nelle ipotesi di necessità relative alla
presenza di rischi lavorativi, il medico competente compie attività di sorveglianza sanitaria.
L’obbligo della sorveglianza sanitaria, in Italia, vige per le aziende la cui classificazione di rischio
esponga i lavoratori ad una tipologia di rischio soggetta a controlli medici periodici, ne sono un
esempio le aziende che abbiano un rischio di tipo biologico, chimico o da esposizione a
Videoterminale.
Per queste aziende, indipendentemente dal numero di lavoratori presenti, il datore di lavoro designa
un medico, che abbia una specializzazione in medicina del lavoro, per l’elaborazione e l’attuazione
di uno specifico protocollo di sorveglianza sanitaria.
Il protocollo di sorveglianza viene quindi condiviso con il Servizio di Prevenzione e Protezione, ed
è definito sulle specifiche mansioni dei lavoratori interessati.
La periodicità minima dei controlli è definita dal Decreto Legislativo 81/08, ma è il medico
competente che in virtù dell’esperienza professionale e dei rischi specifici, stabilisce il contenuto
della sorveglianza e valuta se applicare una periodicità più stringente.
Questa attività riguarda tutta una serie di visite che il medico effettua nei confronti:
dei futuri lavoratori (visita preventiva);
dei lavoratori già avviati, con una precisa periodicità al fine di valutare il loro stato di salute e le
conseguenze su di essi, in seguito ad esposizione a particolari rischi (visita medica periodica);
del singolo lavoratore qualora sia lo stesso lavoratore a farne richiesta e se il medico dichiari
l’opportunità di effettuare la visita in relazione all’attività lavorativa svolta (visita su richiesta);
dei lavoratori che cambiano attività o mansione per accertarne l’idoneità alla nuova destinazione
(visita per cambio mansione);
del lavoratore che rientra al lavoro dopo un’assenza per malattia per un periodo superiore ai 60
giorni continuativi, per attestarne l’attitudine fisica alla riassunzione della mansione (visita per
ripresa del lavoro).
A queste si aggiungono gli accertamenti clinici totalmente a carico del datore di lavoro, che sono
resi necessari sulla base di una valutazione del medico che riguarda i rischi presenti in azienda.
Dall’esito della sorveglianza sanitaria ne deriva un giudizio che può essere: di piena idoneità, di
idoneità parziale o temporale oppure di inidoneità totale o parziale, per la mansione specifica;
questo giudizio indipendentemente dalle cause che ne hanno generato la diagnosi, è l’unico dato
personale sanitario che viene trasmesso all’azienda.
Contro il giudizio del medico competente, un lavoratore può sempre presentare un ricorso
23
all’organo di vigilanza competente per territorio, entro 30 giorni dalla comunicazione del giudizio.
Se non ci sono ostacoli, il datore di lavoro si attiene al giudizio del medico competente e adotta le
eventuali misure che consentono al lavoratore di svolgere la propria attività con la minor
esposizione ai rischi possibile, eventualmente anche destinando il lavoratore ad altre attività e
mantenendo lo stesso trattamento economico.
Tutti i dati delle indagini mediche e anamnestici, vengono registrati dal medico in apposita cartella
sanitaria, conservata a salvaguardia del segreto professionale a cura del medico stesso, e che segue
il lavoratore attraverso la sua carriera professionale.
In definitiva, oggi il medico competente diviene in molti casi un consulente al fianco del lavoratore,
ricoprendo un ruolo di supporto anche dal punto di vista psicologico e sociale; l’introduzione di
nuovi rischi, quali per esempio il lavoro stress – correlato, e di nuove modalità di approccio al
lavoro all’interno di situazioni e contesti in cui l’integrazione del lavoratore svolge un ruolo
fondamentale per il benessere stesso dell’individuo, pongono il medico competente a dover
allacciare spesso rapporti molto personali con il lavoratore, al quale devono essere sempre, per
esempio, illustrati e spiegati gli esiti della sorveglianza.
Con il Decreto Legislativo 81/08 la figura del medico competente si carica di significati e
responsabilità non ancora del tutto definiti e definibili, ma che si evolvono gradualmente e
parallelamente allo sviluppo delle realtà lavorative italiane.
Il medico competente collabora con il datore di lavoro ai fini della valutazione dei rischi ed è
nominato dallo stesso per:
collaborare con l’organizzazione per l’attuazione delle misure per la tutela della salute e
dell’integrità psicofisica dei lavoratori;
eseguire la Sorveglianza Sanitaria Obbligatoria (visite mediche);
esprimere per i lavoratori giudizi di idoneità alla mansione specifica del lavoro;
istituire ed aggiornare la cartella sanitaria e di rischio per ogni lavoratore sottoposto a
sorveglianza sanitaria;
fornire informazioni ai lavoratori sul significato degli accertamenti sanitari;
consegnare, su richiesta del lavoratore sottoposto ad accertamenti sanitari, copia della
documentazione;
collaborare con il datore di lavoro all’organizzazione del pronto soccorso;
visitare, congiuntamente al Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, gli ambienti
di lavoro almeno una volta all’anno.
4. Sistema di Prevenzione e Protezione (S.P.P.)
4.1. Definizione
Ai sensi dell’articolo 2 del Decreto Legislativo 81/08 per Servizio di Prevenzione e Protezione
(S.P.P.) dai rischi si intende come tale l’insieme delle persone, sistemi e mezzi esterni od interni
all’azienda finalizzati all’attività di prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori.
In tutte le attività il datore di lavoro organizza il Servizio di Prevenzione e Protezione all’interno
della azienda o dell’unità produttiva, od incarica persone o servizi esterni, costituiti anche presso le
associazioni dei datori di lavoro o gli organismi paritetici, secondo quanto disposto all’art. 31 del
Decreto Legislativo 81/08.
Tale servizio è composto da un Responsabile e, se necessario, da un numero sufficiente di addetti al
Servizio di Prevenzione e Protezione.
Tali figure possono essere interne od esterne, ove previsto, e devono possedere le capacità ed i
requisiti professionali richiesti dalla Legge (e frequentare i corsi di formazione previsti), essere in
numero sufficiente rispetto alle caratteristiche dell’azienda e disporre di mezzi e tempi adeguati per
lo svolgimento dei compiti loro assegnati. Essi non possono subire pregiudizio a causa dell’attività
svolta nell’espletamento del proprio incarico.
Anche nell’ipotesi di utilizzo di un servizio interno, il datore di lavoro può avvalersi di persone
esterne all’azienda in possesso delle conoscenze professionali necessarie, per integrare, ove occorra,
24
l’azione di prevenzione e protezione del servizio.
Il ricorso a persone o servizi esterni è obbligatorio in assenza di dipendenti che, all’interno
dell’azienda ovvero dell’unita produttiva, siano in possesso dei requisiti necessari.
Anche se il datore di lavoro ricorre a persone o servizi esterni non è esonerato dalla responsabilità
in materia.
L’istituzione del Servizio di Prevenzione e Protezione interno è comunque obbligatoria nei seguenti
casi:
nelle aziende industriali a rischio di incidente rilevante di cui all’articolo 2 del Decreto
Legislativo 17 agosto 1999, n. 334, e successive modificazioni, soggette all’obbligo di notifica o
rapporto, ai sensi degli articoli 6 ed 8 del medesimo Decreto;
nelle centrali termoelettriche;
negli impianti ed installazioni di cui agli articoli 7, 28 e 33 del Decreto Legislativo 17 marzo
1995, n. 230, e successive modificazioni (impianti ed installazioni nucleari);
nelle aziende per la fabbricazione ed il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni;
nelle aziende industriali con oltre 200 lavoratori;
nelle industrie estrattive con oltre 50 lavoratori;
nelle strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori.
In tutti questi casi, il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione deve essere interno.
Nei casi di aziende con più unità produttive nonché nei casi di gruppi di imprese, può essere istituito
un unico Servizio di Prevenzione e Protezione, i datori di lavoro possono rivolgersi a tale struttura
per l’istituzione del servizio e per la designazione degli addetti e del responsabile.
Il Servizio di Prevenzione e Protezione provvede (art. 33 Decreto Legislativo 81/2008):
all’individuazione dei fattori di rischio, alla valutazione dei rischi ed all’individuazione delle
misure per la sicurezza e la salubrità degli ambienti di lavoro, nel rispetto della normativa
vigente sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale;
ad elaborare, per quanto di competenza, le misure preventive e protettive previste dal documento
di valutazione dei rischi;
ad elaborare le procedure di sicurezza per le varie attività aziendali;
a proporre i programmi di informazione e formazione dei lavoratori;
a partecipare alle consultazioni in materia di tutela della salute e di sicurezza, nonché alla
riunione periodica di cui all’art. 35;
a fornire ai lavoratori le informazioni dovute.
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione può proporre al Direttore di emanare
normative interne di esecuzione, regolamenti specifici, procedure od altri provvedimenti riguardanti
la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro.
Il Servizio Prevenzione e Protezione effettua la valutazione dei rischi, l’elaborazione delle misure
preventive e protettive e la stesura del programma di attuazione degli interventi di miglioramento in
stretta collaborazione con i gruppi di ricerca.
Il Servizio Prevenzione e Protezione collabora per fornire alle imprese appaltatrici ed ai lavoratori
autonomi informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e
sulle misure di prevenzione e di emergenza, adottate in relazione alla propria attività.
4.2. Composizione del Servizio di Prevenzione e Protezione:
• Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (R.S.P.P.);
• Addetti al Servizio di Prevenzione e Protezione (A.S.P.P.);
1. Addetto Primo Soccorso;
2. Addetto Emergenza ed Antincendio.
5. Responsabile del Sistema di Prevenzione e Protezione (S.P.P.)
25
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (o R.S.P.P.) è una figura disciplinata
nell’ordinamento giuridico italiano dal Decreto Legislativo 81/2008.
Fu introdotta in Italia per la prima volta dal Decreto Legislativo 19 settembre 1994 n. 626, emanato
in recepimento di diverse Direttive europee riguardanti il miglioramento della sicurezza e della
salute dei lavoratori durante il lavoro.
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (R.S.P.P.) è una persona in possesso delle
capacità e dei requisiti professionali, individuati dalla Legge e adeguati alla natura dei rischi
presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative.
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione viene designato dal datore di lavoro per
coordinare il Servizio di Prevenzione e Protezione dai Rischi e per assicurare l’adempimento dei
compiti dello stesso S.P.P.
5.1. Caratteristiche
Come stabilito dal Decreto Legislativo 81/2008 all’interno di un’azienda è necessaria la presenza di
un Responsabile del Servizio Prevenzione e Protezione (R.S.P.P.).
Si tratta del professionista esperto in sicurezza, in protezione e prevenzione, nominato dal datore di
lavoro, deve possedere capacità e requisiti adeguati alla natura dei rischi presenti sul luogo di
lavoro, per assumersi e dimostrare di avere quelle responsabilità che gli permettano di gestire e
coordinare le attività del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (S.P.P.), ovvero l’insieme
delle persone, sistemi e mezzi esterni od interni all’azienda finalizzati all’attività di prevenzione e
protezione dai rischi professionali per i lavoratori (art. 2 comma 1 lettera l del Decreto Legislativo
81/2008 e successive modifiche ed integrazioni).
In alcune aziende, a seconda delle dimensioni o della tipologia, il Responsabile del Servizio di
Prevenzione e Protezione può essere affiancato da altri soggetti, gli Addetti al Servizio di
Prevenzione e Protezione (A.S.P.P.), ed anche queste figure professionali devono avere delle
caratteristiche tecniche specifiche per poter svolgere questo ruolo ed aiutare il Responsabile nel
coordinamento del Servizio di Prevenzione e Protezione dei Rischi.
5.2. Funzioni
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione è “persona, in possesso delle capacità e dei
requisiti professionali descritti nell’art. 32, designata dal datore di lavoro, a cui risponde, per
coordinare il Servizio di Prevenzione e Protezione dei Rischi” (Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n.
81, articolo 2).
La nomina dell’R.S.P.P. è uno degli obblighi non delegabili del datore di lavoro (Decreto
Legislativo 9 aprile 2008, n. 81, articolo 17).
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione collabora con il datore di lavoro, il medico
competente ed il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza alla realizzazione del Documento
di valutazione dei rischi.
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione partecipa assieme al medico competente
ed al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza alla riunione periodica indetta annualmente dal
datore di lavoro. L’R.S.P.P. può essere interno oppure esterno all’azienda.
Deve essere nominato un Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione obbligatoriamente
interno all’azienda nei casi previsti dall’art. 31 comma 6 del Decreto Legislativo 81/2008.
In alcune tipologie di aziende, secondo quanto disposto all’art. 34 comma 1 ed Allegato II del
Decreto Legislativo n. 81/2008, la funzione di Responsabile del Servizio di Prevenzione e
Protezione può essere esercitata anche dal datore di lavoro se si tratta di:
aziende artigiane od industriali4, con un massimo di 30 lavoratori;
4
Escluse le aziende industriali soggette a rischi di incidenti rilevanti, soggette all’obbligo di notifica o dichiarazione o,
le centrali termoelettriche, gli impianti ed i laboratori nucleari, le aziende estrattive e altre attività minerarie, le aziende
per la fabbricazione ed il deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni, le strutture di ricovero e cura sia pubbliche
sia private.
26
aziende agricole o zootecniche, che occupano fino a 10 dipendenti;
aziende ittiche con un limite di 20 lavoratori;
altri settori fino a 200 dipendenti.
In queste ipotesi, il datore di lavoro può esercitare il ruolo di Responsabile del Servizio di
Prevenzione e Protezione solo dopo aver frequentato uno specifico corso di formazione di durata
minima di 16 ore e massima di 48 ore, riguardante la sicurezza sui luoghi di lavoro e con l’impegno
di aggiornamento periodico.
L’obbligo si applica anche a coloro che abbiano frequentato i corsi di cui all’articolo 3 del Decreto
Ministeriale del 16 gennaio 1997 ed agli esonerati dalla frequenza dei corsi, ai sensi dell’art. 95 del
Decreto Legislativo 626/94 (già datori di lavoro riconosciuti prima dell’entrata in vigore del
Decreto in questione).
5.3. Responsabilità
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione è un soggetto di prevenzione con compiti
di consulenza che opera in posizione di neutralità.
La Legge non prevede sanzioni contravvenzionali per il Responsabile del Servizio di Prevenzione e
Protezione; tuttavia egli è responsabile del reato di evento se l’infortunio si verifica a causa della
consulenza erroneamente resa.
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, il medico competente ed il
Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza sono responsabili del conseguimento degli obiettivi,
prefissati dal sistema di gestione della sicurezza aziendale e, nello spirito del miglioramento
progressivo dei livelli di salute e di sicurezza, concorrono sinergicamente alla definizione di nuovi
piani, programmi e procedure.
Una delle caratteristiche di maggior rilievo del Responsabile del Servizio di Prevenzione e
Protezione è quella di essere un soggetto che esercita una funzione consultiva e propositiva.
In particolare:
rileva i fattori di rischio, determina nello specifico i rischi presenti ed elabora un piano
contenente le misure di sicurezza da applicare per la tutela dei lavoratori;
presenta i piani formativi ed informativi per l’addestramento del personale;
collabora con il datore di lavoro nell’elaborazione dei dati riguardanti la descrizione degli
impianti, i rischi presenti negli ambienti di lavoro, la presenza delle misure preventive e
protettive e le relazioni provenienti dal medico competente, allo scopo di effettuare la
valutazione dei rischi.
6. Addetto al Servizio di Prevenzione e Protezione (A.S.P.P.)
Persona in possesso delle capacità e dei requisiti professionali di cui all’art. 32, facente parte del
Servizio di Prevenzione e Protezione.
6.1. Capacità e requisiti professionali degli Addetti e dei Responsabili dei Servizi di
Prevenzione e Protezione interni ed esterni
Le capacità ed i requisiti professionali dei Responsabili e degli Addetti ai Servizi di Prevenzione e
Protezione interni od esterni sono individuati dall’art. 32 del Decreto Legislativo 81/2008 e ss.mm.ii
e devono essere adeguati alla natura dei , presenti sul luogo di lavoro e relativi alle attività
lavorative.
Il datore di lavoro, inoltre, dopo averne constatato il possesso di specifiche capacità e requisiti
professionali, può nominare come Responsabile di Servizio Prevenzione e Protezione anche un
dipendente della sua azienda.
È consentita l’attribuzione dell’incarico ad una persona esterna all’azienda, anche in questo caso
previo accertamento delle competenze tecniche e professionali richieste dalla Legge sulla tutela
della sicurezza.
27
Per lo svolgimento delle funzioni di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione e di
Addetti al Servizio di Prevenzione e Protezione, è necessario essere in possesso di un titolo di
studio non inferiore al diploma di scuola media superiore e nonché di un attestato di frequenza, con
verifica dell’apprendimento, a specifici corsi di formazione, adeguati alla natura dei rischi presenti
sul luogo di lavoro e relativi alle attività lavorative.
Per lo svolgimento della funzione di Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, è
inoltre necessario possedere un attestato di frequenza, con verifica dell’apprendimento, a specifici
corsi di formazione abilitanti, denominati comunemente modulo A, modulo B e modulo C.
Il modulo A, la cui durata prevista è di 28 ore: è un credito formativo permanente, non necessita
quindi di aggiornamenti, è propedeutico ai moduli B e C, costituisce il corso generale di base e
riguarda tematiche generali quali la normativa di riferimento, i soggetti del sistema prevenzione
(datore di lavoro, lavoratori, dirigenti, preposti, R.S.P.P., medico competente, responsabile dei
lavoratori per la sicurezza R.L.S., progettisti, lavoratori autonomi), ed altro.
Inoltre vengono espressi concetti quali rischio biologico, chimico, fisico, elettrico, da rumore, da
vibrazioni, da sovraccarico biomeccanico, da agenti cancerogeni e mutageni, amianto, ATEX, da
incidenti rilevanti ed altre tipologie di rischio.
Il modulo B, la cui durata va dalle 12 alle 68 ore, in funzione del settore stesso: costituisce il corso
di specializzazione e si articola in macro – settori definiti considerando i rischi in base alla
classificazione dei settori ATECO. Non è propedeutico al modulo C.
I macro – settori sono 9 e riguardano: industria, agricoltura, pesca, estrazione minerali, industria
chimica, sanità e servizi sociali, pubblica amministrazione, attività artigianali, etc.
Il modulo C, la cui durata prevista è di 24 ore: è un credito formativo permanente, non necessita
quindi di aggiornamenti, è per soli Responsabili del Servizio di Prevenzione e Protezione e riguarda
la formazione sulla prevenzione e sulla protezione dei rischi psicosociali, di natura ergonomica, da
organizzazione del lavoro, da turnazione e derivanti da stress lavoro – correlato.
I Responsabili e gli Addetti dei Servizi di Prevenzione e Protezione sono inoltre tenuti a frequentare
i corsi di aggiornamento secondo gli indirizzi stabiliti dell’Accordo Stato/Regione del 21 dicembre
2011 e fatto salvo quanto previsto per lo svolgimento diretto dei compiti di Responsabile del
Servizio di Prevenzione e Protezione da parte del datore di lavoro.
Possono altresì svolgere le funzioni di Responsabile ed Addetto al Servizio di Prevenzione e
Protezione coloro che, pur non essendo in possesso del titolo di studio di cui al comma 2,
dimostrino di aver svolto una delle funzioni richiamate, professionalmente od alle dipendenze di un
datore di lavoro, almeno da sei mesi alla data del 13 agosto 2003 previo svolgimento dei corsi
secondo quanto previsto dall’Accordo di cui al comma 2 (in pratica è abbuonato il diploma, non la
frequenza ai corsi).
I corsi di formazione sono organizzati da Regioni e Provincia Autonome, dalle università,
dall’I.S.P.E.S.L., dall’I.N.A.I.L., o dall’I.P.S.E.M.A. per la parte di relativa competenza, dal Corpo
nazionale VVF, dall’amministrazione della Difesa, dalla Scuola superiore della Pubblica
Amministrazione e dalle altre Scuole superiori delle singole amministrazioni, dalle associazioni
sindacali dei datori di lavoro o dei lavoratori o dagli organismi paritetici.
Coloro che sono in possesso di laurea triennale nelle materie dell’Ingegneria della sicurezza e della
protezione o di scienze della sicurezza e della protezione o di tecnico della prevenzione e della
protezione, sono esonerati dalla frequenza ai corsi di formazione (solo quelli di formazione di base,
non dagli aggiornamenti periodici).
Le competenze acquisite a seguito dello svolgimento delle attività di formazione nei confronti dei
componenti del servizio interno sono registrate nel libretto formativo del cittadino.
Negli istituti di istruzione, di formazione professionale ed universitari e nelle istituzioni dell’alta
formazione artistica e coreutica, il datore di lavoro che non opta per lo svolgimento diretto dei
compiti propri del Servizio di Prevenzione e Protezione dei Rischi designa il Responsabile dello
stesso, individuandolo tra:
il personale interno all’unità scolastica in possesso dei requisiti descritti che si dichiari a tal fine
28
disponibile;
il personale interno ad un’unità scolastica in possesso dei requisiti di cui al presente articolo che
si dichiari disponibile ad operare in una pluralità di istituti.
In assenza di tale personale, gruppi di istituti possono avvalersi in maniera comune dell’opera di un
unico esperto esterno, tramite stipula di apposita convenzione, in via prioritaria con gli enti locali
proprietari degli edifici scolastici ed, in via subordinata, con enti od istituti specializzati in materia
di salute e sicurezza sul lavoro o con altro esperto esterno libero professionista.
In questi casi il datore di lavoro che si avvale di un esperto esterno per ricoprire l’incarico di
Responsabile del Servizio per la Prevenzione e la Protezione deve comunque organizzare un
Servizio per la Prevenzione e la Protezione con un adeguato numero di addetti.
7. Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (R.L.S.)
In base alla Legge 626/1994 il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza (R.L.S.) è la persona
eletta o designata per rappresentare i lavoratori per quanto concerne gli aspetti della salute e della
sicurezza durante il lavoro.
Le novità introdotte dal Decreto Legislativo 81/2008, hanno permesso di stabilire che all’interno di
tutte le aziende si deve garantire la presenza di un Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, al
quale va garantita dal datore di lavoro, la formazione necessaria per gestire i rapporti con i
lavoratori per questioni che riguardano la salute e la sicurezza sul lavoro.
Il Rappresentante è eletto dai lavoratori, con diverse modalità, a seconda del numero di dipendenti
occupati nell’azienda.
Le aziende che occupano non più di 15 lavoratori, votano il Rappresentante scegliendolo tra i
dipendenti, mentre le aziende che contano più di 15 lavoratori, eleggono il Rappresentante per la
sicurezza all’interno delle rappresentanze sindacali aziendali.
Se l’azienda non dovesse disporre di questi organismi, il Rappresentante verrebbe scelto tra i
lavoratori tramite la solita votazione.
Il Decreto Legislativo 81/2008 stabilisce anche che la nomina degli R.L.S. deve avvenire in
un’unica giornata per tutta la nazione, durante la giornata nazionale per la sicurezza e la salute sul
lavoro, che si celebra in un giorno non prestabilito durante la settimana europea per la sicurezza sul
lavoro.
Il numero dei Rappresentanti deve essere stabilito dalla contrattazione collettiva, ma se ciò non
dovesse succedere, la Legge predetermina il numero minimo di Rappresentanti per la sicurezza che
deve avere un’azienda in rapporto al numero di dipendenti:
1 rappresentante con meno di 200 lavoratori;
3 rappresentanti da 201 a 1000 lavoratori;
6 rappresentanti con più di 1000 dipendenti.
Il Responsabile del Servizio per la Prevenzione e la Protezione svolge tutta una serie di compiti
molto importanti all’interno dell’azienda, volti a dimostrare un costante interessamento rispetto alla
salute ed alla sicurezza dei lavoratori.
In base all’art. 50 del Decreto Legislativo 81/2008, il Responsabile deve:
accedere ai luoghi in cui sono presenti dei rischi;
essere consultato preventivamente e tempestivamente in ordine alla valutazione dei rischi,
individuazione, programmazione, realizzazione e verifica della prevenzione;
essere consultato sulla designazione del Responsabile e degli Addetti al Servizio di Prevenzione
e Protezione, prevenzione incendi, pronto soccorso ed evacuazione dei lavoratori e del medico
competente;
essere consultato in merito all’organizzazione della formazione dei lavoratori incaricati
all’attività di lotta antincendio, pronto soccorso ed evacuazione;
ricevere le informazioni e la documentazione legata alla valutazione dei rischi e le relative
misure di prevenzione nonché quelle inerenti le sostanze e preparati pericolosi, le macchine, gli
impianti, l’organizzazione e gli ambienti di lavoro, gli infortuni e le malattie professionali;
29
ricevere le informazioni provenienti dai servizi di vigilanza;
ricevere una formazione adeguata;
provvedere a promuovere, elaborare, individuare ed attuare le misure di prevenzione idonee a
tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori;
formulare osservazioni in occasione di visite e verifiche effettuate dalle autorità competenti,
dalle quali è, di norma, sentito;
partecipare alla riunione periodica;
avvertire il responsabile d’azienda dei rischi individuati nel corso della sua attività;
fare ricorso alle autorità competenti (A.S.L., Direzione Provinciale del Lavoro ed Autorità
Giudiziaria) qualora ritenga che le misure di prevenzione e protezione adottate non siano idonee
a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro.
In ultimo, il datore di lavoro non può in nessun modo vietare al Rappresentante dei Lavoratori per la
Sicurezza di svolgere le sue funzioni, durante l’orario lavorativo, e non può detrarre denaro dalla
sua ordinaria retribuzione per il tempo dedicato a ricoprire questo ruolo.
8. Preposto
In base all’art. 2 comma I del Testo Unico, il Preposto è persona che, in ragione delle competenze
professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali, adeguati alla natura dell’incarico
conferitogli, sovrintende all’attività lavorativa e garantisce l’attuazione delle direttive ricevute,
controllandone la corretta esecuzione da parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di
iniziativa.
8.1. Obblighi del preposto
In riferimento alle attività, i preposti, secondo le loro attribuzioni e competenze, devono:
sovrintendere e vigilare sull’osservanza da parte dei singoli lavoratori dei loro obblighi di Legge,
nonché delle disposizioni aziendali in materia di salute e sicurezza sul lavoro e di uso dei mezzi
di protezione collettivi e dei dispositivi di protezione individuale, messi a loro disposizione ed, in
caso di persistenza dell’inosservanza, informare i loro superiori diretti;
verificare affinché soltanto i lavoratori che hanno ricevuto adeguate istruzioni accedano alle zone
che li espongono ad un rischio grave e specifico;
richiedere l’osservanza delle misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di
emergenza e dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato e
inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa;
informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave ed immediato
circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione;
astenersi, salvo eccezioni debitamente motivate, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro
attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave ed immediato;
segnalare tempestivamente al datore di lavoro od al dirigente sia le deficienze dei mezzi e delle
attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di
pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della
formazione ricevuta;
frequentare appositi corsi di formazione ed aggiornamento in relazione ai propri compiti in
materia di salute e sicurezza del lavoro.
Alla luce dell’esistenza, in tutti gli ambienti di lavoro, di preposti di fatto, appare necessaria una
ricognizione dei preposti da parte del datore di lavoro.
9. Lavoratore
I lavoratori sono persone che indipendentemente dalla tipologia contrattuale svolgono attività
lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza
retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, arte, professione.
30
9.1. Obblighi dei lavoratori
Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone
presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle proprie azioni od omissioni,
conformemente alla propria formazione, all’istruzione ed ai mezzi forniti dal datore di lavoro.
I lavoratori devono in particolare:
contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti ed ai preposti, all’adempimento degli
obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;
osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti,
ai fini della protezione collettiva ed individuale;
utilizzare correttamente i macchinari, le attrezzature di lavoro, le sostanze ed i preparati
pericolosi, i mezzi di trasporto nonché i dispositivi di sicurezza;
utilizzare in modo appropriato i dispositivi di protezione messi a loro disposizione;
segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente od al preposto le deficienze dei mezzi
e dei dispositivi, nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza,
adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità
e fatto salvo l’obbligo di eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave ed incombente,
dandone notizia al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza;
non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di
controllo;
non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non siano di propria competenza
ovvero che possano compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori;
partecipare ai programmi di formazione e di addestramento, organizzati dal datore di lavoro;
sottoporsi ai controlli sanitari, previsti dal presente Decreto Legislativo, o comunque disposti dal
medico competente.
I lavoratori di aziende che. svolgono attività in regime di appalto o subappalto, devono esporre
apposita tessera di riconoscimento, corredata di fotografia, contenente le generalità del lavoratore e
l’indicazione del datore di lavoro. Tale obbligo grava anche in capo ai lavoratori autonomi che
esercitano direttamente la propria attività nel medesimo luogo di lavoro, i quali sono tenuti a
provvedervi per proprio conto.
Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del
presente Decreto Legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici, assegnati in uso a pubbliche
amministrazioni od a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a
carico dell’amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e
manutenzione.
In tale caso gli obblighi previsti dal presente Decreto Legislativo, relativamente ai predetti
interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con
la richiesta del loro adempimento all’amministrazione competente od al soggetto che ne ha
l’obbligo giuridico.
10. Organi di vigilanza
10.1. Controlli e vigilanza
Il rispetto della normativa in materia di igiene e sicurezza del lavoro, è garantito:
dal controllo degli organismi interni all’attività lavorativa;
dagli interventi ispettivi delle strutture pubbliche preposte alla vigilanza.
Agli organismi interni è riservato il primo livello di prevenzione.
Agli organi di vigilanza pubblici spettano:
le verifiche per il rispetto delle norme antinfortunistiche;
l’adozione degli eventuali provvedimenti sanzionatori;
gli accertamenti a seguito di incidenti sul lavoro.
31
Organi di vigilanza pubblici sono:
Vigili del Fuoco: Il Corpo Nazionale dei VVF è un organo del Ministero dell’Interno.
Tra i compiti dei VVF. rientrano la verifica ed i controlli in materia di prevenzione incendi negli
ambienti di lavoro. Il personale riveste la qualifica di polizia giudiziaria.
L’attività di vigilanza è attuata:
a richiesta dei soggetti interessati, a norma di Legge, ai fini del controllo dell’osservanza delle
norme di prevenzione incendi;
per procedere al controllo di situazioni di potenziale pericolo segnalato o comunque rilevato;
per procedere a controlli a campione sulla base di disposizioni emanate dagli organi centrali
del Corpo Nazionale dei VVF.
A.S.L.: È una struttura operativa del Servizio Sanitario Nazionale, presente a livello provinciale
sul territorio.
L’attività di vigilanza comporta:
verifica dell’applicazione della normativa vigente tramite il controllo dei luoghi di lavoro, la
verifica dei cicli lavorativi e degli impianti, la valutazione delle sostanze usate ed il controllo
degli accertamenti sanitari preventivi e/o periodici;
effettuazione di accertamenti sanitari successivi al ricorso del lavoratore contro il giudizio di
inidoneità del medico competente;
conduzione di indagini:
1. per conto della magistratura, in occasione di infortuni sul lavoro di particolare gravità;
2. sulle condizioni di sicurezza negli ambienti di lavoro.
Direzione Provinciale del Lavoro: è un ufficio periferico del Ministero del Lavoro che ha il
compito, fra l’altro, di vigilare sull’applicazione delle Leggi in materia di lavoro e di sicurezza
sociale.
Presso la Direzione Provinciale del lavoro è previsto il Servizio Ispezioni del Lavoro (S.I.L.)
che può esercitare un’attività di vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di
sicurezza nelle attività lavorative, comportanti rischi particolarmente elevati:
1. attività nel settore delle costruzioni edili o di genio civile e più in particolare lavori di
costruzione, manutenzione, riparazione, demolizione, conservazione e risanamento di opere
fisse, permanenti o temporanee, in muratura ed in cemento armato, opere stradali, ferroviarie,
idrauliche, scavi, montaggio e smontaggio di elementi prefabbricati, lavori in sotterraneo e
gallerie, anche comportanti l’impiego di esplosivi;
2. lavori in cassoni ad aria compressa e lavori subacquei.
I.N.A.I.L. (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro): Ente pubblico
che gestisce l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie
professionali.
ha compiti di riscossione dei premi assicurativi e di erogazione delle prestazioni economiche e
sanitarie di competenza dell’Istituto;
svolge attività di prevenzione, vigilanza ed informazione in materia di sicurezza sul lavoro,
avendo anche un interesse diretto alla riduzione delle spese, legate alle prestazioni agli
infortunati;
dispone di ispettori per:
1. svolgere una vigilanza amministrativa in materia assicurativa;
2. effettuare accertamenti tecnici in occasione di infortuni sul lavoro di particolare gravità;
3. verificare l’esistenza di malattie professionali quali risultino dalle denunce che per Legge
vengono trasmesse all’Ente medesimo.
I.S.P.E.S.L. (Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro): è un organo
32
tecnico – scientifico del Servizio Sanitario Nazionale per quanto riguarda ricerca,
sperimentazione, controllo, consulenza, assistenza, alta formazione, informazione e
documentazione in materia di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali,
sicurezza sul lavoro nonché promozione e tutela della salute negli ambienti di vita e di lavoro.
L’attività di vigilanza comporta:
acquisire ed archiviare i dati relativi alla sorveglianza sanitaria dei lavoratori occupati in
aziende ove esistano rischi derivanti da agenti cancerogeni e biologici, impiego di piombo,
amianto o radiazioni ionizzanti, esposizione a rumore;
effettuare controlli tecnici richiesti da altri Enti od Uffici sulla rispondenza di macchinari e
dispositivi alle normative di sicurezza;
effettuare controlli sulle caldaie;
vigilare sui rischi di incidenti rilevanti, connessi a determinate attività Industriali.
33
4. Valutazione dei rischi e prevenzione nei luoghi di lavoro
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, TITOLO I, CAPO I art. 2, CAPO III artt. 28 e 29)
Premessa
La valutazione dei rischi è la valutazione globale e documentata di tutti i rischi per la salute e
sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui prestano la loro attività.
È lo strumento fondamentale che permette al datore di lavoro di individuare le misure di
prevenzione e di pianificarne l’attuazione, il miglioramento ed il controllo al fine di verificarne
l’efficacia e l’efficienza.
In tale contesto si potranno confermare le misure di sicurezza già in atto od apportare delle
modifiche al fine di migliorarle in relazione alle innovazioni di carattere tecnico e/o
organizzativo introdotte in materia di sicurezza.
La valutazione dei rischi per la salute e la sicurezza assume un’importanza fondamentale tra le
misure generali di tutela costituendo il presupposto dell’intero sistema di prevenzione.
La valutazione dei rischi va effettuata anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle
sostanze o dei preparati chimici impiegati, agenti fisici e biologici nonché nella sistemazione dei
luoghi di lavoro, essa deve riguardare:
tutti i rischi per la sicurezza e salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di
lavoratori esposti a rischi particolari, tra i quali anche quelli collegati allo stress lavoro
correlato;
i rischi riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza;
i rischi connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi;
i rischi connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di
lavoro.
La valutazione del rischio deve dunque riguardare tutti i rischi, secondo le modifiche introdotte
dall’Unione Europea e deve, di conseguenza, tradursi in un documento contenente:
una relazione sulla valutazione dei rischi per la sicurezza e la salute durante il lavoro, nella
quale siano specificati i criteri adottati per la valutazione stessa;
l’individuazione delle misure di protezione e prevenzione e dei dispositivi di protezione
individuale;
il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento nel tempo dei
livelli di sicurezza.
Attraverso la valutazione del rischio si possono delineare gli interventi necessari per eliminare
o/e ridurre al minimo il possibile potenziale di danno (prevenzione attiva e passiva e protezione
dei lavoratori).
Seguendo le linee di lavoro suggerite dal Decreto Legislativo 81/2008 sono possibili le seguenti
azioni:
• eliminazione del pericolo;
• modificazione delle circostanze e delle cause che determinano le situazioni di pericolo che
non possono essere eliminate al fine di poterle controllare e poter prevenire il potenziale di
rischio;
• eliminazione del danno e/o sua riduzione a bassi valori di gravità.
1. Come valutare il rischio
Nella valutazione del rischio sono coinvolte varie fasi che richiedono il contributo di discipline
differenti.
La valutazione inoltre, deve tenere conto del tipo di ambiente di lavoro, dei processi che
intervengono al suo interno e della loro complessità.
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Tuttavia, il processo di valutazione può essere riassunto nei seguenti passaggi:
Individuazione delle sorgenti di pericolo: è finalizzata ad individuare gli elementi in grado
di causare un effetto avverso mediante monitoraggio ambientale e/o biologico e sorveglianza
sanitaria, definendone la dose – risposta e valutando la possibilità di esposizione.
In pratica si procede alla caratterizzazione del rischio ovvero si considera la dose di
esposizione e la sua correlazione con la tipologia, severità e prevalenza dell’effetto avverso
nella popolazione in oggetto.
Poiché diversi fattori possono influenzare la quantità di contaminante che viene ricevuta,
viene prodotta una distribuzione dello spettro dei possibili valori.
Particolare cura viene data alla determinazione dell’esposizione dei lavoratori suscettibili.
Individuazione dei soggetti esposti: mira ad identificare i soggetti che potranno essere
esposti ad un particolare pericolo, tenendo conto delle differenze di sesso, età, etnia, etc.; in
questo modo si caratterizza il personale permettendo di individuare coloro che possiedono le
caratteristiche fisiche – psicologiche adatte mediante visita medica.
Stabilire la priorità dei rischi:i risultati delle due fasi vengono poi combinati per produrre
una stima del rischio (Risk Assessment): in questo modo si è in grado di stilare una classifica
in base a cui si stabilisce l’ordine degli interventi da eseguire.
Scelta degli interventi: in base alle priorità stabilite in precedenza, alle informazioni che si
possono acquisite dalle esperienze passate o dalla bibliografia ed alle informazioni relative al
luogo oggetto della valutazione, si scelgono degli interventi che devono essere efficaci,
efficienti ed adatti al contesto in cui devono essere applicati, facendo anche una valutazione
costo – beneficio.
Da notare che si devono preferire interventi alla fonte del pericolo, alle misure collettive, che
comunque sono preferibili alle misure individuali.
Attuare le misure di controllo sugli interventi: una volta messi in pratica gli interventi,
deve essere controllata periodicamente la loro effettiva funzionalità, con controlli statistici,
ambientali, biologici, etc.
Il controllo è meglio se programmato e descritto minuziosamente così da poter verificare
successivamente eventuali modifiche.
Valutare l’efficacia dell’intervento: una volta acquisiti i dati relativi ai controlli sugli
interventi, è necessario discutere della loro efficacia ed efficienza così da poter prendere in
considerazione eventuali miglioramenti od altri accorgimenti da considerare.
Nel caso di cambiamenti interni, è necessario valutare se gli interventi che erano stati attuati
inizialmente, siano ancora efficaci con le nuove modifiche.
2. Classificazione dei rischi
Ai fini dell’attività di valutazione dei rischi questi ultimi sono suddivisi in tre macrocategorie:
Rischi Trasversali Organizzativi: derivanti da criticità connesse all’organizzazione del lavoro
ed alle mansioni, turni di lavoro, monotonia delle mansioni con azioni meccaniche e non
differenziate, criticità derivanti dalle differenze di genere.
In tale classe di rischi rientrano tutti i fattori che non possono essere pienamente ed
univocamente associati ad altre classi ma che in una certa misura possono esporre il
lavoratore a molteplici fattori di disagio.
Rischi per la sicurezza (infortunistici): tutti quei fattori di rischio che possono compromettere
la sicurezza dei lavoratori durante l’espletamento delle loro mansioni.
Tra questi possono essere classificati il rischio d’incendio, il rischio di crollo di parti della
struttura, non conformità a carico di parti dell’immobile o di singoli locali, allagamenti,
terremoti, macchine che espongono a rischi di traumi o tagli od in generale infortuni vari,
esplosioni, impianti e attrezzature di lavoro.
In genere in questa classe rientrano quei rischi che possono comportare un grave danno fisico,
menomazioni infortuni e nel caso più grave la morte.
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Rischi per la salute (igienico ambientali): in questa categoria sono raggruppati rischi derivanti
dalle esposizioni ad agenti chimici, fisici (rumore, vibrazioni campi elettromagnetici etc.), o
connessi ad esempio alla salubrità dei locali, condizioni igienico – sanitarie, microclima ed in
generale tutti quei fattori che possono compromettere la salute dei lavoratori in casi di
esposizione prolungata agli agenti sopra menzionati.
Durante la fase di analisi e valutazione sono considerate le esposizioni dei singoli lavoratori
appartenenti ad aree omogenee ai singoli rischi sopraelencati identificando in modo univoco
l’origine dei potenziali pericoli ed elencando le opportune misure di prevenzione e protezione
e dove necessario anche i mezzi di protezione individuali necessari.
L’obbiettivo principale della valutazione del rischio è quello di prevenire due tipologie di
rischio:
• Rischio infortunistico: rischio di incorrere in un danno che ha cause da ricercarsi all’interno
del posto di lavoro e che si manifesti nell’immediato o comunque entro l’orario di lavoro
stesso;
• Rischio igienistico: rischio di incorrere in un danno dovuto ad un’esposizione prolungata ed
a livelli elevati ad un agente chimico, fisico, biologico che causi danni che si manifestino a
distanza di tempo.
3. L’obiettivo della valutazione dei rischi
L’obiettivo della Valutazione dei Rischi, ai sensi dell’art. 17 comma 1 lettera a) del Decreto
Legislativo 81/08 come modificato dal Decreto Legislativo 106/09, è predisporre tutti i
provvedimenti necessari per la salvaguardia della sicurezza e della salute dei lavoratori, ossia
principalmente quello di:
individuare tutte le fonti di pericolo e valutarne la possibile incidenza sui lavoratori;
eliminare alla fonte i fattori di rischio od almeno ridurli;
ove il rischio non sia eliminabile, fornire adeguati Dispositivi di Protezione Individuale ai
singoli lavoratori esposti;
programmare ed attuare i necessari percorsi di informazione e formazione sui rischi;
predisporre tutte le attività necessarie per ottemperare alla vigente normativa in materia di
salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.
In relazione a tali obiettivi, i provvedimenti necessari al conseguimento delle migliori condizioni
di salubrità e sicurezza, possono essere così classificati:
a. misure di tutela generali: sono quelle intraprese al fine di prevenire e ridurre i rischi derivanti
da condizioni di lavoro che comportano pericoli trasversali o non adeguatamente inquadrabili
all’interno di una specifica categoria di rischio.
Le misure generali di tutela prevedono:
corretta informazione e formazione dei lavoratori in merito ai possibili rischi cui
potrebbero essere soggetti;
adeguato sistema di gestione delle mansioni e degli incarichi ricoperti al fine di limitare le
eventuali esposizioni a fattori di rischio;
formazione circa il corretto utilizzo dei D.P.I.;
riduzione alla fonte di eventuali rischi;
presenza della squadra di gestione delle emergenze e primo soccorso.
b. misure di tutela specifiche: sono quelle attuate laddove si riscontri uno specifico rischio legato
ad una mansione svolta da uno o più lavoratori.
Le misure di tutela specifiche si riferiscono a tutte le azioni di prevenzione o di riduzione dei
rischi, che contemplano specifiche criticità riferibili a locali, macchine attrezzature e/o
impianti. Queste si articolano in modo specifico imponendo ad esempio particolari
comportamenti, eventuale utilizzo di dispositivi di protezione individuale, obbligo
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d’intervento di eventuale personale esperto e formato per la specifica area di rischi
evidenziata. In generale si possono configurare all’interno di questa tipologia di misure,
quelle che richiedono una specifica attenzione od emergono in relazione a precisi livelli di
esposizione a rischi specifici.
Le misure di tutela specifica prevedono:
adozione dei previsti D.P.I. per i lavoratori maggiormente esposti a rischi che non possono
essere evitati;
attribuzione alle mansioni solo dopo adeguata informazione e formazione alla specifica
mansione ricoperta.
c. misure di emergenza: sono quelle che si attuano per la prevenzione o riduzione di rischi
derivanti da situazione di emergenza non prevedibili o che richiedono interventi specifici per
gestire particolari eventi pericolosi come terremoti, incendi, allagamenti, infortuni con
menomazioni o lesioni a danno dei lavoratori e del personale, attacchi terroristici, esplosioni.
All’interno di queste tipologie di eventi, si configurano le specifiche azioni descritte ad
esempio nell’apposito piano per la gestione delle emergenze e l’evacuazione.
Le misure di emergenza adottate sono:
adozione di un dettagliato Piano di Emergenza ed Evacuazione;
mezzi e presidi per il primo soccorso adeguati al Decreto Ministeriale 388/03;
corretta manutenzione dei presidi antincendio e verifica periodica della funzionalità;
verifica dell’adeguatezza delle uscite di emergenza e della loro corretta funzionalità;
effettuazione delle prove di esodo.
4. L’importanza della valutazione del rischio
La finalità principale della valutazione del rischio è quella di determinare se le misure di
prevenzione adottate siano adeguate o meno, in modo tale da controllare i rischi prima che si
verifichi il danno.
Al fine di ottenere una completa valutazione del rischio è necessario utilizzare un approccio
partecipativo, vale a dire coinvolgere il personale nel rilevare e comprendere le problematiche
presenti nell’ambiente di lavoro e poter poi attuare delle migliorie a livello di sicurezza e salute
per il lavoratore e la struttura lavorativa interessata.
5. Processo di valutazione dei rischi
Tutte le attività finalizzate alla valutazione dei rischi ed alla redazione del Documento sono
svolte adottando criteri e metodi finalizzati all’individuazione di tutti i rischi, presenti all’interno
dei luoghi di lavoro, od ai quali gli stessi lavoratori possono essere esposti, durante lo
svolgimento delle loro mansioni.
I criteri di analisi e valutazione si basano sull’analisi oggettiva delle criticità riscontrate,
valutando l’effettiva probabilità di accadimento di un evento infortunistico, o di un danno per la
salute e la sicurezza dei lavoratori, direttamente riconducibile alla criticità riscontrata.
Tale probabilità è messa in relazione alla gravità prodotta dal danno, derivante dal verificarsi
dell’evento.
La scala delle probabilità di accadimento di un evento pericoloso e quelle relative al danno
connesso hanno la stessa definizione quantitativa in modo da rendere omogenea la
determinazione del fattore di rischio.
Al fine di individuare tutti i rischi presenti sono condotti sopralluoghi all’interno dei singoli
locali ove vengono effettivamente svolte le mansioni o dove i lavoratori possono avere accesso
durante l’orario di servizio.
Occorre quindi verificare eventuali criticità di attrezzature, impianti, strutture, ed in genere di
qualsiasi fattore possa determinare o rappresentare una fonte di pericolo.
Per l’attribuzione dei valori, di probabilità di accadimento di un evento pericoloso e quello del
danno potenzialmente conseguente, sono stati consultati dati di letteratura eventualmente
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presenti, norme tecniche, buone prassi, Leggi e norme in atto vigenti, oltre che l’effettiva
evidenza della criticità o situazione riscontrata.
Pertanto i momenti fondamentali del processo valutativo sono così suddivisi:
Fase preliminare: nella quale si procede all’identificazione di tutti i possibili rischi.
Tale fase è condotta attraverso la verifica degli ambienti di lavoro, l’analisi dei processi
lavorativi ed organizzativi cui i lavoratori sono sottoposti e la verifica di tutta la
documentazione e le informazioni disponibili, atte ad assicurare anche formalmente le
previste condizioni di sicurezza, ed il preliminare rispetto delle norme vigenti.
Si provvede ad una ricognizione di tutte le attività lavorative che si svolgono, degli eventuali
lavoratori esposti in misura maggiore a pericoli od a fonti di rischio, ed all’individuazione di
criticità relative a strutture, impianti, o parti di questi.
Nella ricognizione occorre includere oltre alle attività primarie, anche quelle secondarie, le
cui prestazioni vengono eventualmente erogate da lavoratori esterni (sia normalmente che
occasionalmente).
È operata così una suddivisione dei lavoratori esposti, in gruppi omogenei di appartenenza,
dei quali viene elaborato un profilo operativo, individuati i maggiori rischi rispetto alla
mansione o gruppo di mansioni svolte.
A seguito di ciò, sia per i gruppi omogenei di lavoratori sia per i singoli rischi a cui questi
possono essere esposti, viene elaborata la successiva fase di valutazione.
Fase di valutazione: questa riguarda sostanzialmente tutti i rischi cui potenzialmente sono
esposti i lavoratori.
Al fine di analizzare e valutare tutti i rischi presenti si suddivide la fase di analisi in settori
specifici di valutazione riferibili ad aree omogenee di rischio (ad esempio: aree di transito,
impianto elettrico, scale, uscite di emergenza, etc.).
Tale analisi si fonde anche con la valutazione dei rischi in relazione alla tipologia di lavoratori
esposti alla mansione svolta, ed alle eventuali aree della struttura che lo interessano, gli
impianti che utilizza o dei quali si serve in caso di emergenza.
Ovviamente il processo di analisi e valutazione riguarda anche quei rischi che non possono
essere ricondotti ad un’unica specifica non conformità o non interessano un “unico” aspetto
legato alla sicurezza ma potrebbero configurasi come “trasversali” ed interessare
contemporaneamente parti della struttura e attività svolta, impianti, macchine, etc.
Conseguentemente, si provvede alla quantificazione del rischio in termini analitici attraverso
una stima semiquantitativa dell’entità delle esposizioni, cioè attraverso la valutazione delle
modalità operative (frequenza e durata delle operazioni, caratteristiche intrinseche degli
inquinanti, sistemi di protezione collettiva e individuale, etc.) secondo una stima della
probabilità di accadimento e dell’entità del danno.
6. Chi deve svolgere la valutazione il rischio
La valutazione del rischio, e quindi la successiva stesura del Documento di Valutazione del
Rischio (D.V.R.), è uno degli obblighi non delegabili del datore di lavoro.
Con esso dovranno partecipare anche il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione
(R.S.P.P.), il medico competente, nei casi previsti, ed il Rappresentante dei Lavoratori per la
Sicurezza (R.L.S.).
A tal fine poi, potranno partecipare anche figure professionali specifiche che potranno
collaborare nella definizione dei rischi.
L’obbligo di effettuare la valutazione del rischio e gli adempimenti documentali conseguenti
(piano di sicurezza aziendale) è previsto e disciplinato dagli artt. 17 e da 28 a 30 del Decreto
Legislativo n. 81 del 2008.
L’obbligo di effettuare la valutazione dei rischi e gli obblighi a questa conseguenti o sostitutivi
non sono delegabili.
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7. Il Documento di Valutazione del Rischio
Il Documento di Valutazione del Rischio (D.V.R.) è la relazione stesa a seguito della
valutazione del rischio.
Questo documento deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori,
compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori, esposti a rischi particolari, come stress lavoro –
correlato, lavoratrici in stato di gravidanza, nonché quelli connessi a differenze di genere, età,
etnia e tipologia contrattuale.
Il documento viene redatto dal datore di lavoro in collaborazione con il Responsabile del
Servizio di Prevenzione e Protezione e, qualora sia prevista la sorveglianza sanitaria
obbligatoria, dal medico competente.
Il documento può presentarsi in formato cartaceo od informatico ma deve sempre essere
custodito all’interno dell’azienda (in caso di supporto informatico è necessario possedere anche
l’applicazione per poter aver accesso al documento); il documento inoltre, per essere valido,
deve essere munito di data certa od attestata dalla sottoscrizione, oltre che del datore di lavoro,
anche del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, del Rappresentante dei
Lavoratori per la Sicurezza e/o del Rappresentante dei Lavoratori per la sicurezza Territoriale, e
del medico competente ove nominato.
I contenuti obbligatori per la stesura di un D.V.R. completo sono:
• una relazione sulla valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e salute durante l’attività
lavorativa con i criteri adottati per la valutazione stessa;
• l’indicazione delle misure di prevenzione e protezione attuate e dei D.P.I. adottati a seguito
della valutazione;
• il programma delle misure ritenute opportune per garantire il miglioramento sui sistemi di
prevenzione e protezione per innalzare via via il livello di sicurezza;
• la descrizione delle procedure di attuazione dei sistemi di prevenzione e protezione, e
l’indicazione dei soggetti dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, in
possesso di adeguate competenze e poteri;
• l’indicazione del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, o del Responsabile
dei Lavoratori e del medico competente che ha partecipato alla valutazione del rischio,
• l’individuazione e la descrizione delle mansioni che eventualmente espongono i lavoratori a
rischi specifici che richiedono una riconosciuta capacità professionale, specifica esperienza,
adeguata formazione ed addestramento.
Il Datore di Lavoro effettua la valutazione ed elabora il documento valutazione rischi in
collaborazione con il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione ed il medico
competente.
Le attività sono realizzate previa consultazione del Rappresentante dei Lavoratori per la
Sicurezza.
La valutazione dei rischi, e quindi la stesura del relativo documento, devono essere fatti entro
novanta giorni dall’apertura di una nuova attività lavorativa.
La valutazione e, di conseguenza, il documento debbono essere rielaborati:
in occasione di modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione aziendale del lavoro,
significative ai fini della salute e della sicurezza dei lavoratori;
in relazione al grado di evoluzione della tecnica, della prevenzione e della protezione;
a seguito di infortuni significativi;
quando i risultati della sorveglianza sanitaria ne evidenzino la necessità.
Il documento di valutazione rischi deve essere custodito presso l’unità produttiva alla quale si
riferisce la valutazione dei rischi.
7.1. Aziende fino a 10 addetti
I datori di lavoro che occupano fino a 10 lavoratori effettuano la valutazione dei rischi sulla base
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di procedure standardizzate.
Fino alla scadenza del diciottesimo mese, successivo alla data di entrata in vigore del relativo
Decreto interministeriale e, comunque, non oltre il 30 giugno 2012, gli stessi datori di lavoro
potevano autocertificare l’effettuazione della valutazione dei rischi.
7.2. Aziende fino a 50 addetti
I datori di lavoro che occupano fino a 50 lavoratori possono effettuare la valutazione dei rischi
sulla base delle procedure standardizzate a meno che non si tratti delle seguenti aziende:
aziende industriali con rischi di incidenti rilevanti e soggette all’obbligo di notifica o
rapporto;
centrali termoelettriche;
impianti ed installazioni nucleari;
fabbricazione e deposito separato di esplosivi, polveri e munizioni;
industrie estrattive con oltre 50 lavoratori;
strutture di ricovero e cura pubbliche e private con oltre 50 lavoratori;
aziende in cui si svolgono attività che espongono i lavoratori a rischi chimici, biologici, da
atmosfere esplosive, cancerogeni mutageni, connessi all’esposizione ad amianto, aziende che
rientrano nel campo di applicazione del Titolo IV dello stesso Decreto Legislativo 81/08
(cantieri temporanei o mobili).
8. Le stime sulla probabilità di accadimento e sulla gravità del danno
Nelle successive tabelle sono descritte le scale semiquantitative della “Probabilità” P e del
“Danno” D ed i criteri per l’attribuzione dei valori.
Il valore di Probabilità di accadimento di un determinato evento è espresso in una scala di valori
da 1 a 4.
L’evento che può o potrebbe determinare un Danno per il lavoratore è valutato in relazione alla
tipologia di rischio. Quindi per i rischi di natura trasversale ed organizzativa sono individuate
situazioni o fattori che possono determinare, in particolari condizioni, uno specifico danno, ma
solo in condizioni di concomitante coincidenza di più fattori.
A titolo di esempio, si pensi alla mancata informazione circa l’utilizzo dell’impianto elettrico;
anche se questo dovesse risultare a norma, una non corretta informazione potrebbe portare il
lavoratore a compiere una seria di azioni improprie, ad esempio eccessivo sovraccarico che
potrebbe, in particolari condizioni, provocare un danno (elettrocuzione, o altri eventi).
A tali fattori viene quindi associata una “Probabilità” di accadimento di un evento dannoso come
conseguenza di , relative all’organizzazione del lavoro, omissione di atti, od in generale fattori di
carattere organizzativo ai quali sia possibile attribuire direttamente un valore relativo al danno.
La classificazione del “Danno”, che un lavoratore potrebbe subire al verificarsi di un dato evento
o dovuto a criticità e carenze degli aspetti organizzativi e gestionali, è stata effettuata mediante
una scala di valori variabili da 1 a 4.
È da sottolineare che laddove non sia possibile individuare una specifica fonte di rischio, o dove
questa possa essere legata a più di un fattore, è stata omessa la determinazione del valore di
rischio come prodotto tra probabilità di accadimento e relativo danno, ovvero R = P × D .
Ciò è dovuto al fatto che, soprattutto per i rischi trasversali ed organizzativi, spesso non è
possibile individuare in modo univoco un’unica fonte di rischio attribuibile alla specifica voce di
analisi, ma potrebbero intervenire più fattori concomitanti a determinare condizioni che possono
essere assimilate a potenziali danni fisici od a patologie.
Dove ciò si sia verificato occorre riportare nella parte di valutazione tutti i possibili fattori che
potrebbero determinare l’insorgenza di infortuni o patologie a carico dei lavoratori esposti.
Si terrà pertanto conto di tali fattori, elencandoli e predisponendo per ciascuno di essi le idonee
misure di prevenzione e protezione.
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Nella trattazione seguente si utilizza la seguente simbologia:
P indicativo dell’evento;
D indicativo del danno;
R indicativo del rischio.
Scala delle probabilità P di accadimento di un evento
Valore
4
3
2
1
Livello
Altamente
probabile
Definizioni/criteri
Esiste una correlazione diretta tra la mancanza rilevata ed il
verificarsi del danno ipotizzato per i lavoratori.
Si sono già verificati danni per la stessa mancanza rilevati in ambienti
simili od in situazioni operative simili.
Il verificarsi del danno conseguente la mancanza rilevata non
susciterebbe alcuno stupore tra gli altri lavoratori.
Probabile
La mancanza rilevata può provocare un danno, anche se non in modo
automatico o diretto.
È noto qualche episodio in cui alla mancanza rilevata ha fatto seguito
il danno.
Il verificarsi del danno ipotizzato, susciterebbe una moderata sorpresa
in Azienda.
Poco probabile La mancanza rilevata può provocare un danno al contemporaneo
verificarsi di particolari condizioni.
Sono noti solo rari episodi già verificatisi.
Il verificarsi del danno susciterebbe una discreta sorpresa in Azienda.
Improbabile
La mancanza rilevata può provocare un danno solo in circostanze
sfortunate di eventi.
Non sono noti episodi già verificatisi.
Il verificarsi del danno ipotizzato susciterebbe incredulità in Azienda.
Scala dell’entità del danno D
Valore
4
Livello
Gravissimo
3
Grave
2
Medio
1
Lieve
Definizioni/criteri
Infortunio od episodio di esposizione acuta con effetti letali o di
invalidità permanente.
Esposizione cronica con effetti letali e/o totalmente invalidanti.
Infortunio od episodio di esposizione acuta con effetti di invalidità
parziale.
Esposizione cronica con effetti irreversibili e/o parzialmente
invalidanti.
Infortunio od episodio di esposizione acuta con inabilità reversibile.
Esposizione cronica con effetti reversibili.
Infortunio od episodio di esposizione acuta con inabilità rapidamente
reversibile. Esposizione cronica con effetti rapidamente reversibili.
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Matrice di valutazione del rischio (righe P, colonne D)
Definiti il danno e la probabilità, il rischio viene automaticamente determinato mediante la
formula R = P × D ed è indicato nella tabella grafico – matriciale sottostante, avente in ascisse
la gravità del danno atteso ed in ordinate la probabilità del suo verificarsi.
D
P
4
3
2
1
8
6
4
2
12
9
6
3
16
12
8
4
Esempio di matrice di valutazione del rischio.
I rischi che possono provocare i danni più gravi occupano in tale matrice le caselle in alto a
destra (probabilità elevata, danno gravissimo), quelli minori le posizioni più vicine all’origine
degli assi (danno lieve, probabilità trascurabile), con tutta la serie di posizioni intermedie
facilmente individuabili.
Una tale rappresentazione costituisce di per sé un punto di partenza per la definizione delle
priorità e la programmazione temporale degli interventi di protezione e prevenzione da adottare.
La valutazione numerica del Livello di Rischio “R” comporta l’attuazione di misure di
prevenzione e protezione in relazione alla valutazione dei rischi.
Azioni e livelli di priorità
Livello
rischio
R> 8
4≤R ≤8
2≤R ≤3
R=1
Azioni da applicare
Azioni correttive indilazionabili.
Azioni
correttive
necessarie
da
programmare con urgenza.
Azioni correttive e/o migliorative da
programmare nel breve – medio
termine.
Azioni migliorative da valutare in fase
di programmazione, non richiedenti un
intervento immediato.
Livello di
priorità
Priorità P1
Priorità P 2
Priorità P 3
Priorità P 4
Tabella 1 sulla definizione delle azioni da applicare in funzione del livello di rischio presente.
La valutazione numerica del rischio R permette di individuare una corrispondente scala di
priorità degli interventi “ P i ” da attuare o porre in essere al fine di ridurre in modo sensibile il
livello di rischio.
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Priorità in funzione delle non conformità
Pi
Tipo di priorità
P1
Elevatissima priorità
(interventi immediati)
P2
P3
P4
Non conformità
Non conformità che implica la sussistenza di una condizione di
rischio grave ed imminente per i lavoratori.
Le non conformità classificate come P1 richiedono interventi
urgenti poiché oltre a creare i presupposti per l’accadimento di un
possibile infortunio prefigurano per il datore di lavoro sanzioni
penali di carattere detentivo o pecuniario.
Alta priorità (un mese) Non conformità che implica la sussistenza di una condizione di
rischio grave ma non imminente per i lavoratori, e che potrebbe
causare danni con un elevato grado di inabilità o determinare
patologie dagli effetti invalidanti permanenti.
Le non conformità classificate come P 2 richiedono interventi a
medio termine poiché configurano condizioni di pericolo e/o
violazioni alle norme di sicurezza con conseguente responsabilità
del datore di lavoro sanzionabili penalmente.
Media priorità (tre Non conformità di carattere tecnico/documentale, derivante
mesi)
dall’aggiornamento e/o dall’evoluzione della normativa tecnica di
riferimento, e non implicante l’insorgere di particolari condizioni
di rischio per la sicurezza e la salute dei lavoratori.
Gli interventi di adeguamento corrispondenti al presente livello di
priorità possono essere programmati nel tempo in funzione della
fattibilità degli stessi.
Bassa priorità (sei Il seguente indice di priorità corrisponde più che ad una non
mesi, un anno)
conformità specifica ad uno stato di fatto che, pur rispondente
alla normativa di igiene e sicurezza, evidenzia la necessità di
essere migliorato ed ottimizzato.
Gli interventi di adeguamento corrispondenti, di tipo
organizzativo e tecnico, verranno programmati nel tempo con il
fine di elevare il livello di prevenzione e ottimizzare lo stato dei
luoghi e le procedure di lavoro.
Tabella 2 sulla definizione delle priorità in funzione delle non conformità.
Valutazioni specifiche su particolari fattori di rischio, risultanti da indagini strumentali, potranno
essere inseriti in specifici documenti, laddove espressamente previsto da norme specifiche, o
ritenuto necessario, ai fini di una corretta valutazione del rischio e/o di una verifica delle misure
di contenimento degli agenti pericolosi, o laddove si riscontri un rischio grave ed imminente per
i lavoratori.
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5. Misure di prevenzione e protezione
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, TITOLO I, CAPO I, art. 2)
Premessa
La sicurezza sul lavoro si compone di due parti fondamentali che sono la prevenzione e la
protezione.
Nell’ambito lavorativo la “prevenzione” è definita dall’art. 2 lett. n) del Decreto Legislativo
81/2008 come «il complesso delle disposizioni o misure necessarie anche secondo la particolarità
del lavoro, l’esperienza e la tecnica, per evitare o diminuire i rischi professionali nel rispetto della
salute della popolazione e dell’integrità dell’ambiente esterno».
Nel campo della sicurezza le misure di protezione servono a ridurre le conseguenze di un incidente
(incendio, allagamento, crollo, etc.) nel momento in cui si verifica.
A differenza delle misure di prevenzione che riducono la probabilità di accadimento di un evento,
esse non riducono le occasioni di incidente ma ne contengono esclusivamente le conseguenze e ne
limitano i danni (a persone e cose).
1. Misure di prevenzione
Una volta individuato un determinato pericolo ed i relativi rischi connessi, bisogna individuare tutte
le misure necessarie atte a prevenire il verificarsi di un determinato evento e/o modificarne le cause.
Esse possono suddividersi in misure di prevenzione tecnologica (attrezzature, protezioni collettive)
e misure di prevenzione organizzativa (informazione e formazione dei lavoratori, redazione di
documentazione).
Nelle misure di prevenzione è importante, inoltre, considerare la presenza di differenti
organizzazioni lavorative all’interno di un medesimo ambiente di lavoro.
Sono considerate misure di prevenzione:
1. le misure tecniche riferite ai dispositivi tecnologici di prevenzione su macchine, impianti,
attrezzature;
2. le misure tecniche riferite all’ergonomia dei posti di lavoro;
3. le misure organizzative finalizzate a progettare il processo produttivo eliminando o riducendo al
massimo i rischi professionali sulla base di una valutazione dei rischi da effettuare per ogni
attività di lavoro.
In particolare tra queste misure organizzative si hanno:
l’utilizzo limitato di sostanze pericolose sul luogo di lavoro;
la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, od è meno pericoloso;
la limitazione al minimo del numero dei lavoratori esposti ad un determinato rischio.
4. le misure finalizzate a promuovere e garantire comportamenti sicuri da parte dei lavoratori.
A tal fine le misure principali consistono:
nella formazione, informazione, addestramento dei lavoratori affinché questi vengano a
conoscenza in maniera precisa delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza che
devono rispettare;
le misure di vigilanza sull’effettivo rispetto da parte dei lavoratori delle procedure e delle
istruzioni di lavoro in sicurezza apprese con la formazione e l’addestramento.
Nell’ambito dell’informazione dei lavoratori, un aspetto significativo è rappresentato dalla
segnaletica di sicurezza nei luoghi di lavoro.
5. il controllo sanitario finalizzato a diagnosticare precocemente eventuali patologie legate
all’attività di lavoro o patologie che possono essere peggiorate con il lavoro;
6. il coinvolgimento dei lavoratori attraverso la collaborazione con il rappresentante dei lavoratori
per la sicurezza;
7. le misure organizzative finalizzate a promuovere il benessere sul luogo di lavoro eliminando o
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riducendo il rischio da stress lavoro – correlato.
2. Misure di protezione
Le misure di protezione consistono in:
dispositivi di protezione collettiva finalizzati a proteggere gruppi di lavoratori, come ad esempio
gli schermi, i ripari, le tettoie, etc.
dispositivi di protezione individuale o D.P.I., finalizzati a proteggere il singolo lavoratore, come
ad esempio i caschi, le scarpe, le visiere, etc.
impianti di rilevazione incendio od attrezzature di estinzione, impianti di allarme ed
avvertimento.
piani di emergenza e di pronto soccorso.
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6. Dispositivi di protezione individuale (D.P.I.)
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, TITOLO III, CAPO II artt. 74 – 79)
1. Definizione
Per Dispositivi di Protezione Individuale, definizione spesso surrogata dall’acronimo D.P.I., si
intendono i prodotti che hanno la funzione di salvaguardare la persona che l’indossi o comunque li
porti con sé, da rischi per la salute e la sicurezza, sia in ambito domestico, sia in ambito sportivo, sia
in ambito ricreativo e, ovviamente, in campo lavorativo. [Decreto Legislativo 475/92].
L’ambito lavorativo non è “conditio sine qua non” per definire un D.P.I.: gli occhiali da sole, ad
esempio, sono D.P.I., ma non sono utilizzati in ambito lavorativo; stesso discorso vale per i guanti
da giardinaggio, i ditali per cucire, le ginocchiere utilizzate a pallavolo, etc.
Il Decreto Legislativo n. 81/2008, Testo Unico Sicurezza Lavoro, stabilisce che i D.P.I. utilizzati in
ambito lavorativo devono sottostare alle disposizioni di cui al Decreto Legislativo 475/92 e
stabilisce che siano rappresentati da qualsiasi attrezzatura destinata ad essere indossata e tenuta
dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi suscettibili di minacciarne la
sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento od accessorio destinato a tale
scopo.
Il Decreto Legislativo 81/2008 prevede l’utilizzo dei D.P.I. solo quando l’adozione delle misure
tecniche preventive e/o organizzative di protezione collettiva non risulti sufficiente all’eliminazione
di tutti i fattori di rischio: in altri termini, il D.P.I. va utilizzato solo quando non è possibile
eliminare il rischio con azioni alternative, dando priorità alle misure di protezione collettiva rispetto
alle misure di protezione individuale. Per quanto concerne il D.P.I., questo fornisce solo un limitato
livello di protezione, considerando che: protegge solo la persona che lo indossa; non può garantire il
100 % della sicurezza; pone restrizioni alla mobilità e/o alla visibilità; introduce disagio e, spesso,
fatica dovuta al suo peso.
I D.P.I. devono:
essere adeguati alle condizioni presenti sul luogo di lavoro;
essere adeguati ai rischi da prevenire, senza comportare un rischio maggiore per il lavoratore;
devono tener conto delle esigenze ergonomiche e della salute del lavoratore.
I D.P.I. sono divisi in tre categorie, in funzione del tipo di rischio:
I a categoria: dispositivi di facile progettazione e destinati a salvaguardare gli utilizzatori da
danni lievi – autocertificati dal produttore;
II a categoria: tutti quelli non rientranti nelle altre due categorie – rischio significativo come ad
esempio occhi, mani, braccia, viso – prototipo certificato da un organismo di controllo
autorizzato e notificato;
III a categoria: dispositivi di progettazione complessa e destinati a proteggere gli utenti da rischi
di morte o di lesioni gravi – comprende tutti i D.P.I .per le vie respiratorie e protezione dagli
agenti chimici aggressivi – prototipo certificato da un organismo di controllo autorizzato e
notificato, e controllo della produzione.
I D.P.I. devono, per Legge, riportare il marchio C.E. il quale indica la conformità ai requisiti
essenziali di salute e sicurezza. Inoltre il dispositivo di sicurezza deve contenere un manuale di
istruzioni per l’uso, la conservazione, la pulizia, la manutenzione, la data di scadenza, la categoria
ed i limiti d’uso possibilmente scritto nelle lingue ufficiali.
Uno dei problemi maggiori è stabilire quando un dispositivo di protezione individuale è da
sostituire.
Alcuni dispositivi riportano una data di scadenza, altri richiedono da parte del lavoratore un
controllo dello stato di usura al fine di sostituirlo nel caso non sia più idoneo. Ad esempio: un
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dispositivo delle vie respiratorie dovrà essere sostituito quando l’operatore nota una particolare
difficoltà nella respirazione; un occhiale invece deve essere sostituito quando l’operatore rileva una
non più perfetta nitidezza delle immagini.
In alcuni casi, poi, il produttore dota il dispositivo di un indicatore di usura.
Al fine di evitare l’insorgere di problemi per il lavoratore, il datore di lavoro dovrà provvedere a
sostituire con una certa frequenza i D.P.I.
Al punto 4 dell’Allegato VIII, riferimento per l’applicazione di quanto previsto all’art. 77 (obblighi
del datore di lavoro), commi 1 e 4, è riportata una tabella concernente le indicazioni per la
valutazione dei D.P.I: sebbene non esauriente, quest’ultima offre comunque indicazioni utili alla
scelta dei dispositivi di protezione individuale riguardanti:
elmetti di protezione del capo;
occhiali protettivi e schermi per la protezione del viso;
otoprotettori;
apparecchi di protezione respiratoria filtranti contro gli aerodispersi solidi, liquidi nebulizzati e
contro i gas pericolosi per le vie respiratorie;
guanti di protezione;
calzature per uso professionale;
indumenti di protezione da rischio chimico, meccanico, termico, etc.;
indumenti ad alta visibilità;
D.P.I. contro le cadute dall’alto;
D.P.I. a salvaguardia dai contatti elettrici accidentali.
Gli elementi fondamentali, per una corretta scelta dei D.P.I., sono la natura del rischio e quale parte
del corpo potrebbe essere interessata all’infortunio.
Il datore di lavoro, ai fini della scelta dei D.P.I. effettua l’analisi e la valutazione dei rischi che non
possono essere evitati con altri mezzi; individua le caratteristiche dei D.P.I. necessarie affinché
questi siano adeguati ai rischi tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate
dall’uso dagli stessi D.P.I.
A volte può essere difficile valutare anche il rischio in termini approssimati, poiché esiste
un’oggettiva difficoltà nel reperire dati affidabili e completi sugli incidenti avvenuti.
Inoltre, alcuni tipi di rischio sono difficili da quantificare attraverso misure, in quanto non vi sono
disponibili strumenti adatti o non esistono indici di severità.
Per la realizzazione di un D.P.I. è necessaria l’applicazione di una norma tecnica armonizzata cioè
che contenga tutti i requisiti di sicurezza (R.S.) applicabili al D.P.I. e ne accerti la rispondenza
mediante calcoli e/o prove, indicandone i criteri di accettazione.
L’organismo notificato, prima di emettere l’attestato di certificazione C.E., deve verificare che il
fabbricante abbia considerato tutti i requisiti di sicurezza richiesti dalla norma tecnica specifica.
2. Obbligo di uso
I D.P.I. devono essere impiegati quando i rischi non possono essere evitati o sufficientemente ridotti
da misure tecniche di prevenzione, da mezzi di protezione collettiva, da misure, metodi o
procedimenti di riorganizzazione del lavoro.
I D.P.I. devono essere:
adeguati al rischio da prevenire, senza che possano comportare di per sé un rischio maggiore;
adeguati alle condizioni esistenti oggettive sul luogo di lavoro ed alle condizioni soggettive degli
utilizzatori;
adatti alle esigenze ergonomiche o di salute del lavoratore;
adatti all’utilizzatore, secondo le proprie necessità.
In caso di rischi multipli, che richiedano l’uso simultaneo di più D.P.I., questi devono essere tra loro
compatibili e tali da mantenere, anche nell’uso simultaneo, la propria efficacia nei confronti del
rischio e dei rischi corrispondenti.
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I lavoratori devono essere informati su perché e come impiegarli.
3. Obblighi del datore di lavoro per il corretto utilizzo
Il datore di lavoro ai fini della scelta dei D.P.I.:
a) effettua l’analisi e la valutazione dei rischi che non possono essere evitati con altri mezzi;
b) individua le caratteristiche dei D.P.I. necessarie affinché questi siano adeguati ai rischi di cui alla
lettera a), tenendo conto delle eventuali ulteriori fonti di rischio rappresentate dagli stessi D.P.I.;
c) valuta, sulla base delle informazioni e delle norme d’uso, fornite dal fabbricante a corredo dei
D.P.I., le caratteristiche degli stessi disponibili sul mercato e le raffronta con quelle individuate
alla lettera b);
d) aggiorna la scelta ogni qualvolta intervenga una variazione significativa negli elementi di
valutazione.
Il datore di lavoro, anche sulla base delle norme d’uso fornite dal fabbricante, individua le
condizioni in cui un D.P.I. deve essere usato, specie per quanto riguarda la durata dell’uso, in
funzione di:
entità del rischio;
frequenza dell’esposizione al pericolo;
caratteristiche del posto di lavoro di ciascun lavoratore;
prestazioni del D.P.I.
Il datore di lavoro:
ha l’obbligo principale di fornire ai lavoratori D.P.I. conformi ai requisiti di sicurezza;
mantiene in efficienza i D.P.I. e ne assicura le condizioni d’igiene, mediante la manutenzione, le
riparazioni e le sostituzioni necessarie e secondo le eventuali indicazioni fornite dal fabbricante;
provvede affinché i D.P.I. siano utilizzati soltanto per gli usi previsti, salvo casi specifici ed
eccezionali, conformemente alle informazioni del fabbricante;
fornisce istruzioni comprensibili per i lavoratori;
destina ogni D.P.I. ad un uso personale e, qualora le circostanze richiedano l’uso di uno stesso
D.P.I. da parte di più persone, prende misure adeguate affinché tale uso non ponga alcun
problema sanitario ed igienico ai vari utilizzatori;
informa preliminarmente il lavoratore dei rischi dai quali il D.P.I. lo protegge;
rende disponibile nell’azienda ovvero nell’unità produttiva informazioni adeguate su ogni D.P.I.;
stabilisce le procedure aziendali da seguire, al termine dell’utilizzo, per la riconsegna e il
deposito dei D.P.I.;
assicura una formazione adeguata sulla necessità e l’importanza d’uso ed organizza, se
necessario, uno specifico addestramento circa l’uso corretto e l’utilizzo pratico dei DPI.
I lavoratori hanno l’obbligo di partecipare al programma di formazione e addestramento,
organizzato dal datore di lavoro, e di utilizzare i D.P.I. messi a loro disposizione conformemente
alle istruzioni ricevute.
In ogni caso l’addestramento è indispensabile:
per ogni D.P.I. che, ai sensi del Decreto Legislativo 4 dicembre 1992, n. 475, appartenga alla
terza categoria;
per i dispositivi di protezione dell’udito.
48
4. Tipologie di dispositivi di protezione individuale
4.1. Protezione delle vie respiratorie
I D.P.I. a protezione delle vie respiratorie, detti anche A.P.V.R.,
servono a proteggere da sostanze aeriformi potenzialmente
nocive, quali gas, polveri, vapori, ed a permettere la normale
respirazione quando il livello d’ossigeno è comunque superiore al
valore – limite del 17 % . Essi vengono classificati come segue:
1. a filtro:
mascherine antipolvere (facciale filtrante) monouso – norme
di conformità EN 149;
semimaschere – norme di conformità EN 140;
maschere a pieno facciale – norme di conformità EN 136.
2. isolanti:
autonomi (autorespiratori) EN 137:
a circuito aperto:
• a domanda a pressione positiva;
• a domanda a pressione negativa;
Figura 1: Maschera a pieno facciale e
a circuito chiuso:
guanti in lattice.
• a produzione d’ossigeno;
• ad ossigeno compresso;
non autonomi (a circuito d’aria respirabile) EN 139:
con presa d’aria esterna:
• non assistito;
• assistito manualmente;
• assistito con motore;
ad aria compressa:
• a flusso continuo.
I filtri vengono poi classificati con una sigla, in base alla tipologia, con un numero, variabile da 1 a
3 in base al potere filtrante, e con un colore, in base alla sostanza che filtrano, e sono suddivisi come
segue:
1. antigas F.F.A.B.E.K. (1 ÷ 3) (EN 141):
ad assorbimento;
a reazione chimica;
a catalisi.
2. antipolvere F.F.P. (1 ÷ 3) (EN 143);
3. combinati F.F.A.B.E.K. (1 ÷ 3) P(1÷3).
(Esempio: filtro combinato gas (basso potere) e polvere (alto potere): FFA1P3)
La durata di una bombola d’aria viene calcolata empiricamente moltiplicando il volume in litri per
la pressione in bar, tutto diviso 30 ( consumo medio di litri per minuto), si ottiene il numero di
minuti d’autonomia approssimativa.
Esempio: bombola da 7 litri a 200 bar di pressione:
7 ⋅ 200 = 1400 ℓ
1400 ℓ
≈ 45 min
30 ℓ min
49
4.2.Protezione degli arti superiori
I dispositivi per la protezione degli arti superiori
riguardano in particolare le mani, maggiormente
esposte ai rischi, che possono essere di varia natura:
1. guanti – norme di conformità EN 420:
rischi meccanici ed elettrostatici – norme di
conformità EN 388;
rischi elettrici/folgorazione – norme di
conformità EN 60903;
rischi chimici e microbiologici – norme di
conformità EN 374;
rischi da freddo – norme di conformità EN
511;
rischi da calore e fuoco – norme di
conformità EN 407;
rischi da vibrazioni – norme di conformità
EN 420.
2. palmari di sicurezza;
3. paramaniche e sopramaniche.
Figura 2: guanti in nitrile.
I guanti possono essere realizzati in diversi materiali:
plastica o lattice per proteggere dall’assorbimento di sostanze chimiche;
gomma vinilica o neoprenica per proteggere da elementi chimici corrosivi come acidi e/o alcali o
derivati del petrolio;
cuoio;
materiale dielettrico che garantisce l’isolamento elettrico.
In particolare, i guanti ad isolamento elettrico devono essere un pezzo solo senza cuciture, in
materiale speciale e con spessore unico e costante. Devono essere accompagnati tassativamente
da una manichetta che copre l’avambraccio.
4.3. Protezione degli occhi
Gli occhi sono soggetti a diversi rischi: schegge, materiali
roventi, caustici, corrosivi, radiazioni, che possono portare a tre
tipi di lesioni: meccaniche, ottiche e termiche.
Per proteggere questi organi delicati si usano DPI del tipo:
1. Occhiali – norme di conformità EN 166;
2. Maschere – norme di conformità EN 166;
3. Visiere – norme di conformità EN 166;
4. Schermi – norme di conformità EN 166;
eventualmente abbinati a:
Figura 3: Occhiali di sicurezza.
1. Filtri per saldatura – norme di conformità EN 169;
2. Filtri per raggi ultravioletti – norme di conformità EN 170;
3. Filtri per raggi infrarossi – norme di conformità EN 171;
4. Filtri di protezione solare per uso industriale – norme di conformità EN 172.
I danni da radiazione si differenziano in base al tipo di luce emessa:
luce blu: penetrazione della retina;
infrarosso: deformazione della cornea;
ultravioletto: arrossamento degli occhi;
Per ovviare a questi problemi vengono sempre più utilizzate maschere auto – oscuranti per
saldatori, con filtri opto – elettronici che si oscurano in 0.2 ms dallo scoccare dell’arco elettrico.
50
4.4.Protezione dell’udito
Il danno all’udito (detto ipoacusia professionale) è grave perché
non rimarginabile: le cellule uditive, infatti, se danneggiate non
possono più rigenerarsi.
I D.P.I. per proteggere l’udito sono obbligatori quando non è
possibile ridurre il rumore con misure tecniche e quando esso
supera i 90 decibel istantanei o gli 85 decibel medi giornalieri;
essi sono:
1. Cuffie – norme di conformità EN 352 – 1:
abbinate ad elmetto (EN 352-3);
attive, con radio incorporata (EN 352 – 4);
inserti (filtri);
tappi con catenella.
2. Tappi auricolari – norme di conformità EN 352 – 2;
3. Archetti – norme di conformità EN 352 – 2.
Figura 4: Cuffie antirumore.
I D.P.I. per proteggere l’udito recano una sigla in base alla frequenza che attenuano:
L: da 65 Hz a 250 Hz ;
M: da 250 Hz a 2000 Hz ;
H: da 2000 Hz a 8000 Hz .
4.5. Protezione del capo
Il dispositivo di protezione per il capo è uno solo: Elmetto – norme di conformità EN 397.
Esso è composto dalle seguenti parti:
calotta di protezione;
bardatura;
fascia antisudore;
e deve avere i seguenti requisiti:
sufficiente resistenza alla perforazione;
adeguato grado di assorbimento agli urti;
buona aerazione.
Il casco od elmetto deve essere compatibile con l’utilizzo di altri D.P.I. (ad esempio cuffie o
visiera); inoltre la bardatura deve essere regolabile in altezza ed in larghezza.
In un cantiere edile, in prossimità dei ponteggi, è necessario alzare la calotta rispetto alla bardatura
per aumentare il grado di assorbimento di eventuale materiale che cada dall’alto.
4.6. Protezione degli arti inferiori
La protezione dei piedi è importante sia per la loro incolumità sia per garantire una buona stabilità
del lavoratore.
In generale, per gli arti inferiori, sono previsti i seguenti D.P.I.:
scarpe – norme di conformità EN 345;
ginocchiere;
ghette;
suole amovibili;
dispositivi amovibili di protezione per il collo del piede.
Le calzature previste in un cantiere edile devono avere necessariamente i seguenti requisiti:
buona stabilità;
facile slacciamento;
puntale resistente agli urti;
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soletta anti – perforazione;
suola antiscivolo;
adeguata protezione caldo/freddo;
calotta di protezione del calcagno;
imbottitura salva – malleolo;
protezione contro le micosi;
protezione contro le cariche elettrostatiche;
parti metalliche anticorrosive.
Le calzature di sicurezza vengono identificate mediante la lettera S seguita dalla lettera B (base) o
da un numero variabile da 1 a 5:
SB: scarpa con puntale resistente a forze fino a 1500 N e ad urti fino a 200 J ;
S1: scarpa con puntale come la SB e calotta in zona tallone, con proprietà antistatiche;
S2: scarpa con puntale come la SB, calotta in zona tallone, con proprietà antistatiche ed
impermeabilità dinamica;
S3: scarpa con puntale come la SB, calotta in zona tallone, con proprietà antistatiche,
impermeabilità dinamica e soletta anti – perforazione;
S4: stivale con puntale come la SB e calotta in zona tallone, con proprietà antistatiche;
S5: stivale con puntale come la SB e calotta in zona tallone, con proprietà antistatiche e soletta
anti – perforazione.
4.7. Protezione da cadute dall’alto
I D.P.I. anticaduta rientrano tutti nella III a categoria, dati i
rischi elevati che derivano dalla caduta, e sono soggetti a
particolari procedure di certificazione C.E..
Essi si dividono in:
Imbragatura – norme di conformità EN 361;
Cintura con imbracatura – norme di conformità EN 358;
Cordino d’aggancio – norme di conformità EN 355.
Questi dispositivi, come dal Decreto del Presidente della
Repubblica 547/55 art. 386, sono obbligatori non solo per
lavori in quota o con pericolo di caduta dall’alto, ma anche per
lavori entro pozzi, cisterne e simili.
Infatti in caso di infortunio del lavoratore, esso deve poter
essere estratto il più velocemente possibile dal pozzo/cisterna o
simile.
L’efficacia di un sistema di protezione di caduta dipende in
modo determinante dal punto di ancoraggio, che ricade sotto la
giurisdizione dell’utilizzatore.
Figura 5: Imbracatura.
4.8. Protezione del corpo e della pelle
Sono D.P.I. di vario tipo, appartenenti alla I a, II ae III a categoria:
indumenti di protezione (contro aggressioni meccaniche, chimiche, calore, radiazioni, etc.);
dispositivi di protezione di tronco ed addome (giubbotti o grembiuli);
dispositivi di protezione della pelle (creme protettive, pomate).
52
4.9. Visibilità
Indumenti ad alta visibilità – norme di conformità
EN 471.
L’art. 21 del Codice della Strada e l’art. 37 del
Regolamento hanno reso obbligatori gli indumenti
ad alta visibilità recependo la norma europea UNI
EN 471 del marzo 1995 con il Decreto Ministeriale
del 9 giugno 1995 “Disciplinare tecnico sulle
prescrizioni relative ad indumenti e dispositivi
autonomi per rendere visibile a distanza il personale
Figura 6: indumenti ad alta visibilità.
impiegato su strada in condizioni di scarsa
visibilità”.
Oggi tutti coloro che lavorano nei cantieri od in prossimità di essi devono obbligatoriamente
indossare indumenti di visibilità fluorescenti e rifrangenti marcati C.E. in conformità ai requisiti
della predetta norma UNI EN 471.
Gli indumenti ad alta visibilità sono classificati in 3 classi in funzione della quantità di materiale di
fondo e materiale rifrangente necessario per avere un capo certificato secondo la EN 471.
Con la Legge 1º agosto 2003, n. 214, si è inoltre voluto dare un’ulteriore svolta alla sicurezza
dell’utente debole, rendendo obbligatorio l’uso di dispositivi retroriflettenti per rendere visibili, di
giorno come di notte, tutti coloro che per qualsiasi necessità, debbano presegnalare un veicolo
fermo sulla carreggiata.
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7. Esposizione ad agenti biologici
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, Titolo X - n 4 CAPI - artt. da 266 a 286)
1. Definizione di rischio biologico
Il rischio biologico od anche biorischio (in inglese
Biohazard) si riferisce a sostanze di origine
biologica potenzialmente dannose per la salute di un
qualsiasi essere vivente.
Sono compresi tra i fattori di rischio microrganismi,
virus e tossine.
Il termine ed il simbolo associato sono generalmente
utilizzati
come
avvertimento
per
evitare
l’esposizione senza le dovute precauzioni e per
indicare la corretta procedura di smaltimento dei
rifiuti connessi.
Figura 7: simbolo internazionale del biorischio.
Il simbolo del biorischio è stato progettato nel 1966
da Charles Baldwin, un ingegnere ambientale alle dipendenze della Dow Chemical: viene
etichettato sui contenitori di materiali biologici nocivi per la salute, tra cui i virus e gli aghi per
siringhe.
Nel sistema Unicode il simbolo di riferimento del biorischio è U+2623 (☣).
1.1. Definizioni
Le attività lavorative che espongono agli agenti biologici, deliberatamente utilizzati o
potenzialmente presenti, sono molteplici.
L’articolo 267 del Decreto Legislativo n. 81/2008 definisce:
Agente biologico: qualsiasi microorganismo anche se geneticamente modificato, coltura
cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie od intossicazioni.
Si comprende in tale elenco qualunque forma di vita, mono o pluri cellulare, che in seguito alla
penetrazione nell’organismo umano possa produrre uno stato di malattia, non solo di tipo
infettivo, ma anche di tipo allergico quale reazione ad una “sostanza” estranea o di tipo tossico.
Microorganismo: qualsiasi entità microbiologica, cellulare o meno, in grado di riprodursi o
trasferire materiale genetico: vengono in tal modo compresi anche i virus che non sono cellule e
che per riprodursi devono trasferire il proprio materiale genetico all’interno della cellula
infettata.
Coltura cellulare: il risultato della crescita in vitro di cellule derivate da organismi
pluricellulari. Tali colture cellulari vengono utilizzate per la riproduzione di virus e, per tale
motivo, sono potenzialmente patogene.
1.2. Livelli di biorischio
Esistono tuttavia, come ben noto, diversi gradi di patogenicità e di virulenza, correlati anche a
diversi scenari espositivi e vie di trasmissione; la classificazione di pericolosità degli agenti
biologici tiene conto di tutte queste caratteristiche, mettendo in cima alla lista dei microorganismi
più pericolosi, quelli con elevata virulenza (capacità di trasmettersi) associata ad elevata
patogenicità5.
Risulta quindi evidente come una corretta valutazione del rischio biologico debba tenere conto sia
della pericolosità intrinseca del microorganismo eventualmente presente, sia della possibilità che
questo venga in qualche modo trasmesso ai lavoratori.
I Centri per la prevenzione ed il controllo delle malattie hanno categorizzato numerosi agenti
5
Potenzialità di causare malattie una volta in contatto con l’organismo ospite.
54
patogeni per ogni livello di biorischio.
Gli agenti biologici sono stati classificati in 4 livelli di rischio in base ai concetti di:
infettività: capacità di sopravvivere alle difese dell’ospite e di moltiplicarsi in esso, penetrazione
e moltiplicazione;
patogenicità: capacità di produrre malattia a seguito di infezione;
trasmissibilità: capacità di essere trasmesso da un soggetto portatore o da uno malato ad un
soggetto non infetto (contagio di soggetti suscettibili);
neutralizzabilità: disponibilità di efficaci terapie, profilassi per prevenire la malattia.
In pratica sono state valutate tutte le possibilità di un agente biologico, situato in origine all’esterno
dell’organismo, di penetrarvi e provocare danni più o meno gravi sia nei confronti della salute dei
lavoratori sia della popolazione generale.
I microrganismi sono stati suddivisi in 4 classi di pericolosità (Decreto Legislativo n. 81/2008, art.
268), con valori crescenti da uno a quattro.
Biorischio di livello 1 – Comprende agenti biologici, quali batteri e virus tra cui bacillus subtilis,
epatite canina, escherichia coli, varicella, alcune colture cellulari e batteri non infettivi, che
presentano poche probabilità di causare malattie in soggetti umani.
Le precauzioni da utilizzare per questo livello sono minime, riguardano più che altro guanti e
protezioni facciali.
Biorischio di livello 2 – Comprende agenti biologici, quali batteri e virus, come l’epatite A, B e
C, influenza virus A, malattia di Lyme, salmonella, parotite epidemica, morbillo, scrapie,
dengue, Bordetella pertussis, Candida albicans, Clostridium tetani, Legionella pneumophila,
Staphylococccus aureus, Vibrio cholerae che presentano poche probabilità di causare malattie in
soggetti umani o sono difficili da contrarre tramite l’aerosol in un laboratorio.
Si possono effettuare i lavori diagnostici e le ricerche in strutture o laboratori dotati di protezioni
di livello 2 od anche di livello 3.
Biorischio di livello 3 – Comprende agenti biologici, quali batteri e virus che provocano malattie
gravi o mortali, ma per i quali esistono vaccini od altri trattamenti; si possono citare antrace,
virus del Nilo occidentale, encefalite equina venezuelana, SARS, tubercolosi, tifo, febbre della
Rift Valley, HBV, HCV, HIV, febbre maculosa delle Montagne Rocciose, febbre gialla e
malaria.
Tra i parassiti ci sono plasmodium falciparum, che causa la malaria, ed il trypanosoma cruzi,
portatore della tripanosomiasi americana.
Questi agenti biologici possono causare malattie gravi in soggetti umani e costituire un serio
rischio per i lavoratori; l’agente biologico può propagarsi nella comunità, ma di norma sono
disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche: è quindi dotato di elevata patogenicità,
facilmente trasmissibile, ma efficacemente neutralizzabile.
Biorischio di livello 4 – Comprende agenti biologici, quali batteri e virus che provocano malattie
gravi o mortali, per i quali non esistono vaccini o trattamenti efficaci, come la febbre emorragica
argentina e boliviana, marburg, ebola, hantavirus, virus di Lassa, febbre emorragica della Crimea
– Congo, ed altre malattie emorragiche.
Il vaiolo viene trattato nei laboratori P4 nonostante l’esistenza di un vaccino.
L’Agente biologico di rischio 4 può causare malattie gravi in soggetti umani, costituisce un serio
rischio per i lavoratori e può presentare un elevato rischio di propagazione nella comunità; non
sono disponibili di norma efficaci misure profilattiche o terapeutiche. Assomma in sé tutte le
caratteristiche di pericolosità sopra enunciate: alta patogenicità, alta trasmissibilità e scarsa o
nulla neutralizzabilità.
Bisogna indossare tute protettive pressurizzate e dotate obbligatoriamente di bombole
d’ossigeno.
Nei P4 l’entrata e l’uscita contengono docce multiple, una camera vuota, una camera a raggi UV,
Sistema di Rilevamento Autonomo e altre misure protettive destinate all’eliminazione totale di
ogni traccia di biorischio.
55
Vengono impiegate camere d’equilibrio, protette elettronicamente, per impedire l’apertura delle
porte nello stesso momento. L’aria e l’acqua nei P4 vengono sottoposte a procedure di
decontaminazione per ostacolare ogni possibile rilascio accidentale.
L’allegato XLVI del Decreto Legislativo n. 81/2008 contiene l’elenco degli agenti biologici
classificati nei gruppi 2, 3 e 4, specificando che gli agenti non inseriti in detti gruppi, vanno
implicitamente inseriti nel gruppo 1.
1.3. Classificazione
Gli agenti di rischio biologico classificati per il trasporto si dividono in tre categorie:
categoria A, UN 2814 – sostanze infettive per uomini e animali: le sostanze infettive possono
causare malattie che compromettono lo svolgimento della propria vita, disabilità permanenti o
patologie mortali;
categoria B, UN 2900 – sostanze infettive solo per gli animali: una sostanza infettiva che
generalmente non causa danni, disabilità permanenti o patologie mortali per umani in salute ed
animali;
categoria B, UN 3373 – sostanze biologiche trasportabili per scopi diagnostici od investigativi;
rifiuti medici regolamentati, UN 3291 – materiali di scarto o riutilizzabili derivati da
trattamenti medici per umani, animali o da ricerca biomedica, che include la produzione e
sperimentazione di prodotti biologici.
La classificazione degli agenti biologici:
si basa sugli effetti esercitati sul lavoratore sano;
non tiene conto degli effetti particolari sui lavoratori ipersuscettibili ai microrganismi
geneticamente modificati;
non sono considerati gli agenti biologici non patogeni per l’uomo.
2. Aziende a rischio biologico e prevenzione
Le aziende a rischio biologico sono sostanzialmente di due tipi: quelle che utilizzano
deliberatamente per le proprie attività organismi biologici, per esempio i laboratori di ricerca
biotecnologica, le aziende farmaceutiche, le aziende agroalimentari o quelle che lavorano nel campo
del trattamento dei rifiuti; e quelle invece che non fanno uso deliberato di agenti biologici ma che
potenzialmente potrebbero comunque entrare in contatto con qualcuno di essi (ospedali, aziende
zootecniche, alimentari, e tutte quelle attività in generale in cui vi sia contatto interpersonale con un
significativo numero di individui).
Non è da trascurare infatti la considerazione che la principale via di trasmissione di un agente
biologico è quella indiretta, veicolata cioè da un vettore che trasferisce da un individuo malato o
portatore, ad uno sano, la carica batterica o virale necessaria per dare origine alla malattia; i luoghi
pubblici, i supermercati, piuttosto che gli aeroporti od i luoghi con grande affluenza di persone,
sono sempre da considerarsi potenzialmente a rischio biologico, e quindi da sottoporre ad adeguata
prevenzione e sorveglianza.
Per quanto concerne la prevenzione, un aspetto fondamentale è quello dell’attenzione alla
formazione del personale potenzialmente esposto, che deve essere messo sempre a conoscenza sia
delle potenziali sorgenti di infezioni, dirette o veicolate che siano, sia dei possibili rischi da
esposizione; una buona profilassi può tenere conto della somministrazione di opportuni vaccini,
così come dell’utilizzo di adeguati dispositivi di protezione collettiva ed individuale.
Per le aziende a rischio biologico è inoltre obbligatoria la sorveglianza sanitaria, che comprenda
l’effettuazione di monitoraggi biologici periodici, definiti dal medico competente e dal datore di
lavoro, sulla base degli scenari di esposizione specifici, i cui risultati devono essere comunicati al
lavoratore esposto.
56
2.1. Le figure professionali esposte a rischio biologico in ambiente non sanitario
Tra le figure professionali esposte al biorischio al di fuori dell’ambiente sanitario si contemplano:
addetti alla produzione ed alla manipolazione degli alimenti;
contadini;
allevatori;
addetti alla macellazione delle carni;
addetti al commercio ed al trasporto, di animali vivi e di carni;
addetti alla piscicoltura;
veterinari;
operatori ecologici ed addetti agli impianti di smaltimento rifiuti;
addetti alla depurazione delle acque di scarico;
addetti alla metallurgia;
addetti ai servizi mortuari e cimiteriali.
L’esposizione a rischio biologico è possibile inoltre nei seguenti comparti lavorativi:
1. arboricoltura e lavori forestali: il rischio biologico è rappresentato dal contatto con agenti
biotici;
2. allevamento avicolo: il rischio biologico è rappresentato dal contatto con agenti patogeni
presenti nelle deiezioni animali e dalla presenza di insetti, possibili veicoli di microrganismi;
3. dipendenti dei mattatoi, dei canili, dei giardini zoologici: il rischio biologico è rappresentato
dal contatto con agenti patogeni trasmissibili dagli animali, presenti nelle deiezioni animali e
dalla presenza di insetti, possibili veicoli di microrganismi;
4. impresa di pulizia: il rischio biologico deriva dalla possibilità di contatto con materiali infetti di
varia provenienza;
5. floro – vivaismo: il rischio biologico deriva dalla possibilità di contatto con terreni
potenzialmente contaminati;
6. lavanderia: il rischio biologico è dovuto alla manipolazione di indumenti sporchi e
potenzialmente infetti di varia provenienza ed uso;
7. falegnameria: il rischio biologico deriva dal contatto con microrganismi che fanno da substrato
inorganico alle polveri di legno;
8. attività indoor: il rischio biologico deriva dall’inalazione di aerosol contaminati da
microrganismi presenti nell’aria degli ambienti indoor;
9. attività di assistenza asili nido e scuole materne: il rischio biologico deriva dalla possibilità di
entrare quotidianamente in contatto con bambini che possono essere affetti, in fase pre – clinica
ma contagiosa, da varie malattie infettive trasmissibili tra le quali varicella, morbillo, parotite,
rosolia. Tali malattie diventano particolarmente pericolose se contratte in gravidanza perché
possono provocare effetti sul nascituro. Il rischio di contagio può essere connesso con alcune
specifiche operazioni quali, ad esempio, il cambio dei pannolini.
È possibile inoltre, data l’età dei bambini, il verificarsi di piccole ferite con fuoriuscite di sangue
che rappresentano altre possibili fonti di contagio di agenti biologici per l’insegnante.
10. industria edile e delle costruzioni di materie naturali, quali argilla, paglia, canne: il rischio
biologico deriva dalla possibilità di entrare in contatto con muffe e batteri, derivanti dal
deterioramento di materiali edili. Inoltre l’attività cantieristica comporta spesso lavorazioni, con
possibilità di esposizione ad agenti biologici, in impianti di depurazione di reflui, spurgo dei
pozzi, raccolta rifiuti, lavori in impianti fognari, smontaggio di impianti trattamento aria e
canalizzazioni, smontaggio di impianti idrico e termico sanitari (legionella), pulizia dei locali
(volatili, escrementi), sgombero dei locali (tessuti, stracci), demolizioni o sgomberi con
esposizione a polveri.
11. aree di lavoro con impianti ad aria condizionata con alti livelli di umidità, quali ad esempio
industria tessile, tipografica e della produzione della carta: il rischio biologico deriva da
muffe/lieviti e legionella diffuse negli ambienti di lavoro.
57
12. settore della produzione di nutrimenti e mangimi animali: il rischio biologico deriva dalla
presenza di microrganismi ed acari nelle polveri organiche dei cereali, nel latte in polvere, nella
farina, nelle spezie;
13. attività di parrucchiere ed estetista: l’esposizione ad agenti biologici si può realizzare
attraverso contatto diretto con fonti di contaminazione, quali ad esempio cuoio capelluto in
presenza di Tinea Capitis, Pediculosi od attraverso contatto diretto col sangue che si può
verificare soprattutto nelle operazioni di manicure e pedicure;
14. attività lavorative con trasferimenti all’estero: l’esposizione ad agenti biologici si può
realizzare durante i viaggi in Paesi in via di sviluppo dove sono presenti alcune malattie infettive
non così diffuse nei Paesi di provenienza, quali ad esempio: l’epatite A, B, febbre tifoide, febbre
gialla, meningite meningococcica, rabbia, encefalite giapponese, malaria, etc.;
15. attività lavorative aeroportuali (addetti all’assistenza a passeggeri e bagagli): la trasmissione di
agenti biologici si può verificare dalle popolazioni in arrivo nelle quali possono esservi anche
soggetti affetti da patologie infettive in incubazione, soggetti portatori sani od in alcuni casi
soggetti manifestamente malati. Molto più improbabile, anche se non può essere del tutto
escluso, che microrganismi vengano veicolati anche attraverso le merci od i bagagli trasportati;
16. attività di assistenti ai bagnanti: durante le operazioni di primo soccorso l’assistente bagnanti è
esposto a possibile contagio per epatite B, tetano, o sindrome da immunodeficienza acquisita
(HIV); inoltre a causa del continuo contatto con l’acqua che rappresenta il vero e proprio
ambiente lavorativo di questi soggetti, gli assistenti sono esposti a rischio dermatosi, che possono
essere da contatto come le micosi cutanee (candida, verruche).
La continua esposizione ambientale a sole, vento, sabbia ed acqua salata può determinare anche
l’insorgenza di congiuntiviti ed otiti.
3. Rischi per la salute
Gli agenti biologici possono provocare tre tipi di malattie:
infezioni provocate da parassiti, virus o batteri;
allergie scatenate dall’esposizione a muffe, polveri di natura organica come polveri di farina,
polveri di origine animale, enzimi ed acari;
avvelenamento od effetti tossicogenici.
3.1. Procedure per la valutazione del rischio
A differenza delle altre tipologie di rischio, per gli agenti biologici è difficile dimensionare il rischio
in maniera numerica. Tuttavia si possono individuare alcuni elementi utili per una valutazione
complessiva del rischio biologico a partire dall’individuazione degli agenti biologici potenzialmente
presenti nell’attività ed in grado di penetrare patologie od effetti allergici e tossici.
Tale individuazione sarà possibile dopo un attento studio del ciclo produttivo che porterà
all’individuazione delle zone, delle fasi o delle operazioni in cui può determinarsi, anche solo per
eventi accidentali, l’esposizione ad un possibile pericolo attraverso:
studio delle diverse caratteristiche biologiche dei microrganismi (Fattori di rischio)
potenzialmente presenti nei diversi reparti in relazione all’attività;
studio della diversa tipologia e gravità delle infezioni/malattie da essi determinate (Gravità del
danno);
studio della probabilità di accadimento delle infezioni/malattie (Probabilità del danno);
studio della tipologia delle mansioni svolte dagli operatori che comportano una diversa
frequenza di esposizione a “situazioni pericolose”.
Tale valutazione consentirà di individuare le azioni necessarie, volte alla riduzione dell’esposizione
attraverso:
procedure di informazione e formazione del personale sui rischi lavorativi di natura infettiva;
studio dell’adeguatezza strutturale degli ambienti di lavoro;
58
necessità di dispositivi collettivi di protezione ambientale;
adozione di procedure operative di sicurezza durante l’attività lavorativa:
precauzioni standard;
precauzioni basate sulle vie di trasmissione;
disponibilità di adeguati D.P.I.;
programmi di verifica dell’effettivo utilizzo delle precauzioni standard e dei D.P.I.
3.2. Rischi biologici emergenti correlati alla sicurezza sul lavoro
I microrganismi sono di fatto presenti ovunque nell’ambiente, la maggior parte di essi sono innocui
per gli esseri umani e svolgono inoltre molte funzioni importanti.
Essi possono essere utilizzati per la produzione di farmaci o per la degradazione di sostanze
inquinanti in ambienti contaminati, oltre ad essere responsabili della produzione di circa la metà
della quantità di ossigeno che normalmente respiriamo. Ciononostante, alcuni microrganismi
possono essere causa di infezioni, allergie, od esplicare effetti tossici, costituendo quindi un
problema che coinvolge direttamente il settore occupazionale.
Una stima condotta su scala mondiale ha evidenziato come ogni anno, 320.000 lavoratori in tutto il
mondo, perdano la vita a causa di malattie infettive, provocate da agenti virali o batterici, oppure
dovute al contatto con insetti od animali: il maggior numero di tali malattie si verifica comunque
all’interno dei Paesi in via di sviluppo.
Virus, batteri o parassiti sono inoltre da considerarsi responsabili di almeno il 15 % dei nuovi casi
di tumore che si sviluppano in tutto il mondo.
Gli agenti biologici sono talvolta introdotti deliberatamente all’interno del processo lavorativo (ad
esempio nel caso di un laboratorio di microbiologia o dell’industria alimentare) oppure
rappresentano un effetto indesiderato ma pur sempre correlato all’attività lavorativa in questione,
come nel settore dell’agricoltura o del trattamento dei rifiuti. Inoltre, gli stessi ambienti di lavoro
sono in continua evoluzione, in seguito all’introduzione di nuove tecnologie, sostanze e processi
lavorativi, ai cambiamenti in atto nella struttura della forza lavoro e nel mercato occupazionale
nonché allo sviluppo di nuove forme di occupazione e di organizzazione del lavoro stesso.
Le attuali situazioni lavorative sono pertanto portatrici di nuovi rischi e nuove sfide che entrambi,
lavoratori e datori di lavoro, dovranno affrontare e che di volta in volta richiederanno uno specifico
approccio politico, amministrativo, tecnico e normativo al fine di garantire elevati standard di salute
e sicurezza sul lavoro.
L’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro ed il relativo Osservatorio europeo dei
rischi (E.R.O.) hanno svolto un’indagine sul tema dei rischi emergenti nel campo della salute e
sicurezza sul lavoro (S.S.L.) al fine di permettere la tempestiva individuazione di tali rischi e
consentire il raggiungimento di una migliore pianificazione ed una maggiore efficacia degli
interventi eventualmente attuati. Il progetto di ricerca sopra menzionato e la stesura del relativo
rapporto ha visto la partecipazione di 109 esperti provenienti da 21 Paesi europei appositamente
designati dal Centro tematico Osservatorio dei rischi (T.C.R.O.), già Centro tematico ricerca su
lavoro e salute (T.C.W.H.), e dai focal point dell’Agenzia al fine di garantire che fosse coinvolta la
più ampia gamma di competenze, qualificate nell’ambito dell’Unione Europea.
La maggior parte degli esperti concorda che i rischi biologici emergenti risultano strettamente legati
a fenomeni di tipo sociale ed ambientale: la globalizzazione favorisce ad esempio la diffusione di
epidemie causate da vecchi e nuovi agenti patogeni, quali la sindrome respiratoria acuta grave
(SARS), l’influenza aviaria, la febbre emorragica virale, la tubercolosi, il virus
dell’immunodeficienza umana (HIV), l’epatite B (HBV) e l’epatite C (H.C.V.).
Inoltre, l’alta densità all’interno di spazi confinati di popolazioni animali a contatto con l’uomo sta
comportando un aumento del numero di casi di zoonosi6, attraverso il superamento della barriera fra
6
Con il termine zoonosi si intende una qualsiasi malattia infettiva che può essere trasmessa dagli animali (escluso l’uomo) all’uomo,
direttamente (contatto con la pelle, peli, uova, sangue o secrezioni) o indirettamente (tramite altri organismi vettori o ingestione di
alimenti infetti).
59
la specie umana e quella animale.
L’aumento della popolazione e l’incremento degli spostamenti, dovuti ai viaggi d’affari ed ai flussi
turistici e migratori favoriscono, altresì la rapida diffusione su scala mondiale delle zoonosi e delle
altre malattie infettive. Le categorie di soggetti particolarmente a rischio di contaminazione sono il
personale aeroportuale, gli equipaggi di volo, i lavoratori addetti alla produzione, lavorazione e
trasporto di bestiame, il personale incaricato ad effettuare i controlli alle frontiere e di svolgere
funzioni di polizia nonché i lavoratori impiegati nel settore sanitario ed in quello dei trasporti e dei
servizi pubblici.
Il rischio al quale tali categorie di lavoratori risultano esposti è spesso sottostimato e ciò determina
quindi la mancanza di misure di prevenzione adeguate.
È da registrare inoltre l’aumento del rischio dovuto alla comparsa dei microrganismi resistenti ai
farmaci; l’incremento generalizzato dell’uso di antibiotici nei trattamenti sanitari e nell’allevamento
di animali, nell’ambito dell’industria alimentare determina la comparsa di agenti patogeni resistenti
ai farmaci quali ad esempio Staphylococcus aureus meticillina – resistente (M.R.S.A.) ed il bacillo
tubercolare (T.B.C.).
Si osserva, infatti, un incremento del numero delle infezioni da M.R.S.A. tra gli operatori sanitari in
servizio, presso le strutture ospedaliere dei Paesi occidentali, ed un aumento di antibioticoresistenza
tra gli allevatori di bestiame e nella popolazione in generale.
Tra le più importanti problematiche emergenti, nell’ordine dell’indagine E.R.O./T.C.R.O., segue
quella riguardante i rischi derivanti da una valutazione del rischio inadeguata.
La Direttiva 2000/54/C.E. sancisce i principi per la gestione del rischio biologico ed impone al
datore di lavoro l’obbligo di provvedere alla valutazione dei rischi causati dalla presenza di agenti
biologici nei luoghi di lavoro, sebbene lo stato delle conoscenze sui rischi biologici risulti tuttora
relativamente poco sviluppato ed un’adeguata valutazione di tali rischi sia in pratica ancora difficile
da realizzare.
La carenza di informazioni riguardanti i rischi biologici nei luoghi di lavoro, soprattutto nel caso di
determinati ambienti come gli uffici o attività lavorative, quali l’agricoltura ed il trattamento dei
rifiuti, rende difficile procedere ad una corretta valutazione del rischio.
3.3. I dati disponibili sulle malattie professionali da agenti biologici
Determinare i tassi di prevalenza e di incidenza delle malattie correlate all’esposizione ad agenti
biologici non è un’impresa facile. Oltre alla difficoltà di stabilire nessi epidemiologici certi, spesso
si conosce il numero dei singoli casi, ma non il numero totale dei lavoratori esposti, rendendo
impossibile il calcolo dei tassi specifici. Inoltre, i dati riguardanti le malattie professionali, causate
da agenti biologici, sono spesso difficili da raccogliere poiché spesso l’infezione decorre in forma
subclinica, con atipici periodi di incubazione e/o vie di trasmissione.
La gamma degli effetti sulla salute, riconducibili agli agenti biologici, varia tra forme di malattia
acuta e forme di malattia cronica. Nel caso delle malattie in forma acuta, l’organismo (od i suoi
derivati) penetra nell’ospite, moltiplicandosi ove possibile fino a raggiungere un numero tale da
generare l’insorgenza della malattia, provoca danni ai tessuti, diffusi o localizzati, per poi essere
definitivamente sconfitto a seguito delle difese, messe in atto dall’ospite (guarigione), oppure avere
il sopravvento sullo stesso (morte).
Una malattia in forma acuta può anche implicare delle evoluzioni di tipo cronico e dare quindi
origine a delle complicanze o lesioni permanenti.
Le malattie in forma cronica sono invece caratterizzate dalla comparsa di un quadro clinico
dall’andamento lentamente progressivo, ma persistente, all’interno del quale l’infezione iniziale
(primaria) può persino passare inosservata dall’ospite. Tuttavia, gli effetti cronici sulla salute sono
difficili da determinare ed il termine comprende svariate situazioni di cronicità.
Un’analisi sistematica della letteratura riguardante il tema degli effetti cronici sulla salute, causati
dall’esposizione ad agenti biologici, è stata eseguita nel 2002 dall’Istituto nazionale britannico per
la salute e sicurezza del lavoro (H.S.E.), uno degli organi tecnici che opera a sostegno della
60
Commissione per la salute e la sicurezza, l’ente responsabile dell’attività normativa in materia di
salute e sicurezza per la Gran Bretagna.
La relazione redatta dall’H.S.E. esamina e valuta criticamente le evidenze scientifiche che
documentano gli effetti cronici sulla salute, associati alle infezioni causate dall’esposizione
professionale ad agenti biologici.
In Italia, la disponibilità di dati sulle malattie professionali da agenti biologici è piuttosto limitata a
causa di rilevazioni non sistematiche che permetta di monitorare i lavoratori coinvolti e le patologie
maggiormente ricorrenti. Le statistiche, relative alle malattie infettive, che dovrebbero essere
notificate per Legge, sono di fatto incomplete e difficilmente riconducibili ai luoghi di lavoro.
Nel 2004 in Italia è stato aggiornato l’elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia ed
un maggior numero di agenti biologici e di patologie ad essi associate sono stati opportunamente
inseriti, fornendo quindi un prezioso contributo alle nostre conoscenze sulle malattie professionali
da agenti biologici.
Ad esempio, nel sistema di rilevazione istituito per le malattie dell’apparato respiratorio sono stati
inseriti agenti biologici di origine vegetale, quali polvere e farina di cereali, semi di soia, grano,
polveri di legno, enzimi, lattice etc., di origine animale, quali peli, piume, sangue, urina, forfora,
etc., ed agenti fungini quali Alternaria, Aspergillus, Penicillium.
Tra gli agenti infettivi, anche l’HCV, l’HBV e l’HIV sono stati inseriti con riferimento ai tumori di
origine professionale.
3.4. Le problematiche connesse con la valutazione dei rischi biologici nei luoghi di lavoro
L’individuazione e la valutazione dei rischi, derivanti dall’esposizione ad agenti biologici, nei
luoghi di lavoro, costituiscono il campo di applicazione della Direttiva 2000/54/CE secondo la
quale la valutazione dei rischi comporta:
l’individuazione dei pericoli, la quale consiste nell’individuazione degli agenti biologici,
eventualmente presenti, e degli effetti dannosi che questi possono causare;
la valutazione della relazione dose (concentrazione) – risposta (effetto), la quale prevede una
stima della relazione esistente tra il livello di esposizione ad una determinata sostanza e
l’incidenza e gravità degli effetti eventualmente causati;
la valutazione dell’esposizione, la quale consiste nell’identificazione delle concentrazioni, delle
vie d’esposizione, del potenziale di assorbimento, nonché della frequenza e della durata
dell’esposizione al fine di ottenere una stima delle dosi alle quali i lavoratori sono o possono
essere esposti;
la caratterizzazione del rischio, la quale prevede una stima dell’incidenza e della gravità degli
effetti dannosi che possono verificarsi nei lavoratori a causa della reale o presunta esposizione
agli agenti biologici.
Qualora i lavoratori risultino esposti a diversi gruppi di agenti biologici, i rischi saranno valutati in
base al pericolo costituito da tutti gli agenti biologici presenti.
Tale valutazione del rischio dovrà essere rinnovata periodicamente e comunque ogni qualvolta si
verifichi un cambiamento delle condizioni lavorative che possa influire sull’esposizione dei
lavoratori.
La valutazione del rischio biologico consiste nello studio scientifico della relazione quantitativa
esistente tra la (potenziale) esposizione ai microrganismi patogeni e l’insorgenza dell’eventuale
infezione/patologia e, come nel caso della valutazione del rischio tossicologico, essa fa un ampio
uso di modelli matematici, soprattutto al fine di interpretare ed integrare i dati risultanti dalla
sperimentazione e dall’osservazione.
Tuttavia, il procedimento di valutazione del rischio biologico è seriamente compromesso dal
momento che non risulta tuttora disponibile nessun criterio universalmente accettato per la
valutazione dell’esposizione agli agenti biologici né tanto meno esistono relazioni dose – effetto e
valori limite dell’esposizione professionale (O.E.L.) ben definiti.
61
3.5. Le relazioni dose - effetto
I dati relativi alle relazioni dose – effetto potrebbero facilitare la definizione dei valori limite
espositivi (O.E.L.) che potrebbero a loro volta garantire una corretta interpretazione dei risultati,
ottenuti attraverso le misurazioni effettuate nel corso del processo di valutazione del rischio.
La normativa attualmente in vigore all’interno di alcuni Stati membri definisce i valori limite
dell’esposizione agli agenti biologici solo con riferimento ad alcuni tipi di tossine, oppure nel caso
di contaminanti quali la polvere di legno, la subtilisina e la polvere di farina.
I valori limite dell’esposizione alle endotossine batteriche sono stati per il momento proposti ma
non ancora definiti con certezza anche a causa della mancanza di valide metodologie di valutazione
quantitativa dell’esposizione.
Inoltre, il ruolo ricoperto dagli agenti biologici nell’evoluzione della sintomologia e della malattia è
stato per ora compreso solo in minima parte.
È da sottolineare anche che la risposta umana all’esposizione agli agenti biologici dipende dalla
natura del materiale coinvolto e dalla predisposizione individuale.
I microrganismi inoltre, sono caratterizzati dalla costante capacità di reagire ed interagire con
l’ambiente circostante e risultano in grado di modificare velocemente la loro espressione genica in
risposta ai diversi segnali ambientali.
Tale costante capacità di adattamento determina notevoli differenze nell’interazione ospite –
microrganismo, come dimostrano i dati sperimentali.
Lo stato fisiologico dei microrganismi, liberati dall’ospite infetto, rappresenta uno dei fattori critici,
capaci di influire sul loro destino nell’ambiente e sulla loro trasmissione all’ospite successivo;
tuttavia, è necessario sottolineare che anche in questo ambito le informazioni risultano piuttosto
limitate.
È stato recentemente dimostrato come il batterio Vibrio colera, presente nelle feci dei pazienti
affetti da colera, si trovi in uno stato di iperinfettività: saggi effettuati su topi neonati evidenziano,
infatti, come i valori di Vibrio cholerae diffuso attraverso le feci siano dalle 10 alle 100 volte
superiori rispetto a quelli di Vibrio cholerae cresciuto in laboratorio, e che la dose di Vibrio
cholerae necessaria per provocare un’infezione orale è 10 volte inferiore nel caso in cui il patogeno
venga diffuso attraverso le feci rispetto al suo equivalente cresciuto in vitro.
Sebbene questi studi rappresentino un primo tentativo di approfondimento del fenotipo iper –
infettivo del batterio Vibrio cholerae presente in campioni fecali, il relativo meccanismo molecolare
rimane in gran parte sconosciuto.
Oltre ad analizzare l’espressione genica responsabile dell’iper – infettività, alcuni studi si sono
concentrati sulle proprietà morfologiche dei patogeni dimostrando come Vibrio colera, diffuso
attraverso le feci, risulti costituito da forme eterogene comprendenti sia cellule in forma libera sia in
forma aggregata nell’ambito di biofilm.
Molto scarse sono le informazioni, relative alle dosi infettanti o quelle riguardanti le relative
concentrazioni di agenti biologici responsabili dell’insorgenza delle malattie: alcuni microrganismi
patogeni possono risultare pericolosi già in quantità estremamente ridotte, mentre altri organismi
possono costituire un importante rischio per la salute solamente quando raggiungono concentrazioni
più elevate.
È possibile inoltre osservare notevoli differenze nel grado di infettività fra i diversi isolati della
stessa specie, lasciando quindi intuire che alcuni isolati risultano essere più virulenti di altri.
Alcuni studi dose – risposta, relativi a Cryptosporidium (genotipo 2), sono stati condotti su soggetti
volontari sani ed hanno evidenziato sostanziali differenze nel grado di infettività di
Cryptosporidium tra i diversi isolati (Iowa, UCP, e TAMU), fornendo quindi delle informazioni di
notevole importanza per la valutazione quantitativa del rischio.
Altri dati evidenziano come il range delle D.L.50 tra diversi ceppi di Listeria monocytogenes oscilla
da sei a sette ordini di grandezza negli studi su modelli animali.
L’esistenza di un tale grado di variabilità tra i diversi ceppi batterici rende più complicata la
valutazione dose – risposta in generale ed, in particolare, questa diventa ancor più complessa in
62
considerazione della diversa suscettibilità individuale. La formazione di biofilm da parte dei
microrganismi patogeni (Vibrio cholerae, Legionella pneumophila, Campylobacter jejuni,
Mycobacterium avium) è ampiamente documentata nella letteratura scientifica e si ritiene che tale
processo contribuisca ad accrescere la capacità di sopravvivenza dei patogeni in determinati
ambienti.
Le particelle che si staccano dai biofilm di solito superano il livello della dose infettiva minima
richiesta da molti batteri patogeni biofilmanti.
Inoltre, l’accresciuta capacità di resistenza ai fattori di stress (ad esempio, l’acidità), sviluppata dai
batteri nel biofilm, contribuisce a ridurre il livello della dose infettiva grazie all’aumento del
numero di organismi vitali in grado di sopravvivere.
Occorre sottolineare ad esempio, l’esistenza di numerose lacune nelle nostre conoscenze, relative ai
meccanismi di trasmissione della legionellosi ed alcune perplessità riguardano la determinazione
del livello di dose infettiva dell’organismo, necessario per provocare l’insorgenza della malattia
nell’uomo.
Alcuni esperimenti, condotti sugli animali, hanno evidenziato la necessità di una dose elevata per
produrre tale effetto ed il fatto che non esista una trasmissione persona – persona va a sostegno di
tale tesi. Ciononostante, i sistemi idrici sono verosimilmente responsabili dell’emissione di basse
concentrazioni di legionella, mentre l’evidenza epidemiologica indica la possibilità che l’infezione
possa svilupparsi anche ad una certa distanza dalle sorgenti di aerosol7.
La concentrazione ambientale di legionella quindi, potrebbe risultare sottostimata a causa di
impedimenti tecnici che ostacolano il processo di rilevazione. Comunque, il numero degli organismi
presenti nell’aerosol, rilevato nel corso dei monitoraggi non corrisponde alla dose alla quale il
lavoratore risulta effettivamente esposto.
L’evidenza riscontrata, negli animali, contraddice spesso i risultati delle osservazioni
epidemiologiche ed ambientali: ciò è dovuto al fatto che il pericolo infettivo, connesso
all’esposizione ad aerosol, contenente legionella, dipenda dalla capacità di sopravvivenza del
batterio, una condizione questa che a sua volta dipende da numerosi fattori connessi al batterio
stesso (attività metabolica, virulenza del ceppo ecc.) ed alle relazioni che il batterio stabilisce con
altri microrganismi, in particolare con le alghe azzurre e le amebe.
Come indicato nel rapporto redatto dall’E.R.O./T.C.R.O., numerosi studi hanno evidenziato
l’esistenza di una complessa relazione non lineare dose – dipendente tra l’esposizione ambientale ad
alcuni agenti biologici quali le endotossine, le spore fungine ed altri profili molecolari associati ai
patogeni (PAMPs) e l’esito delle risposte immunitarie.
L’esposizione a tali agenti sembra avere un ruolo critico nella patogenesi di malattie complesse
quali l’asma, l’atopia, le allergie respiratorie e la sensibilizzazione agli allergeni ed essere inoltre
responsabile dell’insorgere di risposte, diverse negli esseri umani, che variano in relazione al
contesto ambientale ed all’interazione tra l’esposizione ambientale ed il patrimonio genetico di
ciascun individuo.
In effetti, è stato dimostrato come tali agenti possano indurre tali malattie oppure al contrario creare
perfino dei meccanismi di difesa contro di esse.
Nella maggior parte dei casi, all’interno dei luoghi di lavoro si verifica l’esposizione combinata a
miscele complesse, costituite da tossine ed allergeni, così come sono possibili interazioni con agenti
non di origine biologica e, pertanto, un’ampia gamma di potenziali effetti sulla salute devono essere
considerati.
Risulta comunque complicato riuscire a determinare quali siano i costituenti principalmente
7
Un aerosol (pronuncia: aerosòl) è un tipo di colloide in cui un liquido o un solido sono dispersi in un gas.
Il diametro delle particelle è normalmente compreso fra 10−9 m e 10−6 m, ma nel caso in cui vi siano moti turbolenti anche particelle
di dimensioni maggiori possono essere incluse in un aerosol.
Esempi tipici di aerosol naturali sono le nuvole, la nebbia (esteso e pesante addensamento di minuscole gocce d'acqua), la foschia
(addensamento leggero di minuscole gocce d'acqua), il pulviscolo atmosferico. Altri tipi di aerosol sono quelli prodotti dalle
bombolette spray.
63
responsabili dei presunti effetti sulla salute.
3.6. Metodi di misurazione e la valutazione dell’esposizione
Sebbene le tecniche, basate su metodi colturali, forniscano soprattutto informazioni di tipo
qualitativo, esse sono da considerarsi comunque un importante strumento, frequentemente
utilizzato, ai fini della valutazione dei rischi biologici.
Tali metodi peraltro sono di scarsa utilità quando si effettuano studi sulla popolazione.
Il bioaerosol, in particolare, può risultare di difficile individuazione, quantificazione ed associazione
a specifiche sintomatologie.
L’esposizione professionale a bioaerosol può causare diversi problemi di salute, tra i quali disturbi
dell’apparato respiratorio (bronchite, asma e polmonite da ipersensibilità), malattie della pelle ed
eventuali sintomi gastrointestinali.
La valutazione dell’esposizione a bioaerosol è quindi necessaria al fine di esaminare le relazioni di
causalità, ma la quantificazione dell’esposizione non è semplice.
Uno dei principali problemi è infatti rappresentato dalla scelta dei relativi parametri di esposizione.
Il bioaerosol risulta caratterizzato da una composizione biologica estremamente complessa: esso
può infatti contenere una grande quantità di microrganismi vitali e non vitali, compresi diversi
componenti biologicamente attivi quali ad esempio le endotossine derivanti da batteri Gram –
negativi, l’ (1;3) − β − D glucano proveniente dalla parete cellulare di muffe e lieviti, nonché tossine
maggiormente di origine fungina e batterica.
Nel caso di ambienti di lavoro, caratterizzati da un’esposizione a forme complesse di bioaerosol,
risulta pertanto estremamente complicato assegnare specifici parametri microbiologici a determinati
problemi di salute.
Non esistono, inoltre, metodi di analisi e di campionamento dell’aria per la quantificazione
dell’esposizione a bioaerosol che siano universalmente riconosciuti.
È possibile effettuare analisi per l’enumerazione di diversi tipi di microrganismi, coltivabili al fine
di ottenere i dati riguardanti specifici microrganismi di particolare interesse, quali ad esempio quelli
ritenuti responsabili di provocare reazioni patologiche associate a determinate tossine o allergeni.
La polvere totale o la frazione respirabile ed i microrganismi totali possono essere individuati
tramite microscopia al fine di analizzare l’eventuale relazione esistente tra i sintomi polmonari e il
potenziale effetto proinfiammatorio rispettivamente delle polveri organiche o dei microrganismi.
Esistono altresì numerosi metodi di campionamento e tra questi quello realizzato su filtri può
dimostrarsi particolarmente utile con riferimento al campionamento personale ed alla successiva
analisi delle endotossine o conta totale effettuata al microscopio.
Tuttavia, esistono in letteratura numerosi esempi di scarse percentuali di sopravvivenza di alcuni
tipi di microrganismi, ad esempio, i batteri Gram – negativi, registrate nel corso di campionamento
su filtri; in alternativa, il campionamento per impatto su terreni solidi o liquidi sembra invece
permettere una conta dei microrganismi vitali più affidabile.
Nel caso di cellule non coltivabili, le concentrazioni microbiche aerodisperse risultano invece
sottostimate, con il risultato di falsinegativi.
Inoltre, i metodi ad impatto hanno una scarsa utilità ai fini del campionamento personale e non sono
in grado di fornire campioni validi per l’analisi delle endotossine o per le conte totali in
microscopia.
Da tale analisi risulta quindi che possono essere utilizzati diversi metodi di campionamento ed
analisi in funzione dell’obiettivo che ci si prefigge, e questo rende difficile il confronto dei risultati
ottenuti e la definizione dei limiti espositivi ai bioaerosol.
In conclusione, i metodi di misura disponibili, perfino quelli maggiormente consolidati, non
risultano ancora completamente validati e routinariamente applicati, si rende pertanto necessaria la
definizione di criteri comunemente accettati e di protocolli riconosciuti per la valutazione
dell’esposizione agli agenti biologici, unitamente all’elaborazione di linee guida ed uniformi sulle
procedure di campionamento, conservazione, estrazione ed analisi, al fine di approfondire le
64
conoscenze sulla relazione tra l’esposizione professionale e gli effetti sulla salute.
3.7. La predisposizione genetica alle malattie infettive
Esiste una notevole diversità fra le varie forme di predisposizione individuale alle infezioni e alle
allergie.
Il processo alla base dell’evolversi dell’infezione trova origine nella specifica interazione che si
determina tra l’individuo infetto ed il microrganismo infettante ed a tale proposito, occorre ricordare
i significativi progressi raggiunti nella comprensione dei principi basilari che regolano le interazioni
agente batterico – ospite.
La resistenza all’infezione batterica si presenta come un carattere ereditario che sembra essere
controllato da molteplici geni. Poiché il sistema immunitario congenito ricopre un ruolo di
fondamentale importanza nel precoce contenimento dell’infezione, le eventuali variazioni o
mutazioni genetiche che alterano la risposta immunitaria nei confronti degli agenti infettivi
potrebbero fornire ulteriori delucidazioni sulla capacità del sistema immunitario di rispondere alle
infezioni nonché la predisposizione genetica individuale alle infezioni.
Si ritiene che le differenze interindividuali alle malattie infettive possano avere una base genetica,
così come dimostrato in alcuni studi caso – controllo o studi condotti su famiglie e su gemelli.
Un numero di ricerche si propone di caratterizzare il ruolo che le caratteristiche genetiche svolgono
nella predisposizione alle malattie.
Numerosi studi hanno evidenziato l’associazione tra polimorfismi genici nell’evoluzione di svariate
malattie a livello di manifestazione o progressione.
Un’ulteriore evidenza della pressione selettiva degli agenti infettivi è supportata dalla presenza di
un numero maggiore di polimorfismi nella regione dell’antigene leucocitario umano (H.L.A.) in
confronto ad altre regioni del genoma umano.
Tale regione infatti, codifica numerose proteine, coinvolte nella risposta immunitaria quali il
complemento ed il fattore di necrosi tumorale (T.F.N.).
Vi è attualmente ampia evidenza che i geni dell’ospite siano effettivamente da considerarsi
importanti, determinanti dell’esito delle infezioni da numerosi agenti patogeni.
3.8. Priorità di ricerca per la valutazione del rischio biologico
Al fine di garantire un’adeguata valutazione dell’esposizione ad agenti biologici e del rischio
biologico associato, risulta evidente l’esigenza di sviluppare un’attività di ricerca in grado di
ampliare le conoscenze in materia di comportamento degli agenti patogeni nell’ambiente, ponendo
particolare attenzione a quei processi che hanno evidenziato aspetti di criticità per la trasmissione
dei patogeni stessi.
La trasmissione di un patogeno da un organismo ospite ad un altro costituisce un processo
multifattoriale fortemente condizionato dai seguenti elementi: la sua quantità, la forma di crescita
(ad esempio, se si trova in forma libera od all’interno di biofilm), le sue caratteristiche fisiologiche
al momento che fuoriesce dal suo ospite iniziale; i meccanismi che esso utilizza per sopravvivere
nell’ambiente esterno che ne controllano la quantità; ed infine la forma di crescita e la sua fisiologia
quando penetra nel successivo ospite: tutte queste caratteristiche ne determinano l’effettiva capacità
di provocare la successiva infezione.
La comprensione di tutti quei processi, che sono critici per la sopravvivenza dei patogeni
nell’ambiente, permetterebbe di migliorare le conoscenze in materia di trasmissione dei batteri
patogeni, al fine di ridurre la loro capacità di interagire con la popolazione umana.
L’attività di ricerca dovrebbe inoltre essere finalizzata a comprendere meglio i meccanismi di
trasmissione degli agenti patogeni attraverso i biofilm.
La crescita microbica in forma adesa offre infatti condizioni più favorevoli grazie alla capacità della
superficie di adsorbire e quindi concentrare i nutrienti, scarsamente presenti nella fase liquida.
Gli agenti patogeni possono inoltre stabilire interazioni metaboliche nell’ambito del consorzio
microbico; infine, la formazione di biofilm garantisce protezione dai predatori e dai tossici quali ad
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esempio gli agenti antimicrobici.
Il biofilm assume quindi un ruolo fondamentale non solo per la sopravvivenza dei patogeni
nell’ambiente, ma anche perché facilita la loro trasmissione attraverso l’ingestione di acqua
contaminata o l’inalazione di bioaerosol.
È possibile inoltre che il biofilm stimoli la comparsa di nuove varianti genetiche.
La disposizione ravvicinata dei batteri all’interno dei biofilm permette anche di incrementare il
tasso di trasferimento genico, rendendo quindi possibile il trasferimento dei geni di virulenza e di
resistenza: il trasferimento dei geni di virulenza comporta l’incremento del grado di patogenicità e
contribuisce alla comparsa di nuovi ceppi patogeni.
L’attività di ricerca dovrebbe inoltre prefiggersi lo scopo di migliorare gli strumenti per la
rilevazione degli agenti biologici, soprattutto quelli che non utilizzano tecniche colturali
specialmente laddove questi si sono dimostrati di scarsa utilità.
A tale scopo, sono stati recentemente elaborati numerosi metodi molecolari per la caratterizzazione
di specie patogene, i quali offrono la possibilità di studiare i microrganismi direttamente in
campioni ambientali.
A titolo d’esempio si citano i metodi che si basano sulla reazione a catena della polimerasi (P.C.R.)
e la P.C.R. in seguito a trascrittasi inversa (R.T. – P.C.R.) come pure la tecnica del genetic
fingerprinting, quali strumenti impiegati nello studio degli agenti patogeni e delle comunità
microbiche presenti negli ambienti naturali.
Tali metodi sono caratterizzati da una relativa velocità di risposta ed un’estrema sensibilità che
permette loro di essere applicati per determinare l’abbondanza delle singole specie o dei gruppi
affini dal punto di vista filogenetico.
A tale riguardo, occorre segnalare l’introduzione di metodi, basati sulle tecniche di P.C.R.
quantitativa, utilizzati per la determinazione di agenti biologici aerodispersi.
L’impiego di metodi molecolari permette di migliorare le strategie di monitoraggio, incrementando
da un lato i livelli di sensibilità e specificità e riducendo dall’altro il tempo di analisi. Essi possono
essere inoltre utilizzati per il monitoraggio degli organismi geneticamente modificati (O.G.M.),
presenti nei luoghi di lavoro, così come stabilito dalla Direttiva 98/81/C.E. che modifica la Direttiva
90/219/ C.E.E. sull’impiego confinato di O.G.M.
Il principale limite delle tecniche di P.C.R. è rappresentato dalla necessità di conoscere l’organismo
in questione al fine di selezionare le sonde specifiche.
Problematica è inoltre l’eventuale presenza di sostanze contaminanti che possono interferire con le
reazioni enzimatiche: i campioni di aria presentano spesso un alto contenuto di sostanze
contaminanti, ad esempio, nel caso di campioni prelevati negli allevamenti animali, oppure a volte
le quantità, sia dei contaminanti, sia del D.N.A. microbico, sono minime a causa del ridotto volume
di aria campionabile, ad esempio, nel caso di campioni di aria indoor.
In entrambi questi casi i protocolli per l’estrazione del D.N.A. devono essere adattati al fine di
ottenere D.N.A. privo di sostanze contaminanti, evitando perdite significative.
La tipizzazione molecolare può essere inoltre utilizzata nella determinazione della correlazione
clonale tra isolati clinici ed isolati ambientali al fine di individuare l’origine delle malattie infettive
di origine occupazionale.
Studi molecolari sui meccanismi di virulenza batterica possono fornire importanti contributi in
materia di igiene e salute occupazionale.
Per comprendere le modalità di comparsa di ceppi batterici patogeni opportunistici, la conoscenza
dei geni omologhi delle controparti non patogene costituisce un presupposto di fondamentale
importanza. Gli studi sul sequenziamento dei geni di virulenza permettono di acquisire maggiori e
più dettagliate conoscenze sui rispettivi ruoli alla base dei meccanismi di virulenza batterica.
Nello studio dei numerosi taxa fungini con potenzialità allergeniche, la cui caratterizzazione
ottenuta, utilizzando esclusivamente metodi di isolamento colturale e di osservazione dei caratteri
morfologici, potrebbe risultare estremamente lenta e complicata, si suggerisce l’utilizzo di approcci
molecolari e filogenetici.
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I metodi basati sul sequenziamento del D.N.A. sono inoltre utilizzati per approfondire lo studio di
determinati geni fungini codificanti per proteine che risultano potenzialmente coinvolte nelle
reazioni allergiche.
Il tema delle differenze interindividuali nella predisposizione alle malattie infettive costituisce una
delle principali aree che necessita di ulteriori approfondimenti da parte della ricerca per la concreta
definizione delle relazioni dose – effetto.
Nel corso degli ultimi dieci anni, significativi progressi sono stati raggiunti nella determinazione
delle cause che rendono alcuni soggetti particolarmente predisposti allo sviluppo di determinate
malattie infettive.
Nel prossimo futuro, le tipologie di lavoratori che risultano particolarmente a rischio potrebbero
essere individuate mediante l’utilizzo di veloci tecniche di tipizzazione genetica e la conseguente
applicazione di strategie di monitoraggio mirate.
3.9. Conclusioni
I modelli per la valutazione del rischio biologico in ambito lavorativo devono, necessariamente,
tener conto della natura altamente specifica delle interazioni ospite – agente patogeno nonché
dell’elevata variabilità negli esiti clinici e nel grado di infettività, immunogenicità, patogenicità,
caratteristici delle varie specie e ceppi microbici.
È necessario mettere a punto tecniche di campionamento e metodi analitici che consentano di
perfezionare i metodi di identificazione degli agenti biologici, presenti sul luogo di lavoro, e quelli
di valutazione, in termini quantitativi, dell’esposizione agli stessi.
Tali interventi sono propedeutici ai fini di una corretta valutazione del rischio.
È inoltre cruciale intervenire sulla validazione dei metodi di misura, attualmente in uso,
sostenendone l’armonizzazione a livello internazionale al fine di ridurre al minimo la variabilità dei
parametri, rilevati nei diversi laboratori di ricerca.
Per raggiungere quest’ultimo obiettivo, è auspicabile che laboratori di ricerca di esperienza
consolidata, istituti operanti nel settore della salute e sicurezza, ed istituti di normazione europei
collaborino per raggiungere un accordo sull’approccio più efficace ai fini di un’armonizzazione in
tale settore.
È auspicabile inoltre che si stabiliscano criteri di controllo della qualità per la raccolta, l’estrazione
e l’analisi dei campioni nonché per l’attività di reporting dei risultati conseguiti.
Tenuto conto che gli studi effettuati sui rischi biologici sono tuttora relativamente scarsi, con
conseguenti gravi difficoltà nella gestione di tali rischi, soprattutto nel caso di quei luoghi di lavoro
in cui la presenza di tali rischi è conseguenza accidentale dell’attività lavorativa stessa, è necessario
perfezionare il processo di raccolta dei dati, ottenuti attraverso gli studi epidemiologici e di
monitoraggio, ed applicare le conoscenze acquisite sui meccanismi biologici alle tecniche di
modellazione del rischio.
Considerata la natura eterogenea dei rischi biologici, che variano in funzione dell’area di attività,
sarà imprescindibile l’adozione di misure di prevenzione differenziate per le varie tipologie di
rischio, caratteristiche dei diversi contesti lavorativi.
Tali misure includono una progettazione delle infrastrutture tale da conferire alle stesse un livello di
sicurezza elevato e l’implementazione di adeguate misure tecniche, organizzative e procedurali.
L’uso dei dispositivi di protezione individuale deve essere previsto come l’ultima risorsa a
disposizione dei lavoratori, nel caso in cui sia impossibile eliminare il rischio o, quantomeno,
riportarlo ad un livello accettabile.
Devono essere inoltre previsti controlli periodici sulle apparecchiature, per rilevare eventuali
dispersioni di agenti biologici o per verificare il corretto funzionamento dei dispositivi, atti a
contenere la propagazione di detti agenti.
Tali controlli sono inoltre eseguiti con il fine di rilevare eventuali anomalie od altri fattori che
potrebbero causare la dispersione involontaria degli agenti biologici e per accertare l’efficacia dei
sistemi di decontaminazione in uso.
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Il ricorso alle suddette ispezioni può essere considerato come parte integrante della gestione
dell’ambiente di lavoro.
8. Esposizione ad agenti fisici
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, Titolo VIII – n.6 CAPI – artt. da 180 a 220)
Premessa
Ai fini del presente Decreto Legislativo per agenti fisici si intendono:
il rumore;
gli ultrasuoni;
gli infrasuoni;
le vibrazioni meccaniche;
i campi elettromagnetici;
le radiazioni ottiche, di origine artificiale;
il microclima e le atmosfere iperbariche che possono comportare rischi per la salute e la
sicurezza dei lavoratori.
Fermo restando quanto previsto dal presente capo, per le attività comportanti:
esposizione a rumore si applica il Capo II;
esposizione a vibrazioni si applica il Capo III;
esposizione a campi elettromagnetici si applica il Capo IV;
esposizione a radiazioni ottiche artificiali si applica il Capo V.
La protezione dei lavoratori dalle radiazioni ionizzanti é disciplinata unicamente dal Decreto
Legislativo del 17 marzo 1995, n. 230, e sue successive modificazioni.
1. Valutazione dei rischi
Nell’ambito della valutazione di cui all’articolo 28 del Decreto Legislativo n. 81, il datore di lavoro
valuta tutti i rischi, derivanti da esposizione ad agenti fisici, in modo da identificare ed adottare le
opportune misure di prevenzione e protezione con particolare riferimento alle norme di buona
tecnica ed alla buona prassi.
La valutazione dei rischi, derivanti da esposizioni ad agenti fisici é programmata ed effettuata, con
cadenza almeno quadriennale, da personale qualificato nell’ambito del Servizio di Prevenzione e
Protezione, in possesso di specifiche conoscenze in materia.
La valutazione dei rischi é aggiornata ogni qualvolta si verifichino mutamenti che potrebbero
renderla obsoleta, ovvero, quando i risultati della sorveglianza sanitaria rendano necessaria la sua
revisione. I dati ottenuti dalla valutazione, misurazione e calcolo dei livelli di esposizione
costituiscono parte integrante del documento di valutazione del rischio.
Il datore di lavoro, nella valutazione dei rischi precisa quali misure di prevenzione e protezione
devono essere adottate.
La valutazione dei rischi é riportata sul documento di valutazione di cui all’art. 28, essa può
includere una giustificazione del datore di lavoro secondo cui la natura e l’entità dei rischi non
rendono necessaria una valutazione più dettagliata degli stessi.
2. Rumore
Il rumore è la sovrapposizione di un numero indefinito di suoni elementari, di solito indesiderati e
spesso fastidiosi.
Un’elevata esposizione al rumore può causare danni all’apparato uditivo, perciò si devono adottare
protezioni antirumore ed applicare le norme in vigore ed in particolare quanto previsto dal Decreto
Legislativo n. 81/08.
Le norme esistenti tutelano soprattutto i lavoratori, i quali sono spesso esposti a rumori di vario
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tipo, provocati ad esempio da macchinari, impianti produttivi, motori, pompe, etc.
2.1. Definizioni
Livello di esposizione giornaliera al rumore LEX, 8h [dBA riferito a 20 µPa]: valore medio,
ponderato in funzione del tempo, dei livelli di esposizione al rumore per una giornata lavorativa
nominale di 8 ore, definito dalla norma internazionale I.S.O. 1999:1990 punto 3.6.
Si riferisce a tutti i rumori sul lavoro, compreso il rumore impulsivo.
Livello di esposizione settimanale al rumore LEX, 8h LEX,w: valore medio, ponderato in
funzione del tempo, dei livelli di esposizione giornaliera al rumore per una settimana nominale di
5 giornate lavorative di 8 ore, definito dalla norma internazionale I.S.O. 1999:1990 punto 3.6.
Pressione acustica di picco (ppeak): valore massimo della pressione acustica istantanea
ponderata in frequenza “C”.
2.2. Valutazione del rischio
Il datore valuta l’esposizione dei lavoratori al rumore durante il lavoro prendendo in considerazione
tra l’altro:
a) il livello, il tipo e la durata dell’esposizione (anche rumore impulsivo);
b) lavoratori particolarmente sensibili al rumore;
c) i valori limite di esposizione ed i valori di azione;
d) tutti gli effetti sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori, particolarmente sensibili al rumore,
con particolare riferimento alle donne in gravidanza ed i minori;
e) per quanto possibile a livello tecnico, tutti gli effetti sulla salute e sicurezza dei lavoratori
derivanti da interazioni fra rumore e sostanze ototossiche, connesse con l’attività svolta e fra
rumore e vibrazioni;
f) tutti gli effetti indiretti sulla salute e sicurezza dei lavoratori da interazioni fra rumore e segnali
di avvertimento od altri suoni che vanno osservati al fine di ridurre il rischio di infortuni;
g) le informazioni sull’emissione di rumore, fornite dai costruttori dell’attrezzatura di lavoro in
conformità alle vigenti disposizioni in materia;
h) l’esistenza di attrezzature di lavoro alternative, progettate per ridurre l’emissione di rumore;
i) il prolungamento del periodo di esposizione al rumore oltre l’orario di lavoro normale, in locali
di cui è responsabile;
j) informazioni raccolte dalla sorveglianza sanitaria, comprese, per quanto possibile, quelle
reperibili nella letteratura scientifica;
k) la disponibilità di dispositivi di protezione dell’udito con adeguate caratteristiche di
attenuazione.
Nel caso di variabilità del livello di esposizione settimanale va considerato il livello settimanale
massimo ricorrente.
2.3. Il documento di valutazione dei rischi da rumore
La valutazione del rischio, derivante da esposizione al rumore, deve essere effettuata con cadenza
quadriennale da personale qualificato.
La valutazione del rumore va eseguita su tutte le imprese che potenzialmente possono avere
lavoratori esposti e deve essere aggiornata ad opportuni intervalli di tempo, mediamente ogni
quattro anni, od ogni qualvolta si verifichino mutamenti che potrebbero renderla obsoleta, ad
esempio modifiche strutturali od impiantistiche od a seguito di visite mediche relative alla
sorveglianza sanitaria dei lavoratori.
La valutazione deve essere effettuata da tecnici attraverso la consultazione del Responsabile del
Servizio di Prevenzione e Protezione, dei lavoratori e sotto la responsabilità del datore di lavoro.
Gli esiti della stessa, nonché i criteri e le modalità di effettuazione, vanno indicati in un rapporto
che deve essere tenuto a disposizione dell’organo di vigilanza.
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2.4. Strumentazione di misura
Le misurazioni per la valutazione dell’esposizione al rumore possono essere effettuate sia mediante
fonometri convenzionali sia mediante fonometri integratori che forniscono al termine del rilievo il
livello energetico medio presente nella posizione in esame.
2.5. Valori limite di esposizione e valori di azione
La norma assume come parametri di riferimento dei valori d’azione superiori ed inferiori (ovvero
livelli di esposizione il cui superamento implica da parte delle Aziende l’attuazione di specifiche
misure di prevenzione e protezione a tutela dei lavoratori esposti) e dei valori limite (ovvero livelli
di esposizione il cui superamento è grave; vietato).
I valori limite di esposizione ed i valori di azione, in relazione al livello di esposizione giornaliera al
rumore ed alla pressione acustica di picco, sono fissati a:
a) valori limite di esposizione (tiene conto dell’attenuazione prodotta dai dispositivi di protezione
individuale):
rispettivamente
LEX, 8 h = 87 d B ( A )
e
ppeak = 200 Pa
(140 d B ( C ) riferito a 20 µPa ) .
Oltre gli 87 d B ( A ) , od in presenza di forti rumori impulsivi, si entra in emergenza rumore
“limite di esposizione”, con l’adozione di misure immediate per riportare l’esposizione al di
sotto dei valori limite di esposizione, l’individuazione delle cause dell’esposizione eccessiva,
modifica delle misure di protezione e di prevenzione per evitare che la situazione si ripeta.
b) valori superiori di azione: rispettivamente LEX, 8 h = 85 d B ( A ) e ppeak = 140 Pa
(137 d B ( C ) riferito a 20 µPa ) .
Nell’intervallo 85 ÷ 87 d B ( A ) scatta un vero e proprio allarme detto “valore superiore di
azione”, per il quale vi è l’obbligo di usare i D.P.I., sorveglianza sanitaria (una volta all’anno o
diversamente indicato dal medico competente), segnaletica e regolamentazione per l’accesso a
luoghi in cui si possono determinare LEX, 8 h > 85 d B ( A ) , programmazione di misure
tecniche ed organizzative.
c) valori inferiori di azione: rispettivamente LEX, 8 h = 80 d B ( A ) e ppeak = 112 Pa
(135 d B ( C ) riferito a 20 µPa ) .
Ad un LEX bell’intervallo 80 ÷ 85 d B ( A ) corrisponde una fascia di preallarme detta “valore
inferiore di azione”, con l’obbligo di informazione, fornitura dei D.P.I., controllo sanitario (su
richiesta del lavoratore e conferma del medico competente), programmazione di misure tecniche
ed organizzative.
Tenuto conto del progresso tecnico e della disponibilità di misure per controllare il rischio alla
fonte, i rischi derivanti dall’esposizione agli agenti fisici sono eliminati all’origine o ridotti al
minimo.
La riduzione dei rischi, derivanti dall’esposizione agli agenti fisici, si basa sui principi generali di
prevenzione, contenuti nel presente Decreto.
In nessun caso i lavoratori devono essere esposti a valori superiori ai valori limite di esposizione
definiti nei Capi II, III, IV e V.
Allorché, nonostante i provvedimenti, presi dal datore di lavoro, in applicazione del presente Capo,
i valori limite di esposizione risultino superati, il datore di lavoro adotta misure immediate per
riportare l’esposizione al di sotto dei valori limite di esposizione, individua le cause del
superamento dei valori limite di esposizione ed adegua di conseguenza le misure di protezione e
prevenzione per evitare un nuovo superamento.
Laddove a causa delle caratteristiche intrinseche dell’attività lavorativa, l’esposizione giornaliera al
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rumore varia significativamente, da una giornata di lavoro all’altra, è possibile sostituire, ai fini
dell’applicazione dei valori limite di esposizione e dei valori di azione, il livello di esposizione
giornaliera al rumore con il livello di esposizione settimanale a condizione che:
il livello di esposizione settimanale al rumore, come dimostrato da un controllo idoneo, non
ecceda il valore limite di esposizione di 87 d B ( A ) ;
siano adottate le adeguate misure per ridurre al minimo i rischi associati a tali attività.
La norma prevede la possibilità da parte di Aziende ed Enti di richiedere deroghe all’uso dei D.P.I.
ed al rispetto del valore limite di esposizione, ma secondo precise e rigide modalità autorizzative.
2.6. Valutazione di attività a livello di esposizione molto variabile
Per attività con esposizione molto fluttuante, fatto salvo il divieto di superamento dei valori limite,
il datore di lavoro può attribuire un’esposizione dei lavoratori al di sopra del valore superiore
d’azione garantendo:
disponibilità dei dispositivi di protezione individuale, ad esempio cuffie;
informazione e formazione;
controllo sanitario.
In questo caso la misura determina solo il rumore prodotto dalle attrezzature ai fini degli interventi
necessari; nel Documento di Valutazione del Rischio va riportato il riferimento all’art. 191.
2.7. Misure di prevenzione e protezione
Se dopo aver effettuato la valutazione del rischio risulta che i valori inferiori di azione
80 d B ( A )  siano superati il datore di lavoro elabora ed applica un programma di misure tecniche
ed organizzative volte a ridurre l’esposizione.
Egli deve adottare le seguenti misure:
adozione di altri metodi di lavoro che implicano una minore esposizione al rumore;
scelta di attrezzature di lavoro adeguate, tenuto conto del lavoro da svolgere, che emettano il
minor rumore possibile, inclusa l’eventualità di rendere disponibili ai lavoratori attrezzature di
lavoro conformi ai requisiti di cui al Titolo III, il cui obiettivo od effetto è di limitare
l’esposizione al rumore;
progettazione della struttura dei luoghi e dei posti di lavoro;
adeguata informazione e formazione sull’uso corretto delle attrezzature di lavoro in modo da
ridurre al minimo la loro esposizione al rumore;
adozione di misure tecniche per il contenimento:
1) del rumore trasmesso per via aerea, quali schermature, involucri o rivestimenti realizzati con
materiali fonoassorbenti;
2) del rumore strutturale, quali sistemi di smorzamento o di isolamento;
opportuni programmi di manutenzione delle attrezzature di lavoro, del luogo di lavoro e dei
sistemi sul posto di lavoro;
riduzione del rumore mediante una migliore organizzazione del lavoro attraverso la limitazione
della durata e dell’intensità dell’esposizione e l’adozione di orari di lavoro appropriati, con
sufficienti periodi di riposo.
2.8. Uso dei dispositivi di protezione individuali
Nel caso in cui l’esposizione sia pari o al di sopra dei valori superiori d’azione, il datore di lavoro
esige che i lavoratori utilizzino i D.P.I. dell’udito.
Il datore di lavoro, nei casi in cui i rischi, derivanti dal rumore, non possano essere evitati con le
misure di prevenzione e protezione, fornisce i dispositivi di protezione individuali per l’udito:
nel caso in cui l’esposizione al rumore superi i valori inferiori di azione, 80 d B ( A ) , il datore di
lavoro mette a disposizione dei lavoratori dispositivi di protezione individuale dell’udito;
nel caso in cui l’esposizione al rumore sia pari o al di sopra dei valori superiori di azione,
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85 d B ( A ) , obbliga i lavoratori ad utilizzare i dispositivi di protezione individuale dell’udito.
Il datore di lavoro deve scegliere i D.P.I. previa consultazione dei lavoratori o dei loro
rappresentanti, e tiene conto dell’attuazione fornita dai D.P.I. solo ai fini di valutare l’efficienza dei
dispositivi stessi ed il rispetto del valore limite di esposizione.
I luoghi di lavoro, con livelli di esposizione al di sopra dei valori superiori di azione, devono essere
segnalati, delimitati e con accesso limitato.
Nei locali di risposo, il rumore deve essere ridotto ad un livello compatibile con il loro scopo.
2.9. La protezione dei lavoratori con i D.P.I.
I D.P.I. possono essere classificati in tre categorie diverse: cuffie, inserti auricolari e caschi.
Poiché esistono diversi tipi di protettori in grado di coprire diverse situazioni lavorative, è
auspicabile scegliere i protettori più appropriati.
Questa selezione dovrebbe tener conto dei seguenti punti:
marcatura di certificazione;
requisito di attenuazione sonora;
confortevolezza del portatore;
ambiente di lavoro ed attività lavorativa;
disturbi medici;
compatibilità con altri dispositivi di protezione della testa quali elmetti, occhiali, etc.
2.10. Le principali caratteristiche dei D.P.I.
Gli inserti auricolari, comunemente chiamati tappi, vengono inseriti nel canale auricolare ed è per
questo che è molto importante scegliere la misura esatta per l’orecchio: se troppo grossi possono
creare delle irritazioni mentre se troppo piccoli non proteggono completamente.
Bisogna maneggiarli con le mani pulite ed essere sicuri, nel caso di inserti riutilizzabili, delle loro
condizioni igieniche.
Gli inserti auricolari vengono utilizzati soprattutto in aree di lavoro a temperatura e/o umidità
elevate al fine di evitare una sudorazione ed un surriscaldamento eccessivo.
Per lavori in ambiente polveroso possono essere adoperati preferibilmente degli inserti auricolari
monouso o cuffie.
Le cuffie devono aderire perfettamente all’orecchio (ad esempio non ci devono essere capelli);
devono essere regolarmente pulite e occorre sostituire le parti danneggiate od usurate con il tempo.
Tra gli svantaggi che presenta questo tipo di dispositivo si possono considerare il fastidio dovuto
alla pressione sulle orecchie ed il peso del dispositivo.
Nei casi di esposizione ripetuta a rumore di breve durata le cuffie sono preferite agli inserti
auricolari in quanto più semplici da indossare e togliere.
I caschi vengono utilizzati per emissioni sonore molto elevate: proteggono tutta la testa e possono
avere una ricetrasmittente incorporata per effettuare le comunicazioni verbali.
Il disagio è dovuto essenzialmente al peso ed all’ingombro del dispositivo stesso.
2.11. Misure per la limitazione dell’esposizione
Rimane l’obbligo del non superamento dei valori limite di esposizione.
Nel caso in cui, nonostante l’adozione delle misure prese, si individuino esposizioni superiori a detti
valori, il datore di lavoro:
a. adotta misure immediate per riportare l’esposizione al di sotto dei valori limite;
b. individua le cause dell’esposizione;
c. modifica le misure di protezione e di prevenzione.
2.12. Informazione e formazione dei lavoratori
Fermo restando quanto previsto dall’art. 184, nell’ambito degli obblighi di cui agli artt. 36 e 37, il
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datore di lavoro deve garantire, per i lavoratori esposti a valori uguali o superiori ai valori inferiori
di azione, un’informazione e formazione riguardante:
le misure adottate in applicazione del presente Titolo;
l’entità ed il significato dei valori limite di esposizione e dei valori di azione;
i risultati della valutazione;
le modalità per individuare e segnalare gli effetti negativi dell’esposizione per la salute;
l’eventuale sorveglianza sanitaria e gli obiettivi della stessa;
le procedure di lavoro sicure per ridurre al minimo i rischi derivanti dall’esposizione;
l’uso corretto di adeguati D.P.I. e le relative indicazioni e controindicazioni sanitarie all’uso.
2.13. Sorveglianza sanitaria
Il datore di lavoro sottopone a sorveglianza sanitaria i lavoratori la cui esposizione al rumore eccede
i valori superiori di azione di 85 d B ( A ) .
La sorveglianza viene effettuata periodicamente, di norma una volta l’anno o con periodicità diversa
decisa dal medico competente, con adeguata motivazione, riportata nel documento di valutazione
dei rischi, e resa nota ai rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori in funzione della valutazione
del rischio.
L’organo di vigilanza, con provvedimento motivato, può disporre contenuti e periodicità della
sorveglianza diversi rispetto da quelli forniti dal medico competente.
La sorveglianza sanitaria è estesa ai lavoratori esposti a livelli superiori ai valori inferiori di azione
80 d B ( A )  , su loro richiesta e qualora il medico competente ne confermi l’opportunità.
2.14. Deroghe
Il datore di lavoro può richiedere deroghe all’uso dei D.P.I. ed al rispetto del valore limite di
esposizione, quando, per la natura del lavoro, l’utilizzazione completa ed appropriata di tali
dispositivi potrebbe comportare rischi per la salute e sicurezza maggiori.
Le deroghe sono concesse, sentite le parti sociali, dall’organo di vigilanza territorialmente
competente che ne dà comunicazione, specificandone ragioni e circostanze, al Ministero del Lavoro
e delle Politiche Sociali.
Le deroghe sono riesaminate ogni quattro anni e sono abrogate non appena le circostanze che le
hanno giustificate cessano di sussistere.
La concessione delle deroghe richiede un’intensificazione della sorveglianza sanitaria e condizioni
che garantiscano, tenuto conto delle particolari circostanze, che i rischi derivanti siano ridotti al
minimo.
Il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali trasmette ogni quattro anni alla Commissione
dell’Unione Europea un prospetto globale e motivato delle deroghe concesse ai sensi dell’art. 197.
3. Vibrazioni
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81 Titolo VIII – Capo
I e Capo III, artt. da 199 a 205)
Premessa
Un’oscillazione rapida e di piccola ampiezza produce una vibrazione.
Si definiscono vibrazioni i processi dinamici indotti in corpi elastici, da sollecitazioni aventi
carattere ripetitivo nel tempo.
Le vibrazioni sono regolamentate dal Decreto Legislativo 81/2008 e sono differenziate in funzione
della frequenza, della lunghezza d’onda, dell’ampiezza, della velocità e dell’accelerazione.
È noto che l’esposizione umana a vibrazioni meccaniche può rappresentare un fattore di rischio
rilevante per i lavoratori esposti.
Da un punto di vista igienistico, l’esposizione umana a vibrazioni si differenzia in:
73
Esposizione del Sistema Mano – Braccio, indicata con acronimo inglese HAV (Hand arm
vibration): si riscontra in lavorazioni in cui si impugnino utensili vibranti o materiali, sottoposti a
vibrazioni od impatti.
Queste possono indurre un insieme di disturbi neurologici e circolatori digitali e lesioni
osteoarticolari a carico degli arti superiori, definito con il termine unitario “Sindrome da
Vibrazioni Mano – Braccio”.
L’esposizione a vibrazioni al sistema mano – braccio è generalmente causata dal contatto delle
mani con l’impugnatura di utensili manuali o di macchinari condotti a mano.
Esposizione del corpo intero, indicata con acronimo inglese WBV (Whole Body Vibration): si
riscontra in lavorazioni a bordo di mezzi di movimentazione usati in industria ed agricoltura,
mezzi di trasporto ed in generale macchinari industriali vibranti che trasmettano vibrazioni al
corpo intero.
Tale esposizione può comportare rischi di lombalgie e traumi del rachide per i lavoratori esposti.
Le vibrazioni al corpo intero presentano ancora aspetti non chiariti.
Da studi si evince che il ruolo delle vibrazioni nella etiologia delle alterazioni del rachide
lombare non è ancora completamente evidenziato.
La guida di macchine o veicoli comporta non solo l’esposizione a vibrazioni dannose, ma anche
a fattori di stress ergonomico (prolungata postura assisa o frequenti movimenti di flessione e
torsione del rachide).
Studi di biodinamica hanno tuttavia evidenziato, tra i possibili meccanismi di lesioni all’apparato
muscolo – scheletrico del rachide, il sovraccarico meccanico, dovuto a fenomeni di risonanza
della colonna vertebrale, nell’intervallo di frequenza delle vibrazioni tra 3 ÷ 10 Hz (autocarri,
furgoni, etc.): le conseguenze sono danni strutturali a carico dei corpi vertebrali, dischi ed
articolazioni intervertebrali.
Inoltre, dagli studi epidemiologici risulta una maggior occorrenza di lombalgie e lombosciatalgie
spondilartrosi, spondilosi, discopatie ed ernie discali nei conducenti dei veicoli industriali e dei
mezzi di trasporto rispetto a gruppi di controllo non esposti a vibrazioni meccaniche.
Vi è, inoltre, una sufficiente evidenza epidemiologica che il rischio di insorgenza di patologie del
rachide lombare aumenti con l’aumentare della durata dell’intensità dell’esposizione a vibrazioni
trasmesse al corpo intero.
Data la crescente rilevanza che il rischio vibrazioni sta assumendo in Europa e nei Paesi
industrializzati, sia in termini di danni per la salute dei lavoratori esposti, sia sotto il profilo
economico e sociale, l’attività di normazione e standardizzazione in materia di prevenzione del
rischio da esposizione da vibrazioni ha avuto in questi ultimi anni un crescente impulso in ambito
europeo ed internazionale.
Da questo punto di vista un primo importante contributo è indubbiamente rappresentato dalla
“Direttiva Macchine” (89/392/C.E.E., 91/368/C.E.E., 93/44/C.E.E., 93/68/C.E.E.), recepita in Italia
dal Decreto del Presidente della Repubblica del 24 luglio 1996 n. 459, che, prescrivendo specifici
obblighi per i costruttori ai fini della riduzione dei rischi, associati all’emissione di vibrazioni da
parte dei macchinari, ha incentivato le aziende produttrici ad indirizzare l’innovazione tecnologica
verso lo sviluppo di macchinari ed attrezzature di lavoro, progettate con l’obiettivo di ridurre al
minimo l’esposizione dell’operatore a vibrazioni meccaniche.
La recente emanazione da parte del Parlamento Europeo della Direttiva 2002/44/C.E. del 25 giugno
2002 “sulle prescrizioni minime di sicurezza e salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi
derivanti dagli agenti fisici (vibrazioni)” rappresenta il passo fondamentale necessario a garantire
l’attuazione di specifiche misure di tutela ai fini della prevenzione del rischio da esposizione a
vibrazioni nei luoghi di lavoro.
La nuova Direttiva europea – emanata nell’ambito delle direttive sociali promulgate in applicazione
della Direttiva quadro sui luoghi di lavoro 89/391/C.E.E. – colma un vuoto normativo
particolarmente sentito in Italia.
74
Va in proposito considerato che l’assenza nel nostro Paese di una Direttiva specifica, inerente il
rischio vibrazioni, ha portato generalmente a notevoli carenze sotto il profilo della prevenzione e
della riduzione del rischio di vibrazioni nei luoghi di lavoro, nonostante il fatto che l’obbligo di
valutare il rischio e di attuare le appropriate misure di prevenzione, protezione e sorveglianza
sanitaria, stabilito in generale per tutti i fattori di rischio dal Decreto Legislativo 81/08, valga anche
per l’esposizione professionale alle vibrazioni, e che per questo agente di rischio è pur sempre in
vigore l’articolo 24 del Decreto del Presidente della Repubblica 303/56 “Rumori e scuotimenti” che
recita: “Nelle lavorazioni che producono scuotimenti, vibrazioni o rumori dannosi ai lavoratori,
devono adottarsi i provvedimenti consigliati dalla tecnica per diminuirne l’intensità”.
3.1. Classificazione delle vibrazioni a seconda della frequenza
In relazione alla frequenza delle vibrazioni la risposta del nostro organismo è diversa:
vibrazioni a bassa frequenza si riscontrano ad esempio nei conducenti di veicoli.
Sollecitato da vibrazioni a bassa frequenza, il corpo umano risponde in maniera uniforme, cioè
come una massa unica ed omogenea, grazie alla capacità della muscolatura di irrigidirsi e
contrastare le sollecitazioni.
vibrazioni ad alta frequenza si riscontrano nelle lavorazioni che utilizzano attrezzi manuali a
percussione.
Per frequenze più elevate, il corpo umano reagisce con un comportamento disuniforme delle sue
componenti:
la muscolatura volontaria non è in grado di contrastare pienamente i movimenti oscillatori
delle sue parti;
il moto vibratorio si smorza all’interno del corpo ed interessa solo un’area relativamente
limitata intorno al punto d’applicazione.
Alle alte frequenze, circa maggiori di 80 Hz , in adiacenza del punto di contatto con il corpo
vibrante ogni suo componente reagisce alla sollecitazione in modo diverso a seconda delle
caratteristiche di massa, inerzia, caratteristiche di risonanza, etc.
3.2. Valori limite di esposizione e valori d’azione
I valori limite di esposizione e valori di azione sono dati da:
per le vibrazioni trasmesse al sistema mano – braccio:
1. il valore limite di esposizione giornaliero, normalizzato ad un periodo di riferimento di 8 ore,
è fissato a 5.0 m s 2 , mentre su periodi brevi è pari a 20 m s 2 ;
2. il valore d’azione giornaliero, normalizzato ad un periodo di riferimento di 8 ore, che fa
scattare l’azione, è fissato a 2.5 m s 2 .
per le vibrazioni trasmesse al corpo intero:
1. il valore limite di esposizione giornaliero, normalizzato ad un periodo di riferimento di 8 ore,
è fissato ad 1.0 m s 2 , mentre su periodi brevi è pari ad 1.5 m s 2 ;
2. il valore d’azione giornaliero, normalizzato ad un periodo di riferimento di 8 ore, è fissato a
0.5 m s 2 .
Il superamento di tali valori determina specifici obblighi a carico del datore di lavoro.
Nel caso di variabilità del livello di esposizione giornaliero va considerato il livello giornaliero
massimo ricorrente.
3.3. Definizioni
esposizione giornaliera a vibrazioni trasmesse al sistema mano – braccio A ( 8 ) : valore mediato
nel tempo, ponderato in frequenza, delle accelerazioni misurate per una giornata lavorativa
nominale di otto ore;
75
esposizione giornaliera a vibrazioni trasmesse al corpo intero A ( 8 ) : valore mediato nel corpo
intero delle accelerazioni misurate per una giornata lavorativa nominale di otto ore.
3.4. Valutazione dei rischi
Nell’ambito di quanto previsto dall’art, 181, il datore di lavoro valuta e, quando necessario, misura,
i livelli di vibrazioni meccaniche cui i lavoratori sono esposti.
Il livello di esposizione alle vibrazioni meccaniche può essere valutato mediante l’osservazione
delle condizioni di lavoro specifiche ed il riferimento ad appropriate informazioni sulla probabile
entità delle vibrazioni per le attrezzature od i tipi di vibrazioni nelle particolari condizioni di uso
reperibili presso banche dati dell’I.S.P.E.S.L. o delle Regioni od, in loro assenza, dalle informazioni
fornite in materia dal costruttore delle attrezzature.
Questa operazione (valutazione mediante banche dati) va distinta dalla misurazione che richiede
l’impiego di attrezzature specifiche e di una metodologia appropriata e che resta comunque il
metodo di riferimento.
L’esposizione dei lavoratori alle vibrazioni, trasmesse al sistema mano – braccio, è valutata o
misurata in base alle disposizioni di cui all’Allegato XXXV, parte A.
L’esposizione dei lavoratori alle vibrazioni, trasmesse al corpo intero, è valutata o misurata in base
alle disposizioni di cui all’Allegato XXXV, parte B.
Ai fini della valutazione di cui al comma 1, il datore di lavoro tiene conto, in particolare, dei
seguenti elementi:
il livello, il tipo e la durata dell’esposizione, ivi inclusa ogni esposizione a vibrazioni
intermittenti o ad urti ripetuti;
i valori limite di esposizione ed i valori d’azione specificati nell’art. 201;
gli eventuali effetti sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori particolarmente sensibili al rischio
con particolare riferimento alle donne in gravidanza ed ai minori;
gli eventuali effetti indiretti sulla sicurezza e salute dei lavoratori risultanti da interazioni tra le
vibrazioni meccaniche, il rumore e l’ambiente di lavoro od altre attrezzature;
le informazioni fornite dal costruttore dell’attrezzatura di lavoro;
l’esistenza di attrezzature alternative progettate per ridurre i livelli di esposizione alle vibrazioni
meccaniche;
il prolungamento del periodo di esposizione a vibrazioni trasmesse al corpo intero al di là delle
ore lavorative locali di cui è responsabile;
condizioni di lavoro particolari, come le basse temperature, il bagnato, l’elevata umidità od il
sovraccarico biomeccanico degli arti superiori e del rachide;
informazioni raccolte dalla sorveglianza sanitaria, comprese, per quanto possibile, quelle
reperibili nella letteratura scientifica.
Il Decreto Legislativo 81 /08 per la valutazione dell’entità del rischio da vibrazioni ha recepito in
toto quanto stabilito dalle Norme I.S.O.:
I.S.O. 2631:1997: vibrazioni al corpo intero;
I.S.O. 5349:2007: vibrazioni al sistema mano braccio.
Appare di notevole interesse il fatto che l’analisi delle possibilità di riduzione del rischio, oltre ad
essere un obbligo specifico, conseguente la valutazione dei rischi, qualora si riscontri il
superamento dei livelli d’azione, rappresenti altresì parte integrante del processo di individuazione e
valutazione dei rischi, prescritto dalla normativa.
3.5. Metodiche di valutazione dei rischi
Il parametro di maggiore interesse nella stima del rischio da vibrazioni è l’accelerazione trasmessa
dalle macchine agli organi del corpo umano.
Quest’ultima grandezza fisica, utilizzata per indicare l’ampiezza della vibrazione, è più significativa
76
di altre grandezze fisiche come la velocità o lo spostamento.
Infatti l’accelerazione è rappresentativa delle variazioni di stimoli, generati delle vibrazioni ed
avvertiti dall’uomo (forze in gioco).
Nel campo dell’igiene industriale viene utilizzato il valore efficace, espresso in m s 2 od in multipli
di g, accelerazione di gravità: 1 g = 9.8 m s 2 .
Il valore efficace è espresso dalla radice quadrata della media dei quadrati in un certo intervallo di
tempo T (r.m.s. – root mean square) dei valori istantanei dell’accelerazione.
La misura di accelerazione trasmessa dalle macchine deve poi essere “ponderata in frequenza” in
quanto esistono, come noto, differenti sensibilità dei singoli organi del corpo umano alle varie
frequenze componenti.
La ponderazione in frequenza viene realizzata in genere dallo strumento di misura mediante filtri
del segnale che prevedono un’attenuazione ad alcune frequenze ed un’amplificazione per altre.
Dopo che il segnale è stato filtrato o “ponderato in frequenza” e dopo che si è calcolato o scelto, il
valore a ( w ) deve poi essere rapportato alle effettive ore di lavoro, secondo il “principio di uguale
energia”:
Si ottiene così il parametro A ( 8 ) utilizzato per la valutazione del rischio da vibrazioni (sia H.A.V.
che W.B.V.)
Per definizione A ( 8 ) è dunque l’accelerazione ponderata in frequenza equivalente e riferita alle 8
ore lavorative: tutte le normative, italiane ed europee, fanno riferimento a questo parametro sia per
vibrazioni a corpo intero sia al sistema mano – braccio.
3.6. Vibrazioni trasmesse al sistema mano – braccio
Le vibrazioni al sistema mano – braccio sono state studiate molto di più negli anni ed i fenomeni
correlati sono molto più noti dal punto di vista medico (Raynaud, epicondiliti, S.T.C., etc.).
Di contro la misurazione delle vibrazioni al sistema mano – braccio è molto più difficoltosa e può
essere soggetta ad errori di grande entità da parte dell’operatore e di difficile rinvenimento.
a. Calcolo del parametro A ( 8 )
La valutazione del livello di esposizione alle vibrazioni, trasmesse al sistema mano – braccio, si
basa principalmente sulla determinazione del valore di esposizione giornaliera, normalizzato ad 8
ore di lavoro, A ( 8 )  m s 2  , calcolato sulla base della radice quadrata della somma dei quadrati
(a (
w ) sum
)
dei valori quadratici medi delle accelerazioni ponderate in frequenza, determinati sui tre
assi ortogonali x, y, z, in accordo con quanto prescritto dallo standard I.S.O 5349 – 1 (2001).
L’espressione matematica per il calcolo di A ( 8 ) è di seguito riportata:
1
 Te  2
A ( 8 ) = a ( w ) sum ⋅  
 8 
essendo:
durata complessiva giornaliera di esposizione alle vibrazioni (ore);
Te
a w sum valore dell’accelerazione somma vettoriale delle componenti rilevate sui tre assi:
(
a w sum = a
2
w
x
+a
a wx ;a wy ;a wz
2
w
y
+a
2
w
z
)
1
2
valori r.m.s dell’accelerazione ponderata in frequenza (in m s 2 ) lungo gli assi
x, y, z (I.S.O. 5349 – 1: 2001).
77
Nel caso in cui il lavoratore sia esposto a differenti valori di vibrazioni, come nel caso di impiego di
più mezzi meccanici nell’arco della giornata lavorativa, si deve stabilire il valore A ( 8 ) per ogni
macchina, ciascuno con il proprio valore di T e , per poi eseguire la sommatoria come segue:
{
2
1 N
A ( 8 ) = ∑ a w i  ⋅ Ti
8 i=1
}
1
2
essendo:
(a )
2
wi
Ti
somma vettoriale dell’accelerazione ponderata in frequenza relativa all’operazione i –
esima;
tempo di esposizione relativo all’esposizione i – esima (ore).
b. Caratteristiche delle misurazioni ed errori
Le misure delle vibrazioni al sistema mano – braccio sono caratterizzate da:
continue variazioni nella forza di prensione e/o di spinta dell’utensile da parte dello stesso
operatore (trapani, avvitatori, etc.);
variazioni nella forza di prensione e/o di spinta dell’utensile in operatori diversi.
Pertanto, a rigore, le misure di vibrazioni mano – braccio andrebbero ripetute per ogni caso,
potendo essere la misura variabile in funzione della maggiore forza di presa e di altri parametri di
interesse.
Per compensare le differenze di spinta/prensione tra diversi operatori, ad esempio, necessiterebbe,
ogni volta ponderare la misura con un dinamometro ed altri strumenti.
Le misure delle vibrazioni al sistema mano – braccio sono inoltre caratterizzate da:
possibili gravi errori di posizionamento del trasduttore di misura da parte di chi effettua la
misura;
errori di fissaggio del trasduttore all’utensile;
errori di tipo elettrico nelle connessioni del trasduttore allo strumento di misura (fenomeni dovuti
alle connessioni dei sensori, DC – Skift, etc.).
3.7. Vibrazioni trasmesse al corpo intero
La valutazione del livello di esposizione alle vibrazioni, trasmesse al corpo intero, si basa
principalmente sulla determinazione del valore di esposizione giornaliera, normalizzato ad 8 ore di
lavoro, A ( 8 ) , calcolato sulla base del maggiore dei valori numerici dei valori quadratici medi delle
accelerazioni ponderate in frequenza, determinati sui tre assi ortogonali:
1
1
a w x; a w y; a w z
4
4
secondo la formula di seguito riportata:
1
 Te  2
A ( 8 ) = a w max ⋅  
 8 
essendo:
Te
a w max
durata complessiva giornaliera di esposizione a vibrazioni (ore);
valore massimo delle tre componenti dell’accelerazione;
78
a
w
a wx ;a wy ;a wz
1
1

valore massimo tra  a w x ; a w y ; a w z  ;
4
4

valori r.m.s dell’accelerazione ponderata in frequenza (in m s 2 ) lungo gli assi
x, y, z (ISO 5349 – 1: 2001).
Anche per le vibrazioni a corpo intero, in presenza di uso di più macchine durante la giornata
lavorativa media, si deve stabilire il valore A ( 8 ) per ogni macchina, ciascuno con il proprio valore
di T e , poi calcolare la sommatoria estesa al numero globale, secondo la formula:
{
2
1 N
A ( 8) = ∑ a max i ⋅ Ti 
8 i =1
}
1
2
essendo:
(a
Ti
max i
)
2
accelerazione ponderata in frequenza relativa all’operazione i – esima;
tempo di esposizione relativo all’esposizione i – esima (ore).
La normativa prevede che i valori di accelerazione ponderata in frequenza lungo i tre assi –
a w x ; a w y ; a w z – richiesti per il calcolo di A ( 8 ) , sia nel caso dell’esposizione al sistema mano –
braccio sia nel caso della valutazione dell’esposizione del corpo intero, possano essere determinati
scegliendo una delle due alternative:
Misurazione diretta, secondo le metodiche definite rispettivamente per il sistema mano – braccio
dallo standard I.S.O. 5349 – 2 (2001), e per il corpo intero dallo standard I.S.O. 2631 – 1(1997)
Utilizzando i valori di emissione, dichiarati dai costruttori, ai sensi della Direttiva Macchine od
eventuali fonti informative disponibili, inerenti le specifiche lavorazioni oggetto delle
valutazioni.
Va a tal proposito ricordato che la Direttiva Macchine impone ai costruttori di macchine portatili
tenute o condotte a mano di dichiarare, tra le altre informazioni incluse nelle istruzioni per l’uso, “il
valore medio quadratico ponderato in frequenza dell’accelerazione cui sono esposte le membra
superiori quando superi i 2.5 m/s2”. Se l’accelerazione non supera i 2.5 m/s 2 occorre segnalarlo”.
Per quanto riguarda le vibrazioni trasmesse al corpo intero i costruttori hanno l’obbligo di dichiarare
“il valore medio quadratico ponderato in frequenza dell’accelerazione cui è esposto il corpo (piedi
o parte seduta) quando superi gli 0.5 m/s2. Se l’accelerazione non supera i 0.5 m/s2 occorre
segnalarlo”.Ciò significa che tutti i macchinari, conformi alla Direttiva Macchine, che siano in
grado di produrre esposizioni a vibrazioni superiori ai livelli di azione, prescritti dalla Direttiva
Vibrazioni, devono essere corredati della certificazione dei livelli di vibrazione emessi.
Generalmente le certificazioni sono effettuate per ciascun macchinario in condizioni di impiego
standardizzate, conformemente a specifiche procedure di misura, definite per ciascun macchinario,
dagli standard I.S.O. – C.E.N. (1, 5,6,12).
I dati di emissione di vibrazioni forniti dal costruttore assumono pertanto estrema rilevanza
nell’ambito del processo di valutazione e prevenzione dei rischi previsto dalla Direttiva Vibrazioni,
per tre differenti aspetti, strettamente legati tra loro:
in quanto la procedura di valutazione dei rischi deve necessariamente considerare l’esistenza di
attrezzature da lavoro che riducano il rischio di vibrazioni;
in quanto i dati di emissione, dichiarati dal costruttore, consentono di stimare agevolmente se ed
in quale misura i livelli di esposizione giornaliera riscontrati nelle lavorazioni siano superiori ai
valori limite prescritti dalla normativa, e di mettere in atto le necessarie misure di tutela, senza
79
dover ricorrere a misure complesse e costose;
nell’acquisto di nuovi macchinari, per orientare la scelta verso quelli che producano il minore
livello di vibrazioni, a parità di prestazioni offerte.
3.8. Procedure di prevenzione e protezione
Vibrazioni trasmesse al sistema mano –braccio
a. Tipologie di strumenti vibranti
Strumenti vibranti adeguatamente stimati
Gli strumenti vibranti che notoriamente trasmettono vibrazioni al sistema mano – braccio in
modo rilevante e presi di solito adeguatamente in considerazione sono:
martelli pneumatici;
demolitori;
motoseghe;
levigatrici roto – orbitali.
Strumenti vibranti non adeguatamente stimati
Gli strumenti vibranti che trasmettono vibrazioni al sistema mano – braccio in modo rilevante
ma che sovente non vengono adeguatamente stimati sono:
avvitatori;
decespugliatori.
b. Dispositivi di protezione vibrazioni mano – braccio
La norma di riferimento per i Dispositivi di Protezione Individuale in ambito vibrazioni al
sistema mano – braccio è la U.N.I. EN I.S.O. 10819 (1998) dal titolo: “Vibrazioni e urti
meccanici – Vibrazioni al sistema mano – braccio – Metodo per la misurazione e la valutazione
della trasmissibilità delle vibrazioni dai guanti al palmo della mano”.
Guanti antivibrazioni
La certificazione di un guanto come D.P.I. antivibrazionale secondo la Norma U.N.I. EN
I.S.O. 10819 (1998) non prevede che vengano fornite le curve di attenuazione delle vibrazioni
nell’intervallo di interesse igienistico ( 6.3 ÷ 1250 Hz ) .
Può quindi accadere che un guanto in grado di fornire sufficiente attenuazione per un dato
utensile vibrante non superi il test e, viceversa, che un guanto non idoneo a quell’utensile sia
certificato come antivibrante.
Spettri e trasmissibilità
La norma sui dispositivi di protezione dalle vibrazioni distingue due spettri di frequenze di
vibrazione:
1. spettro M: medie frequenze, nel range 16 ÷ 400 Hz ;
2. spettro H: alte frequenze, nel range 100 ÷ 1600 Hz .
Per entrambi gli spettri, M de H, viene calcolata la trasmissibilità o fattore di trasmissione del
guanto.
Un guanto può essere considerato “antivibrazione” quando:
T.R.M. < 1.0 e T.R.H. < 0.6 8
tutte le dita del guanto hanno le stesse proprietà (materiali e spessore) della parte del guanto
che ricopre il palmo della mano.
8
T.R.M.: trasmissibilità media corretta per le medie frequenze (spettro M).
T.R.H.: trasmissibilità media corretta per le alte frequenze (spettro H).
80
c. Misure di prevenzione e protezione
Poiché i D.P.I. anti – vibrazione non sono completamente efficienti ed in grado di proteggere
adeguatamente i lavoratori, per riportare i livelli di esposizione al di sotto dei valori limite fissati
dalla Legge e dalle Direttive C.E., in molti casi la riduzione del rischio alla fonte è l’unica
misura da adottare.
Il Decreto Legislativo 81/2008 Titolo VIII Capo III all’art. “Disposizioni miranti a escludere o
ridurre l’esposizione” vieta al comma 3 il superamento dei valori limite di esposizione,
rispettivamente per mano – braccio A ( 8 ) = 5 m s 2 e per corpo intero A ( 8 ) = 1.0 m s 2 .
Inoltre è vietato il superamento del valore a r m s di A ( 8 ) = 20 m s 2 .
È prescritto che il datore di lavoro adotti “misure immediate per riportare l’esposizione al di
sotto del valore limite di esposizione”.
Tale aspetto è particolarmente rilevante, soprattutto in considerazione del fatto che, sia nel caso
dell’esposizione del sistema mano – braccio sia nel caso dell’esposizione a vibrazioni del corpo
intero, non esistono D.P.I. anti – vibrazioni in grado di proteggere i lavoratori adeguatamente e
riportare i livelli di esposizione al di sotto dei valori limite fissati dalla Direttiva, come ad
esempio, nel caso dei protettori auricolari in relazione al rischio rumore.
In particolare nei casi in cui si rilevi il superamento del valore limite per tempi brevi –
a rms > 20 m s 2 – la riduzione del rischio alla fonte è l’unica misura da adottare al fine di
riportare l’esposizione a valori inferiori ai limiti prescritti dalla Direttiva.
Qualora in sede di valutazione si sia riscontrato il superamento dei valori limite si consiglia di
consultare sempre la Banca Dati al fine di individuare le tecnologie a minor rischio disponibili,
secondo quanto previsto dalla normativa.
Nel caso non si trovino macchinari in banca dati sarà necessario – da parte di chi valuta il rischio
– effettuare un’indagine di mercato al fine di individuare le tipologie di macchinari idonee alla
riduzione del rischio, e proporre l’acquisizione degli stessi in sede di rapporto di valutazione dei
rischi.
A tal riguardo è importante tenere presente che i dati, dichiarati dai costruttori, ai sensi della
Direttiva Macchine, consentono di individuare, per ciascuna tipologia di macchinario, i modelli a
basso livello di vibrazioni.
d. Obblighi del datore di lavoro
Inoltre la vigente normativa prescrive che, qualora siano superati i livelli di azione (mano –
braccio: A ( 8 ) = 2.5 m s 2 ; corpo intero A ( 8 ) = 0.5 m s 2 ) il datore di lavoro elabori ed
applichi un piano di lavoro volto a ridurre al minimo l’esposizione a vibrazioni, considerando in
particolare:
altri metodi di lavoro che richiedano una minore esposizione a vibrazioni meccaniche;
scelta di attrezzature adeguate, concepite nel rispetto dei principi ergonomici, e che
producano, tenuto conto del lavoro da svolgere, il minor livello possibile di vibrazioni;
fornitura di attrezzature accessorie per ridurre i rischi di lesioni, provocate da vibrazioni, per
esempio sedili che attenuino efficacemente le vibrazioni trasmesse al corpo intero o maniglie
che riducano la vibrazione trasmessa al sistema mano – braccio;
adeguati programmi di manutenzione delle attrezzature di lavoro, del luogo di lavoro e dei
sistemi sul luogo di lavoro;
la progettazione e l’assetto dei luoghi e dei posti di lavoro;
adeguata informazione e formazione per insegnare ai lavoratori ad utilizzare correttamente ed
in modo sicuro le attrezzature di lavoro, riducendo al minimo l’esposizione a vibrazioni
meccaniche;
la limitazione della durata e dell’intensità dell’esposizione;
orari di lavoro adeguati con appropriati periodi di riposo;
81
la fornitura ai lavoratori esposti di indumenti di protezione dal freddo e dall’umidità;
adeguato addestramento specifico dei lavoratori per l’utilizzo corretto e sicuro delle
attrezzature di lavoro, ed in particolare:
corrette modalità di prensione e di impugnatura degli utensili;
adozione di procedure di lavoro idonee al riscaldamento delle mani prima e durante il turno
di lavoro;
esercizi e massaggi alle mani da effettuare durante le pause di lavoro.
La vigente normativa prevede inoltre specifici obblighi di informazione e formazione per i
lavoratori esposti a rischio vibrazioni e per i loro rappresentanti, in relazione a:
misure adottate volte ad eliminare o ridurre al minimo il rischio vibrazioni;
livelli d’azione e valori limite;
risultati delle valutazioni;
potenziali lesioni derivanti dalle attrezzature utilizzate;
metodi per l’individuazione e segnalazione di sintomi e lesioni;
circostanze nelle quali i lavoratori hanno diritto alla sorveglianza sanitaria;
procedure di lavoro sicure per ridurre al minimo l’esposizione a vibrazioni;
programma di sorveglianza sanitaria.
Le vibrazioni trasmesse al corpo intero
Le misure di vibrazioni al sistema mano – braccio sono soggette a rilevanti errori da parte del
misuratore e per via della variabilità delle forze in gioco, sono anche più difficili da effettuare.
Le misure di vibrazioni al corpo intero hanno carattere di maggiore ripetibilità e sono più facili da
effettuare, necessitano tuttavia di analisi dello spettro in frequenza, che non sono mai riportate nelle
Banche Dati (salvo casi particolari).
L’esposizione umana a vibrazioni meccaniche rappresenta un fattore di rischio rilevante per i
lavoratori esposti.
Il rischio connesso all’esposizione a vibrazioni dipende dalle caratteristiche e dalle condizioni in cui
vengono trasmesse:
estensione della zona di contatto con l’oggetto che vibra (mani, piedi etc.);
frequenza della vibrazione;
direzione di propagazione;
tempo di esposizione.
Gli effetti nocivi interessano nella maggior parte dei casi le ossa e le articolazioni della mano, del
polso, del gomito e sono anche facilmente riscontrabili affaticamento psicofisico e problemi di
circolazione.
La prevenzione deve essere fondata su provvedimenti:
di tipo tecnico:
tendere a diminuire la formazione di vibrazione da parte di macchine ed attrezzi;
successivamente limitare la propagazione diretta ed indiretta sull’individuo utilizzando
adeguati dispositivi di protezione individuale;
di tipo organizzativo:
è opportuno introdurre turni di lavoro, avvicendamenti, etc;
di tipo medico:
con visite preventive in quanto è indispensabile una selezione professionale;
visite periodiche per verificare l’idoneità lavorativa specifica.
a. Misure di prevenzione e protezione
Il Decreto Legislativo 81/2008 Titolo VIII Capo III all’art. “Disposizioni miranti ad escludere o
ridurre l’esposizione” vieta al comma 3 il superamento del valore limite di esposizione
82
A ( 8 ) = 1.0 m s 2 , inoltre è vietato il superamento del valore a w rms = 1.5 m s 2 .
È prescritto che il datore di lavoro adotti “misure immediate per riportare l’esposizione al di
sotto del valore limite di esposizione”.
Tale aspetto è particolarmente rilevante, soprattutto in considerazione del fatto che, sia nel caso
dell’esposizione del sistema mano – braccio sia nel caso dell’esposizione a vibrazioni del corpo
intero, non esistono D.P.I. anti – vibrazioni in grado di proteggere i lavoratori adeguatamente e
riportare i livelli di esposizione al di sotto dei valori limite, fissati dalla Direttiva, come ad
esempio, nel caso dei protettori auricolari in relazione al rischio rumore.
In particolare nei casi in cui si rilevi il superamento del valore limite per tempi brevi –
a w rms > 1.5 m s 2 – la riduzione del rischio alla fonte è l’unica misura da adottare al fine di
riportare l’esposizione a valori inferiori ai limiti prescritti dalla Direttiva.
Qualora in sede di valutazione si sia riscontrato il superamento dei valori limite si consiglia di
consultare sempre la Banca Dati al fine di individuare le tecnologie a minor rischio disponibili,
secondo quanto previsto dalla normativa.
Nel caso non si trovino macchinari in Banca Dati sarà necessario – da parte di chi valuta il
rischio – effettuare un’indagine di mercato al fine di individuare le tipologie di macchinari
idonee alla riduzione del rischio, e proporre l’acquisizione degli stessi in sede di rapporto di
valutazione dei rischi.
A tal riguardo è importante tenere presente che i dati, dichiarati dai costruttori, ai sensi della
Direttiva Macchine consentono di individuare, per ciascuna tipologia di macchinario, i modelli a
basso livello di vibrazioni.
b. Obblighi del datore di lavoro
Il datore di lavoro valuta e, quando necessario, misura, i livelli di vibrazioni meccaniche cui i
lavoratori sono esposti.
L’esposizione dei lavoratori alle vibrazioni, trasmesse al sistema mano – braccio, è valutata o
misurata in base alle disposizioni di cui all’Allegato XXXV, parte A.
L’esposizione dei lavoratori alle vibrazioni, trasmesse al corpo intero, è valutata o misurata in
base alle disposizioni di cui all’Allegato XXXV, parte B.
La vigente normativa prescrive che, qualora siano superati i livelli di azione (corpo intero:
0.5 m s 2 ) il datore di lavoro elabori ed applichi un piano di lavoro volto a ridurre al minimo
l’esposizione a vibrazioni e i rischi che ne conseguono, considerando in particolare:
altri metodi di lavoro che richiedano una minore esposizione a vibrazioni meccaniche;
scelta di attrezzature adeguate concepite nel rispetto dei principi ergonomici e che producano,
tenuto conto del lavoro da svolgere, il minor livello possibile di vibrazioni;
fornitura di attrezzature accessorie per ridurre i rischi di lesioni provocate da vibrazioni, per
esempio sedili che attenuino efficacemente le vibrazioni trasmesse al corpo intero;
adeguati programmi di manutenzione delle attrezzature di lavoro, del luogo di lavoro e dei
sistemi sul luogo di lavoro;
la progettazione e l’assetto dei luoghi e dei posti di lavoro;
adeguata informazione e formazione per insegnare ai lavoratori ad utilizzare correttamente eD
in modo sicuro le attrezzature di lavoro, riducendo al minimo l’esposizione a vibrazioni
meccaniche;
la limitazione della durata e dell’intensità dell’esposizione;
orari di lavoro adeguati con appropriati periodi di riposo;
la fornitura ai lavoratori esposti di indumenti di protezione dal freddo e dall’umidità.
Per poter ottemperare pienamente a quanto previsto dalla normativa è necessario che, a seguito
della valutazione dei rischi, sia programmato e messo in atto un programma di riduzione e controllo
del rischio WBV articolato nelle seguenti principali fasi:
83
• Acquisto di nuovi macchinari e/o affidamento noleggio
Nell’acquisto o nel noleggio di nuovi mezzi la scelta andrà orientata verso quelli che producono
il minore livello di vibrazioni, a parità di prestazioni offerte.
È importante a tal fine richiedere in sede di capitolato d’acquisto/noleggio che la cabina di guida
sia montata su molle per smorzare le vibrazioni e richiedere il valore di emissione di vibrazioni
dichiarato obbligatoriamente dal produttore ai sensi della Direttiva Macchine.
Si fa presente in merito che le tecnologie antivibranti, attualmente disponibili, per tali numerose
tipologie di mezzi, quali carrelli elevatori, macchine movimento terra, etc. consentono di
conseguire esposizioni a vibrazioni al posto di guida a w rms < 0.5 m s 2 .
Generalmente il dato, dichiarato dal produttore, è maggiore rispetto al dato, ottenuto nelle reali
condizioni di impiego, essendo i valori di emissione, dichiarati in conduzioni standardizzate, tali
da indurre vibrazioni al posto di guida particolarmente elevate.
• Collaudo nuovi macchinari
È consigliabile effettuare la valutazione delle vibrazioni al posto di guida dei nuovi macchinari
in sede di collaudo, al fine di verificare la reale rispondenza delle vibrazioni prodotte dai
macchinari acquistati con i dati dichiarati in fase di acquisto e poter sostituire per tempo
eventuali macchinari non rispondenti alle specifiche richieste.
• Manutenzione fondo stradale e piazzali
Al fine di ridurre il rischio vibrazioni WBV è necessario programmare interventi di
manutenzione al manto stradale ove avviene la movimentazione, evitando buche eD asperità, che
concorrono ad incrementare il rischio di esposizione a vibrazioni al corpo intero.
• Formazione ed addestramento specifico dei lavoratori, in relazione a:
necessità di moderare il più possibile la velocità di guida, particolarmente in caso di asperità
della pavimentazione stradale;
modalità di regolazione appropriata del sedile in peso ed altezza;
necessità di evitare posture incongrue alla guida, riducendo in particolare il più possibile le
operazioni a marcia in dietro;
necessità di segnalare tempestivamente problemi manutentivi sul mezzo che comportino un
peggioramento delle vibrazioni percepite al posto di guida;
potenziali lesioni a carico del rachide derivanti dall’attività svolta e metodi per la loro
prevenzione.
c. Sorveglianza sanitaria
I lavoratori esposti a livelli di vibrazioni superiori ai valori d’azione sono sottoposti alla
sorveglianza sanitaria.
La sorveglianza viene effettuata periodicamente, di norma una volta l’anno.
4. Campi elettromagnetici
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, Titolo VIII – Capo
IV, artt. da 206 a 212)
Premessa
Con il termine Radiazioni Non Ionizzanti, sinteticamente N.I.R. dalle iniziali dell’omologa
definizione inglese Non Ionizing Radiation, si indica genericamente quella parte dello spettro
elettromagnetico il cui meccanismo primario di interazione con la materia non è quello della
ionizzazione.
Lo spettro elettromagnetico viene infatti tradizionalmente diviso in una sezione ionizzante (Ionizing
Radiation o IR), comprendente raggi X e gamma, dotati di energia sufficiente per ionizzare
direttamente atomi e molecole, e in una non ionizzante (Non Ionizing Radiation o N.I.R.).
Quest’ultima viene a sua volta suddivisa, in funzione della frequenza, in una sezione ottica
84
( 300
GHz ) eD in una non ottica ( 0 ÷ 300 GHz ) .
La prima include le radiazioni ultraviolette, la luce visibile e la radiazione infrarossa.
La seconda comprende le microonde (MW: microwave), le radiofrequenze (R.F.: radiofrequency), i
campi elettrici e magnetici a frequenza estremamente bassa (E.L.F.: Extremely Low Frequency),
fino ai campi elettrici e magnetici statici.
I meccanismi di interazione dei campi elettromagnetici con la materia biologica accertati si
traducono sostanzialmente in due effetti fondamentali: induzione di correnti nei tessuti
elettricamente stimolabili, e cessione di energia con rialzo termico.
Tali effetti sono definiti effetti diretti in quanto risultato da un’interazione diretta dei campi con il
corpo umano.
Alle frequenze più basse e fino a circa 1 MHz , prevale l’induzione di correnti elettriche nei tessuti
elettricamente stimolabili, come nervi e muscoli. Con l’aumentare della frequenza diventa sempre
più significativa la cessione di energia nei tessuti attraverso il rapido movimento oscillatorio di ioni
e molecole di acqua, con lo sviluppo di calore e riscaldamento. A frequenze superiori a circa
10 MHz , quest’ultimo effetto è l’unico a permanere, ed al di sopra di 10 GHz , l’assorbimento è
esclusivamente a carico della cute.
Tali meccanismi sono in grado di determinare gli effetti acuti, che si manifestano al di sopra di una
certa soglia di induzione, nei confronti dei quali esiste un ampio consenso scientifico ed il quadro
delle conoscenze consente di disporre di un “razionale” (cioè una base logico – scientifica) per la
definizione di valori limite di esposizione che contemplino ampi margini di sicurezza tra gli stessi e
le reali soglie di pericolosità.
Oltre agli effetti diretti, esistono anche effetti indiretti.
Due sono i meccanismi di accoppiamento indiretto con i soggetti esposti: correnti di contatto, che si
manifestano quando il corpo umano viene a contatto con un oggetto a diverso potenziale elettrico e
possono indurre effetti quali percezioni dolorose, contrazioni muscolari, ed ustioni; accoppiamento
del campo elettromagnetico con dispositivi elettromedicali (compresi stimolatori cardiaci) ed altri
dispositivi impiantati o portati dal soggetto esposto.
Altri effetti indiretti consistono nel rischio propulsivo di oggetti ferromagnetici all’interno di intensi
campi magnetici statici; nell’innesco di elettrodetonatori e nel rischio incendio di materiali
infiammabili per scintille provocate dalla presenza dei C.E.M. nell’ambiente (Decreto Legislativo
81/2008, art. 209, comma 4, lettera d).
Le principali organizzazioni protezionistiche internazionali hanno sviluppato un sistema di
protezione dai C.E.M. organico e ben fondato.
Il riferimento più autorevole è fornito dai documenti della International Commission on Non
Ionising Radiation Protection (I.C.N.I.R.P.).
Per quanto riguarda i campi variabili nel tempo, l’I.C.N.I.R.P. ha pubblicato nel 1998 delle linee
guida per la limitazione dell’esposizione a campi elettromagnetici con frequenza fino a 300 GHz .
Nel 2010 ha pubblicato delle nuove linee guida per i campi variabili tra 1 Hz e 100 Hz mentre ha
confermato tramite uno statement la validità dei contenuti delle linee guida del 1998 per la
radiofrequenza e microonde (frequenza superiore a 100 kHz ).
Rilevanti sono anche le linee guida, emanate nel 2009, per la per la limitazione dell’esposizione a
campi magnetici statici che aggiornano quelle precedentemente pubblicate nel 1994.
La filosofia, seguita in tutti i documenti, consiste nel definire in primo luogo le grandezze fisiche
“dosimetriche” proprie dell’interazione tra i campi e i sistemi biologici, nei due differenti
meccanismi di base diretti precedentemente descritti.
Nel caso degli effetti termici, tale grandezza di base è costituita dall’entità dell’assorbimento di
energia da parte dei tessuti per unità di massa e di tempo, ossia il rateo di assorbimento specifico
(Specific Absorbtion Rate, S.A.R.), espresso in W kg .
Per quanto riguarda l’induzione di correnti, nelle linee guida del 1998 la grandezza di base era la
densità di corrente indotta, J, definita per la protezione del Sistema Nervoso Centrale (C.N.S.) nella
85
testa e nel tronco ed espressa in A m 2 , ovvero la quantità di corrente che fluisce attraverso una
sezione unitaria di tessuto.
Le nuove linee guida del 2010 hanno introdotto una nuova grandezza dosimetrica, il campo
elettrico indotto in situ, E i ,espresso in V m , considerato maggiormente rappresentativo degli
effetti in quanto diretto responsabile del meccanismo di elettrostimolazione a livello cellulare.
Nella pratica le grandezze di base non sono però direttamente misurabili nei soggetti esposti.
Per verificare il rispetto dei limiti di base è necessario considerare i valori delle grandezze fisiche
proprie dei campi elettromagnetici, direttamente misurabili nell’ambiente.
Tali grandezze sono rappresentate dalle intensità del campo elettrico e del campo magnetico.
Alle frequenze significative per gli effetti termici (al di sopra di 10 MHz ) può anche essere
impiegata la densità di potenza, espressa in W m 2 .
In base a modelli teorici di interazione bioelettromagnetica, successivamente validati da analisi
sperimentali, vengono calcolati in condizioni di massimo accoppiamento tra i campi ed il corpo
esposto, i cosiddetti livelli di riferimento per le grandezze misurabili, che garantiscano in tutte le
circostanze di esposizione il rispetto dei limiti di base per il S.A.R. e per il campo elettrico in situ.
I livelli di riferimento sono diversi per i lavoratori professionalmente esposti e per la popolazione,
essendo applicati per quest’ultima fattori cautelativi maggiori.
Le linee guida dell’I.C.N.I.R.P. sono assunte quale riferimento tecnico – scientifico dalla Direttiva
2004/40/C.E. che stabilisce i requisiti minimi per la protezione dei lavoratori dalle esposizioni ai
campi elettromagnetici nell’intervallo di frequenze tra 0 ÷ 300 GHz .
La Direttiva 2004/40/C.E. è infatti articolata in valori limite di esposizione e valori di azione, i cui
valori numerici sono identici, rispettivamente, alle restrizioni di base ed ai livelli di riferimento
raccomandati dall’I.C.N.I.R.P. nelle linee guida del 1998. A livello nazionale, il riferimento
normativo per la sicurezza nei luoghi di lavoro è il Decreto Legislativo 9 aprile 2008 n. 81 “Testo
Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”.
Le disposizioni specifiche in materia di protezione dei lavoratori dalle esposizioni ai campi
elettromagnetici sono contenute nel Capo IV del Titolo VIII – Agenti fisici – e derivano dal
recepimento della Direttiva 2004/40/C.E., fissato inizialmente al 30 aprile 2008, e successivamente
posticipato dalle Direttive 2008/46/C.E. e 2012/11/C.E.
Il 26 giugno 2013 è stata approvata la nuova Direttiva 2013/35/U.E. del Parlamento Europeo e del
Consiglio sulle disposizioni minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori ai
rischi derivanti dagli agenti fisici (campi elettromagnetici) che ha abrogato la Direttiva
2004/40/C.E. a decorrere dal 29 giugno 2013. Gli Stati membri dovranno conformarsi alla
Direttiva entro il primo luglio 2016. In attesa dell’opportuna riformulazione del Titolo VIII Capo IV
del Decreto Legislativo, ai fini del recepimento della nuova Direttiva, resta valido il principio
generale di cui all’art. 28 del Decreto Legislativo, ribadito relativamente agli agenti fisici
all’art.181, che impegna il datore di lavoro alla valutazione di tutti i rischi per la salute e la
sicurezza, inclusi quelli derivanti da esposizioni a campi elettromagnetici, ed all’attuazione delle
appropriate misure di tutela, a decorrere dal 1 gennaio 2009 (art. 306). Le disposizioni di cui agli
artt. 28 – 181 del Decreto Legislativo 81/2008 sono specificamente mirate alla protezione dagli
effetti certi (effetti acuti) di tipo diretto ed indiretto che hanno una ricaduta in termini sanitari
(“rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori dovuti agli effetti nocivi a breve termine
conosciuti nel corpo umano derivanti dalla circolazione di correnti indotte e dall’assorbimento di
energia, e da correnti di contatto”, Decreto Legislativo 81/2008, art. 206 comma 1. Coerentemente
con gli scopi della Direttiva Europea, il Capo IV del Decreto Legislativo 81/2008 non riguarda la
protezione da eventuali effetti a lungo termine, per i quali mancano dati scientifici conclusivi che
comprovino un nesso di causalità, né i rischi conseguenti al contatto con i conduttori in tensione
(art. 206, comma 2) questi ultimi già coperti dalle norme per la sicurezza elettrica. Da notare che la
maggior parte degli effetti avversi, considerati nel Decreto Legislativo 81/2008, compaiono
immediatamente (ad esempio: aritmie, contrazioni muscolari, ustioni, malfunzionamento pacemaker
86
e dispositivi elettronici impiantati, etc.), ma alcuni, come la cataratta o la sterilità maschile, essendo
la conseguenza di un meccanismo cumulativo, possono manifestarsi a distanza di tempo.
4.1. Valutazione del rischio di esposizione a campi elettromagnetici
La valutazione del rischio C.E.M. parte da un censimento iniziale di sorgenti ed apparati presenti
nel luogo di lavoro. Si definisce situazione “giustificabile” la condizione espositiva a C.E.M. che
non comporta apprezzabili rischi per la salute.
Ai fini di questa definizione si reputano in primo luogo non comportare rischi per la salute le
esposizioni inferiori ai livelli di riferimento per la popolazione di cui alla Raccomandazione
Europea 1999/519/C.E.
In linea con questa definizione sono condizioni espositive giustificabili quelle elaborate a partire
norma C.E.N.E.L.E.C. EN 50499 che identifica tutte le attrezzature e le situazioni di tipo
giustificabili.
Sono invece Macchinari ed impianti che richiedono valutazione del rischio C.E.M. ed adozione di
misure di tutela quelli indicati nella seguente tabella:
1
Elettrolisi industriale
2
Saldatura e fusione elettriche
3
Riscaldamento a induzione
4
Riscaldamento dielettrico a RF e MW
5
Saldatura dielettrica
6
Magnetizzatori/smagnetizzatori industriali incluso grossi cancellatori di nastri,
attivatori disattivatori magnetici di sistemi antitaccheggio non certificati ai sensi
della EN 50364
7
Specifiche lampade attivate a RF
8
Dispositivi a RF per plasma
9
Tutti gli apparecchi elettromedicali per applicazioni con radiazioni
elettromagnetiche o di corrente tra cui:
stimolatori magnetici transcranici;
apparati per magnetoterapia;
tomografi RMN;
diatermia ad onde corte o cortissime;
elettrobisturi.
Tutti gli apparecchi elettromedicali che utilizzano sorgenti RF con potenza media
emessa elevata ( > 100 mW )
10
Sistemi elettrici per la ricerca di difetti nei materiali
11
Radar
12
Trasporti azionati elettricamente: treni e tram
13
Essiccatoi e forni industriali a microonde
14
Antenne delle
manutenzione)
15
Reti di distribuzione dell’energia elettrica nei luoghi di lavoro che non soddisfano i
criteri di giustificabilità.
stazioni
radio
base
87
(lavoratori addetti all’installazione
e
4.2. Prevenzione e protezione
Nelle attività lavorative ove siano presenti macchinari od impianti emettitori di campi
elettromagnetici potenzialmente nocivi, è in genere sempre possibile individuare un insieme di
misure di tutela di tipo organizzativo e/o procedurale, che se messe in atto, consentono di:
prevenire l’esposizione di individui con controindicazioni assolute o relative ai livelli
esposizione associati agli apparati;
ridurre al minimo l’esposizione dei lavoratori ai campi elettromagnetici irradiati da tali apparati.
Tra queste le principali, comuni alla maggior parte delle situazioni espositive, sono:
a. Installazione e layout: È necessario che gli apparati emettitori di C.E.M. siano installati in aree di
lavoro adibite ad uso esclusivo degli stessi ed ad idonea distanza dalle altre aree di lavoro ove il
personale stazioni per periodi prolungati.
Inoltre, per prevenire effetti indiretti, problemi interferenziali e per evitare esposizioni indebite, è
di fondamentale importanza evitare che, in prossimità delle sorgenti di campo E.M. vengano
posizionati, se non previa idonea valutazione tecnica, oggetti metallici di qualsiasi tipo ed
apparecchiature elettriche.
In generale la distanza di rispetto tra l’area di installazione dell’apparato – che si definisce area
ad accesso controllato in relazione al rischio di esposizione a C.E.M. – e le altre aree di lavoro,
ad accesso libero, dipende dalle caratteristiche tecnologiche dell’apparecchiatura, e dovrà essere
stimata da colui che effettua la valutazione del rischio.
In applicazione del principio di ottimizzazione sarà opportuno mirare, laddove possibile, al
conseguimento di esposizioni a campi elettromagnetici presso le aree adibite a permanenza
protratta del personale non professionalmente esposto, secondo la definizione fornita nel
documento del Coordinamento Tecnico delle Regioni e dell’I.S.P.E.S.L. (C.T.I.P.L.L. –
I.S.P.E.S.L.), a valori inferiori ai limiti massimi, fissati dalla vigente normativa, per esposizione
della popolazione a campi elettromagnetici.
b. Delimitazione delle aree: Le aree di lavoro ove i valori
di esposizione possono risultare superiori ai livelli di
riferimento per la popolazione di cui alla
Raccomandazione Europea 1999/519/C.E., coincidenti
con i livelli di riferimento I.C.N.I.R.P. del 1998,
dovranno essere delimitate con cartelli di segnalazione
di presenza di campi elettromagnetici, conformi alle Figura 8: segnale di rischio di radiofrequenza.
normative vigenti in materia di segnaletica di
sicurezza.
L’accesso a tali aree sarà consentito solo a personale
autorizzato, previa valutazione dell’assenza di
controindicazioni fisiche all’esposizione. L’accesso al
personale non autorizzato dovrà essere interdetto
possibilmente mediante barriere fisiche.
c. Soggetti controindicati all’esposizione:
Figura 9: segnale di rischio di campo statico.
Sono soggetti con controindicazione all’esposizione a
campi elettromagnetici superiori ai livelli di riferimento stabiliti dall’ICNIRP per la protezione
della popolazione (elenco a titolo indicativo):
portatori di pace – makers od altre protesi e dispositivi dotati di circuiti elettronici;
portatori di clips vascolari, dispositivi e protesi endovascolari o schegge metalliche
(ferromagnetiche nel caso di campo statico, schegge metalliche in generale nel caso di
esposizione a R.F. e microonde);
portatori di protesi interne;
donne in gravidanza;
pazienti che abbiano riportato infarto recente del miocardio;
portatrici di dispositivi intrauterini;
88
soggetti operati di cataratta (solo per campo magnetico statico).
d. Formazione ed addestramento del personale: Ai fini della prevenzione dei rischi per la salute dei
soggetti esposti, è fondamentale che il personale sia formato sulle corrette norme
comportamentali da adottare nelle operazioni in prossimità del macchinario sorgente di C.E.M. e
soprattutto sulla necessità di limitare la permanenza nelle aree con esposizioni a campi
elettromagnetici di interesse protezionistico (zone controllate) al tempo strettamente funzionale
ad attività ed operazioni di controllo del macchinario/impianto sorgente di C.E.M.
Qualora il macchinario non possa essere schermato, le aree ove si possano riscontrare valori
superiori ai livelli d’azione per i lavoratori andranno opportunamente segnalate e delimitate.
Nei casi in cui l’accesso alle aree con rischio di superamento del valore limite per i lavoratori
non possa essere impedito fisicamente, come ad esempio nel caso di lavorazioni su tralicci, o su
linee elettriche aeree di alta tensione, è necessario dotare i lavoratori di:
monitor portatile di C.E.M. con dispositivo d’allarme atto a segnalare tempestivamente il
superamento dei valori d’azione di campo elettrico e magnetico fissati dalla normativa;
indumenti di protezione specifici per le frequenze di interesse.
Nel caso delle radio frequenze (R.F.) ad esempio questi consistono di abiti e tute, caschi di
protezione, guanti e calze: tali indumenti protettivi sono in genere composti degli stessi tessuti
sintetici normalmente impiegati per indumenti ignifughi (ad esempio Nomex) e di acciaio
inossidabile nella percentuale del 20 ÷ 30 % .
A titolo di esempio nel caso degli apparati di telecomunicazioni (100 MHz ÷ 10 GHz ) tali
indumenti forniscono attenuazioni alle radiofrequenze dell’ordine di 1 10 – 1 100 .
Inoltre, ai fini della prevenzione degli effetti indiretti dell’esposizione, il personale dovrà essere
formato in particolare sui seguenti elementi:
casi di controindicazione all’esposizione ai campi elettromagnetici emessi dal macchinario;
corrette modalità comportamentali da adottare in prossimità del macchinario, che in genere
comprendono il divieto di introdurre oggetti metallici di qualsiasi tipo ed apparecchiature
elettriche all’interno dell’area, se non espressamente autorizzate dal responsabile della
sicurezza.
e. Interventi sulle sorgenti: acquisto di nuovi macchinari: Secondo quanto riportato dalla Direttiva
Macchine, la progettazione e costruzione dei macchinari deve essere tale da limitare qualsiasi
emissione di radiazioni a quanto necessario al loro funzionamento e tale che i loro effetti sulle
persone esposte siano nulli o comunque non pericolosi.
La norma di riferimento per la valutazione e riduzione dei rischi, generati dalle radiazioni emesse
dal macchinario, è la U.N.I. EN 12198 – 1 del 2009, che riguarda l’emissione di tutti i tipi di
radiazione elettromagnetica non ionizzante, incluse le radiazioni ottiche. In funzione del livello
di emissione di radiazioni, il fabbricante deve assegnare alla macchina una categoria di
emissione di radiazioni.
Tali valori sono riportati in appendice B della U.N.I. EN 12198 : 2009. In particolare la norma
considera tre categorie di emissione, per le quali sono previste diverse misure di protezione,
informazione, addestramento.
Il fabbricante deve specificare, se necessario, il livello di competenza da raggiungere mediante
addestramento e deve fornirne dettagli appropriati nelle istruzioni nei casi in cui le condizioni
operative e di messa a punto della macchina si traducano in una riduzione dell’emissione.
Se la categoria di emissione di radiazioni è 1 o 2, il fabbricante deve dichiarare come
informazione supplementare il tipo ed il livello di radiazioni che possono essere emesse dalla
macchina. Le macchine rientranti nelle categorie 1 e 2 devono essere marcate.
La marcatura deve comprendere:
il segnale di sicurezza rappresentante il tipo di emissione di radiazione;
il numero di categoria (categoria 1 o categoria 2).
il riferimento alla norma U.N.I. EN 12198.
89
Categoria
0
Restrizione e misure
di protezione
Nessuna
Informazione
addestramento
Livelli emissione
Nessuna
< livelli di riferimento per la
popolazione
Raccomandazione
Europea
1999/519/C.E.
1
Possono
essere
Informazioni
necessarie limitazioni
pericoli, rischi
all’accesso e misure di
effetti indiretti
protezione
> livelli di riferimento per la
su
popolazione
ed
Raccomandazione
Europea
1999/519/C.E.
2
Restrizioni speciali e Come nel caso 1 in > livelli azione
misure di protezione più
necessario Direttiva C.E./44/2002 (T.U. titolo
obbligatorie
addestramento
VIII capo IV)
5. Radiazioni Ottiche Artificiali
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81 Titolo VIII – Capi
V, VI artt. da 213 a 220)
Premessa
Per radiazioni ottiche si intendono tutte le radiazioni elettromagnetiche nella gamma di lunghezza
d’onda compresa tra 100 nm e 1 mm . Lo spettro delle radiazioni ottiche si suddivide in radiazioni
ultraviolette, radiazioni visibili e radiazioni infrarosse.
Queste, ai fini protezionistici, sono a loro volta suddivise in:
radiazioni ultraviolette: radiazioni ottiche di lunghezza d’onda compresa tra 100 ÷ 400 nm .
La banda degli ultravioletti è suddivisa in U.V.A. ( 315 ÷ 400 nm ) , U.V.B. ( 280 ÷ 315 nm ) e
UVC 100 ÷ 280 nm ;
radiazioni visibili: radiazioni ottiche di lunghezza d’onda compresa tra 380 ÷ 780 nm ;
radiazioni infrarosse: radiazioni ottiche di lunghezza d’onda compresa tra 780 nm ÷ 1 mm .
La regione degli infrarossi è suddivisa in I.R.A. ( 780 ÷ 1400 nm ) , I.R.B. (1400 ÷ 3000 nm ) ed
I.R.C. ( 3000 nm ÷ 1 mm ) .
Le sorgenti di radiazioni ottiche possono inoltre essere classificate in coerenti e non coerenti.
Le prime emettono radiazioni in fase fra loro (i minimi e i massimi delle radiazioni coincidono), e
sono generate da laser, mentre le seconde emettono radiazioni sfasate e sono generate da tutte le
altre sorgenti non laser e dal Sole.
Tutte le radiazioni ottiche non generate dal Sole, radiazioni ottiche naturali, sono di origine
artificiale, cioè sono generate artificialmente da apparati e non dal Sole.
5.1. Principali effetti dannosi della radiazione ottica sull’occhio e la pelle
La tipologia di effetti associati all’esposizione a R.O.A. dipende dalla lunghezza d’onda della
radiazione incidente, mentre dall’intensità dipendono sia la possibilità che questi effetti si
verifichino sia la loro gravità.
L’interazione della radiazione ottica con l’occhio e la cute può provocare conseguenze dannose
come riportato nella Tabella seguente.
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Lunghezza
d’onda (nm)
Tipo
Occhio
Pelle
100 ÷ 280
UV C
280 ÷ 315
UV B
fotocheratite
foto congiuntivite
Eritema
Tumori cutanei
(scottatura della Processo accelerato di
pelle)
invecchiamento della pelle
315 ÷ 400
UV A
cataratta fotochimica
400 ÷ 780
Visibile
lesione fotochimica e
termica della retina
780 ÷ 1400
IR A
cataratta
bruciatura della retina
1400 ÷ 3000
IR B
cataratta,
bruciatura della cornea
3000 ÷ 106
IR C
bruciatura della cornea
Reazione di foto
sensibilità
Bruciatura della pelle
Oltre ai rischi per la salute dovuti all’esposizione diretta alle radiazioni ottiche artificiali esistono
ulteriori rischi indiretti da prendere in esame quali:
sovraesposizione a luce visibile: disturbi temporanei visivi, quali abbagliamento, accecamento
temporaneo;
rischi di incendio e di esplosione innescati dalle sorgenti stesse e/o dal fascio di radiazione;
ulteriori rischi associati alle apparecchiature/lavorazioni che utilizzano R.O.A. quali stress
termico, contatti con superfici calde, rischi di natura elettrica, di esplosioni od incendi come nel
caso di impiego di LASER di elevata potenza, etc.
La qualità degli effetti, la loro gravità, o la probabilità che alcuni di essi si verifichino dipendono
dall’esposizione radiante, dalla lunghezza d’onda della radiazione e, per quanto riguarda alcuni
effetti sulla pelle, dalla fotosensibilità individuale che è una caratteristica geneticamente
determinata.
Considerati dal punto di vista del loro decorso temporale, gli effetti prodotti sull’occhio e sulla pelle
possono essere suddivisi in:
effetti a breve termine o da esposizione acuta con tempi di latenza dell’ordine di ore, giorni;
effetti a lungo termine o da esposizione cronica con tempi di latenza di mesi, anni.
In generale per ciascun effetto acuto è possibile stabilire “la dose soglia” al di sotto della quale
l’effetto non si verifica.
La maggior parte degli effetti a lungo termine (tumori: carcinoma cutaneo) hanno natura diversa
dagli effetti acuti e la loro probabilità è tanto maggiore quanto più è elevata la dose accumulata
dall’individuo.
Effetti sull’occhio
Ai fini della visione, l’occhio deve essere necessariamente esposto alla luce.
Quasi sempre le sorgenti di luce visibile (il sole e le lampade per illuminazione) emettono anche
radiazioni non visibili quali la radiazione infrarossa ed in misura minore, ultravioletta, che sono
inefficaci ai fini della visione ma che, viceversa, possono rappresentare un rischio potenziale per
l’occhio.
Rispetto alla propagazione della radiazione attraverso le strutture oculari, l’occhio può essere
schematizzato come un sistema di filtri sovrapposti ciascuno con una particolare trasmissione
spettrale (banda passante) e perciò in grado di assorbire e “filtrare” specifiche lunghezze d’onda.
91
Gli effetti biologici prodotti dalla R.U.V. su ogni singola struttura, dipendono:
a) dalla dose assorbita che, a sua volta, è legata anche alle proprietà filtranti delle strutture
precedenti le quali possono assorbire completamente la radiazione di determinate lunghezze
d’onda;
b) dalle caratteristiche intrinseche di assorbimento della struttura considerata;
c) dalla suscettibilità dei tessuti interessati all’assorbimento della R.U.V.;
d) dalla capacità di riparare il danno prodotto.
La trasmissione spettrale del cristallino, varia progressivamente con l’età e ciò può influire sia
sulla natura sia sul livello del rischio.
La rimozione del cristallino e la sua sostituzione con una protesi artificiale, nel trattamento
chirurgico della cataratta, può alterare notevolmente la trasmissione dell’occhio nella regione
spettrale U.V. – A ed aumentare l’esposizione della retina.
Gli effetti dannosi più significativi che possono manifestarsi sulle strutture dell’occhio non
protetto esposto alla R.U.V. e le regioni spettrali in cui essi si manifestano sono:
1. La fotocheratocongiuntivite: È provocata da esposizioni brevi ed intense alla R.U.V. della
regione spettrale (180 ÷ 330 ) nm . È un effetto caratterizzato da lesioni superficiali che
interessano la congiuntiva e la cornea, dovute alla morte e progressiva perdita di cellule
epiteliali con conseguente messa a nudo delle numerose terminazioni nervose superficiali che
vengono in contatto con il velo lacrimale.
Lo stato infiammatorio risultante ha carattere transitorio e reversibile ma è accompagnato da
dolore acuto, fotofobia ed una fastidiosa “sensazione di sabbia” negli occhi.
Lo spettro d’azione della fotocheratite presenta un massimo di efficacia biologica fra
265 ÷ 275 nm . La prevenzione può essere facilmente realizzata mediante l’uso di occhiali
idonei o maschere con visiera provvista di filtro.
2. La cataratta: Il cristallino è funzionalmente una lente a focale variabile e, per definizione,
deve essere trasparente nella banda del visibile. Il termine cataratta definisce uno stato
patologico caratterizzato da una più o meno accentuata opacità del cristallino, a cui
corrisponde una diminuita trasmissione della luce verso la retina ed un aumento della
componente diffusa.
La cataratta è prevalentemente una patologia multifattoriale dell’età avanzata, legata a
processi di invecchiamento molecolare e cellulare.
La Radiazione U.V. è tuttavia in grado di accelerare detti processi e quindi deve essere
considerata un fattore causale specifico.
Numerose indagini epidemiologiche dimostrano questa associazione ed anche gli
esperimenti condotti su vari animali evidenziano l’effetto catarattogenico della R.U.V.
Il contributo all’induzione della cataratta attribuibile all’esposizione alla R.U.V. è un effetto
di notevole rilevanza sanitaria sia per la gravità della patologia sia per i suoi costi sociali.
Le lesioni microscopiche che contribuiscono ad accelerare l’insorgenza della cataratta sono
di natura fotochimica. Esse dipendono sostanzialmente dalla dose di R.U.V. assorbita dal
cristallino che, anche a causa dei processi di riparazione molto lenti, si accumulano nel
tempo.
Per quanto riguarda l’esposizione a radiazione infrarossa, emessa ad esempio da corpi
incandescenti quali vetro o metalli fusi, fin dagli inizi del 1900, numerosi studi di rassegna
ed epidemiologici hanno evidenziato un significativo incremento di incidenza di cataratte tra
lavoratori addetti a lavorazioni del vetro o di metalli alle temperature di fusione.
Nel caso di esposizione oculare a luce visibile od infrarosso A (I.R. – A) , la cataratta è
associata all’assorbimento della radiazione nell’iride: l’energia termica viene quindi
trasferita per conduzione diretta al tessuto epiteliare del cristallino.
Nel caso di esposizione oculare a radiazione infrafrossa, con componenti spettrali dominanti
92
nelle regioni IR – B, IR – C, la radiazione è invece assorbita dalla cornea: l’energia termica
si propaga quindi al cristallino mediante conduzione termica attraverso i tessuti oculari
adiacenti (cornea – umor acqueo).
La radiazione visibile e la radiazione I.R. sono ambedue in grado di indurre cataratta,
producendo entrambe, sia pure con meccanismi diversi, un riscaldamento del cristallino.
Nel caso della cataratta dei vetrai questa dovrebbe essere associata essenzialmente
all’esposizione ad IR – B, IR – C.
Sulla base della localizzazione dell’opacità si distinguono tre forme principali di cataratta:
la cataratta nucleare caratterizzata da un progressivo ingiallimento delle proteine nucleari
e dalla formazione di aggregati macromolecolari che aumentano la diffusione della luce;
la cataratta subcapsulare posteriore nella quale l’opacità è provocata da un’aggregazione
di cellule degenerate ed anormali sulla superficie posteriore del cristallino;
la cataratta corticale caratterizzata da piccoli vacuoli che si riempiono d’acqua e
frammenti corticali.
3. Il danno retinico da luce blu: In un individuo adulto normale la retina non è raggiunta dalla
RUV esclusa una piccolissima frazione di U.V. – A di più bassa energia.
La funzione complessiva di filtro (passabanda perché trasmette saltando il visibile e
l’infrarosso A) è svolta dalle strutture oculari che precedono la retina.
In età giovanile, tuttavia, l’occhio presenta una maggiore trasparenza alla R.U.V. ed anche
negli individui afachici (cristallino naturale sostituito da una protesi) la trasmissione nella
regione U.V. – A può risultare notevolmente aumentata.
Sino a non molti anni fa si riteneva che i danni prodotti dalla radiazione ottica sulla retina
fossero sostanzialmente di natura termica, in seguito è stato dimostrato che la radiazione
della regione spettrale compresa fra 300 ÷ 550 nm può indurre sulla retina danni di natura
fotochimica.
Secondo alcuni, tali danni potrebbero concorrere ad accelerare il manifestarsi della
degenerazione maculare senile.
Effetti sulla pelle
Gli effetti più rilevanti che possono manifestarsi sulla pelle a seguito di esposizione acuta e/o
cronica alla R.U.V. sono:
1. L’eritema
L’eritema da esposizione alla R.U.V. è la risposta biologica più studiata e forse più nota della
pelle. L’effetto è facilmente osservabile soprattutto negli individui di pelle chiara.
La reazione eritemigena si evidenzia con un arrossamento della pelle, indice di
vasodilatazione periferica, raggiunge il massimo dopo 12 ÷ 14 ore, e si risolve in 3 ÷ 4 giorni.
Nel campo della protezione dagli effetti nocivi della R.U.V. sulla pelle, l’eritema riveste una
notevole importanza perché:
a. fra tutti gli effetti prodotti dalla R.U.V. l’eritema è quello che forse più di ogni altro
corrisponde alla definizione di effetto deterministico;
b. la risposta eritemigena, sia in termini di spettro d’azione sia di dose – risposta, è il
fenomeno macroscopico più rappresentativo della fotosensibilità cutanea individuale.
2. Fotoinvecchiamento cutaneo
L’invecchiamento cutaneo è un fenomeno complesso e multifattoriale ed è la risultante
dell’invecchiamento cronologico e del foto invecchiamento, provocato dall’esposizione
complessiva alla RUV.
Il fotoinvecchiamento si manifesta in misura più o meno accentuata nelle aree maggiormente
fotoesposte, braccia, viso, collo ed è caratterizzato da secchezza cutanea, epidermide
generalmente ispessita, rugosità, perdita di elasticità, pigmentazione irregolare.
Si ritiene che dette manifestazioni di danno siano prodotte, in parte dall’azione diretta e
prolungata della radiazione U.V. – B e U.V. – A sulle cellule cutanee ed in parte dall’azione
93
mediata da radicali liberi fotoindotti (superossido e idrossile).
Il fotoinvecchiamento cutaneo è un effetto ritardato che si manifesta in misura più accentuata
negli individui di pelle chiara.
3. Esposizione a Radiazione U.V. e Tumori della pelle
È noto che la RUV è in grado di produrre vari danni sul D.N.A. quali: mutazioni geniche,
scambi cromatidici, aneuploidia, etc. e che questi effetti sono o possono essere connessi con la
cancerogenesi.
Tra gli effetti sanitari a lungo termine l’induzione di tumori cutanei è di grande rilevanza per
numero e gravità.
L’analisi delle più recenti evidenze scientifiche mostra che la radiazione ultravioletta (U.V.) è
uno dei fattori causali maggiori per i carcinomi della pelle (carcinoma spinocellulare e
carcinoma basocellulare) e per il melanoma cutaneo, provoca l’invecchiamento precoce della
pelle ed effetti nocivi per la salute.
A carico dell’occhio, la radiazione U.V. può comportare lesioni e danni alla retina ed al
cristallino.
Lo I.A.R.C. classifica lo spettro solare della radiazione U.V. e le lampade abbronzanti come
“cancerogeni per l’uomo” (gruppo 1 A): a tale gruppo appartengono sostanze ed agenti per
cui è accertata la cancerogenicità sull’uomo.
La cancerogenesi fotoindotta dalla R.U.V. a carico delle cellule cutanee è un processo
multifattoriale di lungo periodo che coinvolge l’organismo attraverso risposte locali e
sistemiche, fra le quali anche la risposta immunitaria locale e sistemica.
I carcinomi della pelle (basalioni e spinalioni) sono tumori molto frequenti nell’uomo e si
manifestano soprattutto in età avanzata e nelle aree maggiormente fotoesposte.
La dose radiante, accumulata dal singolo individuo, correla con la probabilità che l’evento
neoplastico si verifichi ma non influenza sostanzialmente la sua gravità.
Il melanoma cutaneo è una forma molto pericolosa di cancro la cui incidenza, come mostrano
indagini, condotte soprattutto in Australia ed Israele, è legata all’esposizione alla R.U.V.
In generale, gli individui più a rischio sono quelli di razza bianca che presentano pelle ed
occhi chiari, in particolare, i biondi ed i rossi di capelli con lentiggini e numerosi nei.
Il melanoma, a differenza dei carcinomi cutanei, presenta una scarsa correlazione con
l’esposizione radiante accumulata dall’individuo nel corso della vita: episodi saltuari di
intensa esposizione che producano eritema, scottature e vesciche, soprattutto se avvenuti in
età giovanile, sono considerati fattori causali che aumentano considerevolmente il rischio di
insorgenza di questa neoplasia.
4. Radiazione U.V. e sistema immunitario
La pelle è un organo molto complesso e non una semplice barriera di separazione fra
l’ambiente esterno ed il corpo.
In essa ha sede e svolge la sua funzione una parte importante del “braccio periferico” del
sistema immunitario.
Si è osservato che l’esposizione alla R.U.V. altera la risposta immunitaria a livello locale e
sistemico deprimendo sia la risposta umorale mediata dai linfociti B sia quella cellulare
mediata dai linfociti T.
Non è raro che a seguito di un’intensa esposizione alla radiazione solare in alcuni individui
compaiano, in particolare sulle labbra, lesioni tipiche provocate dal virus dell’herpes simplex.
Si ritiene che l’esposizione alla R.U.V. deprima temporaneamente il sistema immunitario
permettendo al virus, presente in forma latente, di moltiplicarsi.
5. Effetti fototossici e fotoallergici
L’esposizione alla R.U.V. e la contemporanea assunzione di alcuni composti chimici può
provocare, in alcuni individui, delle reazioni di fotosensibilizzazione che si manifestano con
tipiche reazioni cutanee.
Le reazioni cutanee da fotosensibilizzazione sono prodotte da:
94
a. effetti fotoallergici; oppure
b. effetti fototossici.
Molti sono i prodotti di sintesi, ad esempio i principi attivi contenuti nei farmaci, e naturali,
quali estratti di piante, sostanze cosmetiche, profumi, che possono produrre i suddetti effetti.
È importante sottolineare che la R.U.V. di lunghezza d’onda maggiore, in particolare la
radiazione U.V. – A, è più efficace nell’indurre reazioni fototossiche e fotoallergiche, perché
penetra più in profondità e quindi è in grado di interagire più facilmente con molecole
fotoattive (cromofori) assunte per via sistemica e presenti nel microcircolo periferico.
5.2. I laser
Il laser è un dispositivo che consente di generare radiazione ottica monocromatica, costituita cioè da
un’unica lunghezza d’onda, estremamente direzionale e di elevata intensità.
Tali caratteristiche non sono generalmente ottenibili con l’impiego di sorgenti di luce incoerente (ad
esempio lampade ad incandescenza, LED, a scarica di gas o ad arco).
Pur differenti per le tecnologie adottate, tutti i laser sono basati sul medesimo principio fisico:
l’amplificazione coerente dell’intensità luminosa tramite emissione stimolata di radiazione (in
inglese Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation, da cui l’acronimo LASER) e
sono tipicamente costituiti da un materiale attivo, le cui proprietà fisiche determinano la lunghezza
d’onda della radiazione laser, racchiuso in un contenitore cilindrico le cui basi sono due specchi
piani.
Esiste attualmente una grande varietà di sorgenti laser (a stato solido, a gas, a coloranti organici, ad
eccimeri) che coprono un intervallo di lunghezze d’onda che comprende la radiazione visibile
l’infrarosso e l’ultravioletto.
Accanto ai laser in continua (CW), esistono laser che emettono impulsi di grande intensità e breve
durata, anche ben al di sotto del picosecondo.
5.2.1. Criteri di classificazione dei laser
Un concetto importante per definire il rischio da esposizione ad un’apparecchiatura laser è quello di
L.E.A. (Accessible Emission Limit), che è definito come il livello di radiazione massimo di una
sorgente cui può accedere un operatore e determina la pericolosità di un apparato laser.
Attraverso lo studio della soglia di danneggiamento per l’occhio e la cute in funzione della
lunghezza d’onda e della durata dell’esposizione alla radiazione laser, sono stati dedotti i criteri che,
in base alla lunghezza d’onda e al L.E.A., cioè alla potenza accessibile da parte dell’operatore,
collocano un laser in una certa classe di pericolosità.
La norma tecnica C.E.I. EN 60825 – 1, riguardante la sicurezza degli apparecchi laser, è stata
recentemente aggiornata e con essa è stata rivista la classificazione delle apparecchiature.
La classificazione delle sorgenti laser deve essere effettuata dal costruttore: dalla data 01/07/2005
gli apparecchi nuovi che vengono immessi sul mercato, devono essere necessariamente conformi
all’aggiornamento citato (nuova classificazione).
Sia per la vecchia sia per la nuova classificazione, le classi sono stabilite sulla base dei L.E.A.
(Limite di Emissione Accettabile) che descrive i livelli di radiazione emergente da un sistema laser,
la cui valutazione permette la collocazione dell’apparecchio nell’opportuna categoria di rischio.
La determinazione del L.E.A. deve essere effettuata da parte del costruttore nelle condizioni più
sfavorevoli ai fini della sicurezza.
La classificazione dei Laser indica in ordine crescente il loro grado di pericolosità, e le opportune
misure preventive e protettive.
È responsabilità del costruttore o del suo agente fornire la corretta classificazione di un apparecchio
laser. Se la modifica da parte dell’utilizzatore di un apparecchio già classificato influenza un aspetto
qualunque delle prestazioni dell’apparecchio o delle sue funzioni, la persona o l’organismo che
effettua tale modifica ha la responsabilità di assicurare la riclassificazione e la nuova targatura
dell’apparecchio laser.
95
Pertanto nota la classificazione è possibile stimare il rischio associato all’installazione ed impiego
dell’apparato.
5.3. Valutazione del rischio da Radiazioni Ottiche Artificiali
Il Capo V del Titolo VIII del Decreto Legislativo 81/2008, tratta della protezione dei lavoratori dai
rischi fisici, associati all’esposizione alle Radiazioni Ottiche di origine artificiale.
L’art. 216. “Identificazione dell’esposizione e valutazione dei rischi” prescrive che nell’ambito
della valutazione dei rischi di cui all’art. 181, il datore di lavoro valuta e, quando necessario, misura
e/o calcola i livelli delle radiazioni ottiche cui possono essere esposti i lavoratori.
La metodologia seguita nella valutazione, nella misurazione e/o nel calcolo deve rispettare le norme
della Commissione elettrotecnica internazionale (I.E.C.), per quanto riguarda le radiazioni laser, e le
raccomandazioni della Commissione internazionale per l’illuminazione (C.I.E.) e del Comitato
europeo di normazione (C.E.N.) per quanto riguarda le radiazioni incoerenti.
Nelle situazioni di esposizione che esulano dalle suddette norme e raccomandazioni, e fino a
quando non saranno disponibili norme e raccomandazioni adeguate dell’Unione Europea, il datore
di lavoro adotta le specifiche linee guida “le buone prassi” oppure dati del fabbricante.
La valutazione dei rischi deve prendere in esame:
il livello, la gamma di lunghezze d’onda e la durata dell’esposizione a sorgenti artificiali di
radiazioni ottiche;
i valori limite di esposizione di cui all’articolo 215;
qualsiasi effetto sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori appartenenti a gruppi particolarmente
sensibili al rischio;
qualsiasi eventuale effetto sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori risultante dalle interazioni
sul posto di lavoro tra le radiazioni ottiche e le sostanze chimiche fotosensibilizzanti;
qualsiasi effetto indiretto come l’accecamento temporaneo, le esplosioni od il fuoco;
l’esistenza di attrezzature di lavoro alternative progettate per ridurre i livelli di esposizione alle
radiazioni ottiche artificiali;
la disponibilità di azioni di risanamento, volte a minimizzare i livelli di esposizione alle
radiazioni ottiche;
per quanto possibile, informazioni adeguate, raccolte nel corso della sorveglianza sanitaria,
comprese le informazioni pubblicate;
sorgenti multiple di esposizione alle radiazioni ottiche artificiali;
una classificazione dei laser ,stabilita conformemente alla pertinente norma I.E.C. ed, in
relazione a tutte le sorgenti artificiali che possono arrecare danni simili a quelli di un laser della
classe 3B o 4, tutte le classificazioni analoghe;
le informazioni, fornite dai fabbricanti delle sorgenti di radiazioni ottiche e delle relative
attrezzature di lavoro, in conformità con le pertinenti Direttive comunitarie.
Innanzitutto, ai fini della valutazione del rischio, occorre verificare se le sorgenti sono
“giustificabili” cioè intrinsecamente sicure ovvero nelle abituali condizioni di impiego “innocue” o
possono rappresentare un rischio per la salute dei soggetti esposti.
Sorgenti Giustificabili
Sono tutte le sorgenti che non comportano rischi per la salute e pertanto possono essere
tralasciate nell’ambito della valutazione dei rischi.
Queste sono:
Tutte le sorgenti intrinsecamente sicure:
• le sorgenti di radiazioni ottiche che, nelle usuali condizioni d’impiego, non danno luogo ad
esposizioni tali da presentare rischi per la salute e la sicurezza;
• le sorgenti che danno luogo ad emissioni accessibili insignificanti.
In caso di dubbi è possibile effettuare una semplice verifica con luxmetro calibrato.
96
Per alcune sorgenti vanno verificate le appropriate condizioni di uso per poter essere considerate
“innocue”, ad esempio:
• lampade fluorescenti da illuminazione di ambienti: sono innocue per le normali condizioni di
illuminamento negli ambienti di lavoro : ∼ 600 lux ;
• proiettori da tavolo: innocui se non si fissa il fascio;
• riflettori (alogenuri metallici od a mercurio): non rappresentano fonte di rischio se lo schermo
è integro in vetro e se questi non sono fissati direttamente (fascio non in linea con asse
visivo).
Sono “giustificabili” tutte le apparecchiature che emettono radiazione ottica non coerente
classificate nella categoria 0 secondo lo standard U.N.I. EN 12198:2009 così come le lampade ed
i sistemi di lampade, anche a LED, classificate nel gruppo “Esente” dalla norma C.E.I. EN
62471: 2009.
Se le sorgenti non sono giustificabili, la valutazione deve prendere in esame i dati tecnici forniti
dal fabbricante, comprese le classificazioni delle sorgenti o delle macchine secondo le norme
tecniche pertinenti.
Classificazione lampade
Le lampade ed i sistemi di lampade sono classificati in 4 gruppi secondo lo standard C.E.I. EN
62471: 2009.
Questa norma prevede metodi di misura e classificazione ed anche se non definisce vincoli
specifici per la marcatura, rappresenta attualmente lo stato dell’arte in termini di informazioni
sulla sicurezza fotobiologica delle lampade e dei sistemi di lampade (compresi i LED).
Gruppo
Stima del Rischio
Esente
Nessun rischio fotobiologico.
Gruppo 1
Nessun rischio fotobiologico nelle normali
condizioni di impiego.
Gruppo 2
Non presenta rischio in condizioni di riflesso
naturale di avversione alla luce o effetti
termici.
Gruppo 3
Pericoloso
anche
momentanee.
per
esposizioni
Macchine
Decreto Legislativo 27/01/2010 n.17 (Direttiva Macchine) prevede che se una macchina emette
radiazioni non ionizzanti (quindi comprese anche le R.O.A.) che possono nuocere all’operatore
od alle persone esposte, soprattutto se portatrici di dispositivi medici impiantati (per le R.O.A.: il
cristallino artificiale), il costruttore deve riportare nel manuale di istruzioni le relative
informazioni.
Qualora manchino norme specifiche di prodotto, la norma U.N.I. EN 12198: 2009 consente al
fabbricante di assegnare alla macchina una categoria in funzione del livello di emissione di
radiazioni secondo i valori riportati nell’Appendice B della suddetta norma.
Sono contemplate tre categorie di emissione, per le quali sono previste diverse misure di
protezione, informazione, addestramento:
a) categoria 0: nessuna restrizione, macchina intrinsecamente sicura ai fini dell’emissione
R.O.A.;
97
b) categoria 1: possono essere necessarie limitazioni d’accesso e misure di protezione; il
fabbricante deve fornire informazioni su pericoli e rischi anche indiretti;
c) categoria 2: richieste sempre restrizioni speciali e misure di protezione; il fabbricante ha
l’obbligo di fornire informazioni su pericoli e rischi anche indiretti e sull’addestramento
necessario ai fini dell’impiego sicuro.
5.4. Prevenzione e protezione
Misure tecniche ed organizzative adottate all’esito della valutazione
Scopo delle misure di tutela è quello di eliminare o ridurre al minimo tutti i rischi (diretti o
indiretti) per la salute e la sicurezza, derivanti dall’esposizione a radiazioni ottiche di livello
pericoloso ed eventuali altri rischi associati.
Il Decreto Legislativo 81/2008 richiede che vengano adottate specifiche azioni di prevenzione
solo qualora la valutazione evidenzi la possibilità di superamento dei V.L.E. (Valori Limite
Esposizione) oppure la sorveglianza sanitaria evidenzi alterazioni apprezzabili dello stato di
salute dei lavoratori correlata all’esposizione a R.O.A.
a) Sorgenti incoerenti
Oltre all’adozione delle misure di tutela previste dai manuali di istruzione delle attrezzature di
lavoro (macchine) marcate C.E., una volta verificata l’indispensabilità od insostituibilità della
sorgente o dell’attività – sorgente, per limitare o prevenire l’esposizione, si possono adottare
soluzioni tecniche e procedurali quali:
1. il contenimento della sorgente all’interno di ulteriori idonei alloggiamenti schermanti
completamente ciechi oppure di attenuazione nota, in relazione alle lunghezze d’onda di
interesse; ad esempio, la radiazione U.V. si può schermare con finestre di vetro o materiali
plastici trasparenti nel visibile;
2. l’adozione di schermi ciechi od inattinici a ridosso delle sorgenti (ad esempio: i normali
schermi che circondano le postazioni di saldatura, come da U.N.I. EN 1598: 2004);
3. la separazione fisica degli ambienti nelle quali si generano R.O.A. potenzialmente nocive
dalle postazioni di lavoro vicine;
4. l’impiego di automatismi (interblocchi) per disattivare le sorgenti R.O.A. potenzialmente
nocive (ad esempio: lampade germicide a raggi U.V.) sugli accessi ai locali nei quali
queste sono utilizzate;
5. la definizione di “zone ad accesso limitato”, contrassegnate da idonea segnaletica di
sicurezza, ove chiunque acceda deve essere informato e formato sui rischi di esposizione
alla radiazione emessa dalle sorgenti in esse contenute e sulle appropriate misure di
protezione, soluzione particolarmente utile per evitare esposizioni indebite, vale a dire di
lavoratori non direttamente coinvolti nelle operazioni con sorgenti R.O.A. potenzialmente
nocive, nonché esposizioni di soggetti particolarmente sensibili.
b) Apparati laser
La norma C.E.I. EN 60825 – 1 fissa le principali misure di tutela per l’installazione e
l’impiego dei laser e richiede, in funzione della classe dell’apparato laser, specifiche misure di
prevenzione, la cui opportunità deve essere valutata nel contesto specifico, quali:
1. schermare adeguatamente il fascio al termine del suo percorso utile;
2. trattare o proteggere le eventuali superfici riflettenti presenti sul percorso del fascio e per le
specifiche lunghezze d’onda al fine di evitarne la riflessione o la diffusione;
3. collegare i circuiti del locale o della porta ad un connettore di blocco remoto;
4. abilitazione dello strumento mediante comando a chiave, hardware o software;
5. inserimento di un attenuatore di fascio;
6. installare segnaletica di sicurezza e segnali di avvertimento sugli accessi alle aree o agli
involucri di protezione;
7. predisposizione di procedure per l’accesso in sicurezza alle aree a rischio (ad esempio:
evitare oggetti riflettenti introdotti dal personale).
98
Delimitazione Aree
Ai sensi dell’art. 217, comma 2, del Decreto Legislativo 81/2008 (ma anche dell’Allegato XXV,
punti 3.2 e 3.3, richiamati dall’art.163 dello stesso Decreto), è necessario delimitare le aree in cui
i lavoratori o le persone del pubblico possono essere esposti a tale rischio.
L’area va indicata tramite segnaletica e l’accesso alla
stessa va limitato laddove ciò sia tecnicamente possibile e
sussista un rischio di superamento dei valori limite di
esposizione.
Nel caso delle radiazioni ottiche incoerenti, mancando
Figura 10: Segnaletica di pericolo emissione
uno specifico cartello di avvertimento, si fornisce
radiazioni ottiche artificiali.
l’indicazione di utilizzare quello previsto per la marcatura
delle macchine che emettono R.O.A. non coerenti ai sensi
della norma EN 12198, come riportato in figura 10.
Nel caso in cui all’interno dell’area sia necessario
l’utilizzo di D.P.I., quali ad esempio gli occhiali,
all’ingresso deve essere esposto l’apposito segnale di
Figura 11: Obbligo di uso di DPI oculari.
prescrizione, ad esempio quello indicato nella Figura 11.
Nel caso di radiazione laser la segnaletica di
identificazione della presenza di Zona Laser Controllata
(Z.L.C.) si trova nella norma C.E.I. EN 60825-1: 2009 in
cui si richiede che agli accessi delle aree che contengono
apparecchi laser di Classe 3B e Classe 4 siano affissi
segnali di avvertimento indicanti la presenza di un laser
con indicata la classe di appartenenza (cfr. figura 12).
Nel caso in cui all’interno della Z.L.C. sia necessario
l’utilizzo di D.P.I., quali ad esempio gli occhiali,
all’ingresso deve essere esposto l’apposito segnale di
prescrizione che nell’esempio fatto è ancora quello
indicato nella Figura 11.
Figura 12: pittogramma del laser.
Nel caso di un’area in cui siano presenti una o più
sorgenti laser, l’area, secondo la norma C.E.I. EN 60825
Figura 13: eventuale ulteriore targhetta per
– 1, viene suddivisa in “Zone” come di seguito indicato:
i Laser.
1. Zona Laser Controllata (Z.L.C.): zona dove la
presenza e l’attività delle persone al suo interno sono regolate da apposite procedure di
controllo al fine della protezione dai rischi da radiazione;
2. Zona Nominale Rischio Oculare (Z.N.R.O.): zona all’interno della quale l’irradiamento o
l’esposizione energetica del fascio supera l’esposizione massima permessa (E.M.P.) per la
cornea; essa include la possibilità di errato puntamento accidentale del fascio laser.
Se la Z.N.R.O. comprende la possibilità di visione assistita otticamente, viene detta “Z.N.R.O.
estesa”.
La Z.N.R.O. è inclusa all’interno della Z.L.C.
Se l’area è delimitata da pareti fisiche di qualsiasi natura che risultano una barriera per la
radiazione laser, eventualmente incidente, la Z.L.C può coincidere con la superficie individuata
da tali pareti.
Nel caso di un’area non delimitata da pareti fisiche, deve essere implementato un accesso
regolamentato all’interno della Z.L.C. e della Z.N.R.O.
99
Dispositivi di Protezione Individuale (D.P.I.)
Al fine di proteggere i lavoratori dai rischi che possono provocare danni agli occhi ed al viso,
una volta identificati e valutati i rischi ed adottate tutte le misure concretamente attuabili per la
loro eliminazione o riduzione, il datore di lavoro ha l’obbligo di adottare anche i dispositivi di
protezione degli occhi e del viso più efficaci per contrastare i tipi di rischio presenti.
Per la protezione di occhi e viso si utilizzano occhiali (con oculare doppio o singolo), maschere
(del tipo a scatola od a coppa) e ripari facciali (per saldatura od altro uso).
I rischi per gli occhi ed il viso riscontrabili in ambiente di lavoro possono essere suddivisi in
rischi meccanici ed elettrici, rischi chimici e biologici e rischi da radiazioni.
a. Radiazioni ottiche incoerenti
I D.P.I. destinati a prevenire gli effetti acuti e cronici delle radiazioni sull’occhio devono poter
assorbire la maggior parte dell’energia irradiata nelle lunghezze d’onda nocive.
Non devono alterare in modo eccessivo la trasmissione della parte non nociva dello spettro
visibile, la percezione dei contrasti e la distinzione dei colori qualora le condizioni prevedibili
d’impiego lo richiedano.
Le lenti inoltre non devono deteriorarsi o perdere le loro proprietà per effetto
dell’irraggiamento emesso in normali condizioni di impiego.
Tutti i dispositivi di protezione degli occhi e del viso da radiazioni ottiche appartengono
almeno alla II Categoria del Decreto Legislativo 475/92 e pertanto comportano l’obbligo di
una formazione specifica all’uso.
I dispositivi di protezione degli occhi e del viso, oltre alla marcatura C.E., devono avere
obbligatoriamente la marcatura specifica sia dell’oculare sia della montatura, entrambe
rappresentate da una sequenza orizzontale di lettere e numeri che stanno ad indicare le
capacità protettive e le caratteristiche delle due parti del dispositivo.
La nota informativa che accompagna il D.P.I. contiene le spiegazioni che permettono di
interpretare il significato della marcatura e si rivela particolarmente utile poiché la marcatura
utilizza diversi codici alfanumerici stabiliti dalle norme tecniche specifiche.
L’oculare presenta un codice alfanumerico prima del marchio di identificazione del
fabbricante che, se funzionale alla riduzione dell’esposizione a radiazioni ottiche incoerenti,
nella prima posizione presenta un numero di scala che identifica il tipo di protezione da
radiazioni luminose.
Il numero di scala è una combinazione di un numero di codice, che identifica la regione
spettrale per la quale i filtri sono destinati ed un numero di graduazione, che rappresenta la
capacità del filtro di trattenere la radiazione incidente pericolosa, staccati da un trattino.
Se compare un solo numero si deve intendere che si tratta di un protettore per saldatura (i
relativi filtri non hanno infatti uno specifico numero di codice) ed il singolo numero
identificherà direttamente la graduazione.
Occorre infine ricordare che la protezione complessiva del lavoratore si avvale spesso di
D.P.I. che non riguardano solo la protezione di occhi e volto.
Ad esempio, nelle lavorazioni che comportano l’esposizione dell’operatore alle radiazioni
emesse da archi elettrici, torce al plasma, etc. (radiazione UV, visibile ed infrarossa) la
protezione si attua prescrivendo al lavoratore di utilizzare, oltre alle maschere munite di
idonei filtri od agli elmetti provvisti di filtri elettronici a cristalli liquidi, i guanti da saldatore
ed indumenti resistenti al calore (ad esempio: grembiule).
Per inciso occorre anche che nell’ambiente dove si lavora con tali protezioni il microclima sia
regolato di conseguenza.
b. Radiazioni laser
I protettori oculari per radiazioni laser specifiche devono essere utilizzati in tutte le zone
pericolose dove sono in funzione laser della classe 3B o 4.
La norma europea U.N.I. EN 207 descrive i requisiti cui i filtri laser devono rispondere ed
elenca i livelli protettivi possibili, indicati da un numero di graduazione espresso con il
100
simbolo L, seguito da un numero variabile da 1 a 10.
Per ogni livello protettivo sono indicati il fattore spettrale massimo di trasmissione per
lunghezza d’onda, nonché le densità di potenza e/o di energia utilizzata per i test di prova; tali
test vengono eseguiti per le varie tipologie di laser (ad ondacontinua, pulsata, ad impulsi
giganti e ad impulsi a modo accoppiato), ognuna contraddistinta da una lettera identificativa
(rispettivamente D, I, R ed M).
Per calcolare il livello protettivo necessario ad un determinato laser, la norma tecnica sopra
citata fornisce le formule necessarie ed una tabella di riferimento (riportata in Allegato 6 –
Tabella A6 – G) per poter eseguire gli opportuni calcoli; in alternativa, si consiglia di far
riferimento ai fabbricanti di occhiali antilaser, fornendo tutte le caratteristiche del laser da cui
ci si deve proteggere.
Oltre al livello protettivo, ai fini della scelta del dispositivo idoneo, è necessario prendere in
considerazione anche:
la trasmissione luminosa per avere la visione più nitida possibile;
il riconoscimento dei colori;
il campo visivo che deve essere il più vasto possibile.
Inoltre i protettori degli occhi devono restare aderenti al volto, permettendo comunque una
ventilazione sufficiente per evitare l’appannamento.
La montatura ed i ripari laterali devono dare una protezione equivalente a quella assicurata
dalle lenti.
È comunque opportuno precisare che, anche indossando un occhiale protettivo, non si deve
per nessun motivo fissare il raggio; i test di prova effettuati sugli occhiali prevedono una
resistenza dell’occhiale stesso per un periodo di almeno 10 secondi e per 100 impulsi.
Per quanto riguarda le operazioni di puntamento ed allineamento del raggio laser esistono
delle protezioni specifiche i cui requisiti sono specificati in un’altra norma tecnica, la U.N.I.
EN 208.
Si tratta di occhiali che proteggono durante la regolazione di laser, con emissione nel campo
spettrale visibile nel range 400 ÷ 700 nm , in cui il raggio è visibile.
Anche in questo caso, i filtri certificati secondo la norma appena citata non devono essere
utilizzati per guardare direttamente nel raggio, ma solo per la protezione da impatto
accidentale.
La stessa norma, come sempre, prevede una scala di protezioni: nella marcatura apposta
sull’occhiale il livello protettivo è contrassegnato dalla lettera R, seguita da un numero di
graduazione variabile nel range 1 ÷ 5 .
Sorveglianza Sanitaria
Premesso che in ogni caso deve essere previsto un tempestivo controllo del medico competente
ove si fosse riscontrata un’esposizione superiore ai valori limite, in considerazione del fatto che
la sorveglianza sanitaria di cui all’art. 218 del Decreto Legislativo 81/08 è effettuata con lo
scopo di prevenire tutti gli effetti dannosi derivanti dall’esposizione, appare logico attivare gli
accertamenti sanitari preventivi e periodici certamente per quei lavoratori che, sulla base dei
risultati della valutazione del rischio, debbano indossare D.P.I. di protezione degli occhi o della
pelle in quanto altrimenti potrebbero risultare esposti a livelli superiori ai valori limite di Legge
(nonostante siano state adottate tutte le necessarie misure tecniche di prevenzione, mezzi di
protezione collettiva nonché misure, metodi o procedimenti di riorganizzazione del lavoro).
Con specifico riferimento alla radiazione ultravioletta ed alla luce blu, possono essere messi in
atto interventi mirati di sorveglianza sanitaria finalizzata alla prevenzione dei danni a lungo
termine quando le esposizioni, anche se inferiori ai valori limite, si possono protrarre nel tempo
(mesi, anni). La sorveglianza sanitaria è di norma annuale.
Per quanto riguarda i soggetti particolarmente sensibili, che potrebbero essere esposti ad un
101
rischio significativo anche a valori inferiori ai limiti di Legge, saranno individuate dal medico
competente la periodicità dei controlli sanitari e le misure protettive specifiche da mettere in atto
in relazione alla tipologia ed entità dell’esposizione ed alle condizioni di suscettibilità
individuale emerse dal controllo sanitario.
5.5. Soggetti particolarmente sensibili al rischio
Viene di seguito fornito un elenco, da ritenersi non esaustivo, di soggetti particolarmente sensibili
(ove non diversamente specificato si intende a tutto lo spettro ottico):
donne in gravidanza: per quanto disposto agli artt. 28 e 183 del Decreto Legislativo 81/08
nonché all’art. 11 del Decreto Legislativo 151/01, in assenza di sicure informazioni reperibili
nella letteratura scientifica, sarà cura del medico competente valutare l’eventuale adozione di
cautele specifiche. Particolare attenzione va riservata alla possibile azione sinergica di condizioni
microclimatiche ed I.R.: per esempio nel caso di lavoratrici operanti in prossimità di forni;
minorenni: in assenza di sicure informazioni reperibili nella letteratura scientifica, sarà cura del
medico competente valutare l’eventuale adozione di cautele specifiche.
Si ricorda comunque che la legislazione vieta di adibire gli adolescenti – ad eccezione dei casi
derogati dalla competente Direzione Provinciale del Lavoro – alle lavorazioni, ai processi ed ai
lavori quali le lavorazioni nelle fonderie, la produzione dei metalli ferrosi, e non ferrosi e loro
leghe, la saldatura ed il taglio dei metalli con arco elettrico o con fiamma ossidrica o
ossiacetilenica, che possono comportare esposizioni considerevoli a R.O.A.;
albini ed individui di fototipo 1 per esposizione a radiazioni U.V.;
i portatori di malattie del collagene (Sclerodermia e Lupus Eritematoso nelle sue varie forme,
dermatomiosite, poliartrite nodosa, sindrome di Wegener, sindrome antifosfolipidi, etc.) per
esposizioni a radiazioni U.V.;
i soggetti in trattamento cronico o ciclico con farmaci fotosensibilizzanti (quali ad esempio:
antibiotici come le tetracicline ed i fluorochinolonici; antinfiammatori non steroidei come
l’ibuprofene ed il naprossene; diuretici come la furosemide; ipoglicemizzanti come la
sulfonilurea; psoraleni; acido retinoico; acido aminolevulinico, neurolettici come le fenotiazine;
antiaritmici come l’amiodarone);
i soggetti affetti da alterazioni dell’iride (colobomi, aniridie) e della pupilla (midriasi, pupilla
tonica);
i soggetti portatori di drusen (corpi colloidi) per esposizioni a luce blu;
lavoratori che abbiano lesioni cutanee maligne o pre – maligne, per esposizioni a radiazioni
U.V.;
lavoratori affetti da patologie cutanee fotoindotte o fotoaggravate, per esposizioni a radiazioni
U.V. ed I.R.;
lavoratori affetti da xeroderma pigmentosus, per esposizioni a radiazioni UV;
soggetti epilettici per esposizioni a luce visibile di tipo intermittente, cioè tra i 15 e i 25 flash al
secondo.
Ai fini della sorveglianza sanitaria devono essere cautelativamente considerati particolarmente
sensibili al danno retinico di natura fotochimica i lavoratori che hanno subito un impianto I.O.L.
(Intra Ocular Lens; “cristallino artificiale”), in particolare se esposti a radiazioni nel range
300 ÷ 550 nm .
5.6. Informazione e Formazione
L’informazione e la formazione dei lavoratori professionalmente esposti a R.O.A. devono sempre
comprendere:
descrizione del tipo di R.O.A. utilizzate nel lavoro in oggetto;
definizione, entità e significato dei valori limite di esposizione alle R.O.A. utilizzate;
rischi per la salute e la sicurezza che possono derivare dall’esposizione alle R.O.A., con
102
particolare riguardo a quelli sugli occhi e sulla cute;
controindicazioni specifiche all’esposizione, e condizioni di salute che classificano un lavoratore
come particolarmente sensibile, ad esempio presenza di lesioni oculari, alla pelle, etc.;
risultati della valutazione e/o misurazione e/o calcolo dei livelli di esposizione alle R.O.A.;
circostanze nelle quali i lavoratori hanno diritto ad una sorveglianza sanitaria ed obiettivi della
stessa;
modalità per individuare e segnalare gli effetti negativi per la salute derivanti dall’esposizione
alle R.O.A.;
risultati anonimi e collettivi della sorveglianza sanitaria sugli effetti delle R.O.A.;
misure di protezione e prevenzione adottate per eliminare o ridurre al minimo i rischi derivanti
dalle R.O.A., quali:
a) uso corretto delle attrezzature;
b) uso corretto dei dispositivi di prevenzione collettiva (ad esempio: schermature);
c) procedure di lavoro corrette;
d) quando e come indossare correttamente i D.P.I. e relative indicazioni e controindicazioni
sanitarie all’uso;
conoscenza della segnaletica relativa alle R.O.A.e criteri utilizzati per la sua collocazione.
103
9. Esposizione ad agenti chimici
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, TITOLO IX, CAPO I artt. da 221 a 233)
Premessa
L’impiego di sostanze pericolose, nei diversi comparti lavorativi, coinvolge figure professionali
diverse, con preparazione non sempre specifica.
Gli agenti chimici possono essere fonte di pericolo, ed i relativi rischi devono essere controllati da
opportune misure preventive e protettive per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori
coinvolti.
Gli effetti sulla salute, che possono realizzarsi a seguito di eventi espositivi sono numerosi e
dipendono sia dalla tipologia di agente chimico con il quale si viene in contatto, sia dalle specifiche
condizioni di esposizione che si realizzano.
Lavorare con sostanze chimiche rende necessario e doveroso effettuare una valutazione del rischio
chimico che sia effettivamente rappresentativa delle condizioni di lavoro e che contenga tutte le
informazioni richieste dalla normativa vigente.
1. Rischio chimico
Il rischio chimico, in ambiente di lavoro, è riconducibile all’insieme dei rischi per la sicurezza e per
la salute, connessi con la presenza, nell’ambito dello svolgimento delle lavorazioni, di “agenti
chimici pericolosi”.
Per Agenti Chimici Pericolosi si intendono le sostanze ed i preparati che, in base alle loro
caratteristiche chimiche, chimico − fisiche, e tossicologiche, sono classificati nelle categorie di
pericolo di cui al Decreto Legislativo 52/97 ed al Decreto Legislativo 285/98 e s.m., o che rientrano,
comunque, nei criteri di classificazioni ivi previsti.
Il rischio chimico risulta quindi il rischio connesso all’uso professionale di sostanze o preparati,
impiegati nei cicli di lavoro, che possono essere intrinsecamente pericolosi o divenire tali in
relazione alle condizioni di impiego.
I prodotti chimici possono essere presenti negli ambienti di lavoro in seguito ad accadimento
accidentale (cedimento, perdita, anomalia impiantistica, esplosione od incendio, reazione anomala o
traboccamento) od in situazione di normale svolgimento dell’attività (evaporazione, contatto,
dispersione, abrasione, sintesi, etc.).
Il rischio chimico si configura come:
rischi per la sicurezza (rischi infortunistici): incendi, esplosioni, contatto con sostanze aggressive
e/o corrosive (ustioni chimiche, corrosione di materiali e degrado di impianti, etc.);
rischi per la salute (rischi igienico – ambientali): esposizioni a sostanze tossiche e/o nocive e, se
assorbite, con potenziale compromissione dell’equilibrio biologico (intossicazione o malattie
professionali).
2. Definizioni connesse con il rischio chimico
Agente chimico
Per “agenti chimici” si intendono tutti gli elementi o composti chimici, sia da soli sia nei loro
miscugli, allo stato naturale od ottenuti, utilizzati o smaltiti, compreso lo smaltimento come rifiuti,
mediante qualsiasi attività lavorativa, siano essi prodotti intenzionalmente o no e siano immessi o
no sul mercato (art. 222 Decreto Legislativo 81/08).
Agente chimico pericoloso
La Direttiva CE, n. 98/24 inizialmente recepita in Italia con il Decreto Legislativo 25/2002, è oggi
inserita nel Titolo IX, Capo I, “protezione da agenti chimici“ all’interno del Decreto Legislativo
81/08.
La norma determina i requisiti minimi per la protezione dei lavoratori contro i rischi per la salute e
104
la sicurezza che derivano, o possono derivare, dagli effetti di agenti chimici, presenti sul luogo di
lavoro, o come risultato di ogni attività lavorativa che comporti la presenza di quest’ultimi.
A tal fine per agenti chimici pericolosi si intendono:
1. agenti chimici classificati come sostanze pericolose ai sensi del Decreto Legislativo del 3
febbraio 1997, n. 52, e successive modificazioni, nonché gli agenti che corrispondono ai criteri
di classificazione come sostanze pericolose di cui al predetto Decreto.
Sono escluse le sostanze pericolose solo per l’ambiente.
2. agenti chimici classificati come preparati pericolosi ai sensi del Decreto Legislativo del 14 marzo
2003, n. 65, e successive modificazioni, nonché gli agenti che rispondono ai criteri di
classificazione come preparati pericolosi di cui al predetto Decreto.
Sono esclusi i preparati pericolosi solo per l’ambiente.
3. agenti chimici che, pur non essendo classificabili come pericolosi, in base ai numeri 1) e 2),
possono comportare un rischio per la sicurezza e la salute dei lavoratori, a causa di loro proprietà
chimico – fisiche, chimiche o tossicologiche e del modo in cui sono utilizzati o presenti sul luogo
di lavoro, compresi gli agenti chimici cui è stato assegnato un valore limite di esposizione
professionale.
3. Pericolosità delle sostanze chimiche
3.1. Classi di pericolosità
La classificazione viene assegnata sulla base delle definizioni e dei test normati e periodicamente
aggiornati a livello comunitario.
PERICOLOSI PER LA SICUREZZA (CHIMICO – FISICI)
Esplosivi: Le sostanze ed i preparati solidi, liquidi, pastosi o gelatinosi che, anche senza l’azione
dell’ossigeno atmosferico, possono provocare una reazione esotermica con rapida formazione di
gas e che, in determinate condizioni di prova, detonano, deflagrano rapidamente od esplodono in
seguito a riscaldamento in condizione di parziale contenimento.
Le principali frasi di rischio sono R2 ed R3.
Comburenti: Le sostanze ed i preparati che a contatto con altre sostanze, soprattutto se
infiammabili, provocano una forte reazione esotermica.
Le principali frasi di rischio sono R7 ed R8.
Estremamente infiammabili: Le sostanze ed i preparati liquidi con il punto di infiammabilità
estremamente basso ed un punto di ebollizione basso e le sostanze ed i preparati gassosi che a
temperatura e pressione ambiente si infiammano a contatto con l’aria.
La principale frase di rischio è R12.
Facilmente infiammabili:
Le sostanze ed i preparati che, a contatto con l’aria, a temperatura ambiente e senza apporto di
energia, possono subire innalzamenti termici e da ultimo infiammarsi;
Le sostanze ed i preparati solidi che possono facilmente infiammarsi dopo un breve contatto
con una sorgente di accensione e che continuano a bruciare o a consumarsi anche dopo il
distacco della sorgente di accensione;
Le sostanze ed i preparati liquidi il cui punto d’infiammabilità è molto basso;
Le sostanze ed i preparati che, a contatto con l’acqua o l’aria umida, sprigionano gas
estremamente infiammabili in quantità pericolose.
Le principali frasi di rischio sono R11, R15, R17.
Infiammabili (R10 – xilene): Le sostanze ed i preparati liquidi con un basso punto di
infiammabilità.
La principale frase di rischio è R10.
105
PERICOLOSI PER LA SALUTE (TOSSICOLOGICI)
Molto tossici: Le sostanze ed i preparati che, in caso di inalazione, ingestione od assorbimento
cutaneo, in piccolissime quantità, possono essere letali oppure provocare lesioni acute o
croniche.
Le principali frasi di rischio sono R26, R27, R28, R39.
Tossici Le sostanze ed i preparati che, in caso di inalazione, ingestione od assorbimento cutaneo,
in piccole quantità, possono essere letali oppure provocare lesioni acute o croniche.
Le principali frasi di rischio sono R23, R24, R25, R39, R48.
Nocivi Le sostanze ed i preparati che, in caso di inalazione, ingestione od assorbimento cutaneo,
possono essere letali oppure provocare lesioni acute o croniche.
Le principali frasi di rischio sono R20, R21, R22, R48, R65.
Corrosivi Le sostanze ed i preparati che, a contatto con i tessuti vivi, possono esercitare su di
essi un’azione distruttiva.
Principali frasi di rischio sono R34 ed R35.
Irritanti Le sostanze ed i preparati non corrosivi, il cui contatto diretto, prolungato o ripetuto
con la pelle o le mucose può provocare una reazione infiammatoria.
Le principali frasi di rischio sono R37, R38, R39, R41.
Sensibilizzanti Le sostanze ed i preparati che, per inalazione od assorbimento cutaneo, possono
dar luogo ad una reazione di ipersensibilizzazione per cui una successiva esposizione alla
sostanza o al preparato produce reazioni di avverse caratteristiche.
Le principali frasi di rischio sono R42, R43.
Cancerogeni: Agenti chimici, fisici o biologici in grado di alterare il materiale genetico di una
cellula, rendendola capace di sviluppare un tumore in seguito ad un’esposizione più o meno
prolungata nel tempo.
Si distinguono tre categorie:
categoria 1: sostanze note per gli effetti cancerogeni sull’uomo; le principali frasi di rischio
sono R45, R49;
categoria 2: sostanze che dovrebbero considerarsi cancerogene per l’uomo; le principali frasi
di rischio sono R45, R49;
categoria 3: sostanze da considerarsi con sospetto per i possibili effetti cancerogeni sull’uomo
per le quali tuttavia le informazioni disponibili non sono sufficienti per procedere ad una
valutazione soddisfacente; la principale frase di rischio è R40.
Mutageni: Le sostanze ed i preparati che, per inalazione, ingestione od assorbimento cutaneo,
possono produrre difetti genetici ereditari od aumentarne la frequenza.
Principali frasi di rischio:
categoria 1: sostanze di cui si conoscono gli effetti mutageni sull’uomo, R46;
categoria 2: sostanze che dovrebbero essere considerate mutagene per l’uomo, R46;
categoria 3: sostanze da considerare con sospetto per i loro possibili effetti mutageni, R68.
Tossici per il ciclo riproduttivo: Le sostanze ed i preparati che, per inalazione, ingestione od
assorbimento cutaneo, possono provocare o rendere più frequenti effetti nocivi non ereditari
nella prole o danni a carico della funzione o delle capacità riproduttive maschili o femminili.
Si distinguono tre categorie:
categoria 1:
a) sostanze che danneggiano la fertilità negli esseri umani;
b) sostanze con effetti tossici sullo sviluppo umano;
Le principali frasi di rischio sono R60, R61.
categoria 2:
a) sostanze che dovrebbero essere considerate in grado di danneggiare la fertilità negli esseri
umani;
b) sostanze che dovrebbero essere considerate in grado di provocare effetti tossici sullo
sviluppo umano.
106
Le principali frasi di rischio sono R60, R61;
categoria 3:
a) sostanze che potrebbero avere effetti sulla fertilità umana;
b) sostanze che potrebbero produrre alterazioni negli esseri umani a causa dei loro probabili
effetti tossici sullo sviluppo.
Le principali frasi di rischio sono R62, R63.
PERICOLOSI PER L’AMBIENTE
Le sostanze ed i preparati che qualora si diffondano nell’ambiente, presentano o possono presentare
rischi immediati, differiti per una o più delle componenti ambientali.
3.2. Frasi di rischio (frasi R ed H)
Le frasi R
Sono chiamate frasi R (frasi di rischio) alcune frasi convenzionali, oggi abrogate, che descrivevano
i rischi per la salute umana, animale ed ambientale connessi alla manipolazione di sostanze
chimiche.
Queste frasi erano state codificate dall’Unione Europea nella Direttiva 88/379/C.E.E., sostituita
dalla Direttiva 1999/45/C.E.E. a sua volta modificata dalla Direttiva 2001/60/C.E.E.
La normativa prevedeva che ogni confezione di prodotto chimico recasse sulla propria etichetta le
frasi R e le frasi S corrispondenti al prodotto chimico ivi contenuto.
Ad ogni frase era associato un codice univoco composto dalla lettera R seguita da un numero, e ad
ogni codice corrispondevano le diverse traduzioni della frase in ogni lingua ufficiale dell’Unione
Europea.
In seguito la Direttiva 1999/45/C.E.E. è stata abrogata dal Regolamento C.E. n. 1272/2008, che ha
sostituito le frasi R con le frasi H.
Elenco delle frasi R
R 1 Esplosivo allo stato secco;
R 2 Rischio di esplosione per urto, sfregamento, fuoco od altre sorgenti d’ignizione;
R 3 Grande rischio d’esplosione per urto, attrito, in presenza di fuoco od altre fonti
d’infiammazione;
R 4 Forma dei composti metallici esplosivi molto sensibili;
R 5 Rischio d’esplosione in presenza di calore;
R 6 Rischio d’esplosione a contatto o meno con l’aria;
R 7 Può provocare incendio;
R 8 Favorisce l’infiammazione di sostanze combustibili;
R 9 Può esplodere reagendo con sostanze combustibili;
R 10 Infiammabile;
R 11 Facilmente infiammabile;
R 12 Estremamente infiammabile;
R 13 Gas liquefatto estremamente infiammabile;
R 14 Reagisce violentemente a contatto con l’acqua;
R 15 A contatto con l’acqua sviluppa gas molto infiammabili;
R 16 Può esplodere componendosi con sostanze comburenti;
R 17 Infiammabile spontaneamente in presenza di aria;
R 18 Con l’uso, formazione possibile di miscela vapore/aria infiammabile/esplosivi;
R 19 Può formare perossidi esplosivi;
R 20 Nocivo per inalazione;
R 21 Nocivo a contatto con la pelle;
R 22 Nocivo in caso di ingestione;
R 23 Tossico per inalazione;
107
R 24
R 25
R 26
R 27
R 28
R 29
R 30
R 31
R 32
R 33
R 34
R 35
R 36
R 37
R 38
R 39
R 40
R 41
R 42
R 43
R 44
R 45
R 46
R 47
R 48
R 49
R 50
R 51
R 52
R 53
R 54
R 55
R 56
R 57
R 58
R 59
R 60
R 61
R 62
R 63
R 64
R 65
R 66
R 67
R 68
Tossico a contatto con la pelle;
Tossico in caso d’ingestione;
Molto tossico per inalazione;
Molto tossico a contatto con la pelle;
Molto tossico in caso d’ingestione;
A contatto con l’acqua sviluppa gas tossici;
Può diventare molto infiammabile in esercizio;
A contatto con un acido sviluppa gas tossico;
A contatto con un acido sviluppa gas molto tossico;
Pericolo di effetti cumulati;
Provoca ustioni;
Provoca gravi ustioni;
Irritante per gli occhi;
Irritante per le vie respiratorie;
Irritante per la pelle;
Pericolo di effetti irreversibili molto gravi;
Possibilità di effetti cancerogeni – Prove insufficienti;
Rischio di lesioni oculari gravi;
Può causare sensibilizzazione per inalazione;
Può causare sensibilizzazione a contatto con la pelle;
Rischio d’esplosione se riscaldato in ambiente chiuso;
Può provocare il cancro;
Può provocare alterazioni genetiche ereditarie;
Può procurare malformazioni congenite;
Rischio di effetti gravi per la salute in caso di esposizione prolungata;
Può provocare il cancro per inalazione;
Altamente tossico per gli organismi acquatici;
Tossico per gli organismi acquatici;
Nocivo per gli organismi acquatici;
Può provocare a lungo termine effetti negativi per l’ambiente acquatico;
Tossico per la flora;
Tossico per la fauna;
Tossico per gli organismi del terreno;
Tossico per le api;
Può provocare a lungo termine effetti negativi per l’ambiente;
Pericoloso per lo strato di ozono;
Può ridurre la fertilità;
Può danneggiare i bambini non ancora nati;
Possibile rischio di ridotta fertilità;
Possibile rischio di danni ai bambini non ancora nati;
Possibile rischio per i bambini allattati al seno;
Nocivo: può causare danni ai polmoni in caso di ingestione;
L’esposizione ai vapori può provocare secchezza e screpolature alla pelle;
L’inalazione dei vapori può provocare sonnolenza e vertigini;
Possibilità di effetti irreversibili.
108
Elenco delle possibili combinazioni di frasi
Reagisce violentemente con l’acqua liberando gas infiammabili;
R 14/15
A contatto con l’acqua libera gas tossici e facilmente infiammabili;
R 15/29
Nocivo per inalazione e contatto con la pelle;
R 20/21
Nocivo a contatto con la pelle e per ingestione;
R 21/22
Nocivo per inalazione ed ingestione;
R 20/22
Nocivo per inalazione, ingestione e contatto con la pelle;
R 20/21/22
Tossico per inalazione e contatto con la pelle;
R 23/24
Tossico a contatto con la pelle e per ingestione;
R 24/25
Tossico per inalazione ed ingestione;
R 23/25
Tossico per inalazione, ingestione e contatto con la pelle;
R 23/24/25
Altamente tossico per inalazione e contatto con la pelle;
R 26/27
Molto tossico per inalazione e per ingestione;
R 26/28
Altamente tossico a contatto con la pelle e per ingestione;
R 27/28
Altamente tossico per ingestione, inalazione e contatto con la pelle;
R 26/27/28
Irritante per gli occhi e le vie respiratorie;
R 36/37
Irritante per le vie respiratorie e la pelle;
R 37/38
Irritante per gli occhi e la pelle;
R 36/38
Irritante per gli occhi, le vie respiratorie e la pelle;
R 36/37/38
Tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi per inalazione;
R 39/23
Tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi a contatto con la pelle;
R 39/24
Tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi per ingestione;
R 39/25
Tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi per inalazione ed a contatto
R 39/23/24
con la pelle;
Tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi per inalazione ed ingestione;
R 39/23/25
Tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi a contatto con la pelle e per
R 39/24/25
ingestione;
Tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi per inalazione, ingestione e
R 39/23/24/25
contatto con la pelle;
Molto tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi per inalazione;
R 39/26
Molto tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi a contatto con la pelle;
R 39/27
Molto tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi per ingestione;
R 39/28
Molto tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi per inalazione ed a
R 39/26/27
contatto con la pelle;
Molto tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi per inalazione e per
R 39/26/28
ingestione;
Molto tossico, pericolo di effetti irreversibili molto gravi per inalazione, a
R 39/26/27/28
contatto con la pelle e per ingestione;
Può provocare sensibilizzazione per inalazione ed a contatto con la pelle;
R 42/43
Nocivo, pericolo di gravi danni per la salute in caso di esposizione prolungata
R 48/20
per inalazione;
Nocivo, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata a
R 48/21
contatto con la pelle;
Nocivo, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata per
R 48/22
ingestione;
Nocivo, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata per
R 48/20/21
inalazione ed a contatto con la pelle;
Nocivo, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata per
R 48/20/22
inalazione ed ingestione;
Nocivo, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata a
R 48/21/22
contatto con la pelle e per ingestione;
109
R 48/20/21/22
R 48/23
R 48/24
R 48/25
R 48/23/24
R 48/23/25
R 48/24/25
R 48/23/24/25
R 50/53
R 51/53
R 52/53
R 68/20
R 68/21
R 68/22
R 68/20/21
R 68/20/22
R 68/21/22
R 68/20/21/22
Nocivo, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata per
inalazione, a contatto con la pelle e per ingestione;
Tossico, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata per
inalazione;
Tossico, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata a
contatto con la pelle;
Tossico, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata per
ingestione;
Tossico, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata per
inalazione ed a contatto con la pelle;
Tossico, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata per
inalazione e per ingestione;
Tossico, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata a
contatto con la pelle e per ingestione;
Tossico, pericolo di gravi danni alla salute in caso di esposizione prolungata per
inalazione, a contatto con la pelle e per ingestione;
Altamente tossico per gli organismi acquatici, può provocare a lungo termine
effetti negativi per l’ambiente acquatico;
Tossico per gli organismi acquatici, può provocare a lungo termine effetti
negativi per l’ambiente acquatico;
Nocivo per gli organismi acquatici, può provocare a lungo termine effetti
negativi per l’ambiente acquatico;
Nocivo, possibilità di effetti irreversibili per inalazione;
Nocivo, possibilità di effetti irreversibili a contatto con la pelle;
Nocivo, possibilità di effetti irreversibili per ingestione;
Nocivo, possibilità di effetti irreversibili per inalazione ed a contatto con la pelle;
Nocivo, possibilità di effetti irreversibili per inalazione ed ingestione;
Nocivo, possibilità di effetti irreversibili a contatto con la pelle e per ingestione;
Nocivo, possibilità di effetti irreversibili per inalazione, a contatto con la pelle e
per ingestione.
Frasi H
Le frasi H (Hazard statements), contenute all’interno del Regolamento C.E. n. 1272/2008,
rappresentano indicazioni di pericolo relative a sostanze chimiche.
In Italia l’Istituto Superiore di Sanità ha fatto sue queste indicazioni, redistribuendole in sue
pubblicazioni.
Le frasi H hanno sostituito le più vecchie frasi R, oggi abrogate.
Pericoli fisici
Esplosivo instabile;
H200
Esplosivo: pericolo di esplosione di massa;
H201
Esplosivo: grave pericolo di proiezione;
H202
Esplosivo: pericolo di incendio, di spostamento d’aria o di proiezione;
H203
Pericolo di incendio o di proiezione;
H204
Pericolo di esplosione di massa in caso d’incendio;
H205
Gas altamente infiammabile;
H220
Gas infiammabile;
H221
Aerosol altamente infiammabile;
H222
Aerosol infiammabile;
H223
Liquido e vapori altamente infiammabili;
H224
Liquido e vapori facilmente infiammabili;
H225
110
H226
H227
H228
H229
H230
H231
H240
H241
H242
H250
H251
H252
H260
H261
H270
H271
H272
H280
H281
H290
Liquido e vapori infiammabili;
Liquido combustibile;
Solido infiammabile;
Recipiente sotto pressione: può esplodere per riscaldamento;
Può scoppiare anche in assenza di aria;
Può scoppiare anche in assenza di aria, ad elevata pressione e/o temperatura;
Rischio di esplosione per riscaldamento;
Rischio d’incendio o di esplosione per riscaldamento;
Rischio d’incendio per riscaldamento;
Spontaneamente infiammabile all’aria;
Autoriscaldante: può infiammarsi;
Autoriscaldante in grandi quantità: può infiammarsi;
A contatto con l’acqua libera gas infiammabili che possono infiammarsi spontaneamente;
A contatto con l’acqua libera gas infiammabili;
Può provocare od aggravare un incendio: comburente;
Può provocare un incendio od un’esplosione: molto comburente;
Può aggravare un incendio: comburente;
Contiene gas sotto pressione: può esplodere se riscaldato;
Contiene gas refrigerato: può provocare ustioni o lesioni criogeniche;
Può essere corrosivo per i metalli.
Pericoli per la salute
Letale se ingerito;
H300
Tossico se ingerito;
H301
Nocivo se ingerito;
H302
Può essere nocivo in caso di ingestione;
H303
Può essere letale in caso di ingestione e di penetrazione nelle vie respiratorie;
H304
Può essere nocivo in caso di ingestione e di penetrazione nelle vie respiratorie;
H305
Letale per contatto con la pelle;
H310
Tossico per contatto con la pelle;
H311
Nocivo per contatto con la pelle;
H312
Può essere nocivo per contatto con la pelle;
H313
Provoca gravi ustioni cutanee e gravi lesioni oculari;
H314
Provoca irritazione cutanea;
H315
Provoca una lieve irritazione cutanea;
H316
Può provocare una reazione allergica cutanea;
H317
Provoca gravi lesioni oculari;
H318
Provoca grave irritazione oculare;
H319
Provoca irritazione oculare;
H320
Letale se inalato;
H330
Tossico se inalato;
H331
Nocivo se inalato;
H332
Può essere nocivo se inalato;
H333
Può provocare sintomi allergici od asmatici o difficoltà respiratorie se inalato;
H334
Può irritare le vie respiratorie;
H335
Può provocare sonnolenza o vertigini;
H336
Può provocare alterazioni genetiche;
H340
Sospettato di provocare alterazioni genetiche;
H341
Può provocare il cancro;
H350
Sospettato di provocare il cancro;
H351
Può nuocere alla fertilità od al feto;
H360
111
H361
H362
H370
H371
H372
H373
Sospettato di nuocere alla fertilità od al feto;
Può essere nocivo per i lattanti allattati al seno;
Provoca danni agli organi;
Può provocare danni agli organi;
Provoca danni agli organi in caso di esposizione prolungata o ripetuta;
Può provocare danni agli organi in caso di esposizione prolungata o ripetuta.
Pericoli per l’ambiente
H400 Molto tossico per gli organismi acquatici;
H410 Molto tossico per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata;
H411 Tossico per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata;
H412 Nocivo per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata;
H413 Può essere nocivo per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata;
H420 Nuoce alla salute pubblica ed all’ambiente distruggendo l’ozono dello strato superiore
dell’atmosfera.
3.3. Consigli di prudenza (frasi S e consigli P)
Le frasi S
Sono chiamate frasi S (frasi di sicurezza) alcune frasi convenzionali, oggi abrogate, che
descrivevano i consigli di prudenza cui attenersi in caso di manipolazione di sostanze chimiche.
Le frasi S erano state codificate dall’Unione Europea nella Direttiva 88/379/C.E.E., che prevedeva
che ogni confezione di prodotto chimico recasse sulla propria etichetta le frasi R e le frasi S
corrispondenti al prodotto chimico ivi contenuto.
Ad ogni frase era associato un codice univoco composto dalla lettera S seguita da un numero, e ad
ogni codice corrispondevano le diverse traduzioni della frase in ogni lingua ufficiale dell’Unione
Europea.
Nel 2008 è entrato in vigore il Regolamento C.E. n. 1272/2008, che ha sostituito le frasi S con i
cosiddetti consigli P.
Elenco delle frasi S
Conservare sotto chiave;
S1
Conservare fuori dalla portata dei bambini;
S2
Conservare in luogo fresco;
S3
Conservare lontano da qualsiasi locale abitato;
S4
Conservare in ... (liquido adatto consigliato dal produttore);
S5
Conservare in ... (gas inerte consigliato dal produttore);
S6
Conservare il recipiente perfettamente chiuso;
S7
Conservare il recipiente protetto dall’umidità;
S8
Conservare il recipiente in un luogo ben ventilato;
S9
S 10 Mantenere il prodotto umido;
S 11 Evitare il contatto con l’aria;
S 12 Non chiudere ermeticamente il recipiente;
S 13 Conservare lontano da prodotti alimentari e bevande, compresi quelli per animali;
S 14 Conservare lontano da ... (sostanze incompatibili specificate dal produttore);
S 15 Conservare lontano da fonti di calore;
S 16 Conservare lontano da fiamme e scintille. Non fumare;
S 17 Tenere lontano da sostanze combustibili;
S 18 Manipolare ed aprire il recipiente con precauzione;
S 19 Non mescolare con... (prodotto specificato dal produttore);
S 20 Non mangiare e bere durante l’utilizzazione;
S 21 Non fumare durante l’utilizzazione;
112
S 22
S 23
S 24
S 25
S 26
S 27
S 28
S 29
S 30
S 31
S 32
S 33
S 34
S 35
S 36
S 37
S 38
S 39
S 40
S 41
S 42
S 43
S 44
S 45
S 46
S 47
S 48
S 49
S 50
S 51
S 52
S 53
S 54
S 55
S 56
S 57
S 58
S 59
S 60
Non respirarne le polveri;
Non respirarne i gas ed i vapori, i fumi, gli aerosol (termini adatti specificati dal
produttore);
Evitare il contatto con la pelle;
Evitare il contatto con gli occhi;
In caso di contatto con gli occhi, lavare immediatamente ed abbondantemente con acqua e
consultare uno specialista;
Togliere immediatamente qualsiasi indumento insudiciato o spruzzato;
Dopo contatto con la pelle, lavarsi immediatamente ed abbondantemente con ... (prodotto
adeguato specificato dal produttore);
Non gettare i residui nelle condotte fognarie;
Non versare mai acqua in questo prodotto;
Tenere lontano da sostanze esplodibili;
Usare solo in luoghi ben aerati;
Evitare l’accumulo di cariche elettrostatiche;
Evitare movimento d’urto e di attrito;
Non gettare il prodotto ed il recipiente senza aver preso tutte le precauzioni indispensabili;
Indossare un indumento di protezione adeguato;
Indossare guanti adeguati;
In caso di insufficiente ventilazione, far uso di un apparecchio respiratorio adeguato;
Far uso di un apparecchio di protezione degli occhi e del viso;
Per la pulizia del pavimento o di oggetti, insudiciati dal prodotto, utilizzare ... (prodotto
specificato dal produttore);
In caso d’incendio e/o di esplosione non respirare i fumi;
In caso di irrigazione liquida o gassosa indossare un apparecchio respiratorio adeguato
(indicazioni a cura del produttore);
In caso d’incendio utilizzare ... (apparecchi estintori specificati dal produttore. Qualora il
rischio aumenti in presenza di acqua, aggiungere: “Non utilizzare mai acqua”);
In caso di malore consultare un medico (recando possibilmente l’etichetta);
In caso di incidente o di malessere, consultare immediatamente un medico, se possibile,
mostrare l’etichetta;
In caso di ingestione consultare immediatamente il medico e mostrargli il contenitore o
l’etichetta;
Conservare a temperatura non superiore a ... °C (da specificare a cura del produttore);
Mantenere in ambiente umido con ... (prodotto adeguato da specificare a cura del
produttore);
Conservare unicamente nel recipiente originale;
Non mescolare con ... (da specificare a cura del produttore);
Utilizzare unicamente in zone perfettamente ventilate;
Non utilizzare su grandi superfici in locali abitati;
Evitare l’esposizione, procurarsi istruzioni particolari prima dell’utilizzazione;
Procurarsi il consenso delle autorità di controllo dell’inquinamento prima di scaricare
negli impianti di trattamento delle acque di scarico;
Utilizzare le migliori tecniche di trattamento disponibili prima di scaricare nelle fognature
o nell’ambiente acquatico;
Non scaricare nelle fognature o nell’ambiente; smaltire i residui in un punto di raccolta
rifiuti autorizzato;
Usare contenitori adeguati per evitare l’inquinamento ambientale;
Smaltire come rifiuto pericoloso;
Richiedere informazioni al produttore/fornitore per il recupero/riciclaggio;
Questo materiale e/o il suo contenitore devono essere smaltiti come rifiuti pericolosi;
113
S 61
S 62
S 63
S 64
Non disperdere nell’ambiente. Riferirsi alle istruzioni speciali/schede informative in
materia di sicurezza;
In caso di ingestione non provocare il vomito: consultare immediatamente un medico e
mostrargli il contenitore o l’etichetta;
In caso di ingestione per inalazione, allontanare l’infortunato dalla zona contaminata e
mantenerlo a riposo;
In caso di ingestione, sciacquare la bocca con acqua (solamente se l’infortunato è
cosciente).
Elenco delle possibili combinazioni di frasi
Conservare sotto chiave e lontano dalla portata dei bambini;
S 1/2
Conservare il recipiente ben chiuso in luogo fresco;
S 3/7
Conservare in luogo fresco e ben ventilato lontano da ... (materiali incompatibili, da
S 3/9/14
precisare da parte del fabbricante);
Conservare soltanto nel contenitore originale in luogo fresco e ben ventilato lontano
S
3/9/14/49 da...(materiali incompatibili, da precisare da parte del fabbricante);
Conservare soltanto nel contenitore originale in luogo fresco e ben ventilato;
S 3/9/49
Conservare in luogo fresco lontano da ... (materiali incompatibili, da precisare da
S 3/14
parte del fabbricante);
Conservare il recipiente ben chiuso ed al riparo dall’umidità;
S 7/8
Tenere il recipiente ben chiuso ed in luogo ben ventilato;
S 7/9
Tenere il recipiente ben chiuso ed a temperatura non superiore a ...°C (da precisare
S 7/47
da parte del fabbricante);
Non mangiare, né bere, né fumare durante l’impiego;
S 20/21
Evitare il contatto con gli occhi e con la pelle;
S 24/25
Non gettare i residui nelle fognature; non disfarsi del prodotto e del recipiente se non
S 29/35
con le dovute precauzioni;
Non gettare i residui nelle fognature;
S 29/56
Usare indumenti protettivi e guanti adatti;
S 36/37
S 36/37/39 Usare indumenti protettivi, guanti adatti e proteggersi gli occhi/la faccia;
Usare indumenti protettivi adatti e proteggersi gli occhi/la faccia;
S 36/39
Usare guanti adatti e proteggersi gli occhi/la faccia;
S 37/39
Conservare soltanto nel contenitore originale ed a temperatura non superiore a ... °C
S 47/49
(da precisare da parte del fabbricante).
I consigli P
I cosiddetti consigli P (Precautionary statements) sono prescrizioni di natura sanitaria, contenute
all’interno del Regolamento C.E. n. 1272/2008, e rappresentano consigli di prudenza relativi a
sostanze chimiche.
In Italia l’Istituto Superiore di Sanità ha fatto sue queste indicazioni, redistribuendole in sue
pubblicazioni.
I consigli P hanno sostituito le più vecchie frasi S, oggi abrogate.
I consigli P sottoelencati sono aggiornati al Regolamento U.E. n. 487/2013 della Commissione
dell’8 maggio 2013, recante modifica, ai fini dell’adeguamento al progresso tecnico e scientifico,
del Regolamento C.E. n. 1272/2008 del Parlamento Europeo e del Consiglio relativo alla
classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio delle sostanze e delle miscele.
114
Elenco dei consigli P
Consigli di prudenza di carattere generale
P101 In caso di consultazione di un medico, tenere a disposizione il contenitore o l’etichetta
del prodotto;
P102 Tenere fuori dalla portata dei bambini;
P103 Leggere l’etichetta prima dell’uso.
Consigli di prudenza – Prevenzione
Procurarsi istruzioni specifiche prima dell’uso;
P201
Non manipolare prima di avere letto e compreso tutte le avvertenze;
P202
Tenere lontano da fonti di calore, superfici calde, scintille, fiamme libere od altre
P210
fonti di accensione. Non fumare. [Così modificato da IV A.T.P.];
Non vaporizzare su una fiamma libera od altra fonte di accensione. [Così
P211
modificato da IV A.T.P.];
Prendere ogni precauzione per evitare di miscelare con sostanze combustibili;
P221
Evitare il contatto con l’aria;
P222
Evitare qualunque contatto con l’acqua. [Così modificato da IV A.T.P.];
P223
Mantenere umido con...;
P230
Manipolare in atmosfera di gas inerte;
P23
Proteggere dall’umidità;
P232
Tenere il recipiente ben chiuso;
P233
Conservare soltanto nel contenitore originale;
P234
Conservare in luogo fresco;
P235
Mettere a terra/massa il contenitore ed il dispositivo ricevente;
P240
Utilizzare impianti elettrici/di ventilazione/d’illuminazione/.../a prova di
P241
esplosione;
Utilizzare solo utensili antiscintillamento;
P242
Prendere precauzioni contro le scariche elettrostatiche;
P243
Mantenere le valvole ed i raccordi liberi da grasso ed olio [Così modificato da IV
P244
A.T.P.];
Evitare le abrasioni/gli urti/.../gli attriti;
P250
Non perforare né bruciare, neppure dopo l’uso [Così modificato da IV A.T.P.];
P251
Non respirare la polvere/i fumi/i gas/la nebbia/i vapori/gli aerosol;
P260
Evitare di respirare la polvere/i fumi/i gas/la nebbia/i vapori/aerosol [Così
P261
modificato da IV A.T.P.];
Evitare il contatto con gli occhi, la pelle o gli indumenti;
P262
Evitare il contatto durante la gravidanza/l’allattamento;
P263
Lavare accuratamente .... dopo l’uso;
P264
Non mangiare, né bere, né fumare durante l’uso;
P270
Utilizzare soltanto all’aperto od in luogo ben ventilato;
P271
Gli indumenti da lavoro contaminati non devono essere portati fuori dal luogo di
P272
lavoro;
Non disperdere nell’ambiente;
P273
Indossare guanti/indumenti protettivi/Proteggere gli occhi/Proteggere il viso.
P280
[Così modificato da IV A.T.P.];
Utilizzare il dispositivo di protezione individuale richiesto [Soppresso da IV
P281
A.T.P.];
Utilizzare guanti termici/schermo facciale/proteggere gli occhi;
P282
Indossare indumenti completamente ignifughi od in tessuti ritardanti di fiamma;
P283
[Quando la ventilazione del locale è insufficiente] indossare un apparecchio di
P284
protezione respiratoria [Così modificato da IV A.T.P.];
115
P285
P231 + P232
P235 + P410
In caso di ventilazione insufficiente utilizzare un apparecchio respiratorio
[Soppresso da IV A.T.P.];
Manipolare in atmosfera di gas inerte e tenere al riparo dall’umidità;
Tenere in luogo fresco e proteggere dai raggi solari.
Consigli di prudenza – Reazione
In caso di ingestione;
P301
In caso di contatto con la pelle;
P302
In caso di contatto con la pelle o con i capelli;
P303
In caso di inalazione;
P304
In caso di contatto con gli occhi;
P305
In caso di contatto con gli indumenti;
P306
In caso di esposizione [Soppresso da IV A.T.P.];
P307
In caso di esposizione o di possibile esposizione [Così modificato da
P308
IV A.T.P.];
In caso di esposizione o di malessere [Soppresso da IV A.T.P.];
P309
Contattare immediatamente un centro antiveleni/un medico/… [Così
P310
modificato da IV A.T.P.];
Contattare un centro antiveleni/un medico/… [Così modificato da IV
P311
A.T.P.];
Contattare un centro antiveleni/un medico/ …/in caso di malessere.
P312
[Così modificato da IV A.T.P.];
Consultare un medico;
P313
In caso di malessere, consultare un medico;
P314
Consultare immediatamente un medico;
P315
Trattamento specifico urgente (vedere... su questa etichetta);
P320
Trattamento specifico (vedere … su questa etichetta);
P321
Misure specifiche (vedere... su questa etichetta) [Soppresso da IV
P322
A.T.P.];
Sciacquare la bocca;
P330
Non provocare il vomito;
P331
In caso di irritazione della pelle;
P332
In caso di irritazione od eruzione della pelle;
P333
Immergere in acqua fredda/avvolgere con un bendaggio umido;
P334
Rimuovere le particelle depositate sulla pelle;
P335
Sgelare le parti congelate usando acqua tiepida. Non sfregare la parte
P336
interessata;
Se l’irritazione degli occhi persiste;
P337
Togliere le eventuali lenti a contatto se è agevole farlo. Continuare a
P338
sciacquare;
Trasportare l’infortunato all’aria aperta e mantenerlo a riposo in
P340
posizione che favorisca la respirazione [Così modificato da IV A.T.P.];
Se la respirazione è difficile, trasportare l’infortunato all’aria aperta e
P341
mantenerlo a riposo in posizione che favorisca la respirazione
[Soppresso da IV A.T.P.];
In caso di sintomi respiratori;
P342
Lavare delicatamente ed abbondantemente con acqua e sapone
P350
[Soppresso da IV A.T.P.];
Sciacquare accuratamente per parecchi minuti;
P351
Lavare abbondantemente con acqua/…. [Così modificato da IV
P352
A.T.P.];
116
P353
P360
P361
P362
P363
P364
P370
P371
P372
P373
P374
P375
P376
P377
P378
P380
P381
P390
P391
P301 + P310
P301 + P312
P301 + P330 + P331
P302 + P334
P302 + P350
P302 + P352
P303 + P361 + P353
P304 + P340
P304 + P341
P305 + P351 + P338
P306 + P360
Sciacquare la pelle/fare una doccia;
Sciacquare immediatamente ed abbondantemente gli indumenti
contaminati e la pelle prima di togliersi gli indumenti;
Togliere immediatamente tutti gli indumenti contaminati. [Così
modificato da IV ATP];
Togliere gli indumenti contaminati [Così modificato da IV A.T.P.];
Lavare gli indumenti contaminati, prima di indossarli nuovamente
[Così modificato da IV A.T.P.];
E lavarli prima di indossarli nuovamente [Introdotto da IV A.T.P.];
In caso di incendio;
In caso di incendio grave e di quantità rilevanti;
Rischio di esplosione in caso di incendio;
Non utilizzare mezzi estinguenti se l’incendio raggiunge materiali
esplosivi;
Utilizzare i mezzi estinguenti con le precauzioni abituali a distanza
ragionevole;
Rischio di esplosione. Utilizzare i mezzi estinguenti a grande distanza;
Bloccare la perdita se non c’è pericolo;
In caso d’incendio dovuto a perdita di gas, non estinguere a meno che
non sia possibile bloccare la perdita senza pericolo;
Usare … per estinguere [Così modificato da IV A.T.P.];
Evacuare la zona;
Eliminare ogni fonte di accensione se non c’è pericolo;
Assorbire la fuoriuscita per evitare danni materiali;
Raccogliere il materiale fuoriuscito;
In caso di ingestione: contattare immediatamente un centro
antiveleni/un medico/… [Così modificato da IV A.T.P.];
In caso di ingestione: contattare un centro antiveleni/un medico/…/in
caso di malessere. [Così modificato da IV A.T.P.];
In caso di ingestione: sciacquare la bocca. Non provocare il vomito;
In caso di contatto con la pelle: immergere in acqua fredda / avvolgere
con un bendaggio umido;
In caso di contatto con la pelle: lavare delicatamente e
abbondantemente con acqua e sapone [Soppresso da IV A.T.P.];
In caso di contatto con la pelle: lavare abbondantemente con acqua/….
[Così modificato da IV A.T.P.];
In caso di contatto con la pelle o con i capelli: togliere gli indumenti
contaminati. Sciacquare la pelle/fare una doccia [Così modificato da IV
A.T.P.];
In caso di inalazione: Trasportare l’infortunato all’aria aperta e
mantenerlo a riposo in posizione che favorisca la respirazione [Così
modificato da IV ATP];
In caso di inalazione: se la respirazione è difficile, trasportare
l'infortunato all’aria aperta e mantenerlo a riposo in posizione che
favorisca la respirazione [Soppresso da IV A.T.P.];
In caso di contatto con gli occhi: sciacquare accuratamente per parecchi
minuti. Togliere le eventuali lenti a contatto se è agevole farlo.
Continuare a sciacquare;
In caso di contatto con gli indumenti: sciacquare immediatamente ed
abbondantemente gli indumenti contaminati e la pelle prima di togliersi
gli indumenti;
117
P307 + P311
P308 + P311
P308 + P313
P309 + P311
P332 + P313
P333 + P313
P335 + P334
P337 + P313
P342 + P311
P361 + P364
P362 + P364
P370 + P376
P370 + P378
P370 + P380
P370 + P380 + P375
P371 + P380 + P375
In caso di esposizione, contattare un centro antiveleni od un medico
[Soppresso da IV A.T.P.];
In caso di esposizione o di possibile esposizione: contattare un centro
antiveleni/un medico/… [Introdotto da IV A.T.P.];
In caso di esposizione o di possibile esposizione, consultare un medico;
In caso di esposizione o di malessere, contattare un centro antiveleni o
un medico [Soppresso da IV A.T.P.];
In caso di irritazione della pelle: consultare un medico;
In caso di irritazione od eruzione della pelle: consultare un medico;
Rimuovere le particelle depositate sulla pelle. Immergere in acqua
fredda / avvolgere con un bendaggio umido;
Se l’irritazione degli occhi persiste, consultare un medico;
In caso di sintomi respiratori, contattare un centro antiveleni/un
medico/… [Così modificato da IV A.T.P.];
Togliere immediatamente gli indumenti contaminati e lavarli prima di
indossarli nuovamente [Introdotto da IV A.T.P.];
Togliere gli indumenti contaminati e lavarli prima di indossarli
nuovamente [Introdotto da IV A.T.P.];
In caso di incendio bloccare la perdita se non c’è pericolo;
In caso di incendio utilizzare… per estinguere [Così modificato da IV
A.T.P.];
Evacuare la zona in caso di incendio;
In caso di incendio evacuare la zona. Rischio di esplosione. Utilizzare i
mezzi estinguenti a grande distanza;
In caso di incendio grave e di grandi quantità: evacuare la zona.
Rischio di esplosione. Utilizzare i mezzi estinguenti a grande distanza.
Consigli di prudenza – Conservazione
Conservare...;
P401
Conservare in luogo asciutto;
P402
Conservare in luogo ben ventilato;
P403
Conservare in un recipiente chiuso;
P404
Conservare sotto chiave;
P405
Conservare in recipiente resistente alla corrosione/provvisto di rivestimento interno
P406
resistente;
Mantenere uno spazio libero tra gli scaffali/i pallet;
P407
Proteggere dai raggi solari;
P410
Conservare a temperature non superiori a ... °C / ... °F;
P411
Non esporre a temperature superiori a 50 °C / 122 °F;
P412
Conservare le rinfuse di peso superiore a ... kg / ... lb a temperature non superiori a
P413
... °C / ... °F;
Conservare lontano da altri materiali;
P420
Conservare sotto...;
P422
P402 + P404 Conservare in luogo asciutto ed in recipiente chiuso;
P403 + P233 Tenere il recipiente ben chiuso ed in luogo ben ventilato;
P403 + P235 Conservare in luogo fresco e ben ventilato;
P410 + P403 Proteggere dai raggi solari. Conservare in luogo ben ventilato;
P410 + P412 Proteggere dai raggi solari. Non esporre a temperature superiori a 50 °C / 122 °F;
P411 + P235 Conservare in luogo fresco a temperature non superiori a ... °C / ... °F.
118
3.4.. Simboli ed indicazioni di pericolo
Tipo di sostanza
Vecchio simbolo per
etichettatura
Esplosivi
Comburenti
Estremamente
infiammabili
Facilmente
infiammabili
infiammabili
nessun simbolo
Molto tossici
119
Nuovi pittogrammi
Tipo di sostanza
Vecchio simbolo per
etichettatura
Tossici
Nocivi
Tossici per il ciclo
riproduttivo
Cancerogeni
Mutageni
Corrosivi
120
Nuovi pittogrammi
pi
Tipo di sostanza
Vecchio simbolo per
etichettatura
Nuovi pittogrammi
Irritanti
Sensibilizzanti:
Pericolosi
l’ambiente
per
4. Etichettatura ed imballaggio delle sostanze chimiche
L’etichettatura è l’insieme delle indicazioni da riportare su apposita etichetta o direttamente
sull’imballaggio o sulla confezione a mezzo stampa, rilievo od
o incisione.
Anche i recipienti utilizzati, sui luoghi di lavoro o per il magazzinaggio e le relative tubazioni,
destinati a contenere o trasportare sostanze e preparati pericolosi, devono essere muniti
dell’etichettatura prescritta.
Negli ambienti di lavoro l’etichettatura
etichettatura può essere sostituita da
da cartelli di avvertimento.
avvertimento
La classificazione ed etichettatura di una sostanza chimica o di una miscela di più sostanze si basa
sulla valutazione del pericolo connesso al loro uso,
uso, secondo quanto previsto dai Decreti Legislativi
L
n. 52 del 3 febbraio 1997 (per le sostanze)
sostanze e n. 65 del 14 aprile 2003 (per i preparati).
preparati
La registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle
delle sostanze chimiche
(R.E.A.C.H.) è invece definita dal Regolamento CE n. 1907/2006 del Parlamento Europeo e del
Consiglio del 18 dicembre 2006.
L’etichettatura e le schede informative di sicurezza (S.D.S.)) sono i mezzi di informazione del
pericolo
connesso all’uso della sostanza o preparato.
Le sostanze ed i preparati che sono immessi in commercio nel territorio dell’UE, sia
si prodotti, sia
importati, devono essere valutati
ti per le loro proprietà chimico − fisiche, chimiche, tossicologiche
ed ecotossicologiche al fine di individuare la loro potenziale pericolosità per l’uomo e per
l’ambiente.
Le risultanti
nti classificazioni ed etichettature, oltre ad essere comunicate agli utilizzatori attraverso
l’etichetta e le schede informative in materia di sicurezza, sono anche un utile strumento per la
gestione del rischio per i prodotti chimici.
L’etichetta di una sostanza o di un preparato permette di identificare immediatamente e
sinteticamentee i principali pericoli chimico − fisici, tossicologici ed ambientali noti.
Sull’etichetta si devono trovare:
il nome della sostanza, la designazione od il nome commerciale del preparato,
preparato il nome e
l’indirizzo completo nonché il numero di telefono del responsabile dell’immissione sul mercato
stabilito all’interno dell’Unione Europea per i preparati;
il nome chimico delle sostanze contenute,
contenute responsabilii dei rischi più rilevanti per la salute;
i simboli di pericolo, se previsti, neri su fondo arancione, e l’indicazione del tipo di pericolo (ad
121
esempio comburente, tossico, etc.) che comporta l’impiego dell’agente;
le frasi di rischio R (oggi sostituite dalle frasi H) ed i consigli di prudenza S (oggi sostituiti dai
consigli P);
per le sostanze, il numero C.E., se assegnato;
l’indicazione “Etichetta C.E.” per le sostanze elencate nell’Allegato I del Decreto Legislativo
52/97;
per i preparati venduti al dettaglio, il quantitativo, in massa o volume, del contenuto;
indicazioni sul contenuto e sul produttore.
Tutte le indicazioni devono essere almeno nella lingua del Paese di impiego.
Il primo dicembre 2010 è entrato in vigore il Regolamento n. 1272/2008 (regolamento C.L.P.) che
detta i nuovi parametri per la classificazione, l’etichettatura e l’imballaggio delle sostanze e delle
miscele chimiche, con lo scopo di allinearsi al G.H.S., (Sistema Globale Armonizzato), elaborato
dall’O.N.U. e finalizzato all’unificazione a livello mondiale della descrizione dei rischi connessi
all’utilizzo delle sostanze chimiche, per fare in modo che le sostanze abbiano la stessa
classificazione ovunque nel mondo.
L’imballaggio di una materia chimicamente pericolosa deve:
impedire qualunque fuoriuscita del contenuto;
essere solido e robusto;
possedere materiali e chiusura non deteriorabili e non reagenti con il contenuto;
possedere la chiusura di sicurezza e l’indicazione di pericolo avvertibile al tatto per sostanze
tossiche, molto tossiche o corrosive;
indicare il pericolo avvertibile al tatto per le sostanze estremamente infiammabili o facilmente
infiammabili.
5. Schede di sicurezza
Le schede di sicurezza S.D.S., (safety data sheet), rappresentano un documento tecnico contenente
le informazioni necessarie sulle sostanze chimiche e loro miscele, in particolar modo includono le
informazioni sulle proprietà fisico − chimiche, tossicologiche e di pericolo per una corretta e sicura
manipolazione delle sostanze.
Le schede di sicurezza consentono al datore di lavoro di valutare i rischi per la salute e la sicurezza
dei lavoratori associati all’uso delle sostanze chimiche.
Il responsabile dell’immissione sul mercato di una sostanza o preparato pericolosi deve fornire,
gratuitamente al destinatario, la scheda di sicurezza, redatta nella lingua del Paese d’impiego in
occasione della prima fornitura.
Questa deve essere aggiornata e trasmessa all’utilizzatore ogni qualvolta il fabbricante,
l’importatore od il distributore venga a conoscenza di nuove e rilevanti informazioni sulla sicurezza
e la tutela della salute, e sicurezza dell’ambiente.
A partire dal 1 dicembre 2010 le schede di sicurezza devono essere compilate secondo il
Regolamento UE 453/2010 e contenere 16 voci standardizzate come riportato nella Tabella
seguente.
Le schede di sicurezza di tutti gli agenti chimici presenti in azienda devono essere conservate in un
luogo noto ed accessibile a tutti coloro che operano con tali sostanze.
122
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
Voci obbligatorie nella S.D.S.
Identificazione della sostanza/miscela e della società/impresa
Identificazione dei pericoli
Composizione/informazioni sui componenti
Misure di primo soccorso
Misure antincendio
Misure in caso di rilascio accidentale
Manipolazione e immagazzinamento
Controllo dell’esposizione/protezione individuale
Proprietà fisiche e chimiche
Stabilità e reattività
Informazioni tossicologiche
Informazioni ecologiche
Considerazioni sullo smaltimento
Informazioni sul trasporto
Informazioni sulla regolamentazione
Altre informazioni
6. Rischio di esposizione
6.1. Il concetto di esposizione
L’utilizzazione di una sostanza chimica o la presenza nell’ambiente lavorativo di un agente fisico o
biologico non costituisce, di per sé, necessariamente un rischio effettivo per la salute, in quanto
questo dipende e deriva solo dalle intrinseche caratteristiche tossicologiche della sostanza ed, in
funzione di queste, dalle modalità del contatto che si realizza nel corso dell’attività lavorativa.
Interessa, cioè, conoscere la quantità di sostanza alla quale un soggetto si trova effettivamente
esposto ed il relativo periodo tempo di esposizione, tenendo conto delle possibili vie di penetrazione
nell’organismo (ingestione, inalazione, contatto cutaneo) da parte della sostanza stessa.
Ad esempio, due agenti chimici, aventi lo stesso grado di tossicità ma con caratteristiche chimico −
fisiche differenti, possono costituire un rischio potenziale per la salute di entità estremamente
diversa; infatti, se l’uno presenta una bassa tensione di vapore e l’altro è altamente volatile, a parità
di modalità e quantità di utilizzo, l’esposizione ai vapori del secondo composto sarà sicuramente più
severa. Inoltre può verificarsi, durante l’utilizzazione in lavorazioni industriali, che una sostanza
possa subire significativi mutamenti chimici e/o fisici, con susseguenti variazioni delle
caratteristiche di nocività; ad esempio, nelle lavorazioni di materiali solidi di grosse dimensioni si
possono sviluppare polveri, costituite da particelle inalabili.
È pertanto di estremo interesse conoscere le caratteristiche chimico − fisiche (densità, volatilità,
granulometria, etc.) degli inquinanti presenti.
È evidente quindi, la necessità di conoscere, per ogni inquinante, oltre al suo meccanismo di azione,
la sua effettiva concentrazione ambientale, essenzialmente in aria, in considerazione del fatto che,
nella maggior parte dei casi, la via principale di assorbimento dell’inquinante è quella inalatoria.
Ragionamento del tutto analogo va fatto per gli agenti fisici e biologici, per i quali va considerata in
qualche modo sia “l’intensità” dell’esposizione (con tipologia di misurazione ed unità ovviamente
specifiche per il tipo di agente) sia la durata della stessa.
Le considerazioni sin qui svolte mostrano l’enorme importanza ed attualità dell’esatta definizione
delle condizioni ambientali, specie per quel che riguarda l’opera di “prevenzione”.
La prevenzione, per essere efficace, deve essere rapportata all’effettivo rischio, sfruttando nel modo
più corretto e più efficiente tutte le risorse della tecnica, atte ad eliminare o almeno ridurre, il
rischio stesso nell’ambiente. Lo scopo finale della prevenzione è quindi quello di permettere che il
lavoratore operi in un ambiente per quanto possibile sano, e ciò si ottiene attraverso l’utilizzazione
di sostanze chimiche sempre meno tossiche, il miglioramento dei sistemi di abbattimento,
123
l’effettuazione di controlli mirati ed assidui, la razionalizzazione dei cicli di lavorazione, etc.
Questo obiettivo è concretamente raggiungibile soltanto una volta che si sia proceduto alla
determinazione o caratterizzazione dell’esposizione dei lavoratori agli agenti chimici, fisici e
biologici nel corso della loro attività.
L’esposizione lavorativa al rischio chimico dipende:
dalle caratteristiche chimico – fisiche e tossicologiche delle sostanze e/o dei preparati utilizzati;
dal ciclo di lavorazione;
delle modalità operative.
L’esposizione è la condizione di lavoro per la quale sussiste la possibilità che agenti chimici
pericolosi, tal quali o sottoforma di emissioni (polveri, fumi, nebbie, gas e vapori) possano essere
assorbiti dall’organismo attraverso:
ingestione (assorbimento gastrico)
Ovviamente i prodotti chimici non sono ingurgitati intenzionalmente.
L’agente penetra nell’organismo attraverso il cavo orale come contaminante di alimenti o per
mezzo di oggetti portati alla bocca.
Quasi sempre l’inalazione per via digestiva (od ingestione) avviene fortuitamente od
imprudentemente:
quando un prodotto viene travasato in un altro recipiente tramite aspirazione con una pipetta,
ovvero quando un prodotto è conservato in un recipiente destinato a cibi o bevande;
quando, dopo aver manipolato un prodotto pericoloso, si portano le mani alla bocca per
fumare, mangiare od anche per asciugarsi.
Gli agenti possono essere:
solidi: frammenti e polveri;
liquidi: schizzi e versamenti;
gassosi: non rilevanti.
contatto cutaneo (assorbimento transcutaneo)
L’agente penetra nell’organismo attraverso il contatto con la pelle o le mucose, svolgendo
un’azione locale o venendo assorbito dagli strati grassi dell’epidermide.
Alcuni prodotti, quali le sostanze irritanti e corrosive, agiscono localmente nel punto di contatto
con la pelle, le mucose e gli occhi.
Altri prodotti, solubili nei grassi, agiscono sulla pelle ed inoltre penetrano nella medesima ma
diffondendosi in tutto l’organismo, provocando in tal modo disturbi di varia natura.
Questo avviene con i solventi, che oltre ad asportare il grasso sulla pelle provocano disturbi nei
reni, nel fegato e nel sistema nervoso.
Il benzene invece agisce sul midollo osseo: i carburanti per autotrazione che ne contengono un
tenore relativamente elevato ( > 5 % ) non devono mai essere utilizzati per lavarsi le mani.
Qualsiasi lesione anche minima della pelle rappresenta una via di facile penetrazione per i
prodotti pericolosi.
Gli agenti possono essere:
solidi: effetti locali (aggressivi);
liquidi: effetti locali assorbimento (lipofili);
gassosi: non rilevanti.
inalazione assorbimento polmonare.
Si tratta della via di penetrazione più frequente sul luogo di lavoro, dato che le sostanze
inquinanti possono mescolarsi intimamente con l’aria respirabile.
Questi inquinanti, dispersi nell’atmosfera, penetrano nei polmoni contemporaneamente all’aria
inspirata.
L’agente è presente nell’aria ed introdotto nell’organismo con l’atto respiratorio.
Questo avviene in fase di manipolazione di solventi, vernici o colle, in caso di asportazione con
il cannello di rivestimenti contenenti piombo, ovvero nelle operazioni di saldatura.
124
Dopo essere stati inalati, tali prodotti, veicolati dal sangue partendo dai polmoni, provocano
disturbi sia del sistema respiratorio sia degli altri organi.
Un prodotto presente nell’apparato digestivo, inalato attraverso la pelle od i polmoni, può essere
veicolato nel sangue raggiungendo così altri organi, ad esempio i reni, il fegato, etc.
Gli agenti possono essere:
solidi: polveri e fibre;
liquidi: nebbie ed aerosol;
gassosi: ogni tipo.
Tra le tre vie l’inalazione è la più pericolosa per la necessità incomprimibile di respirare ogni pochi
secondi, interessa agenti chimici allo stato gassoso o di vapore, le nebbie, gli aerosol, le polveri e le
fibre aerodisperse.
L’ingestione nell’ambito lavorativo avviene normalmente per errore, ma rappresenta una
condizione di estremo pericolo, in alcuni casi l’ingestione può avvenire per via indotta, ad esempio
fumando o mangiando con le mani inquinate dall’agente chimico.
Il contatto per via cutanea è normalmente da attribuire a sostanze allo stato liquido o pastoso,
mentre solo alcuni vapori od aerosol possono danneggiare l’organismo per questa via, non
necessariamente il contatto deve essere diretto ad esempio manipolazione, ma può avvenire per via
indiretta, ad esempio tute da lavoro sporche)
.
Gli effetti che possono essere riscontrati sulla persona sono:
irritazioni dell’apparato respiratorio;
allergie respiratorie e cutanee;
irritazione di pelle ed occhi;
alterazioni sul sistema nervoso;
alterazioni al fegato ed all’apparato digestivo.
6.2. Valori limite di esposizione
Con il Decreto Legislativo 25/2000 ed il Decreto Ministeriale 26/2/2004 sono stati aggiunti alla
normativa italiana una serie di valori limite per agenti chimici con le definizioni di Legge:
valore limite di esposizione professionale: se non diversamente specificato, il limite della
concentrazione media, ponderata nel tempo, di un agente chimico nell’aria all’interno della zona
di respirazione di un lavoratore, in relazione ad un determinato periodo di riferimento; un primo
elenco di tali valori è riportato nell’Allegato VIII − ter;
valore limite biologico: il limite della concentrazione del relativo agente, di un suo metabolita, o
di un indicatore di effetto, nell’appropriato mezzo biologico; un primo elenco di tali valori è
riportato nell’Allegato VIII − quater.
6.2.1. Monitoraggio dell’ambiente interno
Il monitoraggio ambientale è la periodica rilevazione delle condizioni di inquinamento dell’aria
dell’ambiente di lavoro, e permette di valutare i livelli di esposizione personale.
Comprende una serie di operazioni successive e conseguenti:
identificazione dei potenziali inquinanti attraverso l’esame del ciclo lavorativo;
rilevazione (campionamento ed analisi) della concentrazione degli inquinanti, condotta con
metodi standardizzati di cui all’Allegato XLI del Decreto Legislativo 81/2008 od, in assenza di
questi, con metodi appropriati.
valutazione dei risultati delle rilevazioni delle concentrazione degli inquinanti attraverso un
“ragionato” confronto con i valori limite di esposizione.
Il compito dell’igienista industriale, nella fase di controllo è quello di ottenere l’esatta cognizione
125
dell’effettiva esposizione del lavoratore all’inquinamento.
Da qui discende l’esigenza di conoscere:
le concentrazioni dei vari inquinanti presenti;
la loro distribuzione in un ambiente;
le loro punte più alte e le loro frequenze, rapportando questi dati alla pericolosità delle sostanze
ed all’uso che ne viene fatto.
Questa correlazione può essere utilmente condotta, facendo ricorso a dei valori limite di
esposizione.
6.2.2. Il significato dei valori limite
In base a quanto appena detto, appare opportuno, in alcune occasioni, pressoché necessario, poter
disporre di una serie di valori di riferimento, tali da fornire indicazioni attendibili, ripetibili e valide
per una serie più vasta possibile di agenti, chimici e non, ed adattabili a diverse situazioni
lavorative.
Nella pratica, si fa quindi ricorso ai “valori limite di esposizione professionale”, stabiliti
storicamente in igiene del lavoro per le sostanze nocive, presenti nell’aria.
In questo contesto, infatti, è utile definire i termini del problema, facendo riferimento per comodità
alle sostanze chimiche, ma ricordando che per gli altri agenti il concetto sviluppato è del tutto
analogo.
L’igienista del lavoro deve, nello svolgimento della propria attività, tenere presenti i principi
esposti; la stessa sostituzione delle varie espressioni “limiti tollerabili”, “massime concentrazioni
permesse”, “valori limite di soglia”, etc., con la dizione riportata di “limiti di esposizione”,
raccomandata (1977) dal Bureau International du Travail, sta a sottolineare che il compito
dell’igienista industriale, nella fase di controllo, non è tanto quello di raccogliere un gran numero di
generici dati, ma di ottenere l’esatta cognizione dell’effettiva esposizione del lavoratore
all’inquinamento.
Da qui discende l’esigenza di conoscere esattamente le concentrazioni dei vari inquinanti presenti,
la loro distribuzione in un ambiente, le loro punte più alte e le loro frequenze, rapportando questi
dati alla pericolosità più o meno alta delle sostanze ed all’uso che ne viene fatto.
Questa correlazione può essere utilmente condotta facendo ricorso appunto a dei valori limite di
esposizione.
La filosofia alla base dei vari tipi di limite via via proposti è diversa a seconda della situazione socio
− economica del periodo e della nazione in cui si affrontava il problema.
In questa sede può essere sufficiente accennare alle due tendenze estreme nella formulazione dei
limiti, e cioè quella basata su valutazioni esclusivamente tossicologiche e sanitarie (i cosiddetti
healthbased occupational exposure limits) e quella che tiene in primaria considerazione fattori
socioproduttivi e di fattibilità tecnica.
La differenza fra i due tipi di limite è sostanziale e può essere di entità rilevante in particolari
condizioni: fra quelli del primo tipo si possono annoverare i limiti proposti dall’O.M.S. e dalla
C.E.E., mentre fra i secondi rientrano in forme diverse i M.A.K. (Maximale Arbeitsplatz
Conzentrazionen) tedeschi, i P.E.L. (Permissible Exsposure Limits) dell’O.S.H.A. (Occupational
Safety and Health Administration) ed i limiti proposti dall’I.L.O. (International Labour Office).
È comunque da tener presente che la determinazione dei limiti generalmente in uso è forzatamente
condizionata da considerazioni extrascientifiche, economiche, socio − culturali e politiche, tipiche
dello Stato che li recepisce in un determinato periodo storico.
I principali esempi di valore limite esistenti sono:
T.L.Vs: Threshold Limit Values;
M.A.C.: Maximum Allowable Concentration;
P.E.Ls: Permissible Exposure Limits;
R.E.Ls: Reccomanded Exposure Limits;
T.R.K.: Technische Ricktung Konzentrazionen;
126
B.E.I.: Biological Exposure Index;
A.D.I.: Admissible Daily Intake.
6.2.2.1. Limiti di esposizione professionale
Al fine di tutelare la salute del lavoratore, l’A.C.G.I.H. (American Conference Governmental
Industrial Hygenist) ovvero la Conferenza Americana degli Igienisti Industriali, stabilisce i valori
limite di soglia (T.L.V.s– Threshold Limit Values).
I T.L.V. si riferiscono a concentrazioni atmosferiche di sostanze alle quali si ritiene che pressoché
tutti i lavoratori possono essere ripetutamente esposti, giorno dopo giorno, senza andare incontro ad
effetti nocivi..
Sono formulati e periodicamente aggiornati dall’A.C.G.I.H. e sono distinti in:
Valore limite di soglia − media ponderata nel tempo (T.L.V. – T.W.A.): concentrazione media
ponderata nel tempo, su una giornata lavorativa convenzionale di otto ore e su quaranta ore
lavorative settimanali, alla quale quasi tutti i lavoratori possono essere ripetutamente esposti,
giorno dopo giorno, senza effetti negativi;
Valore limite di soglia − limite per breve tempo di esposizione (T.L.V. – S.T.E.L.):
concentrazione alla quale i lavoratori possono essere esposti continuativamente per breve
periodo di tempo, purché il T.L.V. – T.W.A. giornaliero non venga superato, senza che
insorgano irritazione, danno cronico o irreversibile del tessuto, riduzione dello stato di vigilanza
di grado sufficiente ad accrescere le probabilità di infortuni od influire sulle capacità di mettersi
in salvo o ridurre materialmente l’efficienza lavorativa. Il T.L.V. – S.T.E.L. non costituisce un
limite di esposizione separato indipendente, ma piuttosto integra il T.L.V. – T.W.A. di una
sostanza, la cui azione tossica sia principalmente di natura cronica, qualora esistano effetti acuti
riconosciuti.
Gli S.T.E.L. vengono raccomandati quando l’esposizione umana od animale ad alta
concentrazione per breve durata ha messo in evidenza effetti tossici.
Uno S.T.E.L. viene definito come esposizione media ponderata su un periodo di 15 minuti, che
non deve essere mai superata nella giornata lavorativa, anche se la media ponderata su 8 ore è
inferiore al T.L.V.
Esposizioni al valore S.T.E.L. non devono protrarsi oltre i 15 minuti e non devono ripetersi per
più di 4 volte al giorno.
Fra esposizioni successive al valore S.T.E.L. debbono intercorrere almeno 60 minuti.
Un periodo di mediazione diverso dai 15 minuti può essere consigliabile se ciò è giustificato da
effetti biologici osservati.
Valore limite di soglia − Ceiling (T.L.V. − C): concentrazione che non deve essere superata
durante l’attività lavorativa nemmeno per un brevissimo periodo di tempo.
Per alcune sostanze, quali i gas irritanti, riveste importanza la sola categoria del T.L.V. − C; per
altre sostanze, in funzione della loro azione fisiologica, possono essere importanti due o tre
categorie di T.L.V.
È sufficiente che uno qualsiasi dei tre T.L.V. venga superato per presumere che esista un
potenziale rischio di esposizione per la sostanza in questione.
I T.L.V. si riferiscono a sostanze aerodisperse che possono essere assorbite per via respiratoria.
Per le sostanze assorbibili per via cutanea – sigla A.C. – vengono effettuati monitoraggi biologici
che si basano su indicatori biologici (concentrazione del tossico e dei suoi metaboliti) e su indicatori
di effetto (alterazioni biologiche sull’organismo).
Se nell’ambiente di lavoro sono contemporaneamente presenti più inquinanti allora l’A.C.G.I.H.
prevede che la somma del rapporto tra le concentrazioni dei singoli inquinanti (C1 , C2 , C3 , …) ed
il rispettivo T.L.V. ( T.L.V.1 , T.L.V. 2 , T.L.V. 3 ,....) non debba essere superiore all’unità:
127
C1
T.L.V.1
+
C2
T.L.V. 2
+
C3
T.L.V. 3
+ ... < 1
M.A.C. – Maximum Allowable Concentration (Concentrazione massima ammissibile):
Rappresenta la concentrazione di un inquinante in ambiente di lavoro che non deve essere mai
superata nel corso del ciclo lavorativo (parametro dotato ormai di valore storico).
P.E.Ls – Permissible Exposure Limits (Valori limite permessi): Formulati e periodicamente
aggiornati dall’OSHA (Occupational Safety and Health Administration statunitense), sono
concettualmente simili ai TLV.
R.E.Ls – Reccomanded Exposure Limits (Valori Limite Raccomandati): Formulati dal
N.I.O.S.H. (National Institute of Occupational Safety and Health statunitense), sono
concettualmente simili ai TLV.
T.R.K. – Technische Ricktung Konzentrazionen (Utilizzati in Germania): Valori limite di
esposizione a una sostanza, mediati sulle 8 h lavorative, elaborati unicamente in base a criteri di
fattibilità tecnica, senza considerare gli aspetti sanitari.
Il T.R.K. rappresenta perciò la minima concentrazione ambiente di una sostanza presente oD
utilizzata in ambito lavorativo raggiungibile in base all’applicazione delle più efficaci tecniche di
rimozione inquinanti via via disponibili.
A.D.I. – Admissible Daily Intake (Assunzione Giornaliera Permessa): Quantità massima di una
sostanza che può essere introdotta giornalmente nell’organismo non solo per le classiche vie di
introduzione in ambito occupazionale, ma anche attraverso veicoli come gli alimenti o le
bevande.
La determinazione dell’A.D.I. (parametro utilizzabile anche per la popolazione esposta negli
ambienti di vita) riguarda principalmente elementi o composti noti per dare bioaccumulo (come
alcuni metalli, i P.C.B. e le diossine).
Va precisato che i valori limite hanno un carattere indicativo per la valutazione del rischio
professionale e non costituiscono, secondo la stessa A.C.G.I.H., un confine netto tra concentrazioni
nocive ed innocue: essi forniscono un criterio operativo per la valutazione della presenza di
condizioni di rischio di esposizione.
6.2.3. Monitoraggio biologico
Viene definito come la misurazione sistematica e ripetuta di agenti, di solito chimici, presenti nel
luogo di lavoro e/o di loro metaboliti in escreti, secreti, tessuti biologici, aria espirata o qualsiasi
combinazione delle suddette matrici, condotta al fine di controllare l’esposizione agli agenti stessi
ed il relativo rischio per la salute in rapporto ad appropriati valori di riferimento.
L’obiettivo del monitoraggio biologico è di evitare che l’esposizione del lavoratore a sostanze,
presenti nell’ambiente di lavoro, raggiunga livelli capaci di provocare effetti avversi.
Tale scopo è ottenuto per mezzo degli indicatori biologici.
Indici Biologici (IB)
Un indicatore biologico è dunque un qualsiasi indicatore di un evento o modificazione di un
sistema o campione biologico che sia in rapporto con l’esposizione ad uno di tali agenti.
Nell’ambito della medicina del lavoro, il termine è più spesso usato in riferimento
all’esposizione, risposta o suscettibilità agli agenti chimici e l’M.B. definito come misura, nei
tessuti, nei secreti, nell’aria espirata del soggetto esposto, degli agenti presenti nel luogo di
lavoro o dei loro metaboliti o di indicatori del loro effetto biologico, al fine della valutazione
dell’esposizione e del rischio per la salute in rapporto ad appropriati riferimenti.
I parametri studiati per questo scopo sono definiti indicatori biologici ed indicati con la sigla I.B.
Gli I.B. possono essere classificati in base a diversi criteri:
alla matrice biologica in cui vengono testati quali urine, sangue, tessuti, aria espirata, etc.;
128
all’organo od al tessuto in cui hanno origine o che li ha prodotti (renali, epatici, del sistema
nervoso, etc.);
alle caratteristiche chimico – fisiche, come volatili, idro/liposolubili;
al significato tossicologico ed al valore predittivo che viene loro attribuito rispetto al fattore di
rischio di cui sono indicatori.
In base a quest’ultimo criterio gli I.B. vengono divisi tradizionalmente in tre categorie:
indicatori di esposizione;
indicatori di risposta;
indicatori di suscettibilità.
Indicatori di esposizione (I.B.E.)
Un indicatore biologico di esposizione, secondo la definizione del National Research Council
(N.R.C.) statunitense, “è una sostanza esogena od un suo metabolita od il suo prodotto
dell’interazione tra uno xenobiotico9 ed una molecola o cellula bersaglio, misurati in un
compartimento dell’organismo”.
Gli indicatori di esposizione rappresentano certamente la categoria di I.B. più numerosa e sono
peraltro, in continua espansione grazie alle nuove tecniche analitiche sempre più sofisticate oggi
disponibili.
In pratica essi sono costituiti dalla misura di elementi o composti chimici esogeni (xenobiotici)
assorbiti nel corso dell’esposizione professionale o di loro metaboliti o di complessi con
molecole endogene (ad esempio Co – Hb), presenti nei diversi fluidi o matrici biologiche.
Il loro uso, individuale o di gruppo, è in molti casi validato e routinario, costituendo un’utile
integrazione dei dati di monitoraggio ambientale, soprattutto nei casi in cui esistano/coesistano
modalità di esposizione non valutabili con gli strumenti di monitoraggio ambientale.
Il principale vantaggio degli indicatori di esposizione, rispetto agli altri I.B., consiste nella
specificità del composto/elemento testato (Pb, benzene, etc.) o per la classe di composti testati
(P.C.B., diossine, etc.).
La principale applicazione pratica degli indicatori di esposizione sta nella possibilità di
confrontare i valori riscontrati nei laboratori con i valori limite disponibili.
L’utilizzo degli indicatori di esposizione in molti casi è condizionato, tuttavia, alla possibilità di
confrontare i valori misurati nei laboratori con quelli presenti in un’adeguata popolazione di
controllo non professionalmente esposta, detta di riferimento.
L’abbassamento dei livelli di esposizione, occorso negli ultimi anni/decenni in molti settori
industriali ed artigianali, ha motivato una rivalutazione critica di molti indicatori di esposizione,
che un tempo venivano usati comunemente, ma che oggi non sono più validi in quanto non sono
in grado di discriminare i soggetti professionalmente esposti da quelli non esposti, ovvero i
laboratori in corso di esposizione da quelli lontani dall’esposizione.
Ciò ha stimolato fortemente la ricerca di nuovi indicatori biologici più sensibili e specifici.
Gli Indici Biologici di Esposizione (I.B.E.) sono stati introdotti dall’A.C.G.I.H. e – come per i
T.L.V. – sono sottoposti ad un aggiornamento con cadenza annuale.
Essi rappresentano i valori di riferimento del livello dell’indicatore che, con elevata probabilità, è
possibile riscontrare in campioni prelevati su lavoratori sani, esposti a livelli di concentrazione
nell’aria dell’ordine di grandezza del T.L.V. – T.W.A.
Fanno eccezione gli I.B.E. per alcune sostanze, e precisamente quelle per le quali i T.L.V. sono
basati sulla protezione dagli effetti non sistemici (ad esempio, irritazione o alterazione
respiratoria) ed un monitoraggio biologico è raccomandabile data la possibilità di assorbimento
attraverso una via addizionale di ingresso, di norma la cute.
Gli I.B.E. per queste sostanze possono essere basati sulla protezione contro gli effetti sistemici,
9
Si definisce con il termine xenobiotico (dal greco composto da ξένος -η -ον “xènos -e –on”: straniero e βίος “bìos”: vita) una
molecola di qualsiasi tipo, di origine naturale o sintetica, estranea ad un organismo
129
permettendo di conseguenza che la dose interna superi la quantità introdotta per via polmonare
per esposizione a livelli pari al T.L.V.
Gli IBE non rappresentano (come i T.L.V.) una linea di demarcazione netta fra esposizione
pericolosa o non pericolosa.
A causa della variabilità biologica, i risultati delle misure individuali possono superare gli I.B.E.
senza che vi sia un aumentato rischio per la salute.
Se, tuttavia, le misure effettuate su campioni, prelevati sul lavoratore in occasioni differenti,
forniscono risultati costantemente superiori agli I.B.E., o se la maggioranza delle misure
effettuate su campioni prelevati su gruppi di lavoratori, addetti alla stessa mansione, superano gli
I.B.E., è necessario studiare le cause di questa anomalia e prendere adeguate misure per ridurre
l’esposizione.
Gli I.B.E. si riferiscono ad esposizioni di otto ore per cinque giorni alla settimana e per le durate
di lavoro non convenzionali, possono anche essere estrapolati su base farmacocinetica e
farmacodinamica.
Gli I.B.E. non debbono essere utilizzati, né come tali, né attraverso fattori di conversione, nella
definizione di livelli di sicurezza per esposizioni extralavorative a contaminanti presenti
nell’aria, nell’acqua o negli alimenti.
Non debbono essere utilizzati come prova di esistenza di fattori nocivi o per la diagnosi di
malattie professionali.
Le fonti utilizzate per raccomandare gli I.B.E. consistono nell’insieme delle informazioni
disponibili relative all’assorbimento, all’eliminazione, al metabolismo delle sostanze chimiche
ed alla correlazione fra intensità di esposizione ed effetto biologico sui lavoratori.
Gli I.B.E. sono basati sia sulla relazione esistente fra intensità di esposizione e livello biologico
dell’indicatore, sia sulla relazione fra livelli biologici ed effetti sulla salute.
Dati umani, derivanti da studi su controlli e sul campo, sono stati utilizzati per individuare tali
relazioni; gli studi sugli animali normalmente non forniscono dati idonei per stabilire un I.B.E.
Nella tabella degli I.B.E. vengono riportati, per ciascuna sostanza, l’indicatore biologico da
ricercare, il campione da prelevare, il periodo di prelievo del campione ed i valori degli I.B.E; la
colonna “Notazioni” riporta informazioni addizionali importanti.
Gli I.B.E. sono stati formulati per tutti gli indicatori per i quali si è ritenuto che la disponibilità di
dati fosse sufficiente per poter fissare un valore di riferimento.
Viene indicato se bisogna prelevare campioni di urina, aria espirata o sangue: ciascun tipo di
campione ha propri fattori di variabilità che influenzano il livello dell’indicatore nel campione.
Altri campioni quali capelli od unghie, non vengono previsti al momento attuale.
Indicatori di dose interna (I.E.)
Sono IE in grado di misurare direttamente od indirettamente, attraverso la misura dei metaboliti,
la quantità/concentrazione di xenobiotico presente od accumulata in un determinato
compartimento od organo, come ad esempio il piombo urinario dopo chelazione (PbU).
Sono spesso più informativi dei corrispondenti I.E. in quanto forniscono un’informazione più
mirata che si presta ad una valutazione del rischio più precisa, soprattutto nei casi in cui la dose
venga misurata a livello dell’organo bersaglio.
Indicatori biologici di suscettibilità (I.B.S.)
Gli I.B.S. per il N.R.C. indicano un’intrinseca od acquisita diminuzione della capacità di un
organismo di rispondere ai possibili effetti, conseguenti all’esposizione ad un determinato
xenobiotico.
L’utilità pratica di un test di suscettibilità, come peraltro di qualsiasi tipo di test, dipende
essenzialmente da due fattori:
il suo valore predittivo, ovvero la sua validità, sensibilità e specificità, nel predire una
determinata suscettibilità ad una data patologia;
130
l’effettiva prevalenza di quella patologia nella popolazione studiata.
7. Insorgenza del rischio chimico
Un rischio chimico si concretizza nel momento in cui sul posto di lavoro si realizzano le condizioni
per cui risultano contemporaneamente presenti i due fattori di rischio:
presenza di agenti chimici pericolosi (fattori di rischio chimico);
presenza di condizioni di esposizione (fattori di rischio espositivo).
Dalla valutazione del rischio si ricava che il rischio connesso all’esposizione di agenti chimici
pericolosi è dato da:
R = P×E
essendo:
R
rischio derivante da esposizione ad agenti chimici pericolosi;
P
presenza di agenti chimici pericolosi (ciclo tecnologico);
E
presenza di condizioni di esposizione (modalità operative).
La tossicità di un agente chimico dipende dalla struttura chimica e dalle sue proprietà fisiche ed
esprime la sua capacità intrinseca a produrre effetti dannosi.
La probabilità di avere un effetto lesivo dipende dai seguenti fattori:
tossicità della sostanza (composizione chimica, caratteristiche e stato fisico, presenza di
impurezze, additivi o contaminati, cumulabilità nell’organismo, veicolo di diffusione);
modalità di esposizione (dose o concentrazione, via di contatto, durata e frequenza
dell’esposizione, periodo dell’esposizione);
caratteristiche del soggetto esposto (età, sesso, massa corporea, condizioni fisiche,
immunologiche e genetiche, condizioni di nutrizione, stato di gravidanza);
presenza di altri fattori ambientali (microclima o condizioni metereologiche, illuminazione,
rumore, organizzazione del lavoro, presenza di altre sostanze).
Gli effetti dell’esposizione ad agenti chimici si possono distinguere in ragione del periodo
dell’esposizione in:
acuti: effetti dopo brevissimo tempo di esposizione;
cronici: effetti dopo un prolungato periodo di esposizione (da alcuni giorni a molti anni);
reversibili: effetti che cessano dopo un dato periodo di tempo dopo l’esposizione;
irreversibili: effetti permanenti.
Nella classificazione dell’esposizione ad agenti chimici si individuano inoltre due dinamiche
dose/effetto:
effetti proporzionali: in questo caso l’intensità dell’effetto lesivo è proporzionale alla dose del
tossico, ovvero alla quantità di sostanza tossica assorbita dall’organismo in un certo tempo;
effetti non proporzionali: si tratta normalmente di effetti irreversibili come quelli cancerogeni,
mutageni e teratogeni, per loro non esiste una soglia minima certamente sicura e senza effetti.
7.1. Parametri per classificare gli agenti tossici, molto tossici, nocivi
Nel caso di effetti proporzionali la “dose − risposta” (dose alla quale corrisponde un effetto lesivo)
rappresenta un importante riferimento nello studio dell’igiene industriale.
In particolare se si estende lo studio dei rapporti dose − effetto ad un gruppo di soggetti si avrà un
rapporto di frequenza proporzionale alla dose del tossico.
Quindi per l’esposizione ad agenti chimici vi è la possibilità di definire statisticamente curve dose –
effetto dalle quali si può individuare la dose alla quale nessun soggetto subisce effetti lesivi, una
dose per cui subisce effetti lesivi una parte dei soggetti esposti (per esempio il 50 % ), ed una dose
131
alla quale tutti i soggetti esposti subiscono effetti lesivi.
Se si esegue l’osservazione prendendo come riferimento gli effetti lesivi letali, si determinerà la
cosiddetta Dose Letale.
Ad esempio la dose letale al 50 % dei soggetti esposti ad un dato agente chimico è indicata come
D.L.50: questo valore percentuale di dose letale è il più utilizzato ed ha il più alto numero di
riferimenti nella letteratura scientifica.
La D.L.50 è la dose che provoca la morte nel 50% degli animali da esperimento e va definita anche
la via (orale, cutanea, etc.).
Nel caso di esposizione ad agenti chimici aerodispersi è consuetudine riferire la valutazione degli
effetti di tipo acuto, non alla dose, ma alla concentrazione: si parlerà quindi di concentrazione
Letale e di C.L.50.
C.L.50 è la concentrazione in aria che provoca la morte del 50 % degli animali da esperimento, se
inalata per un determinato periodo di tempo.
I test con i quali vengono determinati la C.L.50 ed la D.L.50 sono di norma eseguiti su cavie, quindi
normalmente in letteratura e sulle schede di sicurezza delle sostanze e preparati pericolosi vengono
espressi con l’indicazione della specie di cavia utilizzata e la via di somministrazione (ad esempio
D.L.50= 250 mg/kg per contatto su coniglio).
8. Valutazione del rischio da esposizione a sostanze pericolose
Premessa
La presenza in ambito lavorativo di sostanze chimiche rappresenta un fattore di rischio sia per la
sicurezza sia per la salute degli operatori.
La protezione dei lavoratori contro i rischi, che derivano da ogni attività lavorativa, che comporti la
presenza di agenti chimici, è normata dal Titolo IX del Decreto Legislativo 81/08, Capo I.
Le sostanze ed i preparati, impiegati nei luoghi di lavoro, possono essere intrinsecamente pericolosi
sia a causa delle loro caratteristiche di tossicità, sia a causa delle particolari condizioni di impiego
che si realizzano.
Negli ambienti di lavoro, possono essere presenti agenti chimici pericolosi in seguito a lavorazioni
che ne richiedono la presenza, oppure a seguito di accadimenti accidentali, quali rilascio non voluto,
anomalia impiantistica, esplosione od incendio..., e prodotti di lavorazioni, quali fumi di saldatura.
I pericoli, derivanti dagli agenti chimici, possono riguardare l’effetto degli stessi sull’ambiente, o la
sicurezza e la salute dei lavoratori.
Per quanto riguarda i rischi per la salute, che possono causare effetti acuti o cronici, le vie di
penetrazione nell’organismo sono:
il contatto (pelle, mucose, ferite);
l’inalazione (naso, bocca);
l’ingestione (bocca).
A seconda delle caratteristiche di pericolosità degli agenti chimici il rischio è determinato:
dal livello, dalla durata, dalla frequenza e dalle modalità di esposizione;
dalla quantità di sostanza realmente assorbita dall’individuo;
dalle caratteristiche individuali dei soggetti esposti.
Le alterazioni dello stato di salute, potenzialmente conseguenti alla manipolazione delle sostanze
chimiche, presentano cause precise e possono essere prevenute attraverso l’adozione di misure
preventive e protettive adeguate ma, per poter disporre di dispositivi e di procedure di sicurezza, è
necessario conoscere in modo particolareggiato il rischio al quale si è esposti.
Di fatto è possibile stabilire il reale rischio espositivo, per una classe di lavoratori, solo a seguito di
una chiara ed oggettiva analisi e valutazione del rischio chimico.
132
8.1. Obblighi del datore di lavoro
Gli obblighi del datore di lavoro in materia di salute e sicurezza dei lavoratori esposti ad agenti
chimici sono:
valutare i rischi connessi all’uso dei prodotti pericolosi;
scegliere opportunamente le sostanze ed i preparati chimici da impiegare;
sostituire ciò che è pericoloso con ciò che non lo è o che è meno pericoloso (per esempio
l’utilizzo di un agente cancerogeno sul luogo di lavoro è subordinato alla dimostrazione che non
è tecnicamente possibile ricorrere a sostanze alternative od a processi tecnologici meno
pericolosi);
procedere all’eliminazione ed alla riduzione dei rischi attraverso l’adozione articolata, a seconda
dell’entità del rischio, delle misure generali di prevenzione, misure specifiche di prevenzione e
protezione;
informare i lavoratori sui pericoli connessi all’uso delle sostanze e dei preparati pericolosi,
addestrarli in occasione dell’introduzione di nuovi prodotti sul modo di prevenire incidenti,
disturbi e malattie;
informare i lavoratori dell’esistenza delle schede di sicurezza e del luogo in cui sono conservate;
adottare piani di sicurezza ed emergenza, adeguati alla tipologia degli agenti chimici presenti.
8.2. Procedura di valutazione rischi
Tale valutazione, di cui il datore di lavoro è considerato responsabile, parte dall’identificazione del
rischio a cui ciascun lavoratore è soggetto attraverso un’analisi delle mansioni e delle sostanze
manipolate, è seguita da una fase di valutazione vera e propria, secondo criteri standardizzati e
culmina nella stesura di un documento che evidenzia l’entità del rischio in esame.
Il Documento di Valutazione del Rischio chimico deve contenere:
un paragrafo dedicato ai criteri di valutazione seguiti;
una valutazione vera e propria del rischio con la determinazione dei livelli di esposizione per
ciascuna mansione;
l’indicazione di tutte le misure preventive e protettive adottate;
il programma delle misure, ritenute opportune, per garantire il miglioramento nel tempo dei
livelli di sicurezza.
8.3. Criteri
Nel paragrafo relativo ai criteri seguiti, il datore di lavoro deve indicare in modo semplice e
comprensibile, come è stata effettuata la valutazione del rischio chimico.
Ad esempio è possibile valutare il rischio espositivo dei lavoratori applicando dei software, cioè
inserendo in un programma di calcolo (scaricato da internet o acquistato) dei parametri che fanno
preciso riferimento alle sostanze, impiegate in azienda, ed alle reali condizioni espositive che si
realizzano durante la manipolazione di ciascuna sostanza.
Il software, se opportunamente applicato, attribuisce, ad ogni sostanza e per ogni tipologia di
applicazione descritta, un indice numerico che esprime l’entità del rischio presente.
In alternativa, per attestare che il livello di pericolosità delle condizioni di lavoro non è rischioso
per gli addetti che manipolano sostanze pericolose, è possibile misurare la concentrazione di
inquinante nell’aria, durante lo svolgimento delle lavorazioni, dimostrando che queste si
mantengono al di sotto dei limiti di Legge esistenti.
Nella descrizione dei criteri seguiti è bene anche spiegare, sinteticamente, il percorso di valutazione
effettuato, ad esempio seguendo le indicazioni di linee guida specifiche.
8.4. Valutazione e determinazione dei livelli di esposizione
La valutazione vera e propria, ovviamente eseguita secondo i criteri stabiliti, inizia con l’elenco
delle sostanze pericolose, direttamente manipolate dai lavoratori, o comunque presenti in azienda.
Per ciascun agente chimico è bene riportare anche le specifiche proprietà pericolose (ad esempio,
133
tossico, irritante, etc.).
Un errore frequente, che si commette in questa fase, è quello di non riportare la presenza di agenti
chimici che si producono a seguito di lavorazioni: l’esempio classico è quello del rischio chimico
dovuto alla presenza dei fumi di saldatura, i quali, pur non essendo volontariamente immessi od
acquistati dal datore di lavoro, di fatto, sono una conseguenza della lavorazione e per questo vanno
trattati alla stregua di tutte le altre sostanze chimiche pericolose.
(N.B. I fumi di saldatura possono essere persino cancerogeni).
A ciascuna sostanza devono essere assegnate le mansioni di lavoro che ne prevedono l’impiego ed a
queste deve corrispondere una descrizione precisa della manipolazione, specificando una serie di
dati quali la quantità utilizzata quotidianamente, la frequenza della lavorazione che ne prevede
l’impiego e la durata della stessa.
Sono molto importanti anche le informazioni, che riguardano le modalità espositive, come ad
esempio se l’agente chimico è presente in un sistema chiuso, o se è utilizzato sotto cappa, se è
presente un sistema di aspirazione generale, etc.
Inoltre è bene riportare una serie di informazioni reperibili sulla scheda di sicurezza di ciascuna
sostanza pericolosa, come le misure in caso di incendio od emergenza, la corretta manipolazione e
la scelta dei più adatti Dispositivi di Protezione Individuale.
La valutazione deve concludersi con una “quantificazione” del livello di esposizione che, secondo il
Decreto Legislativo 81/2008 classifica il rischio in “basso per la salute ed irrilevante per la
sicurezza”, o “superiore a basso per la salute ed irrilevante per la sicurezza”.
N.B. Classificazioni del rischio molto frequenti quali modesto, lieve, basso, etc. non sono congrue
alle richieste della normativa vigente.
La valutazione del rischio di esposizione a sostanze pericolose deve essere effettuata in
collaborazione con il medico competente.
Nella valutazione di cui all’art. 28, il datore di lavoro, determina, preliminarmente l’eventuale
presenza di agenti chimici pericolosi, sul luogo di lavoro e valuta anche i rischi per la sicurezza e la
salute dei lavoratori, derivanti dalla presenza di tali agenti, prendendo in considerazione in
particolare:
le loro proprietà pericolose;
le informazioni sulla salute e sicurezza, comunicate dal responsabile dell’immissione sul mercato
tramite la relativa scheda di sicurezza, predisposta ai sensi dei Decreti Legislativi del 3 febbraio
1997, n. 52, e del 14 marzo 2003, n. 65, e successive modifiche;
il livello, il tipo e la durata dell’esposizione;
le circostanze in cui viene svolto il lavoro in presenza di tali agenti, compresa la quantità degli
stessi;
i valori limite di esposizione professionale od i valori limite biologici, di cui un primo elenco è
riportato negli allegati XXXVIII e XXXIX;
gli effetti delle misure preventive e protettive adottate o da adottare;
se disponibili, le conclusioni tratte da eventuali azioni di sorveglianza sanitaria già intraprese.
La valutazione dei rischi si articola in quattro fasi successive:
I fase: Individuazione della presenza dei fattori di rischio chimico (pericoli).
Comporta la ricerca delle fonti di rischio e della presenza di agenti chimici pericolosi.
Viene realizzato un esame del ciclo lavorativo, finalizzato all’individuazione della presenza,
intenzionale o non, di agenti chimici pericolosi nelle varie lavorazioni od operazioni.
II fase: Individuazione della presenza di potenziali situazioni di esposizione ai fattori di rischio
chimico (esposizione).
Comporta la ricerca dei rischi per la sicurezza (incendio, esplosione, degrado delle
apparecchiature) e dei rischi per la salute conseguenti ad esposizione a sostanze pericolose per la
salute.
Viene realizzata un’analisi dei sistemi di lavorazione, della natura delle sostanze e delle
134
caratteristiche intrinseche di pericolosità nell’ambito delle modalità lavorative e quindi delle
conseguenti modalità di esposizione: sistemi di sicurezza in atto.
III fase: Rilevazione e misurazione dei livelli di esposizione ai fattori di rischio chimico.
Comporta la misura delle condizioni di esposizione ai fattori di rischio per la sicurezza e la
salute.
Vengono realizzate:
1. verifica delle situazioni di rischio per la sicurezza (incendio, esplosione, etc.): applicazione
delle norme;
2. misura dei livelli di esposizione a sostanze pericolose per la salute:
monitoraggio ambientale (L.E.AMB.);
monitoraggio cutaneo (L.E.CUT.);
monitoraggio biologico (L.ASS.).
3. elaborazione statistica dei dati raccolti.
IV fase: Stima e valutazione dell’esposizione ad agenti chimici pericolosi.
Comporta la valutazione del rischio chimico.
Vengono realizzate la valutazione dei rischi per la sicurezza (normativa e norme di buona
tecnica), la valutazione dei rischi per la salute attraverso confronto “ragionato” dei risultati con i
valori limite di esposizione V.L.E. e con gli indicatori biologici di esposizione I.B.E.
Segue la definizione dei conseguenti interventi di prevenzione e protezione.
9. Misure preventive e protettive
La presenza di sostanze pericolose impone una serie di misure preventive e protettive che possono
essere riassunte e schematizzate nei seguenti obblighi in capo al datore di lavoro:
progettazione ed organizzazione dei sistemi di lavorazione sul luogo di lavoro;
sostituzione dei prodotti pericolosi, se tecnicamente possibile, con prodotti meno pericolosi;
formazione, informazione ed addestramento specifici dei lavoratori;
fornitura di attrezzature idonee per il lavoro specifico e relative procedure di manutenzione
adeguate;
riduzione al minimo del numero di lavoratori che sono o potrebbero essere esposti;
riduzione al minimo della durata e dell’intensità dell’esposizione;
misure igieniche adeguate (possibilità di lavaggi frequenti delle mani, etc.);
riduzione al minimo della quantità di agenti presenti sul luogo di lavoro in funzione delle
necessità della lavorazione;
metodi di lavoro appropriati, comprese le disposizioni che garantiscono la sicurezza nella
manipolazione, nell’immagazzinamento e nel trasporto sul luogo di lavoro di agenti chimici
pericolosi nonché dei rifiuti che contengono gli stessi;
progettazione di appropriati processi lavorativi e controlli tecnici, nonché uso di attrezzature e
materiali adeguati;
misure di protezione collettiva come segregazioni, compartimentazioni, montaggio di cappe
aspiranti e dove possibile, implementazione di cicli di lavoro chiusi;
misure di protezione individuali (dotazioni di guanti, maschere, tute, occhiali protettivi adeguati
alla tipologia di sostanza manipolata);
sorveglianza sanitaria dei lavoratori;
procedure specifiche per le operazioni di pulizia e per gli interventi in caso di incidente od
emergenza.
Se i risultati della valutazione dei rischi dimostrano che, in relazione al tipo ed alle quantità di un
agente chimico pericoloso ed alle modalità e frequenza di esposizione a tale agente presente sul
luogo di lavoro, vi sono le seguenti condizioni:
solo un rischio basso per la sicurezza è irrilevante per la salute dei lavoratori;
le misure di prevenzione e protezione sopra elencate sono sufficienti a ridurre il rischio;
135
non si applicano le disposizioni degli articoli 225 (Misure specifiche di protezione e di
prevenzione), 226 (Disposizioni in caso di incidenti o di emergenze), 229 (Sorveglianza sanitaria),
230 (Cartelle sanitarie e di rischio).
Laddove l’applicazione delle suddette misure non dovesse essere sufficiente ad eliminare e/o ridurre
al minimo il rischio devono essere applicate le seguenti misure nell’indicato ordine di priorità:
a. progettazione di appropriati processi lavorativi e controlli tecnici, nonché uso di attrezzature e
materiali adeguati;
b. appropriate misure organizzative e di protezione collettive alla fonte del rischio;
c. misure di protezione individuali, compresi i dispositivi di protezione individuali, qualora non si
riesca a prevenire con altri mezzi l’esposizione;
d. sorveglianza sanitaria dei lavoratori.
9.1. Programma degli interventi di miglioramento
Il Decreto Legislativo 81/2008 stabilisce che il datore di lavoro preveda, nel documento di
valutazione del rischio, un capitolo dedicato al programma degli interventi di protezione,
prevenzione che intende attuare, nel tempo, per garantire il miglioramento delle condizioni
lavorative.
Tra queste si ricorda di inserire:
programmi di formazione, informazione ed addestramento relativi al rischio chimico (dati
ottenuti attraverso la valutazione del rischio aziendale, informazioni sugli agenti chimici
pericolosi, presenti sul luogo di lavoro, formazione ed informazioni su precauzioni ed azioni
adeguate da intraprendere per proteggere loro stessi ed altri lavoratori sul luogo di lavoro,
modalità di accesso alle schede di sicurezza delle sostanze manipolate);
programmi di formazione, informazione ed addestramento relativi al corretto utilizzo dei D.P.I.
in dotazione;
programmi specifici di formazione per i neoassunti o per i lavoratori che cambiano mansione;
manutenzione ordinaria e straordinaria per mantenere gli impianti e le macchine in efficienza.
9.2. Protocollo sanitario e medico competente
Il medico competente, in relazione ai rischi professionali cui sono esposte le varie mansioni, decide
i protocolli sanitari e sottopone il lavoratore agli accertamenti di Legge che sono:
visita medica preventiva, per accertare l’idoneità del lavoratore, al momento dell’assunzione alla
mansione specifica cui è destinato;
visita medica periodica, per controllare periodicamente lo stato di salute;
visita medica straordinaria, richiesta dai lavoratori per ragioni di salute o dall’azienda per cambio
di mansione;
accertamenti dell’assenza di tossicodipendenze nonché di alcoldipendenze per i lavoratori
destinati a mansioni che comportano rischi per la sicurezza, l’incolumità e la salute di terzi
nonché rischi di infortunio;
definisce la metodologia ed i criteri per la valutazione dei rischi da stress correlato al lavoro
come causa di malattie ed infortuni.
Il medico competente, a seguito della valutazione del rischio, per ciascuno dei lavoratori impiegati
redige le cartelle sanitarie e di rischio, informa il lavoratore sul significato degli accertamenti
sanitari cui è stato sottoposto, rilascia i certificati di idoneità, predispone i calendari delle visite
sulla base della periodicità stabilita.
Il protocollo di sorveglianza sanitaria è uno strumento fondamentale per monitorare lo stato di
salute del lavoratore ed, in base alla mansione svolta ed alle particolari condizioni espositive, riporta
indicazioni sulla tipologia di esami clinici e/o strumentali a cui sottoporre il lavoratore, oltre che la
frequenza con la quale eseguirli.
Fatto salvo quanto sopra riportato circa i casi di deroga, sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria i
lavoratori esposti agli agenti chimici pericolosi per la salute che rispondono ai criteri per la
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classificazione come molto tossici, tossici, nocivi, sensibilizzanti, corrosivi, irritanti, tossici per il
ciclo riproduttivo, cancerogeni e mutageni di categoria 3.
La sorveglianza sanitaria viene effettuata:
a. prima di adibire il lavoratore alla mansione che comporta esposizione;
b. periodicamente, di norma una volta l’anno o con periodicità diversa, decisa dal medico
competente;
c. con adeguata motivazione, riportata nel documento di valutazione dei rischi, e resa nota ai
rappresentanti per la sicurezza dei lavoratori, in funzione della valutazione del rischio e dei
risultati della sorveglianza sanitaria;
d. all’atto della cessazione del rapporto di lavoro.
In tale occasione il medico competente deve fornire al lavoratore le eventuali indicazioni,
relative alle prescrizioni mediche da osservare.
9.3. Stoccaggio delle sostanze pericolose
Il locale, destinato a “magazzino” delle scorte degli agenti chimici, deve essere opportunamente
compartimentato, dotato di dispositivi di rilevazione antincendio e di adeguata areazione.
L’immagazzinamento di tali sostanze può avvenire mediante l’utilizzo di appositi armadi o scaffali,
adeguatamente fissati alle pareti, corredati di vasche di contenimento, costruiti di materiale robusto
e resistente alla corrosione, quali ad esempio armadi o scaffali di lamiera d’acciaio verniciata
epossidicamente, muniti di ripiani con bordo esterno rialzato per evitare lo scivolamento dei
contenitori.
Le regole generali di conservazione e stoccaggio delle sostanze pericolose sono:
non stoccare gli agenti chimici pericolosi sul pavimento, sui banchi di lavoro e sotto cappa, ma
in appositi armadi di sicurezza;
immagazzinare le scorte in locali diversi da quelli adibiti alle lavorazioni, possibilmente in locali
separati;
non posizionare gli armadi od eventuali scaffali lungo le vie di fuga, nei pressi di uscite di
sicurezza e comunque in prossimità di fonti di calore e sorgenti di innesco;
predisporre, presso ogni magazzino di sostanze pericolose, il materiale per l’assorbimento e la
neutralizzazione di eventuali versamenti, così come indicato nelle schede di sicurezza di ciascun
prodotto;
effettuare la separazione e la segregazione dei prodotti e/o agenti chimici in funzione delle loro
classi di pericolo e compatibilità, ad esempio distinguendo gli acidi, dalle basi, dagli
infiammabili, etc., seguendo le indicazioni della scheda di sicurezza.
Conservare i prodotti e/o agenti chimici nelle confezioni originali.
qualora sia necessario travasare un agente chimico, etichettare il recipiente riportando tutte le
indicazioni presenti sul contenitore originale (nome della sostanza, pittogrammi, frasi di rischio
R, consigli di prudenza S, indicazioni relative al fornitore e massa o volume del contenuto) in
modo che queste siano leggibili anche a distanza di tempo;
conservare le schede di sicurezza di tutti gli agenti chimici, presenti in un luogo noto ed
accessibile a tutti coloro che operano con tali sostanze;
rispettare le condizioni di stoccaggio, riportate sulla schede di sicurezza dello specifico agente
chimico;
non mescolare fra loro agenti chimici diversi se non si è certi della loro compatibilità;
tenere nei luoghi di lavoro solo la quantità di agenti chimici necessari all’attività in corso;
periodicamente, verificare l’integrità dei contenitori per evitare perdite e diffusioni di sostanze
pericolose nell’ambiente;
movimentare i contenitori solo se sono chiusi e indossando guanti adeguati alla pericolosità
dell’agente chimico.
Negli ambienti di lavoro, all’interno di armadi specifici, dotati di bacini di contenimento ed
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opportunamente ventilati, possono essere stoccate quantità di antifiammabili, o facilmente
combustibili solo in quantità necessarie alle lavorazioni.
Se le quantità sono notevoli anche lo stoccaggio deve avvenire in depositi ubicati all’esterno dei
luoghi di lavoro, opportunamente segnalati da cartellonistica, e realizzati con materiali non
combustibili, dotati di pavimento a tenuta e di impianto elettrico con un idoneo livello di
protezione.
9.4. Buone prassi e procedure lavorative
Per buona prassi si intende tutto ciò che consente il raggiungimento di soluzioni organizzative o
procedurali, adottate volontariamente ed in grado di migliorare i livelli di salute e sicurezza nei
luoghi di lavoro.
In linea del tutto generale negli ambienti dove si fa uso di sostanze chimiche è bene:
se possibile, sostituire ciò che è pericoloso con ciò che lo è meno;
prima di utilizzare qualsiasi prodotto, acquisire le informazioni riportate sulle schede di
sicurezza;
indossare sempre gli idonei Dispositivi di Protezione Individuali (guanti, occhiali, maschere,
etc.);
vietare di fumare, bere e mangiare;
evitare l’uso di lenti a contatto perché possono essere fonti di accumulo di sostanze pericolose;
evitare di utilizzare fiamme libere in presenza di sostanze infiammabili;
mantenere il luogo di lavoro in condizioni di pulizia e di ordine, evitando di introdurre oggetti
estranei alle attività;
rispettare le normali norme igieniche, come ad esempio lavarsi le mani al termine del lavoro;
non toccare oggetti di uso comune (telefoni, cellulari, tastiere, utensili, etc.) con i guanti
indossati per effettuare le lavorazioni;
registrare e custodire in idonei armadi di sicurezza le sostanze pericolose;
registrare e custodire sotto chiave eventuali sostanze cancerogene e radioattive;
tenere separati i prodotti incompatibili (ad esempio combustibili e comburenti), come indicato
nelle schede di sicurezza;
non rimuovere le etichette dai recipienti;
istituire delle procedure operative specifiche per le manipolazioni e le attività particolarmente
rischiose e delicate.
9.5. Dispositivi di protezione individuale (D.P.I.)
Per dispositivo di protezione individuale si intende qualsiasi attrezzatura destinata ad essere
indossata e tenuta dal lavoratore allo scopo di proteggerlo contro uno o più rischi, suscettibili di
minacciarne la sicurezza o la salute durante il lavoro, nonché ogni complemento od accessorio
destinato a tale scopo.
Nell’etichetta dei dispositivi di protezione individuale sono indicati i pittogrammi di rischio,
simboli che permettono la chiara identificazione della tipologia di rischio per il quale il dispositivo
deve essere utilizzato, ed il codice EN, vale a dire il numero della norma tecnica di riferimento a cui
il dispositivo è conforme.
Per quanto riguarda la protezione da agenti chimici si possono distinguere:
9.5.1. Protezioni delle vie respiratorie (C.E. EN 149);
Respiratori a filtro (classi F.F.P.1, F.F.P.2, F.F.P.3).
L’aria passa attraverso un filtro per essere purificata e trattenere gli inquinanti.
In base alla tipologia di inquinante i respiratori a filtro si dividono in:
respiratori antipolvere: per la protezione da polveri, fibre, fumi e nebbie;
respiratori antigas: per la protezione da gas e vapori;
respiratori combinati: per la protezione da gas, vapori e polveri.
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I filtri antipolvere devono essere sostituiti quando si avverte un aumento sensibile della
resistenza respiratoria.
Per quanto riguarda i facciali filtranti antipolvere, bisogna inoltre tenere conto anche della
perdita di tenuta nel tempo; è per questo che le norme tecniche prevedono la sostituzione del
facciale dopo ogni turno di lavoro.
Se il facciale è dotato di bordo di tenuta, la sostituzione è consigliata al massimo dopo tre turni
lavorativi.
È importante verificare ad ogni utilizzo la corretta tenuta al volto del respiratore/maschera.
Respiratori antigas
I filtri per gas e vapori sono realizzati con carbone attivo trattato, in grado di trattenere specifiche
famiglie di composti chimici per assorbimento fisico o chimico.
Poiché la durata di un filtro dipende da molti fattori, fra i quali natura e concentrazione del
contaminante, umidità, temperatura, ritmo respiratorio e capacità polmonare, non è possibile dare
una durata teorica del filtro.
Quest’ultimo va sostituito quando l’utilizzatore avverte l’odore od il sapore della sostanza poiché
ciò avviene quando il carbone attivo è saturo e ha quindi esaurito la sua capacità di assorbimento.
9.5.2. Protezione degli arti superiori (EN 374, EN 420)
La manipolazione delle sostanze pericolose comporta la necessità di utilizzare idonei dispositivi di
protezione per le mani e gli arti superiori.
Le diverse sostanze chimiche pericolose hanno poteri di penetrazione e di permeazione differenti di
cui è necessario tenere conto durante la scelta dei guanti da fornire ai lavoratori.
I guanti più utilizzati sono costituiti da nitrile, neoprene, lattice, P.V.C. e vinile.
Il guanto è adatto alla sostanza chimica corrispondente e può essere utilizzato dopo aver
attentamente valutato le condizioni di utilizzo.
È buona norma evitare l’impiego del guanto con la sostanza chimica corrispondente.
9.5.3. Protezione degli occhi (EN 166)
I casi in cui devono essere usati i dispositivi di protezione degli occhi sono:
rischi meccanici (polvere a grana grossa e fine, particelle ad alta velocità, corpi incandescenti e
metalli fusi);
rischi ottici (raggi nocivi derivanti dalla saldatura o taglio alla fiamma oppure elettrica);
rischi chimici (gas, spruzzi o gocce di soluzioni chimiche).
I dispositivi di protezione degli occhi specifici per il rischio chimico sono:
occhiali a stanghetta con o senza protezione laterale;
occhiale a mascherina ad elastico.
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TipoProtezione
A Gas e vapori organici con punto di
ebollizione superiore a 65 ° C , secondo le
indicazioni del fabbricante.
B Gas e vapori inorganici , secondo le
indicazioni del fabbricante.
E Gas acidi, secondo le indicazioni del
fabbricante.
K Ammoniaca e derivati, secondo le
indicazioni del fabbricante.
AX Gas e vapori organici a basso punto di
ebollizione (inferiore a 65 ° C ), secondo le
indicazioni del fabbricante.
SX Per composti specificamente indicati dal
fabbricante.
NO – P3 Per fumi azotati.
Hg – P3 Per mercurio.
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Colore del filtro
Marrone
Grigio
Giallo
Verde
Marrone
Violetto
Blu e bianco
Rosso e bianco
10. Esposizione a rischi elettrici
(LEGGE del 5 marzo 1990 n. 46 – Norme per la sicurezza degli impianti e DECRETO MINISTERIALE n. 37 del
22/01/2008)
Premessa
Le misure preventive e protettive per la tipologia di rischio in esame devono essere collocate in un
quadro più ampio di applicazione rispetto al mero ambito lavorativo, in quanto la presenza di
“elettricità” nella vita quotidiana è divenuta un’abitudine per ognuno.
Ne consegue che opportune precauzioni e norme comportamentali devono divenire patrimonio
culturale comune a quanti non sono esperti e come tali applicate ovunque.
La considerazione è supportata, qualora ve ne fosse bisogno, dai dati statistici che Enti pubblici,
privati, quotidiani, e riviste specializzate del settore forniscono in percentuali non sempre omogenee
ma che comunque, dimostrano che il rischio elettrico rappresenta al momento la maggiore causa di
incidenti, troppo spesso mortali, accorsi dentro e fuori i luoghi di lavoro.
Autorevoli fonti tra le quali l’I.S.T.A.T. indicano che nel periodo tra il 1986 e il 1992 si sono
verificati in media 280 incidenti mortali l’anno; questo valore si è ridotto notevolmente negli anni
successivi, esaminati fino al 1995, attestandosi attorno alla metà degli eventi citati.
Segnala l’I.S.P.E.S.L., che nel 1988 il 90 % degli incidenti è avvenuto in presenza di bassa
tensione ( 50 ÷ 1000 V in corrente alternata o 75 ÷ 1500 V in corrente continua) di cui circa la
metà si sono verificati all’esterno dei luoghi di lavoro.
È utile segnalare il dato, fornito dal Ministero dell’Interno, secondo il quale gli incendi. di origine
elettrica, sono valutabili da 3 a 6 mila l’anno, il che corrisponde a 8 ÷ 16 incendi di origine elettrica
al giorno.
La fonte degli incendi è attribuita principalmente alle condutture ed ai quadri elettrici.
Senza dubbio l’emanazione e la graduale applicazione della Legge 46/90 ha concorso a ridurre gli
incidenti, ma ancora molto si può e si deve fare per ridurre la componente di rischio residua, che è
possibile abbattere unicamente con il corretto approccio comportamentale, dettato dalla specifica
conoscenza dei problemi e dall’informazione, necessaria per affrontare scenari, che la normativa
non può prevedere.
1. Il rischio elettrico
Il rischio elettrico deriva dagli effetti dannosi che la corrente elettrica può produrre all’uomo in
modo diretto (quando il corpo umano è attraversato da corrente) od indiretto (ad esempio incendio
dovuto a causa elettrica).
Gli effetti dannosi della corrente elettrica possono verificarsi in seguito a:
1. contatto diretto: contatto accidentale di una parte del corpo con elementi che nel normale
funzionamento sono in tensione, quali morsetti, prese, conduttori scoperti, barre elettrificate dei
quadri elettrici, etc.
È un infortunio tipico di alcune categorie di lavoratori, ad esempio elettricisti, che a causa delle
mansioni svolte si trovano a dover operare su parti elettriche in tensione.
È comunque possibile che tale fenomeno si riscontri anche in altre categorie di lavoratori a causa
di interventi di manutenzione carenti od impropri, od a causa di manomissione di
attrezzature/apparecchiature.
2. contatto indiretto: contatto accidentale di una parte del corpo con parti di apparecchiatura, quali
masse metalliche, involucri carcasse, etc., che durante il normale funzionamento non è in
tensione ma che si trova in tensione per effetto di anomalie quali cadute di isolamento, guasti,
etc.
È un fenomeno assai più insidioso del precedente, in quanto il passaggio di corrente elettrica
attraverso il corpo umano, si realizza mediante un contatto con una parte metallica di
141
un’apparecchiatura che in normali condizioni non è in tensione ed è accessibile all’utilizzatore.
Tale situazione si verifica in caso di malfunzionamento/guasto di un’apparecchiatura elettrica.
3. Arco elettrico: Fenomeno fisico di ionizzazione dell’aria con produzione di calore intenso, di gas
tossici e raggi ultravioletti, che si innesca a seguito di corto circuito.
È un effetto tipico del corto circuito, specialmente in impianti elettrici ad alto potenziale: è molto
pericoloso in quanto provoca il raggiungimento di temperature elevatissime in grado di fondere
anche materiali molto resistenti, con conseguente pericolo di innesco di incendio e produzione di
gas tossici.
Esso si manifesta con un evidentissimo fenomeno luminoso dovuto alla scarica elettrica, talvolta
accompagnato da un forte rumore.
Il fulmine è l’esempio a noi tutti noto di un arco elettrico di proporzioni enormi tra una nuvola e
la terra.
4. Incendio di origine elettrica: L’incendio è forse l’evento negativo più grave e più frequente
legato all’impiego dell’energia elettrica. Tale fenomeno è associabile ad una o più delle seguenti
cause:
cattiva realizzazione/progettazione degli impianti elettrici;
carente manutenzione degli stessi;
scorretto utilizzo di apparecchiature ad alimentazione elettrica, ad esempio uso di prolunghe,
spine multiple, ciabatte, etc.
L’incendio si innesca in seguito ad un arco elettrico che scaturisce da corto circuiti oppure a
causa di fenomeni di sovracorrenti (sovraccarichi) che possono innalzare la temperatura dei
componenti elettrici sino a provocarne l’innesco, oppure a seguito di entrambi non interrotti
tempestivamente.
Il corto circuito rappresenta una condizione di guasto che, a causa dell’elevatissimo valore di
corrente elettrica in circolazione, può comportare il raggiungimento di temperature molto elevate
(migliaia di ° C ) nei circuiti ed il formarsi di archi elettrici.
Il cortocircuito è una corrente molto superiore al valore nominale dell’impianto che si verifica
per contatto diretto di due parti in tensione, ad esempio due cavi.
Esso genera surriscaldamento dei cavi in tempi brevissimi sino a provocarne la fusione, nel
punto di contatto.
Il sovraccarico è una condizione anomala di funzionamento, in conseguenza del quale i circuiti
elettrici sono percorsi da una corrente superiore rispetto a quella per la quale sono stati
correttamente dimensionati.
Tale corrente provoca il surriscaldamento dei cavi, in tempi lunghi, sino al cedimento
dell’isolamento degli stessi, con conseguenti rischi di contatti diretti delle parti in tensione da
parte del personale, oppure dispersioni di correnti verso le masse dell’impianto.
La non tempestiva interruzione di questa “sovracorrente” può dare luogo all’eccessivo
riscaldamento dei cavi o di altri componenti dell’impianto elettrico.
Entrambe le situazioni sopraddette, specialmente in ambienti con forte presenza di materiali
combustibili, possono costituire causa di incendio.
In generale, ed in particolare in tali ambienti, è pertanto necessario prevedere, in sede di
progettazione dell’impianto elettrico, idonei dispositivi per l’eliminazione tempestiva dei corto
circuiti e dei sovraccarichi (interruttori automatici magnetotermici).
2. Elettrocuzione
Il fenomeno, meglio conosciuto come “scossa” elettrica, viene propriamente detto elettrocuzione,
cioè condizione di contatto tra corpo umano ed elementi in tensione con attraversamento del corpo
da parte della corrente.
Condizione necessaria perché avvenga l’elettrocuzione è che la corrente abbia rispetto al corpo un
punto di entrata ed un punto di uscita: il punto di entrata è di norma la zona di contatto con la parte
in tensione, il punto di uscita è la zona del corpo che entra in contatto con altri conduttori,
142
consentendo la circolazione della corrente all’interno dell’organismo, seguendo un dato percorso.
In altre parole, se accidentalmente le dita della mano toccano una parte in tensione ma l’organismo
è isolato da terra (scarpe di gomma) e non vi è altro contatto con corpi estranei, non si verifica la
condizione di passaggio della corrente e non si registra alcun incidente, mentre se la medesima
circostanza si verifica a piedi nudi si avrà elettrocuzione con circolazione della corrente nel
percorso che va dalla mano verso il piede, in tal caso punto di uscita.
La gravità delle conseguenze dell’elettrocuzione dipende dall’intensità della corrente che attraversa
l’organismo, dalla durata di tale evento, dagli organi coinvolti nel percorso e dalle condizioni del
soggetto.
Il corpo umano è un conduttore che consente il passaggio della corrente offrendo, nel contempo,
una certa resistenza a tale passaggio, minore è la resistenza, maggiore risulta la quantità di corrente
che lo attraversa.
Detta resistenza non è quantificabile in quanto varia da soggetto a soggetto, anche in funzione delle
differenti condizioni in cui il medesimo soggetto si può trovare al momento del contatto.
Molteplici sono i fattori che concorrono a definirla e che in sostanza non consentono di creare un
parametro di riferimento comune che risulti attendibile.
Tra essi vi sono il sesso, l’età, le condizioni in cui si trova la pelle (la resistenza è offerta quasi
totalmente da essa), la sudorazione, le condizioni ambientali, gli indumenti interposti, la resistenza
interna che varia da persona a persona, le condizioni fisiche del momento, il tessuto e gli organi
incontrati nel percorso della corrente dal punto di entrata al punto di uscita.
Gli effetti della corrente elettrica sul corpo umano possono assumere varie forme e gravità in
relazione al tipo di evento (tipo di contatto, durata dello stesso, tensione, etc.) ed alle condizioni
ambientali (ad esempio umidità, resistività del terreno, etc.).
In generale si possono individuare i seguenti effetti:
contrazione muscolare (tetanizzazione);
arresto respiratorio;
arresto cardiaco;
ustioni.
tetanizzazione: È il fenomeno che per eguale effetto, prende il nome da una malattia di natura
diversa.
In condizioni normali, la contrazione muscolare è regolata da impulsi elettrici trasmessi,
attraverso i nervi, ad una placca di collegamento tra nervo e muscolo, detta placca
neuromuscolare.
L’attraversamento del corpo da parte di correnti superiori provoca, a certi livelli di intensità,
fenomeni indesiderati di contrazione dei muscoli che spesso non permettono il rilascio delle parti
in tensione con cui si è venuti a contatto.
Ad esempio, il contatto, tra un conduttore in tensione ed il palmo della mano, determina la
chiusura indesiderata ed incontrollabile della mano che rimane per questo attaccata al punto di
contatto.
Il mancato rilascio inoltre consente alla corrente elettrica di continuare ad attraversare il corpo
umano. Il valore minimo della corrente per cui accade la tetanizzazione ed il mancato rilascio
delle parti in tensione è detta “ corrente di rilascio”.
arresto respiratorio: La respirazione avviene mediante inspirazione e successiva espirazione di un
certo volume di aria che si ripete in condizioni normali circa 12 ÷ 14 volte al minuto.
I singoli atti respiratori avvengono per la contrazione dei muscoli intercostali e del diaframma
che con il loro movimento variano il volume della cassa toracica.
Durante l’elettrocuzione per i medesimi motivi che determinano la tetanizzazione, i muscoli si
contraggono e non consentono l’espansione della cassa toracica impedendo la respirazione. Se
non si elimina velocemente la causa della contrazione e se non si pratica, in seguito ad evento di
notevole intensità, la respirazione assistita, il soggetto colpito muore per asfissia.
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fibrillazione ventricolare: Quanto già esposto lascia intuire che in un organo notoriamente
delicato quale è il cuore, che basa la propria funzionalità su ritmi dettati da impulsi elettrici, ogni
interferenza di natura elettrica può provocare scompensi alla normale azione di pompaggio, con
contrazione irregolare dei ventricoli che conduce nella maggior parte dei casi all’arresto
cardiaco.
In funzione dell’intensità di corrente e della durata del fenomeno accidentale, detta alterazione
causa la mancata espulsione dall’organo di sangue ossigenato. Ciò determina il mancato
nutrimento in primo luogo del cervello che, a differenza di altri organi non può resistere per più
di 3 − 4 minuti senza ossigeno, senza risultare danneggiato in modo irreversibile. In questo caso
un tempestivo massaggio cardiaco offre qualche possibilità di recuperare l’infortunato, altrimenti
destinato a morte sicura.
La fibrillazione ventricolare è considerata un fenomeno quasi irrevesibile, poiché quando si
innesca, il cuore non ritorna a funzionare spontaneamente, salvo con l’applicazione di un
defibrillatore, di difficile reperibilità in tempo utile (generalmente 10 ÷ 15 minuti).
ustioni: Sono la conseguenza tanto maggiore quanto maggiore è la resistenza all’attraversamento
del corpo da parte della corrente che, per effetto Joule, determina uno sviluppo di calore.
Normalmente le ustioni si concentrano nel punto di ingresso ed in quello di uscita della corrente
dal corpo in quanto la pelle è la parte che offre maggiore resistenza.
Come per gli altri casi la gravità delle conseguenze sono funzione dell’intensità di corrente e
della durata del fenomeno.
Oltre agli effetti sopracitati, è importante tenere presente che la corrente elettrica può avere sul
corpo umano effetti secondari a livello del sistema nervoso, cardiovascolare, uditivo, visivo, etc.,
nonché provocare infortuni spesso molto gravi in modo indiretto, come nel caso delle cadute
dall’alto a seguito di una scossa elettrica o, come già detto, delle lesioni causate da incendi di
origine elettrica.
3. Possibili situazioni a rischio elettrico
Le situazioni di rischio più probabili sono associate:
ad interventi tecnici effettuati sotto tensione senza adottare le dovute cautele;
alla realizzazione di impianti o parti di essi non idonei all’uso od all’ambiente in cui sono
installati;
all’uso di componenti elettrici non completamente integri (conduttori con isolamento deteriorato,
prese o spine spaccate, etc.);
all’uso scorretto di utilizzatori ad alimentazione elettrica (uso di spine multiple, ciabatte od
adattatori, etc.).
4. Misure di prevenzione e protezione
4.1. Misure preventive
Alcune semplici regole da seguire dentro e fuori i luoghi di lavoro possono proteggere la vita:
assicurarsi della rispondenza dell’impianto elettrico alla Legge 46/90 (attestato di conformità);
essere a conoscenza del luogo in cui è posizionato il quadro elettrico generale;
essere a conoscenza della posizione del quadro elettrico di zona (ad esempio del piano o
dell’appartamento) per essere in grado di isolare l’intera zona;
essere a conoscenza della funzione dei vari interruttori del quadro di zona per essere in grado di
isolare l’ambiente desiderato;
verificare spesso il buon funzionamento dell’interruttore differenziale (pulsante test);
non lasciare accesi apparecchi che potrebbero provocare un incendio durante l’assenza o di notte;
non chiudere mai la stanza a chiave se dentro vi sono utilizzatori pericolosi accesi;
non utilizzate mai apparecchi nelle vicinanze di liquidi od in caso di elevata umidità;
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leggere sempre l’etichetta di un utilizzatore, specie se sconosciuto, per verificare la quantità di
corrente assorbita, l’esistenza dei marchi C.E., I.M.Q., e, se previsto di doppio isolamento;
gli impianti vanno revisionati e controllati solo da personale qualificato;
non eseguire riparazioni di fortuna con nastro isolante od adesivo a prese, spine e cavi;
non utilizzare mai l’acqua per spegnere un incendio di natura elettrica: sezionare l’impianto e
utilizzare estintori a polvere o CO 2 ;
se qualcuno è in contatto con parti in tensione non tentare di salvarlo trascinandolo via, prima di
aver sezionato l’impianto;
le prese sovraccaricate possono riscaldarsi e divenire causa di corto circuiti, con conseguenze
anche gravissime;
evitare di servirvi di prolunghe: in caso di necessità, dopo l’uso staccarle e riavvolgerle;
non utilizzare multiprese tipo “triple” collegate a “ciabatte” che a loro volta provengono da altre
“triple” collegate a.............. . In questo modo si determina un carico eccessivo sul primo
collegamento a monte del “groviglio” con rischio di incendio.
Se gli utilizzatori (p.c., fax, casse audio, stampanti, calcolatrici, etc.) aumentano e le prese
disponibili non bastano, richiedere prima della consegna dei nuovi utilizzatori anche
l’adeguamento dell’impianto e del numero di prese necessarie.
nel togliere la spina dalla presa non tirare mai il cavo e ricordare di spegnere prima l’apparecchio
utilizzatore;
Le spine: L’Unione Europea non si è ancora pronunciata sul tipo di spine e di prese unificate
utilizzabili nel territorio comunitario.
Per questo circolano liberamente spine e prese di tipo diverso. È di buona norma non utilizzare
mai spine italiane collegate (a forza) con prese tedesche (schuko) o viceversa, perché in questo
caso si ottiene la continuità del collegamento elettrico ma non quella del conduttore di terra.
4.1.1. Prevenzione degli incidenti dovuti all’elettricità
A tal fine è necessario osservare alcune elementari avvertenze:
non introdurre né utilizzare apparecchiature non fornite dall’azienda (ad esempio piastre
elettriche, caffettiere elettriche);
evitare riparazioni o interventi “fai da te”, in particolare su spine, adattatori, prese multiple,
prolunghe;
non utilizzare apparecchiature elettriche per scopi non previsti dal costruttore;
ricordarsi che spesso i conduttori di un impianto elettrico sono incassati nei muri: usare quindi la
dovuta attenzione nel piantare chiodi o nel forare le pareti;
prestare particolare attenzione all’uso di apparecchi elettrici nei locali umidi (ad esempio i bagni)
oppure con mani o piedi bagnati: in questi casi possono diventare pericolose anche tensioni che
abitualmente non lo sono;
segnalare prontamente al Servizio Tecnico ogni situazione anomala (senso di scossa nel toccare
un’apparecchiatura, scoppiettii provenienti da componenti elettrici, odore di bruciato proveniente
dall’interno di un’apparecchiatura, etc.) nonché eventuali cattive condizioni manutentive di
impianti od apparecchiature;
Ad esempio, l’alimentazione di più apparecchi da una sola presa può provocare il riscaldamento
dei conduttori e della presa stessa con pericolo di innesco di incendio. È invece necessario
richiedere l’installazione di un numero adeguato di prese adatte.
Il personale addetto alla manutenzione ed installazione degli impianti deve seguire specifiche
procedure di intervento ed utilizzare, quando previsti, i dispositivi tecnici (guanti dielettrici, pedane
isolanti, utensili isolati, etc.).
4.2. Misure protettive
La prima precauzione da adottare è far installare impianti elettrici a cura di personale abilitato in
145
modo da garantire conformità alle norme ed ai criteri di sicurezza.
L’utilizzo di corrente elettrica in condizioni di sicurezza può avvenire per mezzo di sistemi di
protezione attivi o passivi, tramite i quali si cerca, come obiettivi primari, di evitare il contatto
diretto ed, in caso contrario, di ridurre la durata di attraversamento del corpo umano.
Le misure di protezione variano a seconda dell’utente cui sono destinate.
Generalmente la protezione contro i contatti diretti viene realizzata con tecniche di “protezione
passiva”, cioè senza interruzione automatica del circuito segregando le parti elettricamente attive in
modo da renderle inaccessibili e quindi impedendone il contatto.
Le misure di protezione, indicate nella parte 4 della norma C.E.I. 64 – 8, possono essere di due tipi:
protezioni totali, sono destinate ad impianti accessibili a tutti e quindi anche a persone non edotte
sui rischi derivanti dal contatto con l’energia elettrica.
Le misure di protezione totali si attuano con le seguenti metodologie dettate dalle norme C.E.I.:
isolamento delle parti attive del circuito elettrico: le parti che sono normalmente in tensione
devono essere ricoperte da un isolamento non rimovibile, se non per distruzione dello stesso.
Il materiale isolante deve avere caratteristiche idonee alle tensioni di esercizio ed agli sforzi
meccanici, elettrici e termici che possono manifestarsi durante il funzionamento.
protezione con involucri e barriere che assicurino la protezione contro contatti diretti in ogni
direzione e garantiscano la protezione contro le sollecitazioni esterne; barriere atte ad evitare
il contatto di parti del corpo con le parti attive.
Sono impiegati per quelle parti attive che, per la funzione da svolgere, devono essere
accessibili e dunque non possono essere isolati in modo completo (ad esempio i morsetti).
In tal caso la protezione può essere effettuata mediante involucri e barriere.
Per “involucro” si intende un “elemento costruttivo tale da impedire il contatto diretto in ogni
direzione”; la “barriera” è un “elemento costruttivo tale da impedire il contatto diretto nella
direzione abituale di accesso.”
protezioni parziali, sono destinate ad impianti accessibili solo a personale addestrato, le cui
conoscenze tecniche e l’esperienza sono tali da costituire di per sé una protezione contro i
pericoli dell’elettricità.
Sono realizzate mediante:
Ostacoli: Devono impedire, oltre all’avvicinamento non intenzionale a parti attive, anche il
contatto casuale con esse durante i lavori sotto tensione o di manutenzione.
Nei luoghi accessibili al personale addestrato devono essere rispettate distanze minime per i
passaggi tra ostacoli, organi di comando e pareti (tali distanze sono riportate nella norma
64 − 8 4 ).
Distanziamenti: La norma C.E.I. 64.8 prescrive che il “distanziamento” delle “parti
simultaneamente accessibili” deve essere tale che esse non risultino a “portata di mano”.
Per parti “simultaneamente accessibili” si intendono quelle parti che possono essere toccate
simultaneamente da una persona; si ritengono simultaneamente accessibili quelle parti che
distano fra loro non più di 2.5 m in verticale e di 2.0 m in orizzontale
Le misure di protezione contro i contatti indiretti sono prevalentemente di tipo attivo.
Le protezioni hanno la funzione di interrompere il circuito in caso di guasto, impedendo ad
eventuali tensioni pericolose che possono venire a crearsi, di persistere per un tempo sufficiente a
provocare effetti fisiologici pericolosi.
Il sistema di protezione più utilizzato per gli impianti di distribuzione è quello coordinato
dell’impianto di terra e degli interruttori differenziali.
La protezione dai contatti indiretti, si attua essenzialmente mediante accorgimenti impiantistici,
come la messa a terra delle apparecchiature metalliche e la protezione differenziale costituita da
particolari dispositivi (cosiddetti “salvavita”) che interrompono le correnti di dispersione delle reti
elettriche a valori molto bassi (ad esempio 0.03 A ).
146
Un altro sistema di protezione da tali fenomeni, consiste nell’utilizzo esclusivo di apparecchiature
a
elettriche definite a doppio isolamento,
isolamento, in cui l’involucro che racchiude la parte elettrica attiva, è
costituito da due strati protettivi di cui quello esterno è sempre in materiale
materiale non conduttivo (isolante
ad esempio plastica).
Gli apparecchi a doppio isolamento sono individuabili dal simbolo
rappresentato a lato (doppio quadrato) e non devono essere collegati a
terra.
La protezione dall’arco
arco elettrico e dall’incendio elettrico
elet
è
fondamentalmente basata sulla corretta realizzazione dell’impianto Figura 14: simbolo del doppio
elettrico in base alle norme di buona tecnica.
isolamento.
Nel sistema di protezione contro i contatti indiretti la funzione
dell’impianto di terra è quella di convogliare verso terra la corrente
corrente di guasto, provocando
l’intervento delle protezioni ed evitando così il permanere di tensioni pericolose sulle masse.
masse
Il principio base di un impianto di terra è quello della equipotenzialità.
L’impianto di terra ha la funzione di rendere quanto più possibile
possibile equipotenziale l’ambiente,
riducendo al massimo le differenze di potenziale fra masse, masse estranee e terreno.
Gli impianti di terra sono
ono soggetti a prescrizioni di Legge
Legge (Decreto del Presidente della Repubblica
547/55) ed alla normativa tecnica (C.E.I. 64 – 8 e 64 – 12).
5. Comportamenti da attuare in condizioni di emergenza
Staccare immediatamente
tamente la corrente agendo sull’interruttore
sull’interruttore centrale
central e non toccare
assolutamente l’infortunato,
infortunato, prima di questa manovra: in caso contrario, anche il corpo del
soccorritore si trasforma in un mezzo di conduzione per l’elettricità,
l’elettricità, innescando un meccanismo
a catena per cui anziché soccorritore si diventa vittima.
Se l’interruttore
interruttore è molto lontano e se il suo spegnimento implica una forte perdita di tempo,
staccare la spina ed allontanare l’infortunato
l’infortunato dalla fonte elettrica usando un bastone, una sedia
se od
il manico di una scopa.
L’importante
importante è che il mezzo prescelto sia di legno, materiale che non fa da conduttore e che
consente al soccorritore di rimanere isolato
isola e quindi di non subire danni.
Valutare
tare lo stato di coscienza dell’infortunato,
dell’infortunato, chiamandolo ad alta voce e scuotendolo
leggermente.
Se questo è cosciente va portato al Pronto Soccorso per valutare gli eventuali danni cardiaci e
per trattare l’ustione: questa
esta non va infatti assolutamente affrontata a livello casalingo.
Se l’infortunato è incosciente,
incosciente, occorre chiamare il 118 definendo chiaramente la serietà della
situazione: nelle città
tà più grandi,
grandi viene inviata un’ambulanza
ambulanza dotata di tutti gli strumenti
necessari.
Stendere a terra la vittima con la schiena poggiata al terreno, il capo, il tronco e gli arti
allineati.
Garantire il passaggio dell’aria
dell’
sollevando
ando con due dita il mento dell’infortunato
dell’
e
spingendogli
endogli indietro la testa con l’altra
l’
mano: la perdita
ta di coscienza determina un
rilassamento totale dei muscoli compresi quelli della mandibola.
mandibola. La lingua può cadere
all’indietro ed ostruire le vie della respirazione.
6.. Elementi degli impianti elettrici
6.1.
.1. Classificazione dei materiali e degli impianti
La sicurezza dei materiali e degli impianti elettrici ed i conseguenti provvedimenti di protezione da
adottare, devono essere rapportati al livello di pericolo, a sua volta dipendente fondamentalmente da
tre circostanze che concorrono a determinare il livello
liv
di pericolosità:
l’intensità della corrente che può attraversare il corpo umano, dipendente in prima istanza dalla
tensione del sistema;
il livello di esposizione al pericolo delle persone presenti nell’ambiente, dipendente in prima
147
approssimazione dall’uso dei locali;
le possibilità di guasti e danneggiamenti dipendenti in linea di massima dalle caratteristiche
dell’ambiente.
È con ciò del tutto evidente perché le norme debbano prendere in separata considerazione i vari casi
e perché sia necessario, prima di parlare di criteri di progettazione e di installazione, ricordare le
principali classificazioni adottate esplicitamente o implicitamente dalla vigente normativa.
6.2. Impianti e utilizzatori elettrici
È opportuno, per una migliore comprensione di quanto successivamente illustrato, chiarire bene la
differenza tra impianti elettrici ed utilizzatori elettrici.
Gli impianti Si definisce impianto elettrico, l’insieme di componenti (cavi, canalizzazioni,
apparecchiature di manovra, apparecchiature di protezione, quadri elettrici, prese a spina, etc.)
compresi tra il punto di fornitura dell’energia (ad esempio contatore, cabina elettrica) ed il punto di
utilizzazione.
Parlando di impianti elettrici non si possono non richiamare alcune grandezze fisiche quali:
la tensione elettrica, che si misura in volt [V].
Nei nostri uffici o nelle nostre case la tensione, normalmente, assume il valore di 220 230 V .
l’intensità di corrente elettrica, che si misura in ampere [A].
Per esempio una lampada da 100 W assorbe una corrente di circa 0.5 A .
la resistenza elettrica, che si misura in ohm [Ω].
Grandezza che dipende dal materiale, dalla lunghezza e dalla sezione del conduttore.
Per meglio comprendere il significato delle grandezze elettriche sopra citate è utile fare un paragone
con l’idraulica: si immaginino due serbatoi, posti ad altezze diverse, e collegati da una condotta con
il serbatoio posto più in alto contenente acqua: per effetto della differenza di quota, l’acqua fluisce
dal serbatoio superiore verso quello inferiore.
La tensione elettrica equivale alla differenza di quota tra i due serbatoi.
La corrente elettrica corrisponde al flusso d’acqua nella condotta.
La resistenza elettrica equivale alla resistenza (attrito) che la condotta oppone al flusso dell’acqua.
Quindi, così come la differenza di quota fa fluire l’acqua tra i due serbatoi, la tensione elettrica fa
circolare la corrente in un circuito chiuso.
Si definiscono utilizzatori elettrici le apparecchiature che utilizzano l’energia elettrica per produrre
lavoro, calore, luce, come pure le apparecchiature informatiche, le apparecchiature per le
telecomunicazioni, etc.
In relazione ai valori di tensione elettrica, si definiscono:
sistemi di categoria 0, i sistemi con tensione [V] ≤ 50 V in corrente alternata e ≤ 120 V in
corrente continua;
sistemi di I categoria, i sistemi con tensione V > 50 V e V < 1000 V in corrente alternata e
V > 120 V e V < 1500 V in corrente continua.
Il Decreto del Presidente della Repubblica 547/55 fissa il limite tra bassa e alta tensione a
V = 400 V in corrente alternata e 600 V in corrente continua.
Tutti i componenti elettrici e gli apparecchi elettrici sono suddivisi in classi a seconda del tipo di
protezione contro i contatti indiretti.
CLASSE 0: utilizzatore dotato di isolamento principale non provvisto di collegamento per le
masse e protezione contro i contatti indiretti demandata alle caratteristiche dell’ambiente;
CLASSE 1: utilizzatore dotato di isolamento principale e dispositivo di collegamento delle masse
con l’impianto di messa a terra;
CLASSE 2: utilizzatore a doppio isolamento, non provvisto di collegamento delle masse con
148
l’impianto di messa a terra che tra l’altro è tassativamente vietato;
CLASSE 3: utilizzatore con isolamento ridotto in quanto è previsto il suo utilizzo solo a
bassissime tensioni (funzionanti a pile).
6.3. Utilizzo delle prese a spina e delle derivazioni
È molto importante verificare sempre il buono stato dei collegamenti elettrici, dei cavi di
alimentazione e non sovraccaricare le linee con prese multiple o volanti.
È necessario che ogni utilizzatore di energia (trapano, phon, personal computer, etc.) sia alimentato
da una presa, e che sulla stessa non se ne innestino altre.
Un collegamento a castello di adattatori non assicura un buon collegamento elettrico, con la
possibile produzione di archi voltaici, pertanto le prese in un impianto dovranno essere di numero
sufficiente in modo da non dover utilizzare triple ed, installando prese di standard diversi si eviterà
l’utilizzo di adattatori.
6.4. Tipi di isolamento
Ogni apparecchio elettrico è dotato di un isolamento tra le parti attive, e tra queste e la carcassa,
senza il quale ne sarebbe impedito il funzionamento: questo isolamento prende il nome di
isolamento funzionale.
L’isolamento è anche utilizzato per la protezione delle persone contro il pericolo elettrico.
Si definisce isolamento principale l’isolamento delle parti attive necessario per assicurare la
protezione fondamentale contro la folgorazione: esso deve possedere i requisiti e superare le prove
indicate nelle norme; vernici, lacche e prodotti similari non sono in genere ritenuti idonei,
soprattutto a causa della fragilità meccanica.
In pratica, l’isolamento è costituito da parti utili solo ai fini funzionali, da parti utili solo ai fini
protettivi e da parti comuni ad entrambi gli scopi.
Al fine di garantire la sicurezza delle persone in caso di guasto all’isolamento principale, si può
aggiungere un ulteriore isolamento che prende il nome di isolamento supplementare.
L’insieme dell’isolamento principale e dell’isolamento supplementare è denominato doppio
isolamento.
7. Normativa in materia
7.1. Disposizioni legislative e norme riguardanti il settore elettrico
Tra le innumerevoli disposizioni legislative e circolari riguardanti il settore elettrico, sono
particolarmente importanti:
Il Decreto del Presidente della Repubblica n. 547/1955 − “Norme per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro”;
La Legge n. 186/1968 − “Disposizioni concernenti la produzione di materiali, apparecchiature,
macchinari, installazioni e impianti elettrici ed elettronici”;
La Legge n. 46/1990 − “Norme per la sicurezza degli impianti”;
Il Decreto del Presidente della Repubblica n. 447/91 − “Regolamento di attuazione della Legge
n.46 dello 05/03/1990”.
7.2. Le norme tecniche
Le norme di buona tecnica valide per il settore elettrico sono:
le Norme C.E.I. (C.E.I. sta per Comitato Elettrotecnico Italiano);
le Norme C.E.N.E.L.E.C. (C.E.N.E.L.E.C. è l’omologo in campo europeo del C.E.I.);
le Norme I.E.C. (l’I.E.C. è l’ente normatore a livello extraeuropeo).
Alcune tra le principali norme C.E.I.:
la norma C.E.I. 64 − 8: Impianti elettrici utilizzatori a tensione nominale non superiore a
1000 V in corrente alternata ed a 1500 V in corrente continua;
149
la norma C.E.I. 11 − 8: Impianti di produzione, trasmissione e distribuzione dell’energia
elettrica. Impianti di messa a terra;
la norma C.E.I.. 64 − 2/64 − 2/A: Impianti elettrici nei luoghi con pericolo di esplosione;
la norma C.E.I. 81 − 1 E 81 − 4: Protezione delle strutture contro i fulmini.
Anche per gli utilizzatori elettrici sono vigenti specifiche Norme C.E.I.
La costruzione a “regola d’arte” degli utilizzatori elettrici può essere certificata da:
marchiatura C.E.;
marchio I.M.Q., (I.M.Q. è l’Istituto Italiano del marchio di Qualità) o marchio di altri Enti
certificatori;
dichiarazione del costruttore.
7.3. Grado di protezione I.P.
Le norme C.E.I. 70 − 1 e la 64 − 8 prevedono una classificazione degli involucri delle
apparecchiature con norme armonizzate in Europa.
Si fa riferimento al grado I.P..
I.P. è acronimo di “international protection”: tale classificazione è costituita dalle due lettere I.P. e
da due numeri.
Il primo numero indica il grado di protezione contro l’ingresso di solidi e va da 0 a 6.
Il secondo numero indica il grado di protezione contro l’ingresso di liquidi e va da 0 a 8.
7.4. Norme CEI e regola d’arte
La documentazione emessa dal C.E.I., comunemente nota come “norme C.E.I.”, definisce la buona
tecnica per i prodotti, i processi e gli impianti, costituendo il riferimento per la presunzione di
conformità alla “regola dell’arte”.
Le norme tecniche europee armonizzate e pubblicate dal C.E.I. costituiscono uno strumento
univoco e ben codificato per soddisfare le prescrizioni di natura obbligatoria previste dalla
legislazione italiana. La regola d’arte non necessariamente si identifica con la norma C.E.I.
Seguire i dettami delle norme C.E.I. è condizione sufficiente, ma non necessaria, per costruire un
apparecchio a regola d’arte o per realizzare un impianto a regola d’arte.
Questo principio è recepito nella Legge dello 01.03.1968 n. 186, che all’art. 1 impone di eseguire
gli impianti e costruire gli apparecchi elettrici ed elettronici a regola d’arte e all’art. 2 aggiunge che
gli impianti e gli apparecchi costruiti secondo le norme C.E.I. sono ritenuti a regola d’arte
(presunzione di regola d’arte a favore delle norme C.E.I.).
Lo stesso dicasi per la Legge del 18.10.77 n. 791: “è imperativa la rispondenza ai requisiti generali
di sicurezza; la conformità alle norme, è condizione sufficiente, ma non necessaria, perché il
prodotto sia ritenuto sicuro”.
Il fatto che la norma tecnica non sia resa obbligatoria nasce dal fatto che una norma imperativa non
solo impedisce il peggio ma ostacola anche il meglio, come ad esempio innovazioni o prodotti più
vantaggiosi non ancora normalizzati.
In conclusione, le norme C.E.I. costituiscono un preciso riferimento tecnico, esse stabiliscono un
livello di sicurezza ritenuto sufficiente.
7.5. Applicabilità delle norme C.E.I. agli impianti preesistenti
Le norme C.E.I. si “applicano agli impianti nuovi ed alle trasformazioni radicali degli impianti
esistenti”, così come è esplicitamente chiarito nell’oggetto delle norme per gli impianti elettrici.
Il normatore stabilisce le regole avendo in mente gli impianti nuovi, dove il rispetto di certe regole,
anche se più restrittive, non è certo così gravoso come in un impianto preesistente.
In pratica occorre considerare che il livello di sicurezza ritenuto come accettabile è un traguardo che
evolve nel tempo: quanto era accettabile ieri non lo è più oggi.
È quindi impensabile pretendere che tutti gli impianti abbiano lo stesso livello di sicurezza;
quest’obiettivo costituirebbe un freno all’evoluzione della tecnica della sicurezza.
150
D’altronde è anche vero che in certi casi specifici il livello di sicurezza degli impianti preesistenti è
divenuto insostenibile, perché moderne tecnologie hanno introdotto nuovi e più frequenti pericoli
(ad esempio nelle sale operatorie e similari) e sono tecnologicamente avanzati i mezzi di protezione
(cfr. magnetotermici ad alta sensibilità).
Occorre pertanto valutare, caso per caso, la necessità di porre mano agli impianti preesistenti per
conseguire un livello di sicurezza che, anche se inferiore a quello di un nuovo impianto, dovrà pur
sempre essere accettabile.
In Italia avvengono mediamente circa 400 infortuni mortali per elettrocuzione ogni anno, più del
doppio della media europea di decessi dovuti ad infortuni elettrici per milione di residenti.
Il 4 − 5 % degli infortuni da elettricità ha esito mortale: questa percentuale è circa 30 volte
maggiore di quella corrispondente all’insieme degli infortuni non elettrici.
La maggior parte degli infortuni domestici avviene nel bagno.
I cantieri edili hanno un’elevata percentuale di infortuni elettrici: si verificano sulla betoniera,
nell’uso degli apparecchi portatili, per contatto con linee elettriche aeree, etc.
Circa il 10 ÷ 15 % di tutti gli incendi hanno origine dall’impianto elettrico o dagli apparecchi
elettrici utilizzatori; il che equivale ogni anno a circa cinquemila incendi “elettrici” nel nostro
Paese.
Molti altri infortuni hanno origine elettrica, ma non figurano nelle statistiche tra quelli dovuti
all’elettricità, perché classificati in base all’agente che li ha provocati:
caduta dall’alto (impalcature, scale, ecc.), a seguito di azione eccitomotoria della corrente;
morte per schiacciamento a causa di azionamento intempestivo di un apparecchio pericoloso, ad
esempio una macchina utensile, dovuto ad un guasto nel circuito elettrico di comando non
correttamente progettato ed eseguito;
cause connesse con la mancanza di energia elettrica, dove non è prevista un’adeguata
alimentazione di sicurezza;
esplosioni in luoghi con presenza di materiali esplosivi o di atmosfere esplosive, la cui sorgente
di innesco è di origine elettrica.
7.6. Conformità alle norme del materiale elettrico
Esistono due segni grafici che accertano la conformità del
materiale elettrico: sono il contrassegno C.E. ed il marchio I.M.Q..
Il primo, applicato dal costruttore, indica un suo parere di
corrispondenza del prodotto alle norme C.E.I.: si tratta quindi di
una autocertificazione, che ricade sotto la completa responsabilità
del costruttore.
Il C.E.I. si riserva in teoria la facoltà di effettuare in qualsiasi Figura 15: contrassegno CE di
conformità.
momento la verifica della rispondenza del prodotto alle norme.
Per i prodotti di grande serie è in uso il marchio I.M.Q. (Istituto
Italiano del Marchio di Qualità).
Tale marchio viene concesso se sono soddisfatte le seguenti
condizioni:
Figura 16: contrassegno IMQ di
le strutture produttive sono atte a garantire la qualità del conformità.
prodotto;
il prototipo corrisponde alle norme C.E.I.;
vengono effettuati controlli di qualità a campione in fabbrica e su campioni prelevati dal
mercato.
Si otterrà così dal marchio I.M.Q., una migliore garanzia per l’utente, pertanto si potrà ritenere il
materiale marchiato I.M.Q. più adatto ad un pubblico profano di elettricità, mentre il marchio CEI si
riserva a grosse apparecchiature e macchine elettriche di tipo industriale.
151
8. Le novità introdotte dal Decreto Ministeriale n. 37 del 22 gennaio 2008
rispetto alla Legge 46/90.
8.1. Ambito di applicazione – art. 1
Il Decreto Ministeriale n. 37 del 22/01/2008 trova applicazione negli interventi relativi agli
impianti, posti al servizio degli edifici, indipendentemente dalla destinazione d’uso, collocati
all’interno degli stessi o delle relative pertinenze.
Se l’impianto è connesso a reti di distribuzione, quanto disposto dal Decreto Ministeriale si applica
dal punto di consegna della fornitura.
Pertanto le nuove disposizioni riguardano non più solamente gli impianti relativi agli edifici adibiti
ad uso civile, ma anche tutti gli altri, cosa peraltro che già avveniva esclusivamente per gli impianti
elettrici e non per le altre tipologie come quelli termici, gas, radiotelevisivi, antincendio, etc.
Il Decreto Ministeriale 37/2008, tuttavia non trova applicazione per gli impianti o parte di essi che
sono soggetti a requisiti di sicurezza prescritti dalla normativa comunitaria, ovvero di normativa
specifica come ad esempio gli impianti in ambito ferroviario e militare, così come non si applica a
quella parte di impianto considerata “pre − contatore” in senso lato.
8.2. Altre novità – art. 2
La potenza impegnata è il valore maggiore tra la potenza impegnata contrattualmente con
l’eventuale fornitore di energia, e la potenza nominale complessiva degli impianti di
autoproduzione eventualmente installati.
Pertanto se il fornitore di gas (ad esempio) attiva una fornitura idonea al funzionamento di
apparecchi sino a 60 kW , ma ne sono installati complessivamente per un uso di 30 kW , la
potenza da considerare anche ai fini della progettazione è quella di 60 kW .
Sono uffici tecnici interni le strutture costituite da risorse umane e strumentali preposte
all’impiantistica, alla realizzazione degli impianti aziendali ed alla loro manutenzione i cui
responsabili possiedono i requisiti tecnico – professionali previsti dall’art. 4.
Si tratta del caso di installazioni, per cosi dire, “in conto proprio” tipiche delle grandi strutture con
servizi di manutenzione interna; non hanno nulla a che vedere con gli uffici tecnici di un’impresa
edile che non sia abilitata esplicitamente come impresa all’installazione di impianti.
Con ordinaria manutenzione si intendono gli interventi finalizzati a contenere il degrado normale
d’uso, nonché a far fronte ad eventi accidentali che comportino la necessità di primi interventi, che
comunque non modificano la struttura dell’impianto su cui si interviene o la sua destinazione d’uso
secondo le prescrizioni previste dalla normativa tecnica vigente e dal libretto di uso e manutenzione
del costruttore.
La manutenzione ordinaria, se eseguita secondo le istruzioni dell’installatore, può essere fatta da
chiunque, ad eccezione degli impianti lettera f) .
8.3. Altre novità per le imprese abilitate – art. 3
Il Decreto Ministeriale n. 37 del 22 gennaio 2008 ribadisce quanto era sancito nella Legge 46/90,
ovvero gli impianti possono essere installati ed essere oggetto di manutenzione solamente da
imprese con all’interno un soggetto che abbia i requisiti professionali (responsabile tecnico), non da
soggetti che non siano imprese anche se posseggono i requisiti professionali.
È chiarito che il responsabile tecnico svolge tale funzione per una sola impresa e la qualifica è
incompatibile con ogni altra attività continuativa.
Per le imprese non installatrici, purché abbiano all’interno uffici tecnici e responsabile tecnico è
chiarito che siano esclusivamente autorizzate all’installazione, alla trasformazione, all’ampliamento
ed alla manutenzione degli impianti, relativi esclusivamente alle proprie strutture interne e nei limiti
della tipologia di lavori per i quali il responsabile possiede i requisiti, non altri impianti.
A tali imprese non è assolutamente permesso installare, o fare manutenzione, ad altri soggetti anche
se si tratta di imprese consociate, partecipate o simili.
152
8.4. Requisiti tecnico professionali – art. 4
Il Decreto Ministeriale n. 37 del 22 gennaio 2008 ha variato i requisiti tecnico – professionali nel
modo seguente.
Nel caso di laurea in materia tecnica specifica è sufficiente il titolo di studio senza esperienza
lavorativa.
Nel caso di diploma o qualifica conseguita al termine di scuola secondaria del secondo ciclo
(maturità con accesso all’università), gli anni continuativi di inserimento alle dirette dipendenze di
un’impresa del settore, aumentano da uno a due (nel caso di lavoro non a tempo pieno il periodo e
proporzionalmente maggiorato) per gli impianti delle lettere a), b), c), e), f), g), mentre per quelli
della lettera d) rimangono pari ad uno (nel caso di lavoro non a tempo pieno il periodo è
proporzionalmente maggiorato).
Per chi ha conseguito titolo od attestato ai sensi della legislazione vigente in materia professionale,
il periodo di inserimento aumenta da due a quattro anni consecutivi per gli impianti delle lettere a),
b), c), e), f), g) (nel caso di lavoro non a tempo pieno il periodo è proporzionalmente maggiorato),
mentre per quelli della lettera d) rimane uno (nel caso di lavoro non a tempo pieno il periodo è
proporzionalmente maggiorato).
Rimane, invece, invariato il periodo di tre anni come operaio specializzato necessario per ottenere
l’abilitazione, per chi ha svolto prestazioni lavorative alle dirette dipendenze di un’impresa abilitata
nel ramo per cui si richiede l’abilitazione. Tale periodo di tre anni è computato escludendo quello ai
fini dell’apprendistato e quello svolto come operaio qualificato.
Nel caso di lavoro non a tempo pieno il periodo è proporzionalmente maggiorato.
Novità, invece per titolari e soci di impresa e collaboratori familiari: per costoro l’esperienza idonea
ad essere riconosciuti come responsabili tecnici aumenta da tre a sei anni per gli impianti delle
lettere a), b), c), e), f), g), mentre per quelli della lettera d) aumenta da tre a quattro anni.
Come nella Legge 46/90 non viene menzionato in nessun caso l’obbligo di superamento di specifico
esame di abilitazione o riconoscimento dell’idoneità professionale.
8.5. Progettazione degli impianti – art. 5
Il Decreto Ministeriale n. 37 del 22 gennaio 2008 inserisce un’altra differenza sostanziale nelle
prescrizioni riguardanti l’obbligo di progettazione degli impianti.
Infatti, con la dicitura “Per l’installazione, la trasformazione e l’ampliamento degli impianti di cui
all’articolo 1, comma 2, lettere a), b), c), d), e), g), è redatto un progetto” indica che è sempre
obbligatorio un progetto.
Secondo la tipologia di impianto, però, il progetto deve essere redatto da un professionista iscritto
negli albi professionali secondo la specifica competenza tecnica richiesta, oppure può, come
specificato all’articolo 7, comma 2, essere redatto, dal responsabile tecnico dell’impresa
installatrice.
In ogni caso, il progetto deve sempre esserci ed essere alla base dell’installazione, la trasformazione
e l’ampliamento degli impianti.
In alcuni casi, ad esempio installazioni in edifici connessi ad interventi edilizi, subordinati a
permesso a costruire o D.I.A., va preventivamente depositato allo sportello unico per l’edilizia
contestualmente al progetto edilizio (art. 11) indipendentemente se firmato da tecnico abilitato o
responsabile tecnico dell’impresa installatrice.
8.6. Realizzazione ed installazione degli impianti – art. 6
Gli impianti devono essere realizzati esclusivamente secondo la regola dell’arte, in conformità alla
normativa vigente e le imprese installatrici sono responsabili della corretta esecuzione.
Per regola dell’arte si intende la conformità alla vigente normativa ed alle norme dell’U.N.I., del
C.E.I. o di altri Enti di normalizzazione appartenenti agli Stati membri dell’Unione Europea o che
sono parti contraenti dell’accordo sullo Spazio Economico Europeo.
Il concetto di livello di sicurezza equivalente di cui all’art. 5 comma 5 del Decreto del Presidente
153
della Repubblica 447/91 (Regolamento della Legge 46/90) nel caso in cui non vengano seguite le
norme tecniche U.N.I. e C.E.I. non esiste più.
Nel caso di impianti realizzati in attività produttive, si applicano le norme generali di sicurezza di
cui all’articolo 1 del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 31/03/89 e le relative
modificazioni.
In altre parole la norma citata è la seguente: “Nella progettazione, nella realizzazione e nella
gestione delle attività industriali i fabbricanti sono tenuti a conformarsi a tutte le disposizioni
vigenti in materia di sicurezza del lavoro, di prevenzione incendi e di tutela della popolazione e
dell’ambiente. In particolare i fabbricanti devono ottenere dal competente comando dei Vigili del
Fuoco le autorizzazioni concernenti la prevenzione incendi previste dalle norme vigenti ed
uniformarsi alle disposizioni contenute nel:
Regio Decreto del 9 gennaio 1927, n. 147;
Regio Decreto del 12 maggio 1927, n. 824;
Testo Unico delle leggi sanitarie, approvato con Regio Decreto del 27 luglio 1934, n. 1265;
Decreto del Presidente della Repubblica del 27 aprile 1955, n. 547;
Decreto del Presidente della Repubblica del 19 marzo 1956, n. 303;
Legge 23 dicembre 1978, n. 833, e successive modifiche, integrazioni e Decreti applicativi;
Decreto del Presidente della Repubblica del 29 luglio 1982, n. 577;
Legge del 7 dicembre 1984, n. 818.
Il richiamo alle disposizioni di cui sopra va esteso alle successive modifiche ed integrazioni nonché
ai Decreti applicativi, tale Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 31/03/89 e la norma
di attuazione del Decreto del Presidente della Repubblica del 17/05/88 n. 175 inerente ai rischi di
incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali.”
Gli impianti elettrici nelle unità immobiliari ad uso abitativo realizzati prima del 13/03/90
(precedenti Legge 46/90) si considerano adeguati se dotati di sezionamento e protezione contro le
sovracorrenti posti all’origine dell’impianto, di protezione contro i contatti diretti, di protezione
contro i contatti indiretti o protezione con interruttore differenziale avente corrente differenziale
nominale non superiore a 30 mA .
8.7. Dichiarazione di conformità – art. 7
Non esiste più il modulo ministeriale della Legge 46/90, ora vale la “modulistica” degli Allegati I e
II del Decreto Ministeriale n. 37 del 22 gennaio 2008.
Allegato I: per ditte installatrici propriamente dette;
Allegato II: per ditte non installatrici per i propri impianti.
In ogni caso le modifiche non sono radicali, ma la novità è che vale per tutte installazioni di tutti gli
impianti negli edifici siano essi civili o non civili.
La novità rilevante riguarda il gas in quanto si deve indicare la potenza massima impegnata
(erogazione del contatore) e non quella utilizzata (sommatoria degli apparecchi installati od
installabili).
Nel primo caso, Allegato I per ditte installatrici propriamente dette, il modulo allegato al Decreto
Ministeriale non presenta la firma di ricevuta da parte del cliente, cosa del resto riscontrata anche in
quello previsto dalla Legge 46/90.
È opportuno, se non indispensabile, che l’impresa di installazioni integri tale stampato con una nota
da fare firmare al committente che attesti la ricevuta della documentazione da parte dello stesso.
È da rilevare come in entrambe le dichiarazioni di conformità e nel progetto debba essere
espressamente indicata la compatibilità tecnica con le condizioni preesistenti dell’impianto.
Qualora non ci sia compatibilità tecnica si deve “crearla” con apposito adeguamento; questo sta ad
indicare che in caso di non compatibilità non si potrà invocare la responsabilità dell’impresa
installatrice limitata all’intervento eseguito.
154
8.8. La “D.I.R.I.” Dichiarazione di Rispondenza – art.7 comma 6
Nel caso in cui la dichiarazione di conformità non sia stata prodotta, ad esempio per impianti
“vecchi”, o non sia più reperibile (fermo restando l’applicazione delle sanzioni previste), tale
documento è sostituito, ma solo per gli impianti eseguiti prima del 27/03/08 da una Dichiarazione di
Rispondenza, resa da un professionista iscritto all’albo professionale per le specifiche competenze
tecniche richieste, che ha esercitato la professione, per almeno cinque anni, nel settore impiantistico
cui si riferisce la dichiarazione, sotto personale responsabilità, a fronte dell’esito di uno specifico
sopralluogo e puntuali accertamenti.
Nel caso di impianti che non debbano essere redatti obbligatoriamente da un professionista, la
D.I.R.I. può essere resa dal responsabile tecnico di un’impresa abilitata all’installazione purché
ricopra il ruolo da almeno 5 anni ovviamente nel settore impiantistico cui si riferisce la
dichiarazione.
Il Decreto Ministeriale 37/08 non specifica la formalità con la quale debba essere resa la D.I.R.I., è
quindi presumibile che tale dichiarazione sarà “imposta” con un diffuso uso di un facsimile.
In ogni caso si ritiene che tale atto debba sostanzialmente richiamare i contenuti della dichiarazione
di conformità, integrandoli con gli elementi che comprovino i requisiti professionali di chi la
rilascia, gli elementi del sopralluogo ed i referti delle prove strumentali, qualora richiesti,
unitamente a parte degli allegati tecnici che però non assumono carattere di obbligatorietà ma di
sostegno della D.I.R.I.
8.9. Istruzioni dell’impianto – art. 8
Anche se non esplicitamente richiesto, come allegato alla dichiarazione di conformità, l’art. 8 cita le
istruzioni predisposte dalla ditta installatrice e dai fabbricanti della componentistica, che in questo
modo appaiono una precisa formalità cui deve attivarsi l’installatore.
Pertanto è da ritenere che all’atto della consegna al cliente della dichiarazione di conformità,
l’impresa debba allegare apposite istruzioni per conservare le caratteristiche di sicurezza: tali
istruzioni, anche in un’ottica di tutela dell’impresa devono essere considerate un allegato alla
dichiarazione di conformità, nei fatti, obbligatorio anche in analogia a quanto succede per i beni di
consumo in particolare di quelli con marcatura C.E.
8.10. Consegna della dichiarazione di conformità al fornitore dell’energia – art. 8
Nella prassi comune questa non è precisamente una novità essendo formalità già ampiamente
consolidata; è chiarito che la consegna di tale documento è da intendersi privo di ogni allegato, ed
in questo sta sostanzialmente la novità.
C’e una contraddizione, però, nel disposto dei commi 3 e 4 laddove è richiesta la consegna della
dichiarazione di conformità anche per aumento di potenza, ovvero di portata termica del gas, perché
si può ipotizzare il non raro caso che a fronte di un aumento di potenza o di portata termica si
presenti una dichiarazione di conformità con citato un progetto di un impianto non corrispondente ai
limiti citati nell’articolo 5.
Sarebbe più logico che in fase di aumento della potenza o portata termica il distributore/venditore
richieda o l’adeguamento dell’impianto o il non necessario adeguamento dell’impianto rispetto a
quello certificato.
8.11. Manutenzione impianti e progetto – art. 10
Per la manutenzione ordinaria non è richiesto né il progetto né l’attestazione del collaudo.
La manutenzione ordinaria può essere effettuata anche da imprese non abilitate, ma non la
manutenzione degli impianti di cui alla lettera f) “gli impianti di sollevamento di persone o di cose
per mezzo di ascensori, di montacarichi, di scale mobili e simili” per i quali vale la normativa
specifica e deve essere eseguita da imprese abilitate e con personale dotato di specifica abilitazione
conseguita a seguito di apposito esame teorico pratico presso la Prefettura.
Sono anche esclusi dagli obblighi della redazione del progetto e dell’attestazione di collaudo, le
155
installazioni per apparecchi per usi domestici (ad esempio collegamento a mezzo flessibile
metallico di piano cottura) e la fornitura provvisoria di energia elettrica per gli impianti di cantiere e
similari, fermo restando l’obbligo del rilascio della dichiarazione di conformità.
8.12. Deposito presso lo sportello unico per l’edilizia del progetto, della dichiarazione di
conformità o del certificato di collaudo – art. 11
Nel testo del Decreto Ministeriale è presente un refuso laddove cita gli impianti della lettera h):
nelle bozze del provvedimento tale lettera sta ad indicare gli impianti di automazione cancelli, etc.
che ora sono ricompresi nella lettera a).
Le formalità riguardanti la consegna allo sportello unico all’edilizia sono differenziate a seconda
che si tratti di rifacimento od installazione di nuovi impianti in edifici già con certificato di agibilità
oppure di installazione, trasformazione od ampliamento di impianti connessi ad interventi edilizi
subordinati a permesso a costruire o D.I.A.
Primo caso: rifacimento od installazione di nuovi impianti in edifici già con certificato di
agibilità. In questo caso è l’impresa di installazione che entro 30 giorni dalla conclusione dei
lavori deposita la dichiarazione di conformità ed il progetto, ed eventualmente il certificato di
collaudo se previsto, allo sportello unico per l’edilizia.
Secondo caso: installazione, trasformazione od ampliamento di impianti connessi ad interventi
edilizi subordinati a permesso a costruire o D.I.A.
In questo caso è chi ha il permesso a costruire o ha presentato la D.I.A. che deposita allo
sportello unico per l’edilizia il progetto da realizzare contestualmente al progetto edilizio.
In questo caso è implicito, perché indicato all’art. 9, che per ottenere l’agibilità debba essere
consegnata anche la dichiarazione di conformità.
Non è chiarito quando debba essere presentata: se alla conclusione dei lavori di installazione od
all’atto della richiesta di agibilità in quanto questi due momenti possono essere anche distanti nel
tempo.
È evidente che all’installatore conviene consegnare al committente la dichiarazione di
conformità all’atto della conclusione dei lavori, eventualmente con certificato di collaudo se
previsto, facendosi firmare la ricevuta dell’avvenuta consegna della stessa in quanto l’impresa
installatrice non ha alcun interesse o ruolo nella pratica di rilascio della certificazione di agibilità.
In tutto questo la novità procedurale è che la consegna alla C.C.I.A.A. della dichiarazione di
conformità non è più eseguita (esclusivamente) per l’operato dell’impresa installatrice, ma per
quello dello sportello unico per l’edilizia.
È da ritenere che allo sportello unico si debbano inviare due dichiarazioni: una con gli allegati
destinata alle attività dello sportello medesimo, l’altra senza allegati che lo sportello trasmetterà poi
alla C.C.I.A.A. della provincia dove ha sede l’impresa.
Questo fatto però è chiaro solo per il primo caso, mentre per il secondo, essendo consegnata la
dichiarazione al committente, l’installatore non ha la certezza che questi la consegni allo sportello
unico per l’edilizia e che tale sportello la inoltri alla C.C.I.A.A. per le verifiche di sua spettanza.
In questa situazione pare ancora utilizzabile la procedura indicata dal comma 4 art. 9 del Decreto
del Presidente della Repubblica 558/99 (non abrogato) che testualmente recita: “Copia della
dichiarazione di conformità di cui all’articolo 9 della Legge, sottoscritta anche dal responsabile
tecnico, ed inviata, entro sei mesi, anche cumulativamente, a cura dell’impresa alla Camera di
Commercio nella cui circoscrizione l’impresa stessa ha la propria sede.
La Camera di Commercio provvede ai conseguenti riscontri con le risultanze del registro delle
imprese ed alle contestazioni e notificazioni, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre
1981, n. 689, delle eventuali violazioni accertate.
All’irrogazione delle sanzioni pecuniarie provvedono, ai sensi degli artt. 20, comma 1, e 42, comma
1, del Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 112, le Camere di Commercio.”
Con questa doppia procedura, l’impresa è solo parzialmente sollevata dalla responsabilità, con le
156
conseguenti sanzioni per il non aver consegnato almeno semestralmente la dichiarazione di
conformità alla C.C.I.A.A.
L’impresa ha tuttora la responsabilità della trasmissione, almeno semestralmente alla C.C.I.A.A.,
competente della dichiarazione di conformità priva degli allegati nel caso degli impianti consistenti
in installazione, trasformazione od ampliamento, connessi ad interventi edilizi subordinati a
permesso a costruire o D.I.A.
8.13. Cartello informativo – art. 12
Non è chiarito cosa si intende con termine “ristrutturazione”, ciò premesso è da ritenere che ogni
qualvolta si eseguano operazioni con rilascio di dichiarazioni di conformità, ad eccezione di quanto
stabilito all’art. 10 comma 2 (installazioni per apparecchi per usi domestici e la fornitura
provvisoria di energia elettrica per gli impianti di cantiere e similari), si debba dare pubblicità del
fatto per mezzo del cartello citato che deve contenere quanto indicato nell’articolo medesimo.
8.14. Documentazione – art. 13
È reso ufficiale l’obbligo della fornitura della documentazione degli impianti: in caso di
trasferimento dell’immobile a qualsiasi titolo a carico del committente, gli impianti oggetto di
installazione o manutenzione straordinaria.
È stabilito inoltre che la fornitura dei documenti sia citata, ad esempio, nei contratti di vendita od in
quelli di locazione.
Questo fatto è derogabile, ma negli atti di trasferimento prima citati deve essere espressamente
indicata la non fornitura della documentazione.
In questo caso solo se l’impianto è antecedente alla data del 27/03/08, l’avente causa deve ricorrere
autonomamente ad una D.I.R.I.
8.15. Quando deve essere eseguito il progetto di un impianto elettrico
Uso
CIVILE
CIVILE
Tipo unità
Singola
unità
abitativa
Singola
unità
abitativa
Potenza impegnata
CIVILE
Potenza impegnata
CIVILE
Mq /kW
> 400 m 2
Progetto
SI
Certificazione
SI
< 400 m 2
NO
SI
> 6 kW
SI
SI
< 6 kW
NO
SI
INDUSTRIALE
Complesso
> 200 m 2
SI
SI
INDUSTRIALE
Complesso
< 200 m 2
NO
SI
INDUSTRIALE
Cabina
trasformazione
Uso medico
SI
SI
SI
SI
SI
SI
INDUSTRIALE
INDUSTRIALE
di
Rischio
incendio
esplosione
157
11. Rischi meccanici derivanti dall’uso attrezzature/apparecchiature
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, TITOLO III, CAPO I, art. 69)
Premessa
Quando si parla di “rischio meccanico” derivante dalle attrezzature/apparecchiature in un ambiente
di vita si fa riferimento al rischio di entrare in contatto con le parti mobili di una attrezzatura od
apparecchiatura.
Queste attrezzature/apparecchiature possono essere soggette a diverse Direttive di prodotto quali ad
esempio la Direttiva Macchine 2006/42/C.E. (motoseghe, trapani a colonna, etc.), oppure la
Direttiva Bassa Tensione 2006/95/C.E. (avvitatori elettrici, etc.).
Tutte queste attrezzature/apparecchiature sono presenti nel quotidiano e nel tempo libero dove tanti
si dilettano con “l’Hobbystica”, disponendo talvolta di piccoli laboratori indoor.
Il rischio di entrare a contatto con le parti mobili delle attrezzature/apparecchiature se, si vuole, è in
realtà più alto a differenza degli ambienti di lavoro dove, il personale che orbita in azienda secondo
la legislazione vigente (Decreto Legislativo 81/2008) è formato, informato ed eventualmente
addestrato.
1. Normativa
Unione Europea: Direttiva 2006/42/C.E. del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 maggio
2006 relativa alle macchine che modifica la Direttiva 95/16/C.E. (rifusione). (Testo rilevante ai
fini del S.E.E.). Gazzetta ufficiale n. Legge 157/24, 9 giugno 2006;
Unione Europea: Direttiva 2006/95/C.E. del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12
dicembre 2006 concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al
materiale elettrico destinato ad essere adoperato entro taluni limiti di tensione. (Versione
codificata). (Testo rilevante ai fini del S.E.E.). Gazzetta ufficiale n. Legge 374/10, 27 dicembre
2006;
Italia: Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81. Attuazione dell’articolo 1 della Legge 3 agosto
2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Gazzetta
Ufficiale n. 101, Supplemento ordinario, 30 aprile 2008.
2. Pericoli di natura meccanica
Le note seguenti, che trattano esclusivamente i rischi di natura meccanica, hanno lo scopo di fornire
informazioni e soluzioni pratiche sui principi ed i mezzi di prevenzione conosciuti per eliminare un
rischio preventivamente identificato (mediante l’analisi dei rischi).
Il rischio meccanico è caratterizzato “dall’insieme dei fattori fisici che possono provocare una
lesione per l’azione meccanica di componenti della macchina, di attrezzi, di parti materiali, solidi o
fluidi espulsi”.
All’origine dei fenomeni pericolosi di questa natura si trovano soprattutto gli elementi di
trasmissione e gli organi operativi delle macchine.
La metodologia ed i principi generali per prevenire o ridurre i rischi sono ampiamente sviluppati
nella normativa europea.
2.1. Definizioni
macchina: un insieme di componenti, di cui almeno uno mobile, collegati tra loro, dotati di
azionatori, circuiti di comando, etc. e connessi solidalmente per un’applicazione ben
determinata; si preferisce il termine macchinario per un insieme di macchine interconnesse e
dotate di funzionamento solidale per ottenere un certo risultato;
attrezzatura di lavoro: qualsiasi macchina, apparecchio, utensile od impianto destinato ad essere
usato durante il lavoro;
uso di una attrezzatura di lavoro: qualsiasi operazione lavorativa connessa ad una attrezzatura di
158
lavoro, quale la messa in servizio o fuori servizio, l’impiego, il trasporto, la riparazione, la
trasformazione, la manutenzione, la pulizia, il montaggio, lo smontaggio;
affidabilità: la capacità di una macchina o di un componente di svolgere la funzione richiesta
senza guasti, in condizioni specificate e per un dato periodo di tempo;
sicurezza di una macchina: la capacità di svolgere la sua funzione, di essere trasportata,
installata, regolata, mantenuta, smantellata ed eliminata nelle condizioni d’uso, specificate nel
manuale di istruzioni, senza provocare lesioni o danni alla salute;
pericolo: fonte di possibili lesioni o danni alla salute (da specificare la fonte: ad esempio di
schiacciamento, taglio, etc.);
situazione pericolosa: quella in cui una persona è esposta ad uno o più pericoli;
funzione pericolosa: qualsiasi funzione della macchina che possa generare pericolo;
zona pericolosa: qualsiasi zona all’interno ovvero in prossimità di una attrezzatura di lavoro nella
quale la presenza di un lavoratore costituisce un rischio per la salute o la sicurezza dello stesso;
rischio: combinazione di probabilità e di gravità (severità) di possibili lesioni o danni alla salute,
in una situazione pericolosa;
valutazione del rischio: valutazione globale delle probabilità e gravità di possibili lesioni o danni
alla salute, tutto allo scopo di scegliere le adeguate misure di sicurezza;
lavoratore esposto: qualsiasi lavoratore che si trovi internamente od in parte in una zona
pericolosa;
operatore: la/le persona/e incaricata/e di installare, di far funzionare, di regolare, di eseguire la
manutenzione, di pulire, di riparare e di trasportare una macchina.
2.2. Tipologie di pericoli di natura meccanica
I pericoli di natura meccanica dovuti a parti di macchine, pezzi in lavorazione, materiali solidi o
fluidi proiettati, possono essere elencati e riassunti nel seguente modo:
schiacciamento;
cesoiamento;
taglio o sezionamento;
impigliamento;
trascinamento od intrappolamento;
urto;
perforazione o puntura;
attrito od abrasione;
eiezione di fluido ad alta pressione;
scivolamento;
inciampo;
caduta.
Il rischio meccanico che può essere prodotto dagli elementi delle macchine o dai pezzi lavorati ed è
condizionato in particolare:
dalla loro forma (ad esempio elementi taglienti, spigoli vivi, parti di forma aguzza anche se
fissi);
dalla loro posizione relativa (ad esempio possono comportare zone di schiacciamento, di taglio,
di trascinamento, etc.., quando sono in movimento);
dalla loro massa e dalla loro stabilità (energia potenziale di elementi che possono spostarsi sotto
l’effetto della gravità);
dalla loro massa e dalla loro velocità (energia cinetica di elementi in movimento controllato od
incontrollato);
dalla loro accelerazione;
dall’insufficienza della loro resistenza meccanica (che può provocare rotture, cedimenti
strutturali od esplosioni pericolose);
159
dall’accumulo di energia potenziale da parte degli elementi elastici (molle) o di liquidi o di gas
sotto pressione o sotto vuoto.
Le norme EN 292 fissano poi una strategia per la scelta delle misure di sicurezza che riguarda sia il
progettista sia l’utilizzatore.
La norma impone al progettista di:
a. specificare i limiti della macchina e delle fasi di utilizzo e cioè:
uso previsto;
limiti di spazio (movimenti, interfacce – sopratutto uomo/macchina e fonte di
energia/macchina – e spazio di installazione);
limiti di tempo (durata delle varie ”vite”: della macchina e dei componenti);
b. individuare i pericoli e valutare sistematicamente i rischi;
c. prevedere tutte le situazioni in cui si possono provocare lesioni o danni;
d. considerare le azioni delle persone durante tutte la fasi della “vita”;
e. considerare i possibili stati della macchina nel normale funzionamento, e durante le possibili
disfunzioni dovute a variazioni, guasti, disturbi, errori (ad esempio del software), alimentazione
di energia, perdita di controllo (ad esempio di macchine portatili);
f. considerare i casi prevedibili di uso scorretto;
g. eliminare i pericoli o limitare i rischi, riducendo i fattori: probabilità e gravità (severità);
h. progettare ripari o dispositivi di sicurezza, contro i pericoli residui;
i. informare ed avvisare l’utilizzatore dei pericoli residui;
j. considerare qualsiasi precauzione supplementare (ad esempio: facilità di manutenzione, etc.).
2.3. Organizzazione e Gestione della Sicurezza Aziendale
Tranne queste misure che riguardano la progettazione, l’utilizzatore può mettere in opera anche
dispositivi imposti dalle procedure aziendali, complementari a quelle previste dal costruttore nelle
sue avvertenze ed istruzioni per l’uso.
È necessario che il progettista adotti il seguente ordine di priorità:
sicurezza della macchina;
capacità della macchina di svolgere la sua funzione, di essere messa a punto, regolata e
mantenuta in efficienza;
costo di realizzazione e gestione della macchina.
Per quel che riguarda la valutazione del rischio occorre condurre un’analisi dei fattori tecnici ed
umani da cui dipendono:
la probabilità di lesione o di danno alla salute (frequenza di accesso e di permanenza nelle zone
pericolose, etc.);
la massima gravità (severità) prevedibile della lesione o del danno, che risulta da ogni rischio
identificato.
La valutazione di certi rischi può essere meno soggettiva confrontando date soluzioni con altre
analoghe di macchine diverse, per le quali sia disponibile un’informazione sufficiente sui pericoli e
sugli incidenti. La fase progettuale di riduzione del rischio consiste nello:
eliminare o ridurre i pericoli quanto più possibile;
limitare l’esposizione delle persone ai rischi (ad esempio riducendo l’esigenza dell’operatore di
accedere a zone pericolose, etc.).
Il progettista deve pertanto:
a. eliminare bordi ed angoli vivi, parti taglienti, aperture che possano “intrappolare” parti del corpo
od indumenti;
b. rendere la macchina intrinsecamente sicura per mezzo della:
forma e posizione delle parti (ad esempio restrizione di spazi che impediscano ad alcune parti
160
del corpo di potersi insinuare nella zona pericolosa);
limitazione delle forze di attuazione;
limitazione delle masse e/o velocità;
limitazione del rumore, delle vibrazioni e così via;
c. considerare adeguatamente tutte le regole professionali relative alla progettazione e costruzione
delle macchine in esame ed in particolare:
sollecitazioni meccaniche (limitare le cause, usare soluzioni costruttive corrette, prevedere
limitatori di sovraccarico, evitare sollecitazioni a fatica, equilibrare staticamente e
dinamicamente i componenti rotanti, etc.);
materiali (aventi proprietà note ed adeguate, tenendo conto dei fenomeni corrosivi,
invecchiamento, usura, abrasione, disomogeneità, etc.);
tecnologie, procedimenti, fonti di energia (usando ad esempio dispositivi idropneumatici e
fluidi resistenti al fuoco in caso di atmosfere esplosive, oppure prevedendo l’uso di dispositivi
elettrici speciali);
trasmissione (od impedimento) del moto di componenti importanti per la sicurezza;
rispetto dei principi ergonomici, ed in particolare di quelli relativi alle dimensione media del
corpo degli europei, limitazione della fatica, limitazione degli sforzi, prese agevoli,
silenziosità, assenza di vibrazioni meccaniche, assenza di monotonia (ad esempio l’operatore
non sia obbligato ad una sequenza automatica di cicli), sufficiente illuminazione (autonoma
nelle zone critiche), visibilità ed identificabilità dei comandi, coerenza tra la posizione e/o
l’azionamento rispetto all’effetto dei comandi, dispositivi di segnalazione di agevole visione
ed interpretazione, comandabilità di tutte le operazioni da posizione sicure, individuabilità
della presenza di altri operatori esposti al pericolo.
Sia in fase di progettazione sia di utilizzo, è categorico tener conto di tutte le informazioni tratte
dall’esperienza o dalle conoscenze acquisite. Queste informazioni riguardano gli infortuni e gli
incidenti che si sono verificati sulle macchine simili od affini, gli adattamenti ed i miglioramenti
apportati dagli utilizzatori, etc.
È necessario ricordare che al momento della scelta delle misure di sicurezza devono essere sempre
considerati i dispositivi attinenti la prevenzione intrinseca; le protezioni od i dispositivi di
protezione devono essere presi in considerazione solo se non è stato possibile risolvere o trovare
soluzioni che possano risolvere diversamente il problema che si è manifestato/evidenziato
dall’analisi dei rischi.
Quindi, per quanto possibile, si dovranno privilegiare, per prevenire qualsiasi rischio, soluzioni
quali la limitazione delle energie o la disposizione relativa accuratamente scelta degli elementi
mobili. Per ognuno di questi rischi elementari sono indicati i parametri od i fattori che condizionano
tale rischio e che hanno un’incidenza determinante sulla lesione.
Per raggiungere il loro obiettivo, i mezzi messi in “opera” devono rispettare categoricamente alcune
esigenze dimensionali, i criteri di prestazione e di affidabilità, norme specifiche di installazione, etc.
In alcuni casi, per uno stesso rischio, possono essere adottate più soluzioni in funzione della natura
del rischio, dei fattori da tenere in considerazione e dell’analisi del rischio.
Un’analisi che tenga conto, in particolare:
delle condizioni d’uso;
della tecnologia;
della facilità d’impiego;
degli aspetti economici;
deve consentire di individuare la soluzione ottimale per l’utilizzazione prevista.
3. Indicazioni dalla normativa vigente
Decade pertanto la dizione di “macchina” e viene recepita una nuova terminologia quale
“attrezzatura di lavoro”, composta da un insieme di macchine, apparecchi, utensili, impianti
161
destinati ad essere utilizzati per effettuare un lavoro. Pertanto le attrezzature di lavoro devono
possedere dei requisiti di sicurezza, esplicitati dall’art. 70.
L’art. 70 “Requisiti di sicurezza” definisce che le attrezzature messe a disposizione dai lavoratori
devono essere conformi alle Direttive comunitarie di prodotto: si parla quindi di attrezzature di per
sé nuove.
Il comma 2 recepisce invece le attrezzature di lavoro costruite in assenza di Direttive comunitarie di
prodotto e le attrezzature messe a disposizione dei lavoratori “prima” dell’emanazione delle
Direttive comunitarie “vedasi pertanto attrezzature ante Decreto del Presidente della Repubblica
459/96 – Direttiva Macchine”: tali attrezzature devono essere conformi all’Allegato V.
L’art. 71 “Obblighi del datore di lavoro” definisce in modo inequivocabile che tale soggetto “deve
mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi ai requisiti di sicurezza” di cui all’art.
70.
Al comma 5 viene data una chiara indicazione alle modifiche apportate alle macchine, definite
come tali dall’articolo 1, comma 2, del Decreto del Presidente della Repubblica del 24 luglio 1996,
n. 459 (Direttiva Macchine), per migliorarne le condizioni di sicurezza.
Tali modifiche pertanto non configurano immissione sul mercato ai sensi dell’articolo 1, comma 3,
secondo periodo, sempre che non comportino modifiche delle modalità di utilizzo e delle
prestazioni previste dal costruttore.
3.1. Indicazioni applicate alle macchine
Su di ogni macchina devono essere applicate in modo chiaro e ben leggibile le seguenti indicazioni:
nome ed indirizzo del fabbricante;
marcatura “C.E.”;
designazione della serie o del tipo;
numero di serie;
anno di costruzione.
3.2. Certificazione di prodotto
Il fabbricante deve quindi redigere per ciascuna macchina prodotta la dichiarazione di conformità
ed apporre sulla macchina la marcatura C.E.
Le procedure di valutazione della conformità da utilizzare nelle Direttive di armonizzazione tecnica
concernenti la commercializzazione di prodotti industriali saranno scelte tra i moduli unificati.
Tali procedure possono discostarsi dai moduli solo ove le condizioni specifiche di un particolare
settore od una Direttiva lo giustifichino. Tali divergenze dai moduli devono essere di portata
limitata e devono essere motivate esplicitamente nella Direttiva in questione.
3.3. Macchinario (macchina) – norma europea EN I.S.O. 12100 1 – 2
Con il termine “macchina” si intende l’insieme di parti o componenti di cui uno mobile, collegati
tra loro mediante circuiti di comando, di potenza, etc. connessi solidamente per un’applicazione ben
determinata in particolare per:
la trasformazione;
il trattamento;
la movimentazione;
il confezionamento di un materiale.
Per macchinario si intende un insieme di macchine che formino un impianto.
Una macchina deve essere:
affidabile;
facilmente manutenibile (manutenzione programmata uso di procedure);
sicura, cioè devono essere previsti il suo trasporto, la sua installazione, la sua regolazione, etc.
(libretto d’istruzione).
162
3.4. Riduzione del pericolo
Una macchina possiede comunque sempre una fonte residua di pericolo.
Per ridurre il pericolo si dovranno utilizzare dei mezzi tecnici idonei specifici denominati ripari,
dispositivi di sicurezza, per proteggere gli addetti da pericoli o situazioni pericolose che non
possono essere eliminati o limitati attraverso la progettazione.
Le misure di sicurezza consistono:
nell’eliminazione o riduzione di quanti più pericoli: questo è possibile scegliendo
opportunamente i criteri di progettazione (uso di alimentatori automatici, controllo mediante
sistemi informatici, doppi pulsanti, etc.);
nella limitazione dell’esposizione ai pericoli che non possono essere eliminati o ridotti, questo
può essere possibile riducendo le operazioni di intervento nelle zone pericolose (manutenzione
programmata, etc.).
3.5. Riduzione del rischio meccanico mediante protezioni/ripari (UNI EN 292/1 )
La scelta degli organi di protezione è estremamente importante; infatti, rappresenta un momento
essenziale della progettazione della macchina ai fini della sua conformità legislativa.
Si distinguono:
Protezioni fisse: assicurano che all’operatore venga impedito l’accesso alle parti pericolose delle
macchine. Devono essere robuste ed in grado di resistere alle sollecitazioni meccaniche e
ambientali.
Vengono assicurate alla struttura della macchina in modo fisso, necessitano un’apposita chiave
per permettere l’apertura. Non può essere considerata fissa una protezione che possa essere
disattivata con maniglia od altro dispositivo costantemente inserito. Nella progettazione della
protezione fissa, occorre essere certi che non si creino particolari punti di intrappolamento.
In molti casi, le protezioni fisse presentano idonee aperture al fine di consentire all’operatore
l’inserimento del materiale, senza, però permettere alcun accesso alle zone pericolose.
Protezioni asservite sono collegate ai comandi della macchina e consentono di accedere all’area
pericolosa in condizioni di sicurezza, consentendo di eseguire operazioni che si rendessero
necessarie durante lo svolgimento della lavorazione.
Sono concepite ed allestite in modo tale da:
a. permettere di avviare la macchina solo quando la protezione si trova in posizione di chiusura;
b. permettere l’apertura della protezione solo a macchina ferma.
Una particolare classe di protezioni asservite, denominata protezioni – comando, consente
un’agevole e rapida assicurazione delle condizioni di sicurezza ovvero di:
a. iniziare il ciclo di lavoro allorquando viene chiusa la protezione;
b. determinare l’arresto immediato della macchina con l’apertura della protezione, anche se non
posta nella posizione di chiusura.
Questi dispositivi protettivi risultano particolarmente efficaci quando il ciclo di lavoro è di breve
durata, in quanto semplificano notevolmente la manovra della macchina, a vantaggio della
sicurezza.
Protezioni automatiche consentono il funzionamento della macchina solo dopo che l’addetto si è
allontanato dall’area pericolosa.
I distanziatori sono barriere che impediscono all’operatore di intervenire in zone pericolose.
I ripari: Con il termine riparo si identifica un “elemento di una macchina usato in modo specifico
per fornire protezione mediante una barriera fisica”.
In funzione della sua costruzione, un riparo può essere chiamato cuffia, coperchio, schermo,
porta, recinzione, etc.
Si possono pertanto avere i seguenti tipi di riparo:
a. Riparo fisso: Impedisce l’accesso alla zona pericolosa con una protezione che può essere:
fissata in modo permanente (saldatura);
163
fissata mediante l’utilizzo di viti, bulloni, etc., cioè apribile con l’utilizzo di un utensile
specifico.
b. Riparo mobile: Collegato meccanicamente alla struttura della macchina o ad un elemento
fisso e può essere aperto senza l’ausilio di utensili (schermo in materiale traslucido a
protezione della mola).
All’apertura del riparo non ne consegue alcuna azione della macchina.
c. Riparo regolabile: Riparo fisso o mobile ma può essere regolato (protezione alla lama della
sega nastro).
d. Riparo interbloccato: Riparo associato ad un dispositivo di interblocco (microinterruttore) tale
che:
se il riparo viene aperto in fase di lavoro della macchina la stessa si arresta;
la macchina parte solo con il riparo abbassato;
con la chiusura del riparo la macchina non riparta immediatamente ma ciò sia possibile
agendo su di un apposito interruttore.
e. Riparo interbloccato con bloccaggio del riparo: Riparo associato ad un dispositivo di
interblocco (microinterruttore) e ad un dispositivo di bloccaggio del riparo (impastatrice,
centrifughe).
Per fare sicurezza su di una attrezzatura di lavoro normalmente non bastano i ripari ma questi
ultimi devono essere associati ai dispositivi di sicurezza.
I dispositivi di intercettazione e di blocco regolano la distanza minima dell’operatore dalle zone
pericolose, al di sotto della quale non consentono l’avviamento della macchina.
Sono normalmente di tipo meccanico (costituiti da uno schermo o da una barriera che viene
azionata dalla parte del corpo che si avvicina al punto pericoloso), comunque, molto spesso sono
di tipo fotoelettrico o costituiti da sensori elettrici di pressione o anche da apparecchi a
capacitanza o ad ultrasuoni.
In ogni caso, essi assicurano che:
a. sino a quando viene registrata una presenza entro il limite di sicurezza, la macchina non può
essere messa in moto. Una volta cessata l’intercettazione, la macchina può essere riavviata
mediante apposito comando;
b. nel caso in cui venga registrata una presenza all’interno del limite di sicurezza, il dispositivo
protettivo arresta la macchina e, se possibile, inverte il moto al fine di allontanare l’organo
pericoloso dal limite di sicurezza.
Altra importante classe di protezione è quella che protegge gli operatori da eventuali moti residui
degli organi della macchina anche dopo lo spegnimento della macchina.
Quando la macchina viene spenta possono sussistere moti residui dovuti all’inerzia degli organi
meccanici, la protezione deve garantire l’impossibilità di accedere alle zone pericolose sino a
quando i moti residui non siano cessati del tutto.
La protezione può essere attuata in diversi modi:
a. mediante un dispositivo in grado di assicurare che, dopo lo spegnimento della macchina, la
protezione resti bloccata sino a quando l’elemento pericoloso non si sia fermato;
b. mediante un temporizzatore che regola l’apertura della protezione e, conseguentemente,
l’accesso alla zona pericolosa, sino al momento in cui la macchina non si sia arrestata
completamente.
Schiacciamento
La EN 349, relativa alle Distanze minime per impedire lo schiacciamento di parti del corpo, ha lo
scopo di guidare nell’adozione di misure per evitare i pericoli derivanti dalle zone di
schiacciamento, specificando quali devono essere gli spazi minimi “garantiti” per le parti del corpo.
È applicabile quando è possibile ottenere un adeguato livello di sicurezza ma solo per i rischi che
derivano dai pericoli di schiacciamento che è generato se:
due parti mobili si muovono una verso l’altra;
164
una parte mobile si muove verso una parte fissa.
Esiste una correlazione tra la EN 349 e la EN 292 – 1 che (punto 5, “Strategia per la scelta delle
misure di sicurezza”) stabilisce, tra l’altro, che il progettista deve:
progettare ripari e/o dispositivi di sicurezza (protezioni) contro qualsiasi pericolo residuo;
identificare le aree che presentano pericoli di schiacciamento;
valutare i rischi che derivano da questi pericoli.
Va curato, in particolare, quanto segue:
quando si prevede che il rischio che deriva da pericolo di schiacciamento coinvolga più parti del
corpo, si deve applicare lo spazio minimo prescritto (dai prospetti della EN 349) relativo alla
parte del corpo più grande che vi possa accedere;
se parti del corpo possono raggiungere la zona di schiacciamento in modo diverso da quanto
previsto (prospetti della EN 349);
se gli operatori utilizzino indumenti spessi od ingombranti (per esempio protezioni per
temperature elevate) od utensili;
se la macchina sarà utilizzata da persone che portano calzature con suole spesse (per esempio
zoccoli) che aumentano la reale dimensione del piede;
scegliere (dai prospetti della norma EN 349) lo spazio minimo adeguato alla parte del corpo a
rischio;
se mediante gli spazi minimi (dei prospetti della EN 349) non è possibile ottenere un livello di
sicurezza adeguato, occorre adottare misure differenti e/o aggiuntive.
In particolare se non è possibile rispettare le prescritte misure minime per la più grande parte del
corpo prevedibile sarà necessario impedire l’accesso delle parti del corpo più grandi alla zona di
schiacciamento, utilizzando strutture di protezione aventi aperture ridotte.
La possibilità di accesso ad una zona di schiacciamento di una parte del corpo dipende da:
lo spazio tra la parte fissa e la parte mobile o tra due parti mobili;
la profondità della zona di schiacciamento;
la dimensione dell’apertura della struttura di protezione e la sua distanza dalla zona di
schiacciamento.
Per determinare le dimensioni delle aperture in funzione delle distanze di sicurezza bisogna rifarsi
ai prospetti della EN 294.
Se per certe applicazioni è giustificato non attenersi ai valori espressi nei prospetti della EN 349 è
necessario osservare però quanto stabilito nelle norme specifiche delle applicazioni considerate
oltre che quanto prescritto dalla EN 294 e dalla EN 811.
Zone pericolose accessibili
Per zona pericolosa si intende qualsiasi zona all’interno e/o in prossimità di una macchina in cui la
presenza di una persona esposta costituisca un rischio per la sicurezza e la salute della persona
stessa.
Per costruzione le macchine devono essere atte a funzionare, ad essere regolate ed a subire
manutenzione senza che tali operazioni espongano a rischi le persone.
Il fabbricante deve quindi:
eliminare o ridurre i rischi nel miglior modo possibile (integrazione della sicurezza nella
progettazione e nella costruzione della macchina);
adottare le misure di protezione necessarie nei confronti dei rischi che non possono essere
limitati; informare gli utilizzatori dei rischi residui dovuti all’incompleta efficacia delle misure di
protezione adottate, indicare se è richiesta una formazione particolare e segnalare se è necessario
prevedere un dispositivo di protezione individuale.
In alcune macchine inoltre, si rende necessario l’accesso più o meno frequente alla zona pericolosa
165
mentre la macchina stessa è in produzione.
La Direttiva 89/392/C.E.E. «testo base della Direttiva Macchine» considerando vari casi, stabilisce
le scelte di protezione contro i rischi dovuti agli elementi mobili con l’uso di protezioni fisse, mobili
e regolabili.
3.6. Dispositivi di sicurezza
Viene definito come tale un dispositivo che “elimina o riduce il rischio da solo o associato ad un
riparo”.
Le tipologie di dispositivi di sicurezza sono:
dispositivo di interblocco meccanico, elettrico o di altro tipo;
comando ad azione mantenuta (sega circolare a pendolo);
comando a due mani (doppio pulsante simultaneo): trova applicazione nelle presse, nelle
puntatrici, ed in tutte quelle macchine in cui le mani dell’operatore devono stare lontane dalla
zona pericolosa.
dispositivo limitatore (limitatore di pressione, di velocità, di corsa, etc.):
dispositivo sensibile, il funzionamento delle barriere fotoelettriche consiste nell’emissione di vari
raggi infrarossi che vanno a formare una barriera immateriale.
Le parti trasmittenti e riceventi del sistema, se in continuità tramite i raggi infrarossi, permettono
il funzionamento della macchina.
L’intercettazione di uno qualsiasi dei raggi, così come l’errata installazione del sistema ed una
sua eventuale anomalia, quindi l’interruzione della continuità ricevente/trasmittente, deve invece
provocarne l’arresto.
3.7. Sistemi di comando delle attrezzature di lavoro - Comandi
Sicurezza ed affidabilità dei sistemi di comando
I sistemi di comando devono essere progettati e costruiti in modo tale che siano sicuri, affidabili, al
fine di evitare situazioni pericolose per cui devono:
resistere alle sollecitazioni normali di utilizzo della macchina;
resistere agli agenti esterni (se la macchina è progettata per essere lasciata alle intemperie);
inoltre non si devono produrre delle situazioni pericolose in caso di errori di logica di manovre.
Dispositivi di comando
Detti dispositivi devono essere chiaramente visibili, individuabili, ed eventualmente contrassegnati
da una marcatura.
Di fatto su di una attrezzatura di lavoro si possono trovare i seguenti pulsanti:
dispositivo di comando ovvero di arresto;
arresto normale;
arresto di emergenza;
selettore modale o di funzionamento.
Ogni pulsante agisce in maniera propria e con una conseguente azione in relazione all’attrezzatura
di lavoro su cui sono stati impiegati.
166
12. Rischio di incendio
(Decreto
Decreto del Presidente della Repubblica 1 agosto 2011, n. 151 più norme specifiche)
Premessa
L’incendio è un tipico esempio di rischio trasversale:: in qualunque ambiente di lavoro esiste la
probabilità che si creino le condizioni favorevoli all’innesco di una fiamma (importanza
(
della
prevenzione).
L’incendio è caratterizzato da tempi di sviluppo rapidi,, che richiedono interventi ed
e azioni veloci:
bisogna essere preparati ad affrontare l’emergenza per non mettere a repentaglio la propria e l’altrui
incolumità (importanza
importanza della formazione).
formazione
L’incendio è un evento prevedibile il cui rischio deve essere
essere valutato e pianificato.
A livello normativo esiste una chiara interconnessione tra il Decreto Legislativo 9 aprile 2008 n. 81
ed il Decreto Ministeriale 10/03/1998 in materia di lotta antincendio e gestione delle emergenze.
1.Teoria
Teoria della combustione
1.1. Generalità
La combustione è una reazione chimica che comporta l’ossidazione di un combustibile da parte di
un comburente (che in genere è rappresentato dall’ossigeno presente nell’aria), con sviluppo di
calore e radiazioni elettromagnetiche tra cui spesso
spe
radiazioni luminose.
In termini più rigorosi la combustione è un’ossidoriduzione esotermica in quanto un composto si
ossida mentre un altro si riduce (nel caso degli idrocarburi il carbonio si ossida e l’ossigeno si
riduce) con rilascio di energia e formazione
formazione di nuovi composti, principalmente anidride carbonica
ed acqua.
La condizione necessaria per avere una combustione, è la contemporanea presenza del
combustibile, del comburente e di una sorgente di calore (innesco).
(
1.2. Il triangolo del fuoco
Il “triangolo del fuoco” consiste nei tre elementi che sono necessari allo svolgersi della reazione di
combustione. Questi tre elementi sono:
• combustibile;
• comburente;
• innesco.
Il combustibile può essere di vario tipo, per
esempio: idrocarburi, legname o carbone.
carbone
Il comburente per eccellenza è l’ossigeno
l’ossige presente
nell’aria.
Il combustibile ed il comburente devono essere in
proporzioni adeguate affinchéé la combustione abbia
luogo,
delimitate
dal
cosiddett
cosiddetto
“campo
d’infiammabilità”.
La reazione tra il combustibile e il comburente non è
spontanea ma avviene ad opera del livello energetico
della sostanza combustibile
stibile che degrada emettendo
Figura 17:: triangolo del fuoco.
fuoco
atomi di carbonio, idrogeno ed
e altro capace di
combinarsi con l’ossigeno, emettendo ulteriore calore capace di mantenere il livello termico grazie
al quale avviene la piroscissione del combustibile.
L’innesco può essere rappresentato
sentato per esempio da una fonte di calore o da una scintilla.
L’innesco rappresenta l’energia
energia di attivazione necessaria alle molecole di reagenti per iniziare la
reazione e deve essere fornita dall’esterno.
167
In seguito l’energia rilasciata dalla reazione stessa ne rende possibile l’autosostentamento, senza
ulteriori apporti energetici esterni.
Per poter accelerare la combustione si può adoperare una turbolenza, la quale aumenta il
mescolamento tra combustibile e comburente, velocizzando la combustione.
Mancando uno degli elementi del triangolo la combustione non si sviluppa o si estingue.
Spegnere un incendio è infatti possibile per sottrazione (esaurimento od allontanamento) del
combustibile, per soffocamento (separazione dell’ossigeno/comburente per mezzo di una sostanza
coprente) o per raffreddamento (fermando la reazione a catena di autosostentamento dell’innesco).
1.3. Differenze tra combustione controllata ed incendio
La combustione controllata è quella che avviene nel motore a scoppio o in un fornello dove il calore
generato viene sfruttato in tutto od in parte per scopi utili.
Nell’incendio il calore prodotto dalla combustione non è sotto controllo ed ha o può avere effetti
distruttivi sul materiale e le strutture coinvolte dallo stesso.
L’incendio dipende da:
tipo di materiali coinvolti, loro forma e dimensione, loro distribuzione nello spazio o ambiente;
condizioni dell’ambiente in cui si verifica: spazio aperto o chiuso;
aperture presenti nell’ambiente, loro caratteristiche e distribuzione;
presenza di impianti che possono aggravare la propagazione dell’incendio od ostacolarla;
misure di prevenzione incendi ed impianti di protezione.
Tutte le sostanze possono essere distinte in infiammabili, combustibili ed incombustibili:
si dicono infiammabili tutte quelle sostanze, in genere gassose o liquide, che in condizioni
ordinarie hanno bisogno di pochissima energia (una scintilla) per dar luogo alla combustione;
si dicono combustibili tutte quelle sostanze, in genere liquide e solide, che hanno bisogno di
essere riscaldate moderatamente prima di dar luogo alla combustione;
si dicono incombustibili tutte quelle sostanze che hanno bisogno di grandi quantità di energia
prima di dar luogo alla combustione.
1.4. Cinetica della combustione
La reazione di combustione è un processo complesso, composto da più reazioni a catena:
inizio – reazioni fortemente endotermiche (cioè che assorbono calore) spaiano un elettrone di
valenza formando radicali liberi, ovvero delle specie attive;
propagazione – specie attive e altre molecolari interagiscono a formare nuove specie attive;
ramificazione – le specie attive iniziali si diramano creandone di secondarie;
terminazione – l’interazione delle specie crea disattivazione o annichilimento delle specie attive,
formando specie stabili.
Se le specie attive che si vanno a formare con le prime fasi della reazione a catena sono
numericamente pari a quelle disattivate nella fase di terminazione, la combustione risulterà lenta e
controllata; se al contrario le formazioni di radicali sono superiori alle ricombinazioni si ottiene una
combustione incontrollata: un’esplosione.
Si può notare nella fase iniziale la necessità di energia per far attivare la reazione che è endotermica,
chiarendo la necessità di un’energia di innesco rappresentata nel triangolo del fuoco
precedentemete.
L’accensione di una miscela combustibile – comburente può avvenire in due modi:
autoaccensione: è l’accensione simultanea dell’intera massa di miscela. Se la temperatura di
questa è elevata, il calore evacuato all’ambiente risulta minore di quello prodotto, la reazione è
autocatalizzata e la pressione sale velocemente: si ha un’esplosione (teoria di Semenov).
accensione provocata: si ha quando una sorgente entro la miscela cede energia, e dà luogo a
un’accensione locale che poi può propagarsi nell’intera miscela.
168
Questo si verifica se:
• localmente il calore della sorgente sviluppa una temperatura superiore a quella di
autoaccensione;
• la quantità di miscela accesa abbia un’energia sufficiente a sostenere e propagare la
combustione nell’intero volume.
1.5. Parametri fisici della combustione
La combustione è caratterizzata da numerosi parametri fisici e chimici, i principali dei quali sono i
seguenti:
temperatura di accensione: è la minima temperatura alla quale un combustibile, in presenza
d’aria brucia senza necessità di innesco.
La temperatura di accensione è molto importante nei motori Diesel: infatti, non essendo in essi
presente la candela (che nei motori a benzina determina l’innesco), viene prima preparata una
quantità sufficiente d’aria alla temperatura di accensione del combustibile, che viene quindi
iniettato all’interno della camera di combustione dando luogo ad un’accensione per autoinnesco.
temperatura di autoaccensione: temperatura alla quale la sostanza brucia spontaneamente
(presenza di energia termica o processi chimici).
temperatura di infiammabilità: è la più bassa temperatura alla quale un combustibile liquido
emette vapori sufficienti a formare con l’aria una miscela che, se innescata, brucia
spontaneamente. La conoscenza della temperatura di infiammabilità risulta molto importante ai
fini della conservazione e del trasporto dei combustibili.
Valori bassi della temperatura di infiammabilità indicano una maggiore pericolosità del
combustibile:
temperature inferiori ai 20° C indicano sostanze esplosive (ad esempio benzina ed alcol);
temperature tra 21° C e 65° C indicano sostanze che esplodono solo se riscaldate;
temperature superiori ai 65° C indicano i normali combustibili (gasolio, olio combustibile e
lubrificanti).
limiti di infiammabilità: affinché la combustione avvenga è necessaria la presenza
contemporanea di un combustibile, di un comburente e di una temperatura al di sopra di una
certa soglia. Risulta però necessario che il rapporto tra combustibile e comburente sia entro certi
limiti, noti appunto come limiti di infiammabilità.
I limiti di infiammabilità nel caso di vapori di liquidi infiammabili e dei gas vengono espressi
come la percentuale in volume di combustibile nella miscela aria – combustibile.
Si distinguono in limite inferiore e limite superiore di infiammabilità.
Il limite inferiore di infiammabilità rappresenta la minima concentrazione di combustibile nella
miscela aria – combustibile che consente a quest’ultima, se innescata, di reagire dando luogo ad
una fiamma in grado di propagarsi a tutta la miscela.
Il limite superiore di infiammabilità rappresenta la concentrazione massima di combustibile in
presenza della quale il comburente, cioè l’aria, risulta insufficiente per dar luogo ad una fiamma
in grado di propagarsi a tutta la miscela. Se il gas o vapore infiammabile è diluito con un eccesso
d’aria, il calore sviluppato dall’accensione è insufficiente a far salire la temperatura degli strati
adiacenti di miscela fino al punto di accensione: la fiamma non può propagarsi attraverso l’intera
miscela ma si estingue.
Se nella miscela è presente un eccesso di combustibile (al di sopra del limite superiore di
infiammabilità), questo funzionerà da diluente, abbassando la quantità di calore disponibile agli
strati adiacenti di miscela, fino ad impedire la propagazione della fiamma.
campo di infiammabilità: l’ampiezza del campo di infiammabilità dei combustibili dipende dalla
loro reattività, che a sua volta è determinata dal numero e dall’entità dei legami che tengono
insieme gli atomi delle molecole. L’intervallo compreso tra il limite inferiore ed il limite
superiore di infiammabilità rappresenta il valore delle concentrazioni di combustibile entro le
quali le condizioni risultano favorevoli alla propagazione della fiamma. In alcuni casi uno dei
169
due limiti può non esistere; ciò accade nei composti capaci di decomporsi in modo esplosivo.
Per alcune idrazine, ad esempio, non si nota limite superiore di infiammabilità.
Se il comburente è un ossidante particolarmente attivo la miscela può presentare un limite
inferiore di infiammabilità non calcolabile; ad esempio, in presenza di ozono anche miscele con
concentrazione molto basse di combustibile possono bruciare in modo esplosivo.
1.6. La fiamma
Nella maggior parte degli incendi in corrispondenza del fronte di reazione si ha la manifestazione di
fiamme. Le fiamme possono essere classificate in base a due diversi schemi, a seconda che si
prenda in considerazione la modalità di formazione della miscela combustibile – comburente o la
modalità con cui i gas si muovono attraverso la zona di reazione.
Considerando la diversa modalità di formazione della miscela combustibile – comburente si
distinguono:
fiamma premiscelata
Si parla di fiamma premiscelata allorché il combustibile ed il comburente costituiscono una
miscela prima di dar luogo alla reazione di combustione, come si verifica di solito nei bruciatori.
Un esempio è costituito da un tipo di bruciatore chiamato becco Bunsen. Questo è costituito da
un tubo di ottone o rame verticale posto su una base di metallo collegata alla rete di distribuzione
di gas tramite un tubo di gomma. Il gas entra, attraverso il tubo in un foro, e si mescola con l’aria
che esso stesso aspira da due aperture laterali; la fiamma così miscelata brucia sulla parte alta del
tubo dove appunto la si vede.
fiamma di diffusione
Si parla di fiamma di diffusione allorché il gas combustibile, dopo un preriscaldamento, reagisce
con il comburente (aria) che diffonde verso la zona di reazione e brucia nella zona più luminosa
della fiamma in cui si raggiunge la temperatura più alta. La velocità di propagazione della
fiamma è determinata dalla velocità di diffusione del combustibile e del comburente l’uno
nell’altro.
La fiamma della candela è un esempio di fiamma di diffusione.
La cera fonde a causa del calore proveniente dalla fiamma ed una volta fusa passa in fase
gassosa; l’aria, a sua volta, diffonde dalla zona esterna verso la zona ove salgono i vapori del
combustibile; la superficie sulla quale combustibile e comburente si incontrano è quella dove si
sviluppa la fiamma (fronte di fiamma).
La fiamma a diffusione è utilizzata frequentemente nelle applicazioni pratiche; infatti, dato che
combustibile ed aria si miscelano solo nel momento in cui devono reagire e soltanto nello spazio
di reazione, essi garantiscono un migliore livello di sicurezza rispetto alle fiamme premiscelate.
Considerando invece la modalità con cui i gas si muovono attraverso la zona di reazione si
distinguono:
fiamma laminare;
fiamma turbolenta.
Per spiegare il significato di fiamma laminare e fiamma turbolenta si parta da un esempio.
Si immagini un becco Bunsen nel quale sia possibile regolare la velocità di erogazione del gas e si
apra il rubinetto del gas quel poco che consente alla fiamma di sussistere una volta innescata.
In questo caso il flusso del gas che attraversa il tubo con una certa velocità si mescola con l’aria che
entra dai fori laterali e la miscela percorre l’intero tubo mantenendo sempre la stessa velocità e
dando luogo in cima ad una fiamma regolare, detta appunto laminare.
Se si aumenta progressivamente la velocità di erogazione del gas, si vede che – superato un
determinato valore – la fiamma assume un andamento vorticoso, come se all’interno di essa interi
volumi di molecole fossero spostati casualmente da una parte all’altra: questa è la fiamma
turbolenta.
170
1.7. Distacco e ritorno di fiamma
Si parta da un esempio ed si immagini di avere un becco Bunsen con un rubinetto per regolare la
velocità di erogazione del gas in uscita.
Il combustibile all’altezza dei due fori laterali si mescola con l’aria e la miscela attraversa con una
certa velocità l’intero tubo fino a bruciare in cima con una fiamma.
Se la velocità con cui la miscela esce dal tubo è maggiore della velocità con cui la fiamma si
propaga all’interno della miscela, si osserva che la fiamma si stacca dal bruciatore e compare ad una
certa distanza dal foro di uscita del gas. Questo fenomeno viene chiamato distacco di fiamma e si
può presentare in quei combustibili che hanno una bassa velocità di propagazione di fiamma.
Le conseguenze possono essere una combustione non completa del combustibile, o addirittura la
possibile estinzione della fiamma. Arricchendo il combustibile con idrogeno, che ha una alta
velocità di propagazione di fiamma, il fenomeno non si verifica.
Il ritorno di fiamma è il fenomeno inverso: esso si presenta quando la velocità di uscita della
miscela combustibile è minore della velocità con cui la fiamma si propaga.
In questo caso la fiamma tende a rientrare nel condotto dal quale proviene la miscela.
Questo fenomeno, come si può immaginare, è molto pericoloso.
Un aspetto che la tecnologia tenta di affrontare è proprio quello della stabilizzazione della fiamma,
vale a dire dell’utilizzo di modelli di bruciatori che evitino fenomeni di distacco e ritorno di fiamma
e che consentano alla fiamma di rimanere come incollata su una superficie solida.
1.8. Esplosione, deflagrazione e detonazione
Se una reazione esotermica avviene in uno spazio limitato, spesso il calore svolto non può essere
dissipato. Come risultato la temperatura aumenta, la velocità di reazione cresce e ciò determina un
corrispondente aumento nella velocità di produzione del calore.
La velocità di reazione cresce senza limite ed il risultato è chiamato esplosione termica.
La rapida e localizzata liberazione di energia, determinata dall’esplosione provoca considerevoli
effetti meccanici. Il verificarsi o meno di un’esplosione dipende, oltre che dalle caratteristiche della
miscela, dalla pressione e dalla temperatura.
Secondo il meccanismo termico dell’esplosione esiste, per una determinata composizione del
sistema e per una determinata temperatura, una pressione critica al di sotto della quale si ha una
reazione lenta e al di sopra della quale la reazione diventa esplosiva.
Affinché l’esplosione possa avvenire occorre che la composizione della miscela sia compresa entro
certi limiti detti di esplosività; all’esterno di tali limiti la miscela può ancora reagire, ma con
velocità bassa non esplosiva.
Il limite inferiore di esplosività è la più bassa concentrazione in volume di vapore di combustibile
nella miscela al di sotto della quale non si ha esplosione in presenza di innesco.
Il limite superiore di esplosività è la più alta concentrazione in volume di vapore di combustibile
nella miscela al di sopra della quale non si ha esplosione in presenza di innesco.
Tali limiti sono molto ampi per certe miscele; ad esempio: la miscela acetilene – aria è esplosiva
entro i limiti del 3 e 53% in volume di acetilene quella idrogeno – aria fra il 10 ed il 66% in
volume di idrogeno. Per altre miscele invece i limiti sono molto ristretti: ad esempio, la miscela
benzina – aria è esplosiva all’incirca entro i limiti dell’1 e 6% in volume di vapori del
combustibile.
I limiti variano però con la pressione e con la temperatura, crescendo in generale all’aumentare di
queste. Quando la reazione di combustione si propaga alla miscela infiammabile non ancora
bruciata con una velocità minore di quella del suono, l’esplosione è chiamata deflagrazione.
Quando la reazione procede nella miscela non ancora bruciata con una velocità superiore a quella
del suono (velocità di propagazione supersoniche dell’ordine del chilometro al secondo),
l’esplosione è detta detonazione.
Gli effetti distruttivi delle detonazioni sono maggiori rispetto a quelli delle deflagrazioni.
Qualitativamente si può affermare che: le probabilità di esplosione (detonazione o deflagrazione)
171
crescono nell’intorno della composizione stechiometrica; un intervallo ampio di infiammabilità,
come ad esempio quello dell’idrogeno che va dal 4 al 75% in volume, è indice di particolare
reattività e quindi di rischio di esplosione; un intervallo ristretto di infiammabilità fa pensare,
all’opposto, ad un evolversi lento della combustione.
In mancanza di informazioni sicure o di dati sperimentali è comunque prudente considerare ogni
miscela di combustibile e di comburente in fase gassosa come potenzialmente esplosiva se la sua
composizione è compresa entro i limiti di infiammabilità.
2. Parametri della combustione
È molto difficile prevedere, attraverso calcoli teorici, lo sviluppo e la propagazione della
combustione.
È possibile invece valutare alcuni parametri fondamentali che la influenzano e che forniscono
elementi guida per la predisposizione delle difese contro gli incendi.
I fattori che più influenzano le combustioni sono: il potere calorifico dei combustibili, la
temperatura teorica di combustione, l’aria teorica necessaria alla combustione.
2.1. Potere calorifico
Il potere calorifico si definisce come la quantità di calore (espresso in chilocalorie o in milioni di
joule - MJ ) sviluppata dalla combustione di una quantità unitaria di combustibile (espressa in kg
per i combustibili solidi e liquidi, per i gas in metri o in decimetri cubi misurati in condizioni
normali, cioè a pressione atmosferica e a 0 ° C ).
L’unità di misura utilizzata per esprimere tale parametro è MJ kg o kcal kg .
Un MJ corrisponde a 238 kcal . I valori del potere calorifico vanno dalle 900 kcal m 3 del gas
d’aria alle 11000 kcal kg delle benzine automobilistiche ed oltre.
Una descrizione più dettagliata del potere calorifico parte dalla considerazione che i prodotti della
combustione contengono quasi sempre vapor acqueo, che deriva sia dalla presenza di umidità nel
combustibile sia dalla presenza di idrogeno nelle molecole.
L’umidità può essere contenuta in tutti e tre i tipi di combustibile: solido, liquido e gassoso.
Nei combustibili solidi essa può trovarsi come acqua assorbita da un liquido (acqua di imbibizione)
o dall’aria (per igroscopicità dell’ambiente).
L’umidità contenuta nei combustibili diminuisce la velocità di combustione in quanto parte
dell’energia termica sviluppata serve a riscaldare ed a far evaporare l’acqua.
Tenendo conto della presenza di molecole d’acqua nei prodotti, possono esistere due definizioni del
potere calorifico, derivanti da due diverse modalità di misura dello stesso:
il potere calorifico superiore, per il quale si considera il calore sviluppato dalla reazione allorché
tutti i prodotti della combustione siano alla temperatura ambiente e quindi l’acqua prodotta sia
allo stato liquido;
il potere calorifico inferiore, per il quale invece si considera l’acqua prodotta allo stato di vapore.
La differenza tra potere calorifico superiore ed inferiore è dell’ordine del: 3 ÷ 4 % con i
combustibili solidi 6 ÷ 7 % con i combustibili liquidi 8 ÷ 11 % con i combustibili gassosi.
Per i combustibili che non contengono né idrogeno, né acqua non risulta alcuna differenza tra potere
calorifico superiore ed inferiore: è il caso, ad esempio, dell’ossido di carbonio.
Nella pratica, comunque, si fa riferimento soprattutto al potere calorifico inferiore; anche negli
incendi si può ritenere, con ottima approssimazione, che il calore sviluppato sia valutabile sulla base
del potere calorifico inferiore. Tuttavia nella determinazione del carico d’incendio, cioè della
quantità equivalente di legna secca contenuta nell’unità di superficie di un locale, la normativa
impone di far riferimento ai poteri calorifici superiori, probabilmente per avere una stima più
prudente.
Il potere calorifico si può determinare per via sperimentale con vari metodi: per i combustibili solidi
172
comunemente si usa la bomba calorimetrica di Mahler.
2.2. Temperatura della combustione
La temperatura della combustione è la massima temperatura alla quale possono essere portati,
teoricamente, i prodotti di combustione dal calore svolto dalla combustione stessa.
Tale parametro rappresenta un dato di rilevante interesse pratico in quanto da questo è possibile
ricavare informazioni sulla pericolosità e sull’evolversi della combustione.
La temperatura di combustione è condizionata dal potere calorifico del combustibile e dalla capacità
termica dei prodotti di combustione.
Il calcolo della temperatura teorica di combustione viene eseguito nell’ipotesi che tutta l’energia,
liberata dalla reazione, vada esclusivamente ad aumentare la temperatura, senza che vi siano scambi
di calore con l’esterno né perdite dovute a conversioni di energia termica in energia raggiante (in
realtà 1/3 dell’energia termica è convertita in energia raggiante).
Nella valutazione di tale parametro si deve tenere conto della dissociazione, i cui effetti diventano
sensibili a temperature superiori a 1500 °C .
A tale temperatura infatti non è più possibile trascurare la dissociazione parziale delle molecole dei
costituenti del gas di combustione.
Tali reazioni, fortemente endotermiche, comportano una temperatura finale più bassa di quella
calcolata in assenza di dissociazione.
Nelle combustioni reali, inoltre, bisogna prendere in considerazione l’eventuale eccesso d’aria
impiegato, oltre alla temperatura alla quale l’aria si trova all’inizio della combustione
(preriscaldamento).
Da quanto detto risulta che le temperature teoriche di combustione sono sempre maggiori di quelle
reali.
2.3 Aria necessaria per la combustione
Per bruciare un combustibile, sfruttando al massimo la sua capacità di produrre un effetto termico, è
necessario farlo combinare con una determinata quantità di ossigeno.
Tale ossigeno è in pratica fornito dall’aria, in cui è contenuto nel rapporto in volume di 1/5 circa (la
restante parte è azoto più tracce di altri gas).
La quantità di aria strettamente necessaria alla combustione dipende dalla composizione chimica del
combustibile: l’aria necessaria è tanto maggiore quanto più elevato è il potere calorifico del
combustibile.
Nella pratica non è però sufficiente l’aria teorica: affinché si sviluppi la combustione completa
occorre una quantità d’aria maggiore.
La parte in più del valore teorico viene chiamata eccesso d’aria, e dipende dal tipo di combustibile.
L’aria in eccesso non prende parte però alla combustione e la si trova pertanto nei prodotti.
Un difetto d’aria provoca la formazione di prodotti intermedi, quali ad esempio l’ossido di carbonio.
3. Combustibili
3.1.Generalità
Si definiscono combustibili le sostanze in grado di reagire con l’ossigeno (o con un altro
comburente) dando luogo ad una reazione di combustione.
I componenti principali dei combustibili più usati sono il carbonio (C) e l’idrogeno (H).
Il carbonio e l’idrogeno vengono definiti elementi utili in quanto conferiscono al combustibile due
principali requisiti: sviluppare calore in notevole quantità e dare una combustione completa con la
minima produzione di sostanze inquinanti.
Un kg di C, infatti, bruciando completamente produce 34.03 MJ di calore, trasformandosi in
anidride carbonica che non è dannosa.
Un kg di idrogeno produce 144.42 MJ , circa quattro volte più del carbonio, e si trasforma in acqua,
173
che si libera come vapor acqueo, date le temperature a cui la combustione ha luogo.
I vari tipi di combustibili possono essere classificati in base allo stato fisico (a temperatura e
pressione ambiente) differenziandosi in combustibili solidi, liquidi, gassosi.
Un’altra classificazione possibile si basa sull’origine dei combustibili, distinguendo tra combustibili
naturali e derivati.
I combustibili naturali si adoperano così come si trovano in natura, quelli derivati vengono forniti
quali prodotti di trasformazione di combustibili naturali o di particolari lavorazioni industriali.
3.2. Classificazione dei combustibili
1. Combustibili solidi
Naturali: Carbon fossili (torba, lignite, litantrace, antracite), Legna;
Derivati: Coke (di carbon fossile), Carbone di legna, Agglomerati vari.
2. Combustibili liquidi
Naturali: Petrolio greggio;
Derivati: Benzine di distillazione, gasolio, olio Diesel, olio combustibile.
3. Combustibili gassosi
Naturali: Gas naturale (metano, butano, etc.);
Derivati: Gas di città e di cokeria, gas di generatori, gas di raffineria, acetilene, idrogeno.
3.2.1. Combustibili solidi
I combustibili solidi sono i più abbondanti e quelli che vengono usati da più tempo.
Ad essi appartiene il più antico ed il più noto fra i combustibili: il legno.
Questo si produce continuamente nelle piante come risultato di sintesi biochimiche tra l’anidride
carbonica e l’acqua con l’utilizzazione dell’energia solare.
Il legno è costituito da cellulosa (il componente fondamentale), lignina, zuccheri, resine, gomme e
sostanze minerali varie, che danno luogo, al termine della combustione, alle ceneri.
Stesse caratteristiche presentano tutte le sostanze che derivano dal legno come la carta, il lino, la
juta, la canapa, il cotone, etc.
Il grado di combustibilità di tutte queste sostanze può essere alterato, a seguito di particolari
trattamenti (ad esempio pittura).
Il legno può bruciare con fiamma più o meno viva – od addirittura senza fiamma – o carbonizzare a
seconda delle condizioni in cui avviene la combustione.
La temperatura d’accensione del legno è di circa 250 °C , tuttavia se il legno è a contatto con
superfici calde per molto tempo possono avvenire fenomeni di carbonizzazione con possibilità di
accensione spontanea a temperature anche molto minori.
Una caratteristica importante del legno è la pezzatura, definita come il rapporto tra il volume del
legno e la sua superficie esterna.
Se un combustibile ha una grande pezzatura vuol dire che le sue superfici a contatto con l’aria sono
relativamente scarse ed inoltre ha una massa maggiore per disperdere il calore che gli viene
somministrato. In pratica un pezzo piccolo di legno prende fuoco facilmente anche con sorgenti a
temperatura relativamente bassa, mentre un pezzo di legno sufficientemente grande prende fuoco
con molta più difficoltà.
In generale, sia per i combustibili solidi sia per quelli liquidi, si ha che quando il combustibile è
suddiviso in piccole particelle, la quantità di calore da somministrare è tanto più piccola quanto più
piccole sono le particelle, sempre che naturalmente si raggiunga la temperatura di accensione.
Così il legno che in grandi dimensioni può essere considerato un materiale difficilmente
combustibile, quando invece è suddiviso allo stato di segatura od addirittura di polvere può dar
luogo addirittura ad esplosioni.
Per un combustibile solido diventa quindi fondamentale la sua suddivisione: una grossa pezzatura
comporta un basso rischio di incendio, mentre con una pezzatura piccola lo stesso materiale risulta
molto pericoloso.
174
Va notato che nel caso di materiali di grossa pezzatura diventa rilevante non solo il fatto che la
sorgente di calore abbia una temperatura elevata ma anche il tempo di esposizione alla sorgente di
calore.
La bassa conduttività del legno (proprietà di trasmettere il calore) determina una minore velocità di
propagazione della combustione. Come è ovvio il legno mantiene le sue proprietà combustibili
anche quando viene destinato ad altri usi (essenzialmente nell’arredamento e nell’edilizia) e di
questo si deve tenere conto nel progettare le misure antincendio degli edifici.
Le ceneri rappresentano il residuo solido di un combustibile dopo la completa combustione.
Sono generalmente formate da impurità minerali (polveri, sabbia) e da composti organo – metallici
provenienti dal greggio.
Anche se la quantità è minima, la loro incidenza sulla formazione di fuliggine e sulla corrosione
può essere rilevante. La quantità delle ceneri prodotte viene misurata scaldando il campione
finemente polverizzato dentro un crogiolo a temperatura superiore a 850 °C .
3.2.2. Altri combustibili solidi
I carboni fossili sono combustibili solidi naturali, prodotti dalla lenta trasformazione del legno di
antiche piante ad alto fusto sottoposto all’azione di alte pressioni e temperature nel sottosuolo.
L’unica eccezione è costituita dalla torba, che deriva dalla trasformazione del materiale organico di
alghe e muschi, ma non è molto usata come combustibile a causa dell’alto contenuto di acqua, della
scarsa percentuale di carbonio e dell’eccessiva produzione di ceneri in seguito alla sua combustione.
Attualmente il suo principale impiego è come concime per giardinaggio.
I carboni, originati dal legno di antiche piante, possono essere classificati in tre categorie: lignite,
litantrace, antracite.
Le ligniti si trovano ad uno stato di carbonizzazione non molto avanzato (di qui il nome) e, dato
l’elevato contenuto in acqua, trovano scarso impiego come combustibili.
Le litantraci costituiscono il carbon fossile propriamente detto, hanno elevato contenuto in carbonio,
scarsissimo contenuto di acqua e ceneri ed una discreta percentuale di sostanze volatili.
A seconda del basso o dell’elevato contenuto di sostanze volatili si distinguono le litantraci a corta
fiamma e quelle a lunga fiamma (questi nomi derivano dalle caratteristiche della fiamma prodotta
dalla combustione dei due tipi di litantrace).
Normalmente non vengono usate direttamente come combustibili, ma impiegate per la produzione
di carbon coke mediante riscaldamento, in ambiente privo di ossigeno, a temperature superiori ai
1000 °C .
Durante questo processo si separano anche svariati prodotti gassosi, che vengono raccolti e
raffreddati.
In seguito al raffreddamento una parte di essi condensa e forma catrami, mentre la parte che non
condensa viene raccolta ed utilizzata come combustibile gassoso.
L’antracite è il carbone al più avanzato stato di carbonizzazione (e perciò con il più elevato
contenuto di carbonio: oltre il 95% ) e viene utilizzata direttamente come combustibile, senza essere
sottoposta a lavorazioni.
Il carbon coke, prodotto per riscaldamento della litantrace, è più adatto di quest’ultima ad essere
usato come combustibile. Dalle litantraci a corta fiamma si produce il coke metallurgico,
largamente impiegato nell’industria siderurgica, da quelle a lunga fiamma si ottiene il coke da gas,
usato soprattutto nel riscaldamento domestico.
La carbonella normalmente usata nei barbecue non è un combustibile fossile, ma un combustibile
solido artificiale, prodotto per riscaldamento della legna, in assenza di ossigeno e per questo motivo
viene chiamata carbone di legna.
Oggi non ha alcuna importanza industriale, ma è stato il primo combustibile artificiale usato
dall’uomo, tradizionalmente veniva prodotto nelle cosiddette carbonaie, mucchi di legno coperti di
terra per impedire il contatto con l’ossigeno dell’aria.
Gli agglomerati sono prodotti per compressione di torbe, ligniti o polveri residue della lavorazione
175
dei carboni più pregiati fino ad ottenere mattonelle o bacchette (eventualmente con l’aiuto di
sostanze agglomeranti) che vengono usate come combustibile domestico.
3.2.3. Combustibili liquidi
I combustibili liquidi sono, tra i combustibili, quelli che presentano il più elevato potere calorifico
per unità di volume, vengono adoperati sia nei motori sia negli impianti di riscaldamento.
I combustibili liquidi artificiali sono pochi e di scarsa importanza, mentre ben più importante è la
classe dei combustibili liquidi naturali, alla quale appartengono i petroli.
Il petrolio non è un’unica sostanza, ma una miscela formata prevalentemente da un gran numero di
idrocarburi (composti chimici formati esclusivamente da carbonio ed idrogeno) con proprietà
chimiche e fisiche molto diverse.
Nei diversi tipi di petroli possono essere presenti anche sostanze diverse dagli idrocarburi, ad
esempio composti dello zolfo (che determinano il tenore di zolfo), che sono una delle principali
cause dell’inquinamento da anidride solforosa nelle grandi città.
Si deve tenere presente che, anche se il petrolio nel suo complesso è un liquido, i diversi idrocarburi
che lo compongono possono essere liquidi, solidi o gassosi (il fatto che una miscela liquida possa
contenere sostanze solide e gassose non deve stupire, basta pensare che l’acqua di mare è una
miscela di acqua e di diversi sali tutti solidi).
Lo zolfo pur essendo un combustibile, è un elemento nocivo ed indesiderato nei combustibili.
Esso infatti ne riduce il potere calorifico perché libera molto meno calore del carbonio e
dell’idrogeno, inoltre favorisce la corrosione e contribuisce in misura cospicua al fenomeno
dell’inquinamento atmosferico.
Lo zolfo è contenuto nel petrolio greggio e lo si ritrova dopo la raffinazione soprattutto negli oli
combustibili (per Legge gli oli non dovrebbero contenere un tenore di zolfo superiore al 3% ).
È opportuno osservare che lo zolfo, bruciando, forma SO 2 (anidride solforosa) ed SO 3 (anidride
solforica) le quali, combinandosi con il vapor d’acqua presente nei prodotti di combustione, danno
luogo ad effetti dannosi, dovuti alla formazione di vapori di acido solforico, altamente corrosivi. La
temperatura a cui avviene la suddetta condensazione è chiamata temperatura di rugiada acida.
Il petrolio viene estratto in diverse regioni del mondo, mediante l’uso di pozzi, e piattaforme
marine. La sua origine è stata lungamente discussa ed oggi è certo che esso deriva dalla lenta
trasformazione, a pressioni elevate ed in assenza di aria, di materiali organici, accumulatisi su
fondali di bacini marini e portati nel sottosuolo dall’evoluzione geologica.
Il petrolio appena estratto viene chiamato greggio e non viene usato come tale, ma trasportato in
diversi modi (oleodotti, navi cisterna o camion) fino a particolari impianti, chiamati raffinerie, nei
quali viene lavorato per ottenere i suoi derivati più importanti.
La principale lavorazione a cui viene sottoposto il petrolio greggio è una distillazione.
La prima grossolana distillazione consente di separare frazioni che distillano in intervalli di
temperatura piuttosto ampi, successivamente queste frazioni vengono ulteriormente distillate per
ottenere i prodotti finali: gas di raffineria, benzine, cherosene, gasolio.
La parte liquida che rimane, come residuo della distillazione, costituisce gli oli pesanti, quella
solida il bitume.
Le benzine sono la frazione che si separa fra i 60 °C ed i 200 °C ed il loro impiego più importante
è come carburanti nei motori a scoppio, ad esempio nelle autovetture, il cherosene è la frazione che
distilla fra 160 °C e 270 °C , molto usata nel riscaldamento domestico, ed il gasolio quella che
distilla fra 250 °C e 340 °C , che trova l’impiego più importante nei motori Diesel.
Gli oli pesanti vengono di solito sottoposti a trattamenti che consentono di trasformarli in benzine,
ben più preziose, mentre il bitume viene usato prevalentemente per la pavimentazione delle strade.
Una particolare lavorazione è il cracking, usata per ottenere le benzine da idrocarburi ad alto peso
molecolare.
Durante il cracking (temperature elevate 400 ÷ 500 °C ), le molecole ad alto peso si scindono in
176
molecole più piccole; per esempio, da una molecola a dieci atomi di carbonio è possibile ricavarne
una ad otto (ottano) e una a due (etilene).
In pratica per una maggiore efficienza si opera in presenza di catalizzatori.
In generale tutti i combustibili liquidi sono in equilibrio con i propri vapori, che si sviluppano in
misura differente a seconda delle condizioni di pressione e di temperatura, sulla superficie di
separazione tra liquido e mezzo che lo sovrasta.
Nei liquidi infiammabili la combustione avviene quando, in corrispondenza della suddetta
superficie, i vapori dei liquidi, miscelandosi con l’ossigeno dell’aria, in concentrazioni comprese
nel campo di infiammabilità, sono opportunamente innescati.
Pertanto per bruciare in presenza di innesco, un liquido infiammabile deve passare dallo stato
liquido allo stato vapore.
L’indice della maggiore o minore combustibilità di un liquido è fornito dalla temperatura di
infiammabilità, in base alla quale i combustibili liquidi vengono così catalogati:
categoria A: liquidi aventi punto di infiammabilità inferiore a 21 °C (ad esempio la benzina);
categoria B: liquidi aventi punto di infiammabilità compreso tra 21 °C e 65 °C (ad esempio
alcol etilico);
categoria C: liquidi aventi punto di infiammabilità oltre 65 °C e fino a 125 °C (ad esempio il
gasolio).
Altri parametri che caratterizzano i combustibili liquidi sono la temperatura di accensione e di
infiammabilità, i limiti di infiammabilità, la viscosità e la densità dei vapori.
Tanto più è bassa la temperatura di infiammabilità tanto maggiori sono le probabilità che si formino
vapori in quantità tali da essere incendiati; particolarmente pericolosi sono quei liquidi che hanno
una temperatura di infiammabilità inferiore alla temperatura ambiente, in quanto anche senza subire
alcun riscaldamento, possono dar luogo ad un incendio.
Fra due liquidi infiammabili, entrambi con temperatura di infiammabilità inferiore alla temperatura
ambiente, è comunque da preferire quello a più alta temperatura di infiammabilità in quanto a
temperatura ambiente emetterà una minore quantità di vapori infiammabili, diminuendo così le
possibilità che si formi una miscela aria – vapori nel campo d’infiammabilità.
Ulteriori elementi negativi, per quanto riguarda il pericolo di incendio, sono rappresentati da: bassa
temperatura di accensione del combustibile, che comporta una minore energia di attivazione per
dare inizio alla combustione; ampio campo di infiammabilità, in quanto risulta più esteso
l’intervallo di miscelazione vapore – aria per il quale è possibile l’innesco e la propagazione
dell’incendio.
Un’ultima considerazione si deve fare a proposito della densità dei vapori infiammabili, definita
come la massa per unità di volume di vapori del combustibile.
I combustibili più pericolosi quelli più pesanti dell’aria, in quanto in assenza o scarsità di
ventilazione tendono ad accumularsi ed a ristagnare nelle zone basse dell’ambiente, formando più
facilmente miscele infiammabili.
La viscosità è definita come il rapporto tra il tempo impiegato nell’efflusso di una definita quantità
di combustibile attraverso un ugello calibrato ed il tempo impiegato da una pari quantità di acqua
distillata a 20 °C : la viscosità così misurata dipende notevolmente dalla temperatura del
combustibile.
3.2.4. Combustibili gassosi
Fra i combustibili gassosi naturali, i più importanti sono senza dubbio gli idrocarburi gassosi:
metano, etano, propano e butano (il primo è il comune gas da cucina usato nelle grandi città,
l’ultimo il gas contenuto, ad esempio, nelle bombole dei fornelletti da campeggio).
Questi combustibili sono migliori dei combustibili liquidi naturali perché sono generalmente molto
puri, possono essere miscelati facilmente con l’aria (e quindi con l’ossigeno) per avere un’ottima
177
combustione e bruciano senza dare origine a sostanze incombuste ed a fumi.
L’unico rischio, comune peraltro a quasi tutti i combustibili naturali, consiste nella possibile
formazione di monossido di carbonio se la disponibilità di ossigeno è limitata.
Inoltre, possono essere trasportati e distribuiti con facilità allacciando le abitazioni direttamente alla
rete delle società del gas, evitando pericolosi e costosi depositi ed immagazzinamenti.
Altro vantaggio è la facilità di regolazione del flusso di gas e quindi della quantità di calore
prodotta.
Il metano è molto diffuso nel sottosuolo di un gran numero di Paesi, inclusa l’Italia, e spesso si
trova associato ai giacimenti petroliferi, in questi ultimi casi a volte la sua raccolta può addirittura
risultare economicamente sconveniente e per questo motivo si preferisce distruggerlo incendiandolo
prima di iniziare l’estrazione del petrolio.
Come si può facilmente intuire l’uso principale del metano è nelle attività domestiche (fornelli ed
impianti di riscaldamento a gas), ma non mancano naturalmente gli impieghi industriali.
Fra i combustibili gassosi artificiali merita un cenno l’idrogeno, ottenuto a partire dall’acqua
attraverso un procedimento chiamato idrolisi ed attualmente oggetto di un gran numero di studi per
il suo possibile impiego come combustibile pulito (l’unico prodotto della sua combustione è l’acqua
e non c’è il rischio della possibile formazione di monossido di carbonio).
Come per i liquidi infiammabili, anche per l’idrogeno risultano fondamentali alcuni parametri quali:
temperatura di accensione, limiti di infiammabilità, densità rispetto all’aria.
I gas, in base alle loro caratteristiche fisiche, vengono divisi in leggeri e pesanti.
Si definisce leggero un gas avente densità rispetto all’aria inferiore a 0.8 come idrogeno, metano,
etc.
Si definisce pesante un gas avente densità rispetto all’aria superiore a 0.8 come G.P.L., acetilene,
etc.
Un gas pesante, quando liberato dal proprio contenitore, tende a stratificare ed a permanere nella
parte bassa dell’ambiente.
È noto che tutte le sostanze possono esistere allo stato gassoso, in particolari condizioni di pressione
e di temperatura.
Sono però definiti gas solo quelli che si trovano allo stato gassoso nelle condizioni normali di
pressione e di temperatura (pressione atmosferica, 15 °C ).
3.2.4.1. Conservazione dei gas
I gas vengono conservati all’interno di contenitori (grandi serbatoi, bombole, bottiglie, etc.), in
genere sotto pressione oppure liquefatti in maniera da consentire un più semplice stoccaggio.
La modalità con cui lo stoccaggio viene eseguito, è rilevante al fine di prevenire eventuali cause
d’incendio.
Gas compressi: sono quelli conservati allo stato gassoso, sotto pressione, alla temperatura
ambiente in appositi recipienti che vengono riempiti fino al raggiungimento di una data pressione
di carica che è funzione della resistenza della bombola stessa.
Gas liquefatti: sono quelli (butano, propano, ammoniaca, cloro) che, alla temperatura ambiente,
vengono conservati in appositi recipienti allo stato liquido sotto una pressione relativamente
bassa.
La pressione all’interno del recipiente, fin tanto che sono presenti le due fasi, dipende
esclusivamente dalla temperatura.
Il gas liquefatto è molto più concentrato di quelli compressi (1 litro di gas liquefatto può
sviluppare nel passaggio di fase fino a 800 ℓ di gas).
Il riempimento del recipiente non deve essere mai completo in quanto un aumento della
temperatura provoca un aumento di volume del liquido ed un aumento della pressione, per cui il
recipiente potrebbe scoppiare.
Per evitare tale rischio, è prescritto un limite massimo di riempimento.
Gas criogenici: sono conservati allo stato liquido in particolare contenitori, ma a temperature e
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pressioni molto basse. Questi gas non possono essere conservati indefinitamente in un
contenitore, poiché anche la temperatura dell’ambiente circostante può generare delle condizioni
di pressioni non sostenibili per qualunque recipiente.
È necessario quindi rendere possibile una minima evaporazione, che consenta di restituire, come
calore di evaporazione, il calore assorbito dall’ambiente esterno.
Gas disciolti: sono conservati in fase gassosa, disciolti entro un liquido, ad una determinata
pressione (ad esempio, acetilene disciolto in acetone, anidride carbonica disciolta in acqua
gassata – minerale).
4. I rischi per l’ambiente e le persone
4.1. Inquinamento da combustibili
Qualunque sistema energetico provoca alterazioni all’ambiente.
Per quanto riguarda i combustibili, essi sono fonte di inquinamento alla produzione, alla
lavorazione e durante l’uso (inquinamento da combustione).
La fase di maggior inquinamento avviene durante l’uso del combustibile.
Le maggiori quantità di inquinanti scaricati, nell’atmosfera, in seguito all’impiego di combustibili,
derivano dalla combustione di carbone ed oli combustibili.
I combustibili solidi portano inquinamento atmosferico a causa del loro contenuto di zolfo e
sostanze minerali.
Lo zolfo viene immesso nell’aria come SO 2 o SO 3 (anidride solforosa e solforica), mentre i
minerali come ceneri, anche il petrolio grezzo contiene zolfo mentre è quasi privo di sostanze
minerali.
È possibile un processo di desolforazione che è però molto costoso. Pressoché non inquinanti in
seguito alla combustione sono i gas naturali, che vengono distribuiti agli utenti già depurati.
La presenza nei prodotti della combustione di sostanze carboniose (CO) e di ossidi di azoto ( NO X )
non dipende tanto dalla qualità del combustibile, quanto dalle condizioni in cui si realizza la
combustione.
La formazione di monossido di carbonio è determinata dalla combustione incompleta.
Gli ossidi di azoto si producono in tutti i processi di combustione con aria, la loro formazione è
favorita dagli eccessi d’aria.
La quantità di ossidi di zolfo dipende invece soltanto dal tenore di zolfo del combustibile quindi per
limitarli è necessario agire sul combustibile stesso.
Esiste una relazione tra la quantità di combustibile bruciato e la quantità di inquinanti emessa
(emissione specifica media, definita come la quantità in kg di inquinante emessa per ogni tonnellata
di combustibile bruciato).
4.2. Prodotti della combustione
4.2.1. Gas di combustione
Durante un incendio, oltre a fiamme e calore, si sviluppano vapore, gas e fumo; quest’ultimo non è
assolutamente da sottovalutare, perché la maggior parte delle vittime degli incendi non è provocata
dalle fiamme, ma dalle sostanze tossiche contenute nei fumi, che dipendono dalle caratteristiche del
materiale combusto.
I gas di combustione sono quei prodotti della combustione che rimangono allo stato gassoso anche
quando raggiungono, raffreddandosi, la temperatura ambiente di riferimento (15 °C ) .
La produzione di tali gas dipende dal tipo di combustibile, dalla percentuale di ossigeno presente e
dalla temperatura raggiunta nell’incendio.
Nella stragrande maggioranza dei casi, la mortalità per incendio è da attribuire all’inalazione di
questi gas che producono danni biologici per anossia o per tossicità.
La combustione dà come risultato il fuoco (che fornisce grandi quantità d’energia sotto forma di
calore ad elevata temperatura con emissione di luce) ed una serie di prodotti secondari che, nella
179
combustione dei più comuni materiali infiammabili, risultano essere:
Ossido di carbonio: Gas tossico, spesso presente in grandi quantità negli incendi, costituisce di
solito il pericolo più grande, è sempre presente in grandi quantità quando si tratti di fuochi,
sviluppatisi in ambienti chiusi con scarsa ventilazione ed in tutti i casi dove scarseggia l’ossigeno
necessario alla combustione.
L’azione tossica dell’ossido di carbonio è dovuta al fatto che esso altera la composizione del
sangue: il monossido di carbonio forma infatti con l’emoglobina un composto, la
carbossiemoglobina, che impedisce la formazione dell’ossiemoglobina, fondamentale per
l’ossigenazione dei tessuti del corpo umano.
L’esposizione in ambienti contenenti l’ 1.3 % di monossido di carbonio produce incoscienza
quasi istantaneamente e la morte dopo pochi minuti.
La percentuale dello 0.15 % per 1 ora o dello 0.05 % per 3 ore può risultare mortale.
La percentuale dello 0.4 % è fatale in meno di 1 ora.
Anidride carbonica: Si forma sempre in grandi quantità negli incendi, è un gas asfissiante che in
forte concentrazione provoca un’accelerazione del ritmo respiratorio, con la conseguenza che, se
sono presenti gas tossici, aumenta la quantità di sostanze tossiche immesse nell’organismo.
Inoltre una percentuale del 5 % di anidride carbonica nell’aria, la rende irrespirabile.
Idrogeno solforato: Si sviluppa in tutti quegli incendi in cui bruciano materiali contenenti zolfo,
come ad esempio la lana, le gomme, le pelli, la carne ed i capelli.
L’idrogeno solforato ha odore caratteristico di uova marce, ma tale sensazione che si ha alle
prime inalazioni scompare dopo poco tempo.
Esposizioni ad aria, contenente percentuali tra lo 0.04 % e lo 0.07 % per più di mezz’ora,
possono essere pericolose in quanto provocano vertigini e vomito.
In percentuali maggiori diviene molto tossico ed attacca il sistema nervoso, provocando
dapprima affanno e successivamente il blocco della respirazione.
Anidride solforosa: Si può formare nella combustione di materiali, contenenti lo zolfo, quando
questa avviene in eccesso d’aria.
In genere se ne formano quantità relativamente modeste salvo che negli incendi di zolfo.
Percentuali dell’ordine dello 0.05 % sono da considerarsi pericolose anche per esposizioni di
breve durata.
È un gas irritante delle mucose degli occhi e delle vie respiratorie.
Acido cianidrico: È un gas altamente tossico, ma fortunatamente negli incendi ordinari si forma
in piccole dosi, quantità relativamente apprezzabili si trovano invece nelle combustioni
incomplete (con poco ossigeno) di seta, lana, resine acriliche, uretaniche e poliammidiche.
È impiegato come fumigante per distruggere i parassiti.
Occorre indossare l’autoprotettore quando si debba intervenire in locali ove sia impiegato o
depositato l’acido cianidrico.
Ha odore caratteristico di mandorle amare ed una concentrazione dello 0.03 % è già da
considerare mortale.
Acido cloridrico: È un prodotto della combustione di tutti quei materiali contenenti cloro come la
maggioranza delle materie plastiche, la concentrazione di 1.5 p.p.m. è fatale in pochi minuti.
La sua presenza viene facilmente avvertita a causa dell’odore pungente e del suo effetto irritante
per le mucose, l’acido cloridrico ha inoltre la proprietà di corrodere i metalli.
Aldeide acrilica o acroleina: È un gas altamente tossico ed irritante, si forma durante l’incendio
di prodotti derivati dal petrolio, di oli, grassi ed altri materiali comuni.
Concentrazioni superiori a 10 p.p.m. possono risultare mortali.
Fosgene: Gas altamente tossico, è presente nelle combustioni di materiali contenenti cloro, come
ad esempio alcuni materiali plastici.
La formazione di tale gas è da temere soprattutto se l’incendio si sviluppa in un ambiente chiuso.
L’impiego di estintori al tetracloruro di carbonio può provocarne la formazione con effetti
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particolarmente dannosi in locali chiusi.
Ammoniaca: Si forma nella combustione di materiali contenenti azoto (lana, seta, materiali
acrilici, fenolici e resine melamminiche).
L’ammoniaca è impiegata in alcuni impianti di refrigerazione e costituisce un notevole rischio di
intossicazione in caso di fuga.
Produce sensibili irritazioni agli occhi, al naso, alla gola ed ai polmoni. L’esposizione per
mezz’ora all’aria contenente 0.25 ÷ 0.65 % di ammoniaca può causare seri danni all’organismo
e addirittura la morte.
Perossido di azoto: Gas di colore rosso bruno altamente tossico.
Esposizioni all’aria con percentuali dallo 0.02 % allo 0.07 % possono essere mortali in breve
tempo.
Esso si forma insieme ad altri vapori nitrosi nella combustione della nitrocellulosa, del nitrato di
ammonio e di altri nitrati organici.
4.2.2. Fiamme
Le fiamme sono costituite dall’emissione di luce, conseguente alla combustione di gas, sviluppatisi
in un incendio.
In particolare nell’incendio di combustibili gassosi è possibile valutare approfonditamente il valore
raggiunto dalla temperatura di combustione dal colore della fiamma.
4.2.3. Fumi
I fumi sono formati da piccolissime particelle solide, aerosol, liquide, nebbie o vapori condensati,
disperse nei gas prodotti durante la combustione.
Salvo casi particolari quali la combustione del metano, la combustione è quasi sempre
accompagnata dalla formazione di fumi; normalmente sono prodotti in quantità tali da impedire la
visibilità, ostacolando l’attività dei soccorritori e l’esodo delle persone.
È quindi il fumo il primo ostacolo che si deve evitare nei locali ove si sviluppa l’incendio.
Le particelle solide dei fumi sono costituite da sostanze incombuste: particelle di carbonio, catrami
e ceneri, queste, trascinate dai gas, prodotti dalla combustione, formano il fumo di colore scuro.
Le particelle liquide, invece, sono costituite essenzialmente da vapor acqueo proveniente
dall’umidità dei combustibili, ma soprattutto dalla combustione dell’idrogeno.
Al di sotto dei 100 °C , quando i fumi si raffreddano, il vapor d’acqua condensa dando luogo a fumo
di colore bianco.
Negli incendi, l’eccesso d’aria non è mai assicurato, quindi vi è una notevole possibilità che
all’interno dei fumi siano presenti gas tossici.
È noto l’effetto irritante del fumo sulle mucose degli occhi e sulle vie respiratorie che si va a
sommare alla normale carenza di ossigeno al momento dell’incendio.
4.2.4. Calore
Il calore è la causa principale della propagazione degli incendi.
Esso realizza l’aumento della temperatura di tutti i materiali e corpi esposti, provocandone il
danneggiamento fino alla distruzione, oltre certi limiti, il calore causa all’uomo disidratazione dei
tessuti, difficoltà respiratorie e scottature.
Una temperatura dell’aria di 150 °C è da ritenersi sopportabile solo per brevissimo tempo e sempre
che l’aria sia sufficientemente secca.
Negli incendi, invece, sono presenti grandi quantità di vapore acqueo, così anche temperature di
50 °C risultano estremamente dannose.
4.3. Effetti dell’incendio sull’uomo
I principali effetti dell’incendio sull’uomo sono:
181
anossia (a causa della riduzione del tasso d’ossigeno nell’aria);
azione tossica dei fumi;
riduzione della visibilità;
azione termica.
Anossia
La combustione comporta inevitabilmente la riduzione della percentuale di ossigeno nell’ambiente,
sia perché esso viene consumato dalla reazione e potrebbe non essere totalmente rimpiazzato da
immissione nell’ambiente di aria fresca, sia perché i gas prodotti, se non sufficientemente evacuati,
si mescolano con l’aria, abbassando il contenuto percentuale dell’ossigeno libero, il tutto con
rischio per la sopravvivenza umana.
Si ricorda che normalmente viviamo in ambienti il cui tenore di ossigeno in aria è circa pari al
21 % , ma le probabilità di sopravvivenza si riducono drasticamente quando la percentuale di
ossigeno in aria scende sotto al 17 % .
Infatti con percentuali di ossigeno intorno al 15 % si possono avere fenomeni di spossatezza e
mancanza di volontà per scarsa ossigenazione del sangue; per percentuali inferiori, 10 ÷ 14 % le
persone pur restando coscienti, perdono le facoltà di controllo ed addirittura i sensi.
Azione tossica dei fumi
I gas di combustione possono essere classificati a seconda della loro azione sull’uomo in:
Gas asfissianti: impediscono l’afflusso dell’ossigeno ai polmoni ad esempio anidride carbonica.
Ai colpiti da asfissia, si applicano la respirazione artificiale ed inalazioni di ossigeno.
Gas corrosivi: producono lesioni ai bronchi e/o alla pelle ad esempio composti del cloro.
Ai colpiti, specialmente se in condizioni gravi, è controindicata la respirazione artificiale.
Si praticano inalazioni di ossigeno ed opportuni neutralizzanti.
Gas tossici per il sistema nervoso: causano depressione generale e paralisi ad esempio acido
cianidrico e derivati.
Ai colpiti si applicano, come prime cure, la respirazione artificiale ed inalazioni di ossigeno.
Gas tossici per il sangue: alterano la composizione del sangue, causando avvelenamento ad
esempio ossido di carbonio, vapori nitrosi.
Ai colpiti si praticano, come prime cure, la respirazione artificiale, inalazioni di ossigeno ed
opportuni disintossicanti.
Se disponibili, occorre proteggere le vie respiratorie con apposite maschere filtranti: il filtro
applicato deve essere scelto in funzione dei gas che ipoteticamente dovrebbero svilupparsi in
caso di incendio nell’ambiente di lavoro in cui ci si trova.
Riduzione della visibilità
Il maggiore responsabile della riduzione della visibilità è il fumo che peraltro, salvo casi particolari
come la combustione del metano con adatte apparecchiature (per esempio caldaie, bruciatori delle
cucine), accompagna sempre la combustione e molto spesso in quantità elevate da impedire la
visibilità.
La mancanza di visibilità rende difficile il percorso delle vie di esodo ed il raggiungimento dei
luoghi sicuri ed è una tra le cause più importanti delle manifestazioni di panico.
Poiché, inoltre il fumo porta con sé i gas di combustione, e quindi anche le loro cariche venefiche,
tossiche e/o asfissianti e poiché il fumo invade i locali prima che questi siano raggiunti dalle
fiamme, è evidente che il fumo è il primo ostacolo che si deve evitare se si vuole consentire l’esodo
delle persone e l’ingresso delle squadre di soccorso nei locali dove si sviluppa un incendio.
A tale scopo devono essere chiuse le porte dei locali, dopo averne accertato la completa
evacuazione degli occupanti, in modo da ridurre la propagazione di fumo, calore e fiamme alle altre
parti dell’edificio e soprattutto ai percorsi di esodo.
182
In presenza di fumo è opportuno camminare chinati o muoversi lungo il pavimento e respirare
tramite un fazzoletto preferibilmente bagnato.
Effetti del calore sull’uomo
Il calore è dannoso per l’uomo in quanto può causare la disidratazione dei tessuti, difficoltà o
blocco della respirazione e scottature.
A condizione che l’ambiente sia secco, la massima temperatura dell’aria, sopportabile sulla pelle,
peraltro per brevissimo tempo, si aggira sui 150 °C , mentre si abbassa se l’aria è umida.
Dato che negli incendi si sviluppano notevoli quantità di vapore acqueo, una temperatura di circa
60 °C è la massima alla quale il corpo umano può essere esposto anche solo per breve tempo.
L’irraggiamento genera ustioni sull’organismo umano che possono essere classificate a seconda
della loro profondità in:
Ustioni di I grado: sono le più lievi perché la lesione è limitata allo strato più superficiale della
pelle; determinano la comparsa sulla cute di un semplice arrossamento (eritema) accompagnato
da un dolore bruciante ma sopportabile, guariscono spontaneamente e rapidamente senza lasciare
cicatrici sulla pelle.
Ustioni di II grado: in esse oltre ad essere interessato lo strato superficiale della pelle vi è un
coinvolgimento anche dello strato di tessuto sottostante; queste ustioni causano un’intensa
infiammazione cutanea, gonfiore e formazione di vescicole ripiene di liquido (flittene), sono
molto dolorose e la guarigione è molto lenta.
Ustioni di III grado: sono le più gravi in quanto vi è un interessamento profondo dei tessuti; la
pelle appare annerita, fredda, secca e dura, non è presente dolore per la distruzione delle
terminazioni nervose e la guarigione richiede tempi lunghi, lasciando cicatrici permanenti che
possono richiedere interventi di chirurgia plastica.
La gravità dell’ustione non si giudica solamente dalla profondità ma anche dall’estensione delle
lesioni e dalla localizzazione della zona colpita.
Se le ustioni sono molto estese, sia in superficie sia in profondità, si può instaurare una sofferenza
generale che prende il nome di “shock da ustione”.
Effetti dell’irraggiamento secondo il metodo Eisemberg
ENERGIA
 kW m 2 
EFFETTI SULL’UOMO
40
26
19
5.0
2.0
1.8
1.4
1 % di probabilità di sopravvivenza
innesco di incendi di materiale infiammabile
50 % di probabilità di sopravvivenza
danni per operatori con indumenti di protezione esposti per lungo tempo
ustioni di II grado
ustioni di I grado
limite di sicurezza per persone vestite esposte per lungo tempo
4.4. Effetti dell’esplosione
L’esplosione è il risultato di una rapida espansione di gas dovuta ad una reazione chimica di
combustione.
Gli effetti dell’esplosione sono: produzione di calore, un’onda d’urto ed un picco di pressione.
Quando la reazione di combustione si propaga alla miscela infiammabile non ancora bruciata con
una velocità minore di quella del suono l’esplosione è chiamata deflagrazione.
Quando la reazione procede nella miscela non ancora bruciata con velocità superiore a quella del
183
suono l’esplosione è detta detonazione.
Gli effetti distruttivi delle detonazioni sono maggiori rispetto a quelli delle deflagrazioni.
Un’esplosione può aver luogo quando gas, vapori o polveri infiammabili, entro il loro campo di
esplosività, vengono innescati da una fonte di innesco avente sufficiente energia.
In particolare, in un ambiente chiuso saturo di gas, vapori o polveri, l’aumento della temperatura,
dovuto al processo di combustione, sviluppa un aumento di pressione che può arrivare fino ad 8
volte la pressione iniziale.
Il modo migliore di proteggersi dalle esplosioni sta nel prevenire la formazione di miscele
infiammabili nel luogo ove si lavora, in quanto è estremamente difficoltoso disporre di misure che
fronteggiano gli effetti delle esplosioni come è invece possibile fare con gli incendi.
5. Dinamica degli incendi
5.1. Fattori da cui dipende un incendio
I principali fattori da cui dipende lo sviluppo e la modalità di propagazione di un incendio sono:
Compartimento: È un settore di edificio delimitato da elementi costruttivi atti ad impedire, per un
prefissato periodo di tempo, la propagazione dell’incendio e/o dei fumi ed a limitare la
trasmissione termica ai settori adiacenti in caso di incendio.
Gli elementi costruttivi che limitano il compartimento si dicono elementi di chiusura.
Ove manchino elementi di chiusura idonei si considera quale compartimento l’intero edificio.
L’ampiezza massima di un compartimento dipende dalla destinazione, dal carico di incendio, dai
mezzi di rivelazione e segnalazione, e dai mezzi di spegnimento automatici installati.
Carico d’incendio:
Per carico d’incendio, e lo si indica con Q, si intende la quantità di calore che si svilupperebbe
per combustione completa di tutti i materiali combustibili, presenti in un ambiente, ovvero in un
compartimento antincendio, ivi compresi le strutture, gli infissi, le opere di finitura dei muri,
pavimenti e soffitti, costituiti da materiali combustibili.
Il carico d’incendio può essere riferito all’area in pianta od a quella delle finestre.
In pratica, rappresenta il massimo calore che si può sviluppare per effetto della combustione di
tutti i materiali combustibili presenti.
Il fattore Q dipende dalla qualità e dalla quantità del materiale combustibile.
Tuttavia la quantità di calore teorica è ben lungi dall’essere raggiunta nei casi concreti, a causa di
molti fatti accessori, quali stato di suddivisione, distribuzione, forma e modalità di deposito e
soprattutto per il fatto che non si verifica mai la combustione completa di tutto il materiale
combustibile nel compartimento.
È espresso dalla quantità equivalente di legna standard ( kg m 2 ) avente potere calorifico
inferiore pari a 18.48 MJ kg che si ottiene dividendo per 4.400 (potere calorifico del legno) il
numero di calorie per unità di superficie orizzontale del locale o del piano considerato.
1 kg di legno = 4400 kcal (18.48 MJ )
Si può calcolare applicando la formula seguente, in conformità alla Circolare del Ministero
dell’Interno n. 91 del 14.09.1961, dove la sommatoria è estesa agli n materiali combustibili
presenti):
Q=
N
∑g
i=1
i
⋅
Hi
1
A 4400
184
⋅
Essendo:
Q
carico d’incendio specifico in kg legna m 2 ;
peso del generico combustibile tra gli n possibili che si prevedono presenti nel
gi
locale o quello deducibile dalle ipotesi più gravose di carico d’incendio;
Hi
potere calorifico inferiore (in kcal kg ) del combustibile generico di peso gi fra gli n
possibili;
A
superficie orizzontale del locale o del piano del fabbricato considerato;
4.400
potere calorifico del legno (in kcal kg ).
Per i locali aventi strutture portanti in legno, è ammesso calcolare il carico d’incendio utilizzando
la formula seguente:
Q = Q 1 + 12.5 ⋅
essendo:
Q
Q1
S
A
S
A
carico d’incendio specifico in kg legna m 2 ;
carico specifico calcolato come sopra precisato;
superficie delle strutture portanti in legno esposta al fuoco.
I serramenti, i rivestimenti ed i controsoffitti devono essere conteggiati nel primo
addendo Q 1 ;
superficie orizzontale del locale o del piano del fabbricato considerato;
Ventilazione: La portata volumetrica d’aria entrante Q a è proporzionale all’area delle finestre e
alla radice quadrata dell’altezza, secondo la formula:
Qa = k⋅A f ⋅ H
essendo:
Qa
Af
H
k
portata volumetrica di aria entrante;
area delle finestre;
altezza delle finestre;
coefficiente di proporzionalità che dipende dalla differenza di temperatura tra
interno ed esterno e dal rapporto tra il volume di gas, prodotto per unità di massa ed
il volume di aria richiesto per la combustione completa dell’unità di massa di
combustibile.
Velocità di combustione:
Si distinguono due casi tipici:
a. Se c’è carenza di ossigeno, la velocità di combustione è approssimativamente proporzionale
alla quantità d’aria che affluisce attraverso le aperture e non dipende in maniera apprezzabile
dalla quantità, porosità e forma del combustibile.
Si dice che la combustione è controllata dalla ventilazione.
b. Se invece la disponibilità di ossigeno è più che sufficiente, la velocità è indipendente dalla
quantità d’aria affluita, ma dipende dalle proprietà degli strati combustibili e dalla quantità,
porosità e forma del combustibile.
Si dice che la combustione è controllata dagli strati di combustibile.
Altri fattori di propagazione di un incendio che si aggiungono a quelli sopra menzionati sono: le
185
caratteristiche geometriche del locale e delle aperture, l’ampiezza del locale, le proprietà
termiche dei materiali e delle strutture che limitano il locale (conduttività e capacità termica).
5.2. Sviluppo di un incendio
Il focolaio iniziale di molti incendi in edifici è determinato frequentemente da una modesta sorgente
di energia che viene a contatto più o meno stretto con materiali combustibili per fatti accidentali
(negligenza, distrazione, cattivo uso di sorgenti di energia, imprudenza, ignoranza).
Ogni incendio inizia con la cosiddetta fase di ignizione durante la quale un materiale combustibile
assorbe, da una sorgente, una quantità di calore sufficiente a far aumentare la sua temperatura fino a
raggiungere il valore al quale ha luogo la combustione che, una volta iniziata, prosegue
indipendentemente da apporti energetici esterni.
L’energia assorbita e la temperatura per la quale la combustione prosegue da sé, vengono dette
energia di ignizione e temperatura di ignizione.
Se l’oggetto combustibile acceso è distante da altro materiale combustibile, il fuoco non si può
propagare ed, una volta esaurito il combustibile, la combustione cessa.
Se invece l’oggetto combustibile è a contatto più o meno stretto con altri materiali combustibili (o
anche se questi sono ad una certa distanza), questi possono emanare, per effetto di pirolisi, vapori e
gas che facilmente si accendono: le fiamme che ne conseguono possono propagare l’incendio ai vari
elementi combustibili e quindi, per gradi, a tutto il locale.
Si consideri ad esempio un materiale organico, per esempio cellulosico, in presenza di una sorgente
di calore, se esso raggiunge una temperatura di 200 °C o superiore, incomincia a decomporsi per
effetto del calore ricevuto ed a svolgere vapori e gas infiammabili.
Questi si accendono per effetto della sorgente di calore, od anche spontaneamente se la temperatura
è uguale o superiore alla temperatura di autoignizione, dando luogo a reazioni esotermiche per
effetto delle quali la temperatura cresce.
Se il calore che perviene alla parte adiacente di materiale combustibile riesce ad elevarne
sufficientemente la temperatura ed a far gassificare una parte del materiale, l’incendio si estende.
Nella fase iniziale, l’ossigeno disponibile è largamente sufficiente per le poche reazioni in atto e si
possono verificare le condizioni di ignizione.
Spesso però la temperatura degli elementi combustibili non riesce a raggiungere il valore critico
(dipendente dal materiale) su un volume sufficiente e la combustione dopo un po’ cessa, poiché il
calore svolto è minore di quello dissipato e la temperatura scende al di sotto di quella che mantiene
la combustione (temperatura di infiammabilità).
La continuazione o meno del processo di combustione dipende dal bilancio termico che si instaura:
infatti il calore generato in parte è disperso nell’atmosfera circostante ed in parte serve per
riscaldare le parti adiacenti di materiale non coinvolto nella combustione, fino alla temperatura di
decomposizione.
Se il bilancio termico è positivo, cioè se prevale la quantità di calore generata su quella dispersa, la
combustione continua; se il bilancio termico è negativo, la velocità di combustione scende al di
sotto di un livello critico ed inizia un processo di autoestinzione.
Il procedere o l’arresto del processo di combustione sono governati da bilanci energetici istantanei,
infatti con l’aumento della temperatura aumentano sia la produzione sia le perdite di calore.
Se l’apporto di calore supera le perdite, allora la temperatura aumenta ed il processo prosegue; se,
ad un certo istante, le perdite superano l’apporto di calore, la temperatura diminuisce e può
verificarsi l’autoestinzione.
5.3. Fasi di un incendio
L’incendio viene di solito distinto in tre fasi:
1. fase iniziale o di accensione;
2. fase di incendio vero e proprio od a velocità di combustione costante;
3. fase di estinzione o raffreddamento.
186
La prima fase va dal primo apparire della fiamma al così detto flashover od infiammazione
generalizzata; la seconda dal flashover al punto in cui la temperatura media raggiunge il suo valore
massimo; la terza fase va dal punto di temperatura massimo fino all’estinzione totale.
La fase di estinzione si ritiene completata quando la temperatura media raggiunge circa i 300 °C .
Figura 18: dinamica di un’incendio.
5.3.1. Fase iniziale o di accensione
La fase iniziale di un incendio corrisponde ad un regime di grande instabilità.
Le circostanze che influenzano l’ulteriore sviluppo di un incendio sono aleatorie: per esempio la
rottura dei vetri delle finestre che avviene intorno ai 100 °C , la natura e la disposizione dei vari
mobili o la natura dei rivestimenti.
La propagazione del fuoco da un mobile all’altro avviene, specie all’inizio, per irraggiamento e
convezione.
Durante questa fase le temperature sono molto differenti da punto a punto e subiscono rapide ed
importanti oscillazioni.
La temperatura media cresce abbastanza rapidamente e le differenze di temperature da punto a
punto tendono a divenire sempre più piccole.
La prima fase è molto importante per l’ulteriore sviluppo del fuoco o per la sua eventuale
autoestinzione e può essere suddivisa in vari stadi.
1° stadio (inizio di ignizione): Tale stadio dipende dai seguenti fattori: infiammabilità del
combustibile, possibilità di propagazione della fiamma, grado di partecipazione al fuoco del
combustibile, geometria e volume degli ambienti, possibilità di dispersione del calore nel
combustibile, ventilazione dell’ambiente, caratteristiche superficiali del combustibile.
Questo stadio inizia allorché un oggetto combustibile viene posto a contatto stretto con una
sorgente di calore anche modesta (piccola estensione, bassa emissione di calore, breve tempo).
Un fattore importante risulta essere il grado di infiammabilità dei materiali combustibili.
Perché l’oggetto combustibile si accenda è necessario che, oltre ad essere molto vicino alla
sorgente, sia in grado di svolgere un notevole volume di gas e vapori infiammabili in tempi
relativamente brevi.
Se tutto ciò non avviene la sorgente termica si esaurisce prima che si verifichi l’ignizione.
In generale l’ossigeno disponibile è sovrabbondante per le modeste e limitate reazioni che si
verificano inizialmente e quindi il progredire di questa fase raramente è controllato dalla quantità
187
d’aria disponibile.
Al termine di questo stadio l’aumento di temperatura media è molto modesto.
In questa fase l’incendio può essere evidenziato solo da sensori a ionizzazione.
2° stadio (di propagazione): Tale stadio è caratterizzato da produzione di gas tossici e corrosivi,
riduzione della visibilità a causa dei fumi di combustione, aumento della partecipazione alla
combustione dei combustibili solidi e liquidi, delle temperature e delle energie di irraggiamento.
In questo stadio vengono coinvolti altri oggetti combustibili (mobili, rivestimenti di pareti, etc.).
Il progredire dell’incendio dipende dalle caratteristiche di infiammabilità dei materiali.
La continuazione della combustione dipende dalla natura dello strato prossimo a quello
superficiale e dalla sua inerzia termica (conduttività e dalla capacità termica).
Se il calore fornito non è sufficiente ad innalzare la temperatura della parte di materiale
combustibile adiacente non ancora coinvolta nell’incendio si può verificare una graduale
estinzione. Se invece il bilancio è positivo allora la combustione continuerà ad una velocità
sempre maggiore; la temperatura ambiente aumenterà con conseguente aumento della velocità di
combustione.
Inoltre nel caso la ventilazione sia insufficiente, la quantità di ossigeno si riduce, determinando
una combustione incompleta, una diminuzione della temperatura ed un rallentamento della
velocità. Il progredire dell’incendio è generalmente irregolare; viene facilitato dalla rottura dei
vetri delle finestre ed ostacolato, fino ad una possibile autoestinzione, da deficienza di ossigeno o
da una insufficiente esposizione degli oggetti circostanti la cui temperatura può non raggiungere
quella di ignizione.
3° stadio (dalla propagazione al flashover): Tale stadio è caratterizzato da un brusco incremento
della temperatura, una crescita esponenziale della velocità di combustione, un forte aumento di
emissione di gas e di particelle incandescenti.
I combustibili vicino al focolaio, sono soggetti ad autoaccensione, quelli più lontani si riscaldano
fino a raggiungere la temperatura di combustione con produzione di gas di distillazione
infiammabili.
Questo terzo stadio viene ulteriormente suddiviso in due parti.
Stadio 3a: All’inizio l’incendio si propaga ad un oggetto adiacente, le fiamme raggiungono il
soffitto dove si accumulano gas e fumi caldi.
La temperatura aumenta più rapidamente, ma non raggiunge valori tali da determinare
l’ignizione spontanea delle superfici combustibili. Con un’adeguata ventilazione, l’incendio
prosegue da oggetto ad oggetto, mentre le fiamme ed i gas caldi irradiano in tutte le direzioni
energia termica che colpisce il pavimento e gli oggetti contenuti nel locale. In questo stadio la
temperatura raggiunge un valore tale per cui risulta molto improbabile l’autoestinzione.
Stadio 3b: Si ha una propagazione rapida dell’incendio, la temperatura media supera i 500 °C ,
la maggior parte del materiale combustibile prende fuoco per effetto del calore che riceve o
per irraggiamento o per convezione.
Si sviluppano grandi quantità di fumo che fuoriesce dalle finestre o dalle altre aperture.
La temperatura aumenta oltre i 600 °C e tutti i materiali combustibili esposti emettono gas
infiammabili.
L’incendio si sviluppa con pieno vigore e le temperature crescono rapidissimamente.
È questo lo stadio chiamato flashover o di infiammazione generalizzata.
Successivamente se il locale non è sufficientemente ventilato, l’ossigeno disponibile decresce
rapidamente e risulta insufficiente per alimentare la combustione completa del combustibile nel
locale.
Ne segue che i gas infiammabili non combusti fuoriescono dalle finestre, dove, in presenza di altro
ossigeno dell’aria, bruciano sulla facciata dell’edificio.
L’incendio vero e proprio inizia nel punto chiamato flashover.
Esso rappresenta uno stadio irreversibile al di là del quale vi è scarsa possibilità che l’incendio si
188
spenga da solo prima che il combustibile sia tutto esaurito.
È possibile dare almeno due definizioni del flashover:
1. punto in cui la temperatura del gas presso il soffitto raggiunge il valore medio di 600 °C ;
2. punto in cui l’intensità del calore raggiunge un valore di convezione e di irraggiamento pari a
1.25 W cm 2 che rappresenta il limite inferiore di infiammabilità dei materiali cellulosici.
Il flashover è caratterizzato dall’apparizione quasi simultanea di una serie di fenomeni: i fuochi
determinati dalla combustione dei gas di distillazione o di combustione aumentano di numero e di
intensità, le temperature nei diversi punti del locale tendono a diventare uniformi, la combustione al
verificarsi del flashover accelera notevolmente e richiede considerevoli volumi di ossigeno, il
tenore di ossidi di carbonio all’interno del locale è molto elevato, in alcuni casi si arriva anche al
20 % e questo implica un serio pericolo di intossicazione per le persone che si imbattono nei fumi
dell’incendio.
Il flashover si verifica dopo un tempo che va da 3 ai 30 minuti dall’inizio dell’ignizione e la
temperatura media raggiunge i 600 °C .
5.3.2. Fase dell’incendio vero e proprio
Dopo il flashover inizia la fase a combustione costante.
La temperatura media è abbastanza elevata, la quantità di calore in gioco è notevole ed i materiali
combustibili sviluppano grandi quantità di gas infiammabili.
La temperatura nel locale non è uniforme, i pavimenti e le parti inferiori dei muri raggiungono
temperature minori di quelle raggiunte dalle parti superiori dei muri o dai soffitti; tuttavia le
differenze non sono eccessive ed il fenomeno si può ritenere che avvenga alla temperatura di
combustione media dei gas.
La potenza termica generata dipende dalla velocità di combustione che, a sua volta, dipende dalla
portata d’aria entrante e dalla quantità di calore sviluppata dal combustibile nelle condizioni in cui
avviene la combustione.
Della potenza termica generata, mediamente, oltre il 60 % viene asportata con i gas di scarico, circa
il 10 % viene irradiato attraverso le finestre verso l’esterno e circa il 30 % va ad accumularsi nelle
strutture che limitano i locali (muri, pavimenti e soffitti).
La dilatazione dovuta alla temperatura, la conseguente diminuzione di densità del gas di
combustione e la differenza di pressione tra esterno ed interno determinano la fuoriuscita dei gas di
combustione attraverso le parti alte delle finestre ed il richiamo di aria fresca dall’esterno che
penetra nel locale dal basso. La parte bassa del locale risulta quindi in depressione, mentre la parte
alta è invece in pressione.
5.3.3. Fase di estinzione o di raffreddamento
La temperatura, dopo aver raggiunto il suo valore massimo, comincia in questa fase a diminuire più
o meno rapidamente e ciò in rapporto alla potenza termica ancora sviluppata dalla combustione dei
residui dei materiali combustibili (in generale combustione senza fiamma) e quella residua delle
strutture che delimitano il locale.
Il calore accumulatosi permane per tempi abbastanza lunghi e la sua restituzione avviene in
relazione al salto termico fra la temperatura superficiale e quella dei gas all’interno del locale, alle
caratteristiche termiche ed, infine, alla ventilazione del locale.
Questa terza fase non dovrebbe essere trascurata: il suo effetto è particolarmente importante nella
distribuzione della temperatura della facciata compresa tra il piano incendiato e quello soprastante;
una notevole potenza termica continua ad essere asportata coi fumi, a disperdersi per irradiazione
attraverso le finestre, mentre l’afflusso di aria fresca abbassa notevolmente la temperatura media.
Questa fase termina quando la temperatura raggiunge i 300 °C circa.
189
5.4. Propagazione degli incendi
Si prendono ora in esame alcuni dei meccanismi attraverso i quali si propaga un incendio.
Le correnti di fumo nella zona di combustione contribuiscono alla propagazione attraverso:
termoespansione dell’aria causata dall’aumento di temperatura: un aumento della temperatura
provoca infatti un proporzionale aumento del volume occupato dal gas.
Durante un incendio questo fenomeno provoca la rottura delle finestre e delle porte;
effetti camino: quando la temperatura negli ambienti si è stabilizzata il principale meccanismo di
movimento dei fumi diventa il tiraggio.
Il tiraggio per manifestarsi ha bisogno di camini quali scale, vani ascensore, cave di impianti e
così via.
Di qui la pericolosità negli edifici di tutti gli attraversamenti di piano non protetti
adeguatamente;
eventuali azioni del vento: il vento può far muovere verticalmente il fumo, ma il suo effetto
principale è di determinare un movimento orizzontale non solo del fumo ma anche dell’incendio;
funzionamento improprio della ventilazione meccanica: gli impianti di ventilazione se non
progettati adeguatamente possono causare rapidi trasferimenti di fumo e calore nell’edificio
attraverso le condotte di passaggio dell’aria.
Di qui la necessità delle serrande tagliafuoco e di sistemi di arresto automatico degli impianti.
Gli impianti di ventilazione possono tuttavia esser progettati anche per l’estrazione dei fumi in
caso di incendi e venire così integrati nel sistema di protezione dell’edificio.
La propagazione a distanza degli incendi, oltre che per effetto della convezione dei fumi caldi, può
aver luogo per conduzione attraverso le strutture di separazione.
A causa della continuità che esiste tra le diverse parti di un edificio, la propagazione termica
attraverso le pareti e solette può portare alla temperatura di accensione anche sostanze combustibili
contenute in locali non direttamente investiti dalle fiamme.
Un altro meccanismo importante per la propagazione degli incendi è l’irraggiamento termico.
Il calore per irraggiamento può essere trasmesso direttamente dalla sorgente al ricevitore per via
elettromagnetica. La potenza irradiata diminuisce con il quadrato della distanza e quindi
l’irraggiamento è tanto più pericoloso quanto più vicini sono i corpi interessati.
Non tutta la superficie esterna di un edificio in preda a fiamme interne irradia poi in uguale misura:
meno pericolose sono le pareti, soprattutto se dotate di buona resistenza al fuoco e quindi capaci di
non aumentare troppo la temperatura.
Al contrario risultano molto pericolose le aperture ed, in genere, tutte le superfici che lasciano
vedere le fiamme.
5.5. Casi tipici di propagazione di incendi
Si esaminano quindi alcuni casi tipici di propagazione all’interno ed all’esterno di un fabbricato in
cui ha avuto origine l’incendio.
a. Estensione di un incendio all’interno di un locale
I fattori più rilevanti da cui dipende la propagazione dell’incendio sono:
estensione del locale;
posizione della sorgente di ignizione in rapporto alla distanza dai muri e dalle finestre;
stato delle porte e delle finestre chiuse od aperte;
natura e distanza reciproca degli oggetti contenuti soggetti a calore radiante;
natura dei rivestimenti delle superfici del locale (muri, pareti, soffitti).
b. Estensione al resto dell’appartamento
La propagazione al resto dell’appartamento avviene più o meno facilmente a seconda di come i
diversi locali sono tra loro comunicanti.
Nel caso i locali siano direttamente collegati, la propagazione avviene attraverso le fiamme ed i
vapori che attraversano le porte aperte.
190
I materiali combustibili, già essiccati e preriscaldati dai fumi, rappresentano una facile esca per il
fuoco.
Nel caso i locali siano collegati tra loro attraverso corridoi, assume molta importanza il
rivestimento del soffitto e del pavimento (infatti il soffitto sarà riscaldato e il calore irraggiato
verso il pavimento) nonché la geometria del corridoio e il suo stato di ventilazione.
c. Propagazione fuori dall’appartamento (all’interno del fabbricato)
La propagazione di un incendio all’interno di un edificio si può verificare ad uno stesso piano od
ai piani superiori e dipende:
dalla disposizione dei locali;
dalle vie di comunicazione (corridoi, scale, etc.);
dalla natura delle superfici esposte e dagli eventuali rivestimenti;
dallo stato delle porte (chiuse o aperte);
dalle condizioni aerodinamiche.
Nel caso di propagazione a piani superiori, questa può avvenire:
per distruzione della porta d’ingresso da parte della fiamma o dei fumi
per passaggio attraverso le cavità non chiuse o fessure (solai, canalizzazioni collettive)
per passaggio delle fiamme che, fuoriuscite dalle finestre, penetrano in quelle soprastanti.
d. Propagazione attraverso nuclei tecnici
Per nuclei tecnici si intendono tutte le canalizzazioni, verticali od orizzontali, o cavità esistenti
negli edifici e destinate ad alloggiare mezzi e servizi tecnici (scale, ascensori, montacarichi).
Se il fuoco riesce a pervenire ad un nucleo tecnico verticale, le fiamme ed i gas caldi, sotto la
spinta ascensionale, salgono rapidamente e sono scaricati all’aperto se gli edifici sono muniti di
una apertura di sfogo.
Se l’edificio in sommità è chiuso, i gas accumulatisi nella parte alta tenderanno in seguito a
propagarsi verso il basso e lateralmente.
Nell’ascesa i gas caldi possono provocare l’incendio di eventuali materiali combustibili presenti
lungo il percorso.
e. Propagazione all’esterno del fabbricato
La propagazione all’esterno del fabbricato può avvenire:
per irraggiamento delle fiamme;
per convezione;
per trasporto di materia;
per contatto diretto.
Si analizza innanzitutto la propagazione per irraggiamento delle fiamme.
La quantità di calore irradiato dalle fiamme attraverso le finestre è dell’ordine del 10 % di
quella prodotta. Essa, come è noto, dipende dalla superficie delle finestre, dalla quarta potenza
della temperatura assoluta, dal tempo di esposizione e dal coefficiente di emissione.
L’intensità di radiazione, ottenuta riferendo la quantità di calore irradiato alla superficie ed al
tempo, aumenta con il carico d’incendio.
Un edificio esposto può incendiarsi per effetto del flusso di calore radiante incidente se supera
certi valori critici (irradianza critica), determinabili sperimentalmente, e se si prolunga per un
periodo di tempo sufficiente.
In base all’intensità del calore irradiato dall’incendio, è possibile valutare l’intensità del calore
incidente che perviene alle facciate degli edifici circostanti.
Si osservi che la propagazione per irraggiamento può avvenire anche per accensione di oggetti
prossimi alle finestre, specie se sottili e facilmente infiammabili (tende, tendine, etc.) ed anche
di altri oggetti combustibili, contenuti nell’interno ma raggiunti dal calore raggiante attraverso
la finestra.
La propagazione per convezione avviene solo se la temperatura della corrente gassosa è di
parecchie centinaia di gradi, come può verificarsi in vicinanza delle fiamme uscenti dalle
191
aperture.
La propagazione per trasporto di materia si basa sul fatto che le correnti ascensionali di gas caldi
e fumi, per effetto della notevole temperatura raggiunta, possono pervenire fino ad altezze
considerevoli trascinando fumi e faville e anche tizzoni accesi, che, trasportati dal vento,
possono ricadere anche a distanze notevoli ( 500 m e più).
L’incendio può propagarsi per contatto diretto quando strutture combustibili di un edificio siano
in prosecuzione od a stretto contatto con le analoghe del fabbricato confinante (solai, tetti, etc.).
6. Prevenzione incendi
6.1. Cause degli incendi
Le più comuni cause di incendio sono le seguenti:
Sigaretta: Gli incendi causati dalla sigaretta sono il 9 % del totale, al secondo posto dopo le
cause elettriche.
L’ideale sarebbe impedire di fumare in tutte le aree pubbliche a rischio, essendo però impossibile
attuare una tale disposizione, sarebbe sempre opportuno predisporre delle aree ben definite ed
organizzate dove sia consentito fumare in completa sicurezza.
Autocombustione: Si parla di autocombustione quando senza alcun apporto di energia
dall’esterno, quali scintille, fiamma o contatto con corpo incandescente, una sostanza
combustibile si accende a seguito di una reazione di ossidazione, inizialmente lenta con
successivo, graduale e sensibile accumulo di calore in grado di originare un vero e proprio
incendio.
Se il calore viene dissipato da un’opportuna ventilazione, non si correrà il rischio di incendio.
Quando invece il materiale è ammucchiato si ha una maggiore probabilità di incendio. Un altro
fattore che aumenta il rischio di autocombustione si ha quando sia il materiale sia il locale in cui
questo si trova sono ad una temperatura alta (per la presenza di radiatori o tubazioni di vapore).
Altri elementi che facilitano il processo di autocombustione sono l’umidità e la presenza di
alcune impurità che possono fungere da catalizzatore. Inoltre alcune prove hanno dimostrato che
a parità di massa, maggiore è il volume delle sostanze depositate, più basso è il valore della
temperatura necessaria alla quale inizia il processo di autocombustione.
Tenendo presente quanto detto, sarà opportuno immagazzinare una sostanza soggetta a
combustione spontanea in zone di dimensioni modeste, sistemate vicino agli ingressi.
Talvolta vengono imputati ad autocombustione anche gli incendi di bosco.
Una tale attribuzione è da ritenere poco attendibile poiché il materiale presente nel bosco non è
fra quello soggetto al processo di autocombustione, né si presenta ammassato, cioè nella
condizione di rendere possibile il fenomeno.
Purtroppo la causa degli incendi di bosco va attribuita al cattivo comportamento dell’uomo
(accensione di fuochi, mozziconi di sigaretta accesi, fiammiferi, etc.).
Camino: Il classico incendio di camino è quello causato dall’improvviso accendersi della
fuliggine costituita da particelle di carbonio che si depositano lungo le pareti della canna
fumaria.
Le cause di tali incendi sono sempre dovute a deficienze nella costruzione del camino o nella
conduzione dell’impianto termico.
Fulmine: Gli incendi provocati da fulmine non sono rari; per evitarli è necessario dotare gli
edifici degli adeguati dispositivi contro le scariche atmosferiche.
Cause elettriche: Le principali cause d’incendio sono il cortocircuito ed il surriscaldamento.
Onde evitare tali fenomeni occorre installare impianti elettrici correttamente progettati e
garantire una buona manutenzione di questi; inoltre è opportuno prendere delle misure di
sicurezza aggiuntive per evitare la propagazione dell’incendio.
Utilizzo di fonti di calore: Le cause più comuni di incendio al riguardo includono: impiego e
detenzione delle bombole di gas utilizzate negli apparecchi di riscaldamento (anche quelle vuote)
materiali combustibili depositati sopra od in vicinanza degli apparecchi di riscaldamento, utilizzo
192
di apparecchi in ambienti non idonei, o di apparecchi in mancanza di un’adeguata ventilazione
degli ambienti.
6.1.1 Le principali cause di incendio in relazione allo specifico ambiente di lavoro
Le cause ed i pericoli di incendio più comuni sono:
deposito o manipolazione non idonea di sostanze infiammabili o combustibili;
accumulo di rifiuti, carta od altro materiale combustibile che può essere facilmente incendiato
(accidentalmente o deliberatamente);
negligenza nell’uso di fiamme libere e di apparecchi generatori di calore;
inadeguata pulizia delle aree di lavoro e scarsa manutenzione delle apparecchiature;
impianti elettrici od utilizzatori difettosi, sovraccaricati e non adeguatamente protetti;
riparazioni o modifiche di impianti elettrici effettuate da persone non qualificate;
apparecchiature elettriche lasciate sotto tensione anche quando inutilizzate;
utilizzo non corretto di impianti di riscaldamento portatili;
ostruire la ventilazione di apparecchi di riscaldamento, macchinari, apparecchiature elettriche e
di ufficio;
fumare in aree ove è proibito, o non usare il posacenere;
negligenze di appaltatori o di addetti alla manutenzione.
6.2. Prevenzione incendi
La sicurezza antincendio è orientata alla salvaguardia dell’incolumità delle persone ed alla tutela dei
beni e dell’ambiente, mediante il conseguimento dei seguenti obiettivi primari:
NUMERO
0
1
2
3
4
5
OBIETTIVO
Ridurre le occasioni di incendio (prevenire l’incendio);
Garantire la capacità portante dell’edificio per un periodo di tempo determinato;
Limitare la propagazione del fuoco e dei fumi all’interno dell’edificio;
Limitare la propagazione del fuoco ad edifici vicini;
Consentire agli occupanti di lasciare l’edificio indenni o di essere soccorsi;
Consentire la sicurezza delle squadre di soccorso.
Il rischio di ogni evento incidentale risulta definito da due fattori:
la frequenza: cioè la probabilità che l’evento si verifichi in un determinato intervallo di tempo;
la magnitudo: cioè l’entità delle possibili perdite e dei danni conseguenti al verificarsi
dell’evento
da cui ne deriva la definizione di:
RISCHIO = FREQUENZA × MAGNITUDO
Dalla formula del rischio appare evidente che quanto più si riducono la frequenza o la magnitudo,
od entrambe, tanto più si ridurrà il rischio.
L’attuazione di tutte le misure per ridurre il rischio mediante la riduzione della sola frequenza viene
comunemente chiamata “prevenzione”, mentre l’attuazione di tutte le misure tese alla riduzione
della sola magnitudo viene, invece, chiamata”protezione”.
In particolare le misure di Protezione Antincendio possono essere di tipo attivo o passivo, a seconda
che richiedano o meno un intervento di un operatore o di un impianto per essere attivate.
Ovviamente le misure preventive e protettive non devono essere considerate alternative ma
complementari tra loro nel senso che, concorrendo esse al medesimo fine, devono essere intraprese
entrambe proprio al fine di ottenere risultati ottimali.
Il miglior progetto di sicurezza, comunque, può essere vanificato da chi lavora nell’ambiente, se
193
non vengono applicate e tenute nella giusta considerazione le misure precauzionali d’esercizio.
6.3. Specifiche misure di prevenzione incendi
Con la prevenzione si vuole ridurre al minimo il rischio che l’incendio avvenga.
Per calcolare il Rischio si moltiplica la Frequenza per la Magnitudo, la frequenza indica la
probabilità che l’evento si verifichi in un determinato intervallo di tempo, la magnitudo indica
l’entità dei possibili danni. Se si vuole ridurre la frequenza si attua un’azione di prevenzione; se si
lavora sulla magnitudo si fa protezione.
Con il termine prevenzione si intende l’insieme delle azioni che devono essere affrontate per
impedire il verificarsi dell’incendio.
Per questo occorre innanzitutto:
acquisire una completa conoscenza del processo che si vuole realizzare;
valutare i rischi connessi all’uso di determinate sostanze o materiali;
individuare e studiare i sistemi e le tecnologie atte ad evitare o ridurre al minimo i pericoli di
incendio.
Il raggiungimento della sicurezza può essere ottenuto mediante tre differenti tipologie di interventi:
1. in fase di progettazione: Questo tipo di intervento è certamente il più impegnativo in quanto
coinvolge l’impostazione dell’impianto o della struttura da realizzare.
È in questa fase che devono essere rispettati i concetti e le esigenze di protezione passiva ed
attiva degli uomini e degli impianti.
Si riportano per sommi capi alcuni elementi che determinano una valida progettazione:
scelta, sul piano tecnologico, dei procedimenti e delle soluzioni che presentano i minori
pericoli, come ad esempio l’adozione dei solventi meno infiammabili;
scelta, sul piano impiantistico, dell’area su cui far sorgere l’impianto considerando le esigenze
e gli eventuali pericoli (inquinamenti, incendi, perdite, rumori, etc.);
distanza tra i singoli impianti di una stessa attività produttiva (per evitare l’eventuale
propagazione dell’incendio);
creazione di una rete viaria indispensabile per garantire facilità di accesso a mezzi di pronto
intervento ed evacuazione rapida;
suddivisione dell’impianto in aree omogenee per pericolosità, onde riservare a ciascuna di
esse i sistemi di protezione e difesa più adatti;
protezione delle aree pericolose (attraverso bacini di contenimento, impianti fissi antincendio,
etc.);
suddivisione dei grandi ambienti chiusi in locali di dimensioni minori per evitare il propagarsi
degli incendi;
protezione contro gli incendi delle strutture metalliche per garantirne la stabilità (tale tipo di
protezione è fondamentale per garantire in caso di incendio la stabilità delle strutture);
adozione di installazioni atte a captare, neutralizzare ed allontanare ogni gas, vapore o polvere
che possa svilupparsi di regola od occasionalmente durante le fasi di lavorazione;
scelta adeguata dei materiali per ogni applicazione (molti incidenti derivano infatti dal
cedimento delle strutture o degli apparecchi per una valutazione errata delle limitazioni
presentate dai materiali);
installazione delle necessarie valvole di sicurezza, dischi di rottura e scarichi rapidi;
adozione di impianti elettrici adeguati al tipo di impianto progettato;
adozione di efficienti impianti elettrici di messa a terra e di protezione contro le scariche
atmosferiche;
installazione di ogni necessario sistema di rivelazione di presenza di gas nell’ambiente;
installazione di sistemi di rilevazione di fumi o di incendi che potranno essere collegati ad
allarmi e/o agli impianti antincendio;
installazione di tutta la segnaletica necessaria per mettere a conoscenza il personale o
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qualunque utente dei pericoli attuali o potenziali esistenti.
Le principali misure di prevenzione incendi, finalizzate alla riduzione della probabilità di
accadimento di un incendio, possono essere individuate in:
realizzazione di impianti elettrici a regola d’arte: Gli incendi dovuti a cause elettriche
ammontano a circa il 30 % della totalità di tali sinistri.
Infatti è numerosa la casistica delle anomalie degli impianti elettrici che possono causare principi
d’incendio: corti circuiti, conduttori flessibili danneggiati, contatti lenti, surriscaldamenti dei cavi
o dei motori, guaine discontinue, mancanza di protezioni, sottodimensionamento degli impianti,
apparecchiature di regolazione mal funzionanti, etc.
Dunque appare evidente l’importanza che deve essere data a questa misura di prevenzione che,
mirando alla realizzazione di impianti elettrici a regola d’arte (Legge 46/90, norme C.E.I. ),
consegue lo scopo di ridurre drasticamente le probabilità d’incendio, evitando che l’impianto
elettrico costituisca causa d’innesco.
collegamento elettrico a terra di impianti, strutture, serbatoi, etc: La messa a terra di impianti,
serbatoi ed altre strutture impedisce che su tali apparecchiature possa verificarsi l’accumulo di
cariche elettrostatiche prodottesi per motivi di svariata natura (strofinio, correnti vaganti, etc.).
La mancata dissipazione di tali cariche potrebbe causare il verificarsi di scariche elettriche anche
di notevole energia le quali potrebbero costituire innesco di eventuali incendi specie in quegli
ambienti in cui esiste la possibilità di formazione di miscele di gas o vapori infiammabili.
installazione di impianti parafulmine: Le scariche atmosferiche costituiscono anch’esse una
delle principali cause d’incendio.
Per tale motivo, a volte risulta necessario provvedere a realizzare impianti di protezione da tale
fenomeno, impianti che consistono nel classico parafulmine o nella “gabbia di Faraday”.
Entrambi questi tipi di impianto creano una via preferenziale per la scarica del fulmine a terra,
evitando che esso possa colpire gli edifici o le strutture che si vogliono proteggere.
La vigente normativa prevede l’obbligo d’installazione degli impianti di protezione dalle
scariche atmosferiche solo per alcune attività (scuole, industrie ad alto rischio d’incendio, etc.).
dispositivi di sicurezza degli impianti di distribuzione e degli utilizzatori di sostanze
infiammabili: Al fine di prevenire un incendio, gli impianti di distribuzione di sostanze
infiammabili vengono dotati di dispositivi di sicurezza di vario genere quali ad esempio:
termostati, pressostati, interruttori di massimo livello, termocoppie per il controllo di bruciatori,
dispositivi di allarme, sistemi di saturazione e sistemi di inertizzazione, etc.
Un esempio dell’applicazione del sistema di saturazione è quello presente nei serbatoi di
benzina, installati negli impianti stradali di distribuzione carburanti, nei quali l’aria che entra al
momento dell’erogazione del prodotto viene introdotta dal fondo del serbatoio e fatta gorgogliare
attraverso il liquido così da saturarsi di vapori di benzina.
Il sistema di inertizzazione consiste, invece, nell’introdurre al di sopra del pelo libero del liquido
infiammabile, anziché aria, un gas inerte (ad esempio azoto) così da impedire del tutto la
formazione di miscele infiammabili vapori − aria.
ventilazione dei locali: La ventilazione naturale od artificiale di un ambiente dove possano
accumularsi gas o vapori infiammabili, evita che in esso possano verificarsi concentrazioni al di
sopra del limite inferiore del campo d’infiammabilità.
Naturalmente nel dimensionare e posizionare le aperture o gli impianti di ventilazione è
necessario tenere conto sia della quantità sia della densità dei gas o vapori infiammabili che
possono essere presenti.
impiego di strutture e di materiali incombustibili: Quanto più é ridotta la quantità di strutture o
materiali combustibili presente in un ambiente tanto minori sono le probabilità che possa
verificarsi un incendio. Pertanto potendo scegliere tra l’uso di diversi materiali dovrà
sicuramente essere data la preferenza a quelli che, pur garantendo analoghi risultati dal punto di
vista della funzionalità e del processo produttivo, presentino caratteristiche di incombustibilità.
195
adozione di pavimenti ed attrezzi antiscintilla: Tali provvedimenti risultano di indispensabile
adozione qualora negli ambienti di lavoro venga prevista la presenza di gas, polveri o vapori
infiammabili.
a. in fase di esercizio: Questa fase prevede il rispetto rigoroso delle norme di esercizio e di
sicurezza previste.
Non basta infatti che in sede di progetto siano stati adottati tutti gli accorgimenti e le tecniche
più opportune se poi in sede di esercizio si vanificano gli sforzi precedenti con interventi
illogici od errati che possono dare origini a situazioni pericolose.
Sempre nella fase di esercizio, bisogna assicurare un’accurata verifica periodica delle
attrezzature di difesa contro gli incendi, procedendo ad ogni necessaria manutenzione per
poter disporre in ogni momento di un sistema di protezione in perfetta efficienza.
b. in fase di addestramento del personale o degli utenti di una particolare attività: In questa fase
occorre insegnare in modo scrupoloso ed approfondito le modalità d’uso degli impianti ed in
particolare le norme di esercizio e di emergenza.
Si devono inoltre predisporre corsi di addestramento sui metodi e sulle tecniche di pronto
intervento. L’addestramento deve essere affrontato cercando di ipotizzare ogni possibile
situazione di pericolo o di incidente per fornire precise procedure d’azione e ridurre quindi al
minimo la necessità di ricercare o decidere all’istante il comportamento più efficace (sono
quindi previste anche prove pratiche).
segnaletica di sicurezza, riferita in particolare ai rischi presenti nell’ambiente di lavoro: della
quale si discuterà ampiamente nella sezione specifica.
6.4. Sicurezza antincendio nei luoghi di lavoro
Il datore di lavoro deve analizzare le cause più comuni di incendio, dare informazione e formazione
antincendio e prestabilire manutenzioni (ordinarie e straordinarie).
Bisogna porre particolare attenzione: ai rifiuti e scarti combustibili, ai depositi di materiali
infiammabili, all’utilizzo di fonti di calore, agli impianti elettrici e cercare di tenere controllate le
aree non frequentate.
Il datore di lavoro dovrà predisporre regolari verifiche per garantire l’efficienza dei dispositivi
antincendio e per eliminare eventuali cause o danni ad impianti che potrebbero pregiudicare
l’incendio.
La sicurezza antincendio è finalizzata alla salvaguardia dell’incolumità delle persone ed alla tutela
dei beni e dell’ambiente, mediante il conseguimento dei seguenti obiettivi primari:
riduzione al minimo delle occasioni di incendio;
stabilità delle strutture portanti per un tempo utile ad assicurare il soccorso degli occupanti;
limitata produzione di fuoco e fumi all’interno degli edifici e limitata propagazione del fuoco
agli edifici vicini;
possibilità che gli occupanti lascino gli edifici indenni;
possibilità per le squadre di soccorso di operare in sicurezza.
6.5. Provvedimenti in materia di prevenzione antincendio
I metodi di prevenzione incendio rivolgono la loro attenzione ai fattori che influiscono sulle cause
dell’insorgere dell’incendio.
I livelli di rischio d’incendio sono fissati dall’art. 2, comma 4 del Decreto Ministeriale 10/03/98 e
sono:
• livello di rischio basso;
• livello di rischio medio;
• livello di rischio alto.
Tale suddivisione deriva dalle caratteristiche di infiammabilità del materiale esistente, dalla quantità
di sostanze infiammabili, dalla possibilità di sviluppo di principi d’incendio, dalla probabilità di
propagazione del principio d’incendio, dal numero di persone esistenti, etc.
196
La prevenzione incendi è direttamente legata ad una corretta valutazione dei rischi d’incendio dei
luoghi di lavoro.
Quest’ultima consiste essenzialmente in: identificare i pericoli e le persone coinvolte, finalizzare la
valutazione dei rischi e stimare il livello di rischio.
Per applicare correttamente le misure di prevenzione incendi occorre, quindi, procedere al controllo
degli ambienti di lavoro, al controllo e manutenzione dei presidi antincendio, alla predisposizione
del piano di emergenza, all’informazione e formazione dei lavoratori.
L’attività di prevenzione si attua soprattutto in loco, tramite l’uso corretto e la manutenzione
appropriata di macchine ed impianti, ed adottando un comportamento adeguato; è quindi
fondamentale informarsi preventivamente sulle corrette procedure da seguire nell’utilizzo dei
macchinari.
In particolare, sarà necessario il rispetto di alcuni provvedimenti:
contenere il carico d’incendio evitando l’accumulo, anche temporaneo, di sostanze infiammabili
e combustibili in luoghi diversi da quelli predestinati;
prestare attenzione nel trasporto e travaso di sostanze infiammabili;
segnalare in modo chiaro e visibile le zone destinate a stoccaggio di materiale infiammabile;
utilizzare contenitori appositi e tutte le cautele necessarie in relazione alla pericolosità della
sostanza;
non fumare e non usare fiamme libere in prossimità di luoghi definiti con pericolo di incendio o
di esplosione e comunque sempre ove sia esposto il cartello specifico di divieto;
non depositare materiali davanti agli estintori;
evitare l’uso di contenitori misti per carta e cenere di sigarette;
non utilizzare per il riscaldamento dei locali, stufette elettriche con resistenza scoperta;
spegnere, finito l’utilizzo, tutte le apparecchiature elettriche così da ridurre il carico richiesto
dalla linea elettrica di alimentazione: nello sviluppo di un incendio molto spesso è l’impianto
elettrico che è causa di innesco per il surriscaldamento dei cavi di alimentazione delle utenze;
nei laboratori è determinante un layout adeguato di attrezzature ed impianti fissi: la posizione di
cappe, banchi, forni, centrifughe, etc. deve garantire un’agevole circolazione degli addetti nel
laboratorio, evitando di ostruire le vie di passaggio.
La collocazione delle cappe, poi, dovrà essere distante da porte e finestre, per evitare turbolenza
e quindi fuoriuscita di vapori e gas che potrebbero formare un’atmosfera infiammabile;
per fronteggiare situazioni di emergenza, devono essere esposti i numeri di telefono di
ambulanze, guardia medica, ospedale più vicino, Vigili del Fuoco;
prevedere una compartimentazione dei locali per confinare un ipotetico principio di incendio;
garantire la possibilità di esodo immediato dalla zona a rischio, tramite porte con senso di
apertura verso l’esodo; a seconda del loro numero e della capacità di deflusso, garantita da
ciascuna di esse, si stima la quantità massima di persone che possono occupare una stanza in
sicurezza.
Occorre infine ricordare che uno dei fattori da cui dipende la tendenza del fuoco a propagarsi è
l’energia liberata dalla combustione delle sostanze presenti nel locale in questione.
Un altro fattore molto importante è la rapidità con la quale questa energia può essere liberata
(rapidità di combustione).
Questa dipende:
dalle caratteristiche chimiche della sostanza;
dalla superficie esposta al fuoco;
dalla densità di distribuzione delle sostanze combustibili e/o infiammabili;
dalla posizione di queste sostanze rispetto ai confini del locale (i combustibili statisticamente
contribuiscono in misura maggiore allo sviluppo dell’incendio quando sono ubicati negli
angoli, nelle pareti od in prossimità del soffitto).
197
6.5.1 Misure comportamentali per prevenire gli incendi
L’obiettivo principale dell’adozione di misure precauzionali di esercizio è quello di permettere,
attraverso una corretta gestione, di non aumentare il livello di rischio, reso a sua volta accettabile
attraverso misure di prevenzione e protezione.
Le misure precauzionali di esercizio si realizzano attraverso il seguente iter:
a. analisi delle cause di incendio più comuni;
b. informazione e formazione antincendio;
c. controllo degli ambienti di lavoro e delle attrezzature;
d. manutenzione ordinaria e straordinaria.
È necessario che il personale venga a conoscenza delle cause e dei pericoli d’incendio più comuni
presenti nel proprio ambiente di lavoro e rispetti tutte le misure precauzionali previste, ponendo
particolare attenzione ai punti sotto riportati:
a. Deposito ed utilizzo di materiali infiammabili e facilmente combustibili
Occorre, ove possibile, limitare il quantitativo dei materiali infiammabili o facilmente
combustibili esposti, depositati od utilizzati, a quello strettamente necessario per la normale
conduzione dell’attività, riponendo i quantitativi in eccedenza in appositi locali od aree destinate
unicamente a tale scopo.
Quando possibile, le sostanze infiammabili dovrebbero essere sostituite con altre meno
pericolose.
Il personale che manipola sostanze infiammabili o combustibili deve essere adeguatamente
informato sulle circostanze che possono incrementare il rischio di incendio.
b. Utilizzo di fonti di calore
Le cause più comuni di incendio sono legate a:
impiego e detenzione delle bombole di gas utilizzate negli apparecchi di riscaldamento (anche
quelle vuote);
deposito di materiali combustibili sopra od in vicinanza degli apparecchi di riscaldamento;
utilizzo di apparecchi in ambienti non idonei (per esempio impianti e/o apparecchiature
elettriche non di tipo antideflagrante in ambienti con presenza di infiammabili, alto carico di
incendio, etc..)
utilizzo di apparecchi in mancanza di adeguata ventilazione degli ambienti.
Occorre, pertanto, adoperarsi affinché non si verifichino le suddette situazioni, preoccupandosi,
inoltre, di controllare accuratamente gli ambienti in cui sono previste lavorazioni con fiamme
libere.
I luoghi in cui si effettuano lavori di saldatura o di taglio alla fiamma devono essere tenuti liberi
da materiali combustibili per ridurre il rischio dovuto alle scintille, altrimenti devono essere
interposte idonee barriere in materiale incombustibile, atte ad evitare l’investimento di materiali
combustibili ad opera di scintille incandescenti.
c. Impianti ed apparecchi elettrici
Il personale deve essere istruito sul corretto uso delle attrezzature e degli impianti elettrici in
modo da essere in grado di riconoscerne eventuali difetti.
Le prese multiple non devono essere sovraccaricate per evitare il surriscaldamento degli
impianti.
Le riparazioni elettriche devono essere effettuate da personale competente e qualificato.
d. Il fumo e l’utilizzo del portacenere
È buona norma individuare le aree in cui il fumo delle sigarette può costituire pericolo
d’incendio e, di conseguenza, disporne il divieto.
Deve essere assolutamente vietato fumare nei depositi e nelle aree contenenti materiali
facilmente combustibili od infiammabili.
Nei luoghi ove è consentito fumare, occorre mettere a disposizione idonei portacenere che
devono essere svuotati regolarmente.
Occorre prestare attenzione affinché, all’atto dello svuotamento, le ceneri non vengano messe in
198
recipienti costituiti da materiali facilmente combustibili, né siano accumulate insieme ad altri
rifiuti.
e. Rifiuti e scarti di lavorazioni combustibili
Rifiuti e scarti di lavorazioni devono essere rimossi al più presto, almeno giornalmente, e
depositati in aree idonee a tale scopo.
Inoltre, occorre evitare il deposito, anche temporaneo, di rifiuti lungo le vie di esodo od in
prossimità di possibili fonti di ignizione.
f. Aree non frequentate
Nelle aree dei luoghi di lavoro normalmente non frequentate dal personale (ad esempio
scantinati, locali di deposito, etc.) non devono essere presenti materiali combustibili non
essenziali.
È buona norma, inoltre, proteggere tali locali dall’accesso di persone non autorizzate.
g. Rischi legati a incendi dolosi
Occorre predisporre rigorose misure di controllo onde impedire l’accesso dei non autorizzati ai
luoghi di lavoro.
Inoltre, bisogna controllare eventuali depositi esterni di materiali combustibili.
6.5.2 Informazione e formazione antincendio
Molti incendi, dunque, possono essere prevenuti richiamando l’attenzione del personale sulle cause
e sui pericoli di incendio più comuni; questo può essere realizzato solo attraverso un’idonea
informazione e formazione antincendio.
È obbligo del datore di lavoro fornire al personale un’adeguata informazione e formazione al
riguardo di:
a. rischi di incendio legati all’attività svolta nell’impresa ed alle specifiche mansioni svolte;
b. misure di prevenzione e di protezione incendi adottate in azienda con particolare riferimento a :
ubicazione dei presidi antincendi;
ubicazione delle vie di uscita;
modalità di apertura delle porte delle uscite;
l’importanza di tenere chiuse le porte resistenti al fuoco;
i motivi per cui non devono essere utilizzati gli ascensori per l’evacuazione in caso di
incendio.
c. procedure da adottare in caso di incendio ed in particolare:
azioni da attuare quando si scopre un incendio;
come azionare un allarme;
azione da attuare quando si sente un allarme;
procedure di evacuazione fino al punto di raccolta in luogo sicuro;
modalità di chiamata dei Vigili del Fuoco.
d. i nominativi dei lavoratori incaricati di applicare le misure di prevenzione incendi, lotta
antincendio e gestione delle emergenze e Pronto Soccorso (Addetti Antincendio e Addetti al
Primo Soccorso);
e. il nominativo del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione dell’azienda.
Adeguate informazioni devono essere fornite agli addetti alla manutenzione ed agli appaltatori per
garantire che essi siano a conoscenza delle misure generali di sicurezza antincendio nel luogo di
lavoro, delle azioni da adottare in caso di incendio e le procedure di evacuazione.
6.5.3 Controllo degli ambienti di lavoro
Sebbene il personale sia tenuto a conoscere i principi fondamentali di prevenzione incendi, è
opportuno che vengano effettuate regolari verifiche (con cadenza predeterminata), nei luoghi di
lavoro finalizzate ad accertare il mantenimento delle misure di sicurezza antincendio.
È altresì consigliabile che i lavoratori ricevano adeguate istruzioni in merito alle operazioni da
199
attuare prima che il luogo di lavoro sia abbandonato, al termine dell’orario di lavoro, affinché lo
stesso sia lasciato in condizioni di sicurezza.
Le operazioni di cui sopra, in via esemplificativa, possono essere quelle riportate nel seguente
elenco.
tutte quelle parti del luogo di lavoro destinate a vie di uscita quali passaggi, corridoi, scale,
devono essere controllate periodicamente per assicurare che siano libere da ostruzioni e da
pericoli;
tutte le porte sulle vie di uscita devono essere regolarmente controllate per assicurare che si
aprano facilmente;
tutte le porte resistenti al fuoco devono essere regolarmente controllate per assicurarsi che non
sussistano danneggiamenti e che chiudano regolarmente;
le apparecchiature elettriche che non devono restare in servizio vanno messe fuori tensione;
tutte le fiamme libere devono essere spente o lasciate in condizioni di sicurezza;
tutti i rifiuti e gli scarti combustibili devono essere rimossi;
tutti i materiali infiammabili devono essere depositati in luoghi sicuri;
il luogo di lavoro deve essere assicurato contro gli accessi incontrollati.
6.5.4 Verifiche e manutenzione sui presidi antincendio
Devono essere oggetto di regolari verifiche:
gli impianti per l’estinzione degli incendi;
gli impianti per la rilevazione e l’allarme in caso di incendio;
gli impianti elettrici;
gli impianti di distribuzione ed utilizzo del Gas;
gli impianti a rischio specifico (montacarichi, centrali termiche, cucine, etc.).
In particolare, tutte le protezioni antincendio previste:
per garantire il sicuro utilizzo delle vie di uscita;
per l’illuminazione di sicurezza;
per l’estinzione degli incendi;
per la rivelazione e l’allarme in caso di incendio;
devono essere mantenute in efficienza ed essere oggetto di regolari verifiche circa la loro
funzionalità.
Scopo dell’attività di controllo e manutenzione deve essere quello di rilevare e rimuovere
qualunque causa, deficienza, danno od impedimento che possa pregiudicare il corretto
funzionamento ed uso delle apparecchiature o dei presidi antincendio.
L’attività di controllo periodica e la manutenzione devono essere eseguite da personale competente
e qualificato.
6.6. Obblighi del datore di lavoro ai fini della prevenzione incendi
(dal Decreto Legislativo 81/2008 art. 18)
Il datore di lavoro adotta le misure necessarie per la sicurezza e la salute dei lavoratori ed in
particolare le misure necessarie ai fini della prevenzione incendi e dell’evacuazione dei luoghi di
lavoro, nonché per il caso di pericolo grave ed immediato.
Tali misure devono essere adeguate alla natura dell’attività, alle dimensioni dell’azienda/unità
produttiva ed al numero delle persone presenti.
7. Protezione antincendio
Premessa
La protezione antincendio consiste nell’insieme delle misure finalizzate alla riduzione dei danni
conseguenti al verificarsi di un incendio, agendo quindi sulla Magnitudo dell’evento incendio.
200
Gli interventi si suddividono in misure di protezione attiva o passiva in relazione alla necessità o
meno dell’intervento di un operatore o dell’azionamento di un impianto.
7.1. Tipologie di misure di protezione
La protezione passiva
Le misure di protezione passiva non necessitano dell’intervento di un operatore e/o
dell’azionamento di un impianto, ed hanno l’obiettivo di limitare gli effetti dell’incendio (impedirne
l’estensione, garantire l’incolumità dei lavoratori, limitare gli effetti nocivi di prodotti della
combustione, contenere i danni a strutture, macchinari, beni, etc.) nello spazio e nel tempo.
Le più comuni misure di protezione passiva adottate sono le seguenti:
barriere antincendio interposte tra zone potenzialmente soggette ad incendio (isolamento di
edifici, distanze di sicurezza esterne ed interne da fabbricati e/o da attività pericolose, muri
tagliafuoco, schermi, etc.);
edifici compartimentati con strutture aventi caratteristiche di resistenza al fuoco proporzionate ai
carichi d’incendio;
utilizzo di materiali con classe di reazione al fuoco certificata;
sistemi di vie d’uscita commisurate al massimo affollamento ipotizzabile dei luoghi di lavoro ed
alla pericolosità delle lavorazioni e sempre fruibili;
superfici e/o sistemi di ventilazione adeguati al tipo di attività;
materiali classificati per la reazione al fuoco.
Protezione attiva
Le misure di protezione attiva che richiedono l’azione dell’uomo o l’azionamento di un impianto
sono invece finalizzate alla pronta rilevazione dell’incendio, alla segnalazione ad allo spegnimento
dello stesso.
Le principali misure di protezione attiva sono:
impianti mobili di estinzione (estintori);
impianti fissi di estinzioni (naspi, idranti);
rete idrica antincendi;
impianti di rilevazione automatica d’incendio;
impianti di spegnimento automatici;
dispositivi di segnalazione e d’allarme;
evacuatori, estrattori di fumo e di calore.
7.2. Misure di protezione passiva
7.2.1. Valutazione del rischio incendi
La valutazione qualitativa di un ambiente nei confronti del rischio incendio è eseguita tramite le
grandezze:
carico di incendio: concetto trattato in riferimento alla dinamica dell’incendio;
classe di reazione al fuoco (per gli arredi);
La reazione al fuoco di un materiale rappresenta il comportamento al fuoco del medesimo
materiale che per effetto della sua decomposizione alimenta un incendio al quale è esposto,
partecipando così allo stesso.
Per reazione al fuoco si intende il grado di partecipazione di un materiale combustibile al fuoco
al quale è sottoposto.
Dalla definizione si rileva che quando si parla di reazione al fuoco ci si riferisce a tutta la
problematica connessa alla maniera in cui i materiali possono mettere in pericolo vite umane in
caso di incendio.
La reazione al fuoco assume particolare rilevanza nelle costruzioni, per la caratterizzazione dei
materiali combustibili impiegati a vario titolo: in particolare per arredi (poltrone, divani,
materassi, ecc.), tendaggi e tessuti in genere, materiali di rifinitura e rivestimento, pannellature,
201
controsoffitti, decorazioni, isolanti, impermeabilizzanti, tubazioni, e simili.
La reazione al fuoco è un parametro che esprime la facilità, quindi le caratteristiche negative,
con cui il materiale brucia contribuendo allo sviluppo ed alla gravità dell’incendio; non tiene
però conto dei rischi derivanti dai fumi emessi dal materiale stesso nel processo di combustione.
La determinazione della reazione al fuoco di un materiale viene effettuata su basi sperimentali,
mediante prove su campioni in laboratorio.
In relazione a ciò i materiali sono assegnati alle classi: 0, 1, 2, 3, 4, 5, con l’aumentare della loro
partecipazione alla combustione, a partire da quelli di classe 0 che risultano non combustibili.
Per esempio un materiale completamente metallico (ferro) è incombustibile, cioè di classe 0, cioè
non prende parte al fuoco.
Specifiche norme di prevenzione incendi prescrivono per alcuni ambienti in funzione della loro
destinazione d’uso e del livello del rischio d’incendio l’uso di materiali aventi una determinata
classe di reazione al fuoco.
Per esempio nei corridoi, negli atri, nelle scale, nei passaggi in genere degli edifici scolastici è
consentito l’impiego di materiali di classe 1 in ragione del 50 % massimo della loro superficie
totale, per le loro restanti parti debbono essere impiegati solo materiali di classe 0; pertanto non
sono idonei i rivestimenti di altra classe se non opportunamente trattati con vernici ignifughe,
che inibiscono alquanto le loro caratteristiche di combustibilità.
La reazione al fuoco di un materiale è un fenomeno molto complesso che dipende da vari
parametri, i principali dei quali sono i seguenti:
a. infiammabilità: intesa come capacità di un materiale di entrare e permanere in stato di
combustione, con emissione di fiamme e/o durante l’esposizione ad una sorgente di calore;
b. velocità di propagazione delle fiamme: intesa come la velocità con la quale il fronte di
fiamma si propaga in un materiale;
c. gocciolamento: inteso come la capacità di un materiale di emettere gocce di materiale fuso
dopo e/o durante l’esposizione ad una sorgente di calore;
d. post – incandescenza: presenza di zone incandescenti dopo lo spegnimento della fiamma (ad
esempio brace) che potrebbero innescare nuovamente il fuoco;
e. sviluppo di calore nell’unità di tempo: inteso come la quantità di calore emessa nell’unità di
tempo da un materiale in stato di combustione;
f. produzione di fumo: intesa come la capacità di un materiale di emettere un insieme visibile di
particelle solide e/o liquide in sospensione nell’aria, risultanti da una combustione incompleta,
in condizioni definite;
g. produzione di sostanze nocive: intesa come capacità di un materiale di emettere gas e/o vapori
in condizioni definite di combustione.
Solo i primi quattro fattori vengono considerati per la classificazione italiana del Decreto
Ministeriale 26/06/1984.
La valutazione dei fumi viene fatta a parte e richiesta solo in ambiti speciali (ad esempio
ferroviario).
classe di resistenza al fuoco (per le strutture portanti e per le strutture separanti).
La resistenza al fuoco delle strutture rappresenta il comportamento al fuoco degli elementi
strutturali degli edifici (muri, pilastri,travi, etc.), siano essi portanti o separanti.
La resistenza al fuoco od ignifugicità è la capacità di un elemento di mantenere per un tempo
prefissato alcuni parametri in presenza di condizioni di incendio e temperatura elevata.
In termini numerici la resistenza al fuoco delle strutture rappresenta l’intervallo di tempo,
espresso in minuti primi, di esposizione dell’elemento strutturale ad un incendio, durante il quale
l’elemento costruttivo conserva – secondo un programma termico prestabilito e, per un tempo
determinato, – in tutto od in parte, i requisiti progettuali di stabilità meccanica R, tenuta ai
prodotti della combustione E, di coibenza termica I:
a. la stabilità meccanica R: attitudine di un elemento da costruzione a conservare la resistenza
meccanica sotto l’azione del fuoco;
202
b. la tenuta E: attitudine di un elemento da costruzione a non lasciar passare né produrre – se
sottoposto all’azione del fuoco su un lato – fiamme, vapori o gas caldi sul lato non esposto;
c. la coibenza termica I: attitudine di un elemento da costruzione a ridurre, entro un dato limite,
la trasmissione del calore.
In accordo con la norma attuale EN 13501, esistono anche altri parametri come il livello di
radiazione (W), la resistenza all’impatto (M), l’auto – chiusura dell’elemento costruttivo in caso
di incendio (C) ed altre.
Mentre alcune di esse, alla stregua di R, E, ed I, sono fondamentalmente delle misure di tempo
per i quali il criterio viene mantenuto (fra queste ricade W), altre sono valutate in vario modo e
non necessariamente indicando il tempo di resistenza.
La sigla R.E.I. deriva dalle parole francesi:
• Resistance: R, resistenza;
• Entretenir: E, ermeticità;
• Isolement: I, isolamento.
Specificamente le grandezze si combinano nel seguente modo:
con il simbolo “R.E.I.” (seguito da un numero n) si identifica un elemento costruttivo che
deve conservare per un tempo determinato n la resistenza meccanica, la tenuta alle fiamme ed
ai gas caldi, l’isolamento termico;
la stabilità R;
la tenuta E;
l’isolamento termico I;
con il simbolo “R.E.” (seguito da un numero n) si identifica un elemento costruttivo che deve
conservare per un tempo determinato n la resistenza meccanica e la tenuta alle fiamme ed ai
gas caldi;
la stabilità R;
la tenuta E;
con il simbolo “R” (seguito da un numero n) si identifica un elemento costruttivo che deve
conservare per un tempo determinato n la resistenza meccanica.
la stabilità R.
Quindi gli elementi strutturali, in relazione ai materiali da costruzione utilizzati e gli spessori
realizzati, vengono classificati da un numero che esprime i minuti primi per i quali conservano le
caratteristiche su indicate in funzione delle lettere R, E od I, (ad esempio R.E.I. 120).
Le barriere antincendio realizzate mediante interposizione di elementi strutturali hanno invece la
funzione di impedire la propagazione degli incendi all’interno di un edificio, nonché, in alcuni
casi, quella di consentire la riduzione delle distanze di sicurezza.
Il numero n indica la classe di resistenza al fuoco.
Le classi di resistenza al fuoco sono: 10, 15, 20, 30, 45, 60, 90, 120, 180, 240 e 360, ed
esprimono il tempo, in minuti primi, durante il quale la resistenza al fuoco deve essere garantita;
l’arrotondamento del tempo cui avviene il fallimento dei criteri sopracitati (R, E, I e, quando
valutata e sempre in alternativa ad I, W) si fa per difetto.
Ad esempio, una parete di pannelli isolanti che mostri, durante un test di resistenza al fuoco, il
fallimento del criterio isolamento al minuto 37, avrà I = 30 .
La combinazione dei fallimenti dei criteri citati sopra viene altresì arrotondata per difetto;
nell’esempio citato prima, una parete che mostri E 65, I 37 e W 62 avrà classificazione E 60, EI
30, EW 60 (W non si valuta in contemporanea ad I ma sempre in alternativa).
Per la classificazione degli elementi non portanti il criterio “R” è automaticamente soddisfatto
qualora siano soddisfatti i criteri “E” ed “I”.
La resistenza al fuoco di una struttura rappresenta la proprietà di un elemento da costruzione di
203
continuare ad esercitare la sua funzione portante o di ostacolo alla propagazione del fuoco e del
calore per un certo tempo, anche se sottoposto alle alte temperature che si sviluppano durante un
incendio.
Si parla infatti di resistenza al fuoco di elementi portanti quali: i muri, i solai, le travi, i pilastri ed
anche di resistenza al fuoco di elementi non portanti quali: porte, controsoffitti, solai o pareti con
esclusiva funzione tagliafuoco.
La resistenza al fuoco di un elemento viene determinata con prove specifiche.
Per gli elementi portanti, la verifica di resistenza al fuoco viene eseguita controllando che la
resistenza meccanica venga mantenuta per il tempo corrispondente alla classe di resistenza al
fuoco della struttura con riferimento alla curva nominale d’incendio.
I certificati ottenuti, secondo le vecchie normative, sono validi 5 anni se ottenuti dopo il 1995 e
mantengono la loro valenza solo in Italia; attualmente, come da Decreto Ministeriale 16 febbraio
2007 i nuovi prodotti ed elementi da costruzione devono essere certificati secondo le regole
che fanno capo alla norma EN 13501 e, più specificamente, alla EN 13501 – 1 per la reazione al
fuoco e 13501 – 2 per la resistenza al fuoco.
Le norme di riferimento sono di vario carattere: per ogni nazione appartenente all’Unione
Europea il campo di applicabilità del risultato della EN 13501 è vario e non univoco.
7.2.2. Barriere antincendio
La protezione passiva, realizzata con il metodo delle barriere antincendio, è basata sul concetto
dell’interposizione, tra aree potenzialmente soggette ad incendio, di spazi scoperti o di strutture.
Nella terminologia utilizzata per la stesura delle normative nazionali ed internazionali, per indicare
l’interposizione di spazi scoperti fra gli edifici, si usa il termine di “distanze di sicurezza” (interne,
esterne).
La determinazione delle distanze di sicurezza in via teorica si basa sul calcolo dell’energia termica
irraggiata dalle fiamme di un ipotetico incendio.
Nelle norme antincendio ufficiali vengono introdotti invece valori ricavati empiricamente da dati
ottenuti dalle misurazioni dell’energia raggiante effettuata in occasione di incendi reali ed in incendi
sperimentali.
Compartimentare una struttura ricorrendo alla sola adozione di distanze di sicurezza comporta
l’utilizzo di grandi spazi che dovranno essere lasciati vuoti, dunque è una misura poco conveniente
da un punto di vista economico.
Pertanto la protezione passiva si realizza anche mediante la realizzazione di elementi si separazione
strutturale del tipo “tagliafuoco”.
7.2.3. Serramenti tagliafuoco
I serramenti tagliafuoco sono sistemi di protezione passiva in quanto non agiscono sull’incendio
ma, per il solo fatto di essere presenti, ne ostacolano il propagarsi.
I serramenti tagliafuoco non hanno una resistenza illimitata al fuoco, ma sono in grado di ritardare
la trasmissione del calore, delle fiamme o dei gas generati dall’incendio alla struttura protetta ed
agli ambienti adiacenti.
I serramenti tagliafuoco devono avere caratteristiche di resistenza al fuoco che si esprimono in
classi di resistenza.
In relazione ai requisiti dimostrati gli elementi vengono classificati da un numero che esprime i
minuti primi: ad esempio 15 – 30 – 60 – 90 minuti.
Con il termine serramenti tagliafuoco sono rappresentati solitamente le seguenti strutture:
porte tagliafuoco interamente in metallo ad una o due ante;
portoni tagliafuoco scorrevoli interamente in metallo;
porte tagliafuoco in metallo con oblò vetrati ad una o due ante;
porte tagliafuoco interamente in vetro ad una o due ante;
portoni saliscendi;
204
strutture tagliafuoco vetrate;
elementi di chiusura come: maniglie, maniglioni antipanico, chiudiporta, elettromagneti, etc.
7.2.4. Vie di esodo (sistemi di vie d’uscita)
Nonostante il massimo impegno per prevenire l’insorgere di un incendio e la massima attenzione
nell’adozione dei più moderni mezzi di rivelazione, segnalazione e spegnimento di un incendio, non
si può escludere con certezza la possibilità che l’incendio stesso si estenda con produzione di calore
e fumi tale da mettere a repentaglio la vita umana.
In considerazione di tutto ciò, il problema dell’esodo delle persone, minacciate da un incendio, è di
capitale importanza, a tal punto da comportare soluzioni tecniche irrinunciabili.
Gli elementi fondamentali nella progettazione del sistema di vie d’uscita si possono fissare in:
dimensionamento e geometria delle vie d’uscita;
sistemi di protezione attiva e passiva delle vie d’uscita;
sistemi di identificazione continua delle vie d’uscita (segnaletica, illuminazione ordinaria e di
sicurezza).
In particolare il dimensionamento delle vie d’uscita dovrà tenere conto del massimo affollamento
ipotizzabile nell’edificio, nonché della capacità d’esodo dell’edificio (numero di uscite, larghezza
delle uscite, etc.).
7.3. Misure di protezione attiva
7.3.1. Sistemi antincendio
Nella protezione contro gli incendi è importantissimo l’intervento immediato al fine di trovarsi di
fronte ad un incendio di dimensioni ancora limitate.
Pertanto risultano importanti non solo i sistemi antincendio fissi (solo poche strutture ne sono
provvisti) ma soprattutto i sistemi antincendio mobili.
I sistemi antincendio mobili sono suddivisi nelle seguenti categorie:
estintori: mezzi mobili portatili e carrellati che possono essere suddivisi in base al tipo di
sostanza estinguente usata in:
idrici;
a schiuma;
a polvere;
ad anidride carbonica;
ad idrocarburi alogenati;
a doppia sostanza estinguente.
Questi sono di volta in volta scelti a seconda dello specifico campo di impiego.
automezzi di pronto intervento: autopompe ad acqua, automezzi con attrezzatura a schiuma, a
polvere etc;
equipaggiamenti ed attrezzature ausiliarie: motopompe, auto protettori, cannoni lancia schiuma,
tute d’amianto.
7.3.2. Estintori
Gli estintori sono mezzi mobili di estinzione, da usare per un pronto intervento su principi
d’incendio. In particolare, un estintore è un apparecchio contenente un agente estinguente che può
essere proiettato e diretto su un fuoco grazie alla pressione di un propellente gassoso.
La pressione può essere fornita da una compressione preliminare permanente, da una reazione
chimica o dalla liberazione di un gas ausiliario.
L’agente estinguente è il complesso dei prodotti contenuti nell’estintore, la cui azione provoca
l’estinzione del focolaio.
Gli estintori, che costituiscono i mezzi estinguenti più usati per il primo intervento su di un
incendio, si suddividono in portatili e carrellati.
I primi sono più leggeri, essendo concepiti per un utilizzo a mano, mentre gli altri sono impiegati
205
nel caso sia necessario disporre di una maggior capacità estinguente e, comunque, mai da soli.
Le principali categorie di estintori sono le seguenti:
estintori ad acqua;
estintori a schiuma;
estintori a polvere, caricati con polveri di varia natura (generalmente miscele di bicarbonato di
sodio e materiali inerti) insieme a gas propellenti quali anidride carbonica od azoto;
estintori ad anidride carbonica;
estintori ad idrocarburi alogenati.
7.3.3. Rete idrica antincendio
A protezione delle attività industriali o civili, caratterizzate da un rilevante rischio, viene di norma
istallata una rete idrica antincendio collegata direttamente, od a mezzo di vasca di disgiunzione,
all’acquedotto cittadino.
La presenza della vasca di disgiunzione è necessaria ogni qualvolta l’acquedotto non garantisca
continuità di erogazione e sufficiente pressione.
In tal caso le caratteristiche idrauliche, richieste agli erogatori (idranti U.N.I. 45 oppure U.N.I. 70),
vengono assicurate in termini di portata e pressione dalla capacità della riserva idrica e dal gruppo
di pompaggio.
La rete idrica antincendi deve, a garanzia di affidabilità e funzionalità, rispettare i seguenti criteri
progettuali:
caratteristiche idrauliche pressione – portata (idranti U.N.I. 45 in fase di erogazione con portata
di 120 ℓ min e pressione residua di 2 bar al bocchello);
idranti (a muro, a colonna, sottosuolo o naspi) collegati con tubazioni flessibili a lance erogatrici
che consentono, per numero ed ubicazione, la copertura protettiva dell’intera attività.
Un breve cenno va dedicato alla rete antincendio costituita da naspi che rappresenta, per la
possibilità di impiego anche da parte di personale non addestrato, una valida alternativa agli idranti
soprattutto per le attività a rischio lieve.
Le reti idriche con naspi vengono di solito collegate alla normale rete sanitaria, dispongono di
tubazioni in gomma avvolte su tamburi girevoli e sono provviste di lance da 25 mm , con getto
regolabile (pieno o frazionato) con portata di 50 ℓ min ad 1.5 bar .
I naspi consentono una più immediata fruizione rispetto agli idranti, per i quali è necessario
provvedere prima allo svolgimento della manichetta e poi al collegamento di quest’ultima
all’impianto idrico.
7.3.4. Impianti di spegnimento automatici
Tali impianti possono classificarsi in base alle sostanze utilizzate per l’azione estinguente:
impianti ad acqua sprinkler (ad umido, a secco, alternativi, a preallarme, a diluvio, etc.);
impianti a schiuma;
impianti ad anidride carbonica;
impianti ad halon;
impianti a polvere.
L’erogazione di acqua può essere comandata da un impianto di rilevazione incendi, oppure essere
provocata direttamente dall’apertura delle teste erogatrici: per fusione di un elemento metallico o
per rottura, a determinate temperature, di un elemento termosensibile a bulbo che consente in tal
modo la fuoriuscita d’acqua.
Tipi d’impianto
Ad umido: tutto l’impianto è permanentemente riempito di acqua in pressione, è il sistema più
rapido e si può adottare nei locali in cui non esiste rischio di gelo;
206
A secco: la parte d’impianto non protetta, o sviluppantesi in ambienti soggetti a gelo, è riempita
di aria in pressione: al momento dell’intervento una valvola provvede al riempimento delle
colonne con acqua;
Alternativi: funzionano come impianti a secco nei mesi freddi e ad umido nei mesi caldi;
A pre – allarme: sono dotati di dispositivo che differisce la scarica per dar modo di escludere i
falsi – allarmi;
A diluvio: impianti con sprinklers aperti alimentati da valvole ad apertura rapida in grado di
fornire rapidamente grosse portate.
Gli impianti a schiuma sono concettualmente simili a quelli ad umido e differiscono per la presenza
di un serbatoio di schiumogeno e di idonei sistemi di produzione e scarico della schiuma (versatori).
Impianti di anidride carbonica, ad halon, a polvere hanno portata limitata dalla capacità geometrica
della riserva (batteria di bombole, serbatoi).
Gli impianti a polvere, non essendo l’estinguente un fluido, non sono in genere costituiti da
condotte, ma da teste singole autoalimentate da un serbatoio incorporato di modeste capacità.
7.3.5. Impianti di rivelazione automatica d’incendio
“L’impianto di rivelazione” può essere definito come un insieme di apparecchiature fisse utilizzate
per rilevare e segnalare un principio d’incendio.
Lo scopo di tale tipo d’impianto è quello di segnalare tempestivamente ogni principio d’incendio,
evitando al massimo i falsi allarmi, in modo che possano essere messe in atto le misure necessarie
per circoscrivere e spegnere l’incendio.
Pertanto un impianto di rivelazione automatica consente:
di avviare un tempestivo sfollamento delle persone, sgombero dei beni, etc;
di attivare un piano di intervento;
di attivare i sistemi di protezione contro l’incendio (manuali e/o automatici di spegnimento).
I rivelatori di incendio possono essere classificati in base al fenomeno chimico – fisico rilevato in:
di calore;
di fumo (a ionizzazione o ottici);
di gas;
di fiamme.
oppure in base al metodo di rivelazione in:
statici (allarme al superamento di un valore di soglia);
differenziali (allarme per un dato incremento);
velocimetrici (allarme per velocità di incremento).
La suddivisione può essere infine effettuata in base al tipo di configurazione del sistema di controllo
dell’ambiente in :
puntiformi;
a punti multipli (poco diffusi);
lineari.
È opportuno sottolineare e precisare la differenza sostanziale tra i termini di “rilevazione” e
“rivelazione”.
Rilevazione d’incendio non è altro che la misura di una grandezza tipica legata ad un fenomeno
fisico provocato da un incendio.
Avvenuta la rilevazione, con il superamento del valore di soglia, si ha la rivelazione quando “la
notizia” che si sta sviluppando l’incendio viene comunicata (rivelata) al “sistema” (uomo o
dispositivo automatico) demandato ad intervenire.
207
La centrale di controllo e segnalazione garantisce l’alimentazione elettrica (continua e stabilizzata)
di tutti gli elementi dell’impianto ed è di solito collegata anche ad una “sorgente di energia
alternativa” (batterie, gruppo elettrogeno, gruppo statico, etc.) che garantisce il funzionamento
anche in caso di “mancanza ENEL”.
Avvenuto l’incendio, l’allarme può essere “locale” o “trasmesso a distanza”.
L’intervento può essere manuale (azionamento di un estintore o di un idrante, intervento squadre
VV.F.) oppure automatico (movimentazione di elementi di compartimentazione e/o aereazione,
azionamento di impianti di spegnimento automatico, predisposizione di un piano d’esodo).
7.3.6. Illuminazione di sicurezza
L’impianto di illuminazione di sicurezza deve fornire, in caso di mancata erogazione della fornitura
principale dell’energia elettrica e quindi di luce artificiale, un’illuminazione sufficiente a permettere
di evacuare in sicurezza i locali (intensità minima di illuminazione 5 lux ).
Dovranno pertanto essere illuminate le indicazioni delle porte e delle uscite di sicurezza, i segnali
indicanti le vie di esodo, i corridoi e tutte quelle parti che è necessario percorrere per raggiungere
un’uscita verso un luogo sicuro.
L’impianto deve essere alimentato da un’adeguata fonte di energia, quali batterie in tampone o
batterie di accumulatori con dispositivo per la ricarica automatica (con autonomia variabile da 30
minuti a 3 ore, a seconda del tipo di attività e delle circostanze), oppure da apposito ed idoneo
gruppo elettrogeno; l’intervento dovrà comunque avvenire in automatico, in caso di mancanza della
fornitura principale dell’energia elettrica, entro 5 secondi circa (se si tratta di gruppi elettrogeni il
tempo può raggiungere i 15 secondi).
In caso di impianto, alimentato da gruppo elettrogeno o da batterie di accumulatori centralizzate,
sarà necessario posizionare tali apparati in luogo sicuro, non soggetto allo stesso rischio di incendio
dell’attività protetta; in questo caso il relativo circuito elettrico deve essere indipendente da
qualsiasi altro ed essere inoltre protetto dai danni causati dal fuoco, da urti, etc.
7.3.7. Evacuatori di fumo e di calore
Tali sistemi di protezione attiva dall’incendio sono di frequente utilizzati in combinazione con
impianti di rivelazione e sono basati sullo sfruttamento del movimento verso l’alto delle masse di
gas caldi, generate dall’incendio, che, a mezzo di aperture sulla copertura, vengono evacuate
all’esterno.
Gli evacuatori di fumo e calore (E.F.C.) consentono pertanto di:
agevolare lo sfollamento delle persone presenti e l’azione dei soccorritori grazie alla maggiore
probabilità che i locali restino liberi da fumo almeno fino ad un’altezza da terra tale da non
compromettere la possibilità di movimento;
agevolare l’intervento dei soccorritori rendendone più rapida ed efficace l’opera;
proteggere le strutture e le merci contro l’azione del fumo e dei gas caldi, riducendo in
particolare il rischio di collasso delle strutture portanti;
ritardare od evitare l’incendio a pieno sviluppo (“flashover”).
208
7. La combustione e le sostanze estinguenti
7.1. Classificazione degli incendi
Sono stati definiti dal Comitato Europeo di Normazione (C.E.N.)
(
dei tipi
di fuoco,, a seconda del tipo di combustibile.
Gli incendi vengono distinti in quattro classi, secondo lo stato fisico dei
materiali combustibili, con 2 ulteriori categorie che tengono conto delle
particolari caratteristiche deglii incendi di natura elettrica e degli incendi di
oli e grassi vegetali o animali.
Tipo A: incendi generati da materie solide, generalmente di natura
organica, la cui combustione normalmente avviene con produzione di
braci (carta ed affini, legname, trucioli, tessuti, gomma e derivati,
stoffa, rifiuti, paglia, stracci unti, materie plastiche,
plastiche materiali che nella
combustione danno luogo a formazione di brace, etc.);
Tipo B: incendi generati da liquidi infiammabili (idrocarburi, alcoli,
solventi, vernici, oli minerali grassi, eteri, benzine, gasolio, petrolio e
solidi liquefabili);
Tipo C: incendi generati da gas infiammabili (G.P.L., metano,
acetilene, idrogeno, butano, etilene, propilene, etc.);
Tipo D: incendi di materiali combustibili, sostanze chimiche reattive in
presenza di acqua e derivati (sodio, potassio e loro leghe, magnesio,
fosforo, zinco, zirconio, titanio, alluminio in polvere, carburi, metalli
infiammabili, etc.) essi bruciano sulla superificie metallica a temperatura
molto elevata, spesso con fiamma brillante.
Dal punto di vista normativo, non esiste un focolaio standard su cui
eseguire prove per il riconoscimento della
dell classe D, ma il costruttore
dell’apparecchio deve dichiarare sotto la propria responsabilità
l’idoneità dell’estintore per questa classe di fuoco.
Le norme I.S.O. prevedono una classificazione
classificazio
maggiormente
dettagliata, che distingue ad esempio tra metalli liquidi e solidi.
Tipo E (non previstaa dalla classificazione C.E.N.):
C
incendi di
apparecchiature elettriche in tensione quali: trasformatori, alternatori,
motori, interruttori, quadri elettrici,
elettrici apparecchiature in tensione, etc.
Tipo F: introdotta con la norma EN 2 del 2005, per indicare incendi
derivati da oli e grassi in apparecchiature per la cottura: cucine,
stabilimenti alimentari,
ntari, friggitorie, etc.
I tipi di fuoco appaiono sull’estintore raffigurati mediante pittogrammi.
pittogrammi
La classe E non è indicata tramite pittogramma,
pittogr
ma attraverso la scritta
“UTILIZZABILE SU APPARECCHI
PPARECCHI ELETTRICI IN TENSIONE”.
TENSIONE”
La norma EN3 riconosce, anche in Italia,
Italia la classe F, attualmente associata
ad estintori a base idrica con speciali additivi ad azione filmante; questi
estintori sono spesso dotati di lancia prolungata per intervenire con
maggiore sicurezza.
La norma EN3 non richiede, per gli estintori a biossido di carbonio, la
prova di spegnimento per la classe C e la colorazione grigia della parte
superiore delle bombole
mbole per estintori portatili: queste
q
caratteristiche erano
invece richieste con
on la normativa precedente (Decreto Ministeriale
20/12/82).
209
Figura 19: simbolo incendio
di tipo A.
Figura 20: simbolo incendio
di tipo B.
Figura 21: simbolo incendio
di tipo C.
Figura 22 : simbolo incendio
di tipo C.
Figura 23: simbolo incendio
di tipo C.
Figura 24 : simbolo incendio
di tipo C.
7.2. Incendio di superficie e di volume
Gli incendi vengono definiti di superficie quando interessano soltanto uno strato superficiale, in
genere di limitato spessore, di masse solide, liquide o gassose.
In questo caso il fuoco può essere estinto realizzando una concentrazione di ossigeno inferiore al
15 % in volume nell’atmosfera che circonda la superficie incendiata, impedendo così il
mantenimento della combustione.
Un risultato del genere si può ottenere, ad esempio, saturando l’aria con gas inerti o altri mezzi
soffocanti, quali polveri o schiuma, capaci di agire in maniera rapida e definitiva.
Gli incendi vengono definiti di volume quando interessano la massa combustibile in profondità,
formando braci che persistono a lungo.
Questo tipo di incendio può essere affrontato positivamente realizzando e mantenendo una
saturazione inertizzante nell’atmosfera che circonda la massa incendiata per un tempo adeguato e
raffreddando i materiali al di sotto della temperatura di accensione.
7.3. Modalità di estinzione
Con riferimento alle tipologie di azione degli interventi estinguenti, possono essere individuate
cinque modalità:
Separazione o soffocamento: consiste nell’eliminare il contatto tra combustibile e comburente,
oppure, nel rimuovere il combustibile dalla zona di combustione.
Ciò può essere ottenuto utilizzando schiuma antincendio, teli d’amianto, acqua, pareti divisorie,
chiusure di saracinesche, oppure operando lo scarico dai serbatoi dei liquidi infiammabili.
Sono agenti per soffocamento quelli che impediscono il contatto tra il materiale combustibile ed
il comburente, quali i gas inerti (soprattutto l’anidride carbonica e l’azoto), i sali fusi che
solitamente fondono alle temperature delle fiamme, e creano uno strato fluido, poi raffreddato,
che copre il combustibile: caso tipico, il cloruro di sodio, usato per spegnere fuochi di metalli.
Ne sono esempio anche gli schiumogeni, prodotti che, in vari modi, creano una schiuma
abbastanza leggera da formare uno strato isolante tra il combustibile (ad esempio un liquido
infiammabile) ed il comburente (l’aria) ed abbastanza compatta da non permettere la rottura
dello strato.
Diluizione: consiste nel diminuire la concentrazione del combustibile o del comburente, oppure
nel saturare l’ambiente con combustibile (uso di azoto, anidride carbonica, acqua, idrocarburi
alogenati, chiusura delle aspirazioni e delle aperture di areazione, etc.).
Disgregazione: consiste nel rimuovere gli inneschi e nella rottura del contatto tra combustibile ed
inneschi (reti spostafiamme, getti tagliafiamme, azione meccanica di mezzi estinguenti).
Raffreddamento: ovvero diminuzione della temperatura sino a portarla al di sotto della
temperatura di infiammabilità (mediante l’impiego di acqua, refrigerazione).
Sono agenti per raffreddamento quei composti atti a sottrarre calore al combustibile, per farlo
scendere sotto la temperatura di accensione (soprattutto l’acqua, ma anche la neve di anidride
carbonica).
Inibizione della reazione chimica: alcune sostanze inibitrici, aumentando l’energia di attivazione,
ostacolano il propagarsi della reazione chimica (polveri, idrocarburi alogenati).
Sono agenti per inibizione della reazione chimica quelli che comportando l’aggiunta di apposite
sostanze, reagiscono direttamente col combustibile, andando a bloccare le reazioni a catena che
si verificano durante la combustione (catalisi negativa).
Ne sono esempi tipici le polveri chimiche (in minima parte) e gli idrocarburi alogenati, detti
anche halon, ormai però banditi a causa della loro alta nocività per lo strato di ozono
stratosferico.
Per questi ultimi esistono dei sostituti a basso impatto ambientale, si tratta però di estinguenti
molto costosi e con efficienza limitata.
210
7.4. Sostanze estinguenti
La protezione contro gli incendi si basa essenzialmente sull’impiego di una serie di sostanze capaci
di far cessare la combustione.
La sostanza usata, il tipo di intervento e le modalità di impiego sono commisurate alla natura dei
prodotti che hanno preso fuoco ed all’entità dell’incendio.
Occorre pertanto conoscere limiti, pregi e difetti delle sostanze estinguenti per ottenere dalla difesa
attiva risultati sempre e comunque positivi, ricordando che scelte sbagliate possono portare ad
amplificare enormemente l’entità dell’incidente.
Alcune delle sostanze oggi usate sono da sempre nelle mani dell’uomo, altre sono molto recenti e
rappresentano il risultato delle continue ricerche effettuate per disporre di mezzi e sistemi sempre
più efficaci nella lotta contro gli incendi.
Nella pratica comune, gli agenti più comuni sono:
Sabbia: La sabbia agisce per separazione del combustibile dal comburente; infatti, disposta a
strato sul combustibile incendiato, lo isola dal contatto con l’aria e soffoca quindi il fuoco. Salvo
casi particolari (incendi di sostanze chimiche reattive in presenza di acqua) è consigliabile
impiegare sabbia umida.
È da osservare che tale metodo è poco efficace nel caso di incendi di sostanze liquide poiché la
sabbia, tendendo a depositarsi sul fondo del recipiente contenente il liquido, lascia libera la
superficie che continua a bruciare.
La sabbia è utile anche come mezzo di prevenzione in caso di lavori nei quali si utilizzano
fiamme libere su impianti operativi; in tal caso essa servirà a sigillare le aperture dalle quali
potrebbero provenire vapori o gas combustibili.
L’acqua è il più diffuso ed in genere il più economico dei mezzi antincendio.
Essa agisce per:
raffreddamento del materiale che brucia, in virtù dell’assorbimento da parte della stessa del
calore svolto dalla combustione, sia come calore sensibile sia come calore latente di
vaporizzazione (l’acqua proprio per le proprietà del legame chimico che la caratterizza è in
grado di sottrarre una quantità molto elevata di calore pari a 2.5 MJ kg );
separazione tra combustibile e comburente, mediante l’allontanamento dell’ossigeno dell’aria
per sua sostituzione col vapore generato, il cui volume è circa 1700 volte superiore a quello
delle gocce d’acqua da cui proviene;
diluizione delle sostanze infiammabili solubili in modo da renderle inadatte alla combustione.
In alcuni casi interviene anche la formazione di emulsioni (oli che possono essere resi
temporaneamente incombustibili).
disgregazione, per azione di rottura del contatto tra combustibile e comburente che può essere
generato ad esempio da un forte getto d’acqua.
L’acqua, tipico agente per raffreddamento che però, vaporizzando grazie al calore fornito dalla
combustione, cambia di stato fisico in vapore, e ha una certa azione di soffocamento.
Recentemente sono stati realizzati sistemi di estinzione a nebbia (water mist), sostanzialmente
degli spruzzatori di gocce estremamente sottili, tali da creare una sospensione in aria con forte
rilascio di vapore d’acqua, avente appunto effetto soffocante.
Non tossica, poco costosa e facilmente reperibile, non è utilizzabile, tranne quella nebulizzata,
nello spegnimento di fuochi di idrocarburi leggeri in quanto questi galleggerebbero sull’acqua,
ristabilendo il contatto con l’ossigeno comburente e creando anche pericolosi fenomeni di
boilover.
L’impiego d’acqua deve essere evitato in presenza di: conduttori di energia elettrica sotto
tensione, apparecchiature elettriche ed elettroniche, a temperature inferiori a 0 ° C , salvo
aggiunta di additivi anticongelanti, serbatoi con liquidi non miscibili, infiammabili e più leggeri
dell’acqua, sostanze reagenti in modo pericoloso con l’acqua, sodio e potassio che liberano
idrogeno; carbonio, magnesio, zinco, alluminio che ad alte temperature sviluppano con l’acqua
gas infiammabili; sostanze tipo cloro, fluoro, etc., che a contatto con l’acqua reagiscono
211
formando sostanze corrosive; sostanze come l’acido solforico, l’anidride acetica, etc., che a
contatto con l’acqua sviluppano calore emettendo spruzzi corrosivi; incendi di sostanze tossiche
tipo cianuri alcalini per il pericolo che si genera dalla loro dispersione; gas liquefatti nocivi ed
infiammabili che l’acqua farebbe evaporare; parti di apparecchi che spezzati dal getto d’acqua
potrebbero liberare sostanze nocive; apparecchiature o documenti importanti che verrebbero
danneggiati.
L’acqua deve essere erogata sugli incendi in modo da raffreddarne la più ampia superficie
possibile, quindi anziché getti d’acqua pieni, è meglio utilizzare getti d’acqua frazionata (divisa
in parti) o nebulizzata (acqua ridotta in piccolissime gocce disperse nell’aria), in modo da poter
ripartire l’acqua impiegata su una superficie maggiore.
In questo modo aumenta sia il potere di raffreddamento sia quello di soffocamento, in quanto
l’acqua suddivisa in goccioline avrà una maggiore superficie e di conseguenza avrà una
maggiore possibilità di assorbire calore passando allo stato di vapore.
I getti d’acqua pieni, avendo una massa maggiore e quindi una violenza d’urto notevole,
risultano dannosi se impiegati su impianti con parti delicate.
Anche nel caso di incendi di liquidi infiammabili l’uso dell’acqua a getto pieno va considerata
con particolare attenzione, sia per gli eventuali schizzi di liquido combustibile, sia – nel caso di
recipienti aperti con un fluido combustibile con peso specifico inferiore a quello dell’acqua – per
il pericolo di traboccamento con il conseguente allargamento dell’incendio alle zone adiacenti.
Va inoltre ricordato che grandi masse d’acqua, lanciate sugli impianti o sui prodotti in fiamme,
dovranno trovare un punto di raccolta in una rete di fognature per non causare allagamenti che
spesso provocano più danni dell’incendio.
La schiuma può essere definita un aggregato complesso ed instabile di bollicine di gas, racchiuse
in pellicole liquide, soggette a tensione superficiale che si distruggono per evaporazione del
liquido, ma dotate di una resistenza sufficiente da poter essere utilizzate per estinguere un
incendio.
Gli schiumogeni, in realtà sono poco usati negli estintori e molto più nelle installazioni fisse e sui
grandi mezzi mobili di spegnimento, sono in pratica soluzioni acquose contenenti forti
tensioattivi ed altri addittivi (negli estintori la schiuma è unicamente di tipo A.F.F.F.).
L’estinzione avviene attraverso le seguenti azioni:
separazione tra combustibile e comburente;
diluizione per effetto dell’anidride carbonica e del vapor d’acqua che riducono la
concentrazione dell’ossigeno;
raffreddamento per l’assorbimento del calore di evaporazione dell’acqua contenuta nella
schiuma.
Attraverso un’apposita lancia, il liquido si espande miscelandosi con l’aria (effetto Venturi),
generando una schiuma leggera a bassa espansione in grado di galleggiare sugli idrocarburi ed
isolarli dal contatto con l’aria, combinando l’azione di soffocamento col potere raffreddante
dell’acqua.
Sono usati quasi esclusivamente su fuochi di idrocarburi (classe B) ma vantano discreta efficacia
anche su quelli di classe A.
Totalmente inefficaci su fuochi di classe C, D, E; quest’ultimi per rischio di folgorazione.
Come per gli estintori idrici, hanno medesima gittata e durata.
Le schiume possono esser di tipo chimico, di tipo meccanico o bagnanti.
La schiuma di tipo chimico è formata da anidride carbonica che si sviluppa per reazione chimica
tra soluzione alcaline (in genere bicarbonato di sodio) e soluzioni acide ( ad esempio solfato di
alluminio) in presenza di un agente schiumogeno (come la polvere di liquirizia).
La schiuma di tipo meccanico è formata da bollicine d’aria inglobate dall’acqua in presenza di
liquidi schiumogeni disponibili in vari tipi, si tratta di schiume poco costose e facilmente
preparabili.
Le schiume bagnanti sono ottenute addizionando sostanze tensioattive.
212
Le schiume risultano così con elevati poteri di resistenza, di assorbimento, di aderenza e di
raffreddamento, una limitazione delle schiume è l’instabilità alle alte temperature.
In base al rapporto tra il volume della schiuma prodotta e la soluzione acqua – schiumogeno
d’origine, le schiume si distinguono in:
ad alta espansione 1:500, 1:1000;
a media espansione 1:30, 1:200;
a bassa espansione 1:6, 1:12.
Tipi fondamentali di liquidi schiumogeni:
liquidi proteinici (a bassa espansione, adatti ad incendi di prodotti petroliferi);
liquidi a base proteinica più una frazione attiva a base metallorganica (a bassa espansione,
adatti ad incendi di prodotti polari quali alcoli, eteri, fenoli, etc.);
liquidi fluoroproteinici (a bassa espansione, adatti ad incendi di idrocarburi a difficile
estinzione);
liquidi film – forming fluorosintetici A.F.F.F. (Acqueous Film Forming Foam, a bassa e
media espansione, adatti ad incendi di prodotti petroliferi);
liquidi sintetici (formano schiuma a bassa, media ed alta espansione. Sono adatti per la
copertura di grandi superfici od il riempimento totale di volumi).
Una buona schiuma dovrebbe presentare le seguenti proprietà:
peso specifico inferiore a quello dei liquidi in cui viene versata;
insolubilità in questi liquidi;
peso tale da non essere portata verso l’alto dai gas di combustione;
assenza di tossicità e corrosività;
buona omogeneità e stabilità anche alle alte temperature;
capacità di dilagare rapidamente e di aderire alle pareti verticali.
Le schiume trovano un largo impiego negli incendi di gas combustibili – come idrogeno,
acetilene, butano, metano, etc. – o di materiali e liquidi per i quali è necessario un effetto di
copertura e soffocamento – come alcoli, solventi, oli minerali, grassi, eteri e benzine.
Le polveri chimiche sono probabilmente l’agente estinguente più usato.
Hanno caratteristiche particolari, in quanto si modificano chimicamente per azione del calore e
liberano gas inerti, dando un residuo incombustibile od addirittura attivo.
Le polveri estinguenti sono miscugli di particelle solide finemente suddivise costituite da sali
organici o da altre sostanze naturali o sintetiche, adatte ad essere scaricate direttamente sugli
incendi mediante l’impiego di gas propellenti in pressione attraverso appositi erogatori.
Le caratteristiche fondamentali che devono possedere le polveri sono l’assenza di tossicità,
corrosività ed abrasione.
Le polveri sono stabili a temperatura ambiente fino a 60 ° C , per valori più elevati possono
fondersi ed agglomerarsi, perdendo la loro fluidità e le loro caratteristiche di impiego.
Grazie al loro potere riflettente, le polveri proteggono gli operatori dall’irraggiamento termico
delle fiamme, ma possono presentare alcuni inconvenienti nell’impiego per la loro opacità e per
le difficoltà di respirazione che insorgono nelle zone in cui sono scaricate. Presentano il
vantaggio di non danneggiare le strutture sulle quali sono scaricate anche se bisogna asportarne i
residui.
Le polveri disponibili sono numerose, alcune universali ed altre specifiche.
La tipologia più diffusa, per la sua universalità d’impiego e l’elevata efficacia, è la cosiddetta
polvere polivalente (conosciuta come polvere ABC – in grado di spegnere gli incendi di tutte le
classi tranne la D); composta prevalentemente da fosfato monoammonico in percentuale
compresa tra il 40 % (polvere standard) ed il 90 % (alta capacità estinguente).
Per azione del calore si trasforma in sali di ammonio diversi, liberando H 2 O in forma di vapore;
i sali di ammonio fondono e creano una crosta impermeabile all’ossigeno sul corpo caldo.
213
È perciò attivo su fuochi di materiali solidi (legname, carboni, carta, rifiuti che formano braci)
ma anche di materiali liquidi per i quali è necessaria un’azione di soffocamento o di materiali
gassosi infiammabili.
I residui di combustione (sali di ammonio, ammoniaca, etc.) hanno una certa tossicità, per cui va
usata con cautela in ambienti chiusi.
Molto usato anche il bicarbonato di sodio, che per azione del calore si trasforma in carbonato di
sodio ed anidride carbonica; quest’ultima ha il noto effetto soffocante, ed il carbonato, che si
presenta in forma spugnosa, ha un effetto coprente.
Come l’anidride carbonica, ha effetto solo su fuochi di liquidi.
Di uso limitato l’urea (polveri Monnex) ed il bicarbonato di potassio (polveri Purple – K)
denominate come polveri BC ad altissima capacità estinguente, sono utilizzate nell’industria
petrolchimica e negli aeroporti per la loro eccezionale efficacia sui fuochi di combustibili liquidi
e gassosi unita alla velocità di abbattimento; non sono efficaci su materiale solido.
Di uso speciale il cloruro di sodio, efficace sui fuochi generati da metalli di classe D (sodio,
magnesio, alluminio), che soffoca fondendo e ricostituendo una crosta impermeabile.
Il bicarbonato di sodio è anch’esso un estinguente, prodotto base delle polveri BC ad ordinaria
capacità estinguente, ormai in disuso.
Rapido abbattimento delle fiamme, lunga gittata, buona durata e polivalenza rendono questi
estintori i più diffusi sul mercato.
Di contro vi è la limitata visibilità durante la scarica, l’irritazione delle vie aeree, dovute al
respiro di polveri durante l’uso, (se poco addestrati in locali chiusi), e l’essere sporchevole (le
microparticelle di polvere s’infiltrano dappertutto costringendo ad una pulizia meticolosa per
eliminarne ogni parte). Controindicati su apparecchiature delicate.
Per l’estinzione di incendi prodotti da sostanze chimiche è necessario usare delle polveri speciali.
L’azione estinguente delle polveri è prodotta dalla decomposizione delle stesse per effetto delle
alte temperature raggiunte nell’incendio, che dà luogo ad effetti chimici sulla fiamma con azione
inibente ed alla produzione di anidride carbonica ed acqua.
Si noti che la durata dell’effetto estinguente delle polveri è molto limitato: incendi
apparentemente spenti possono dar origine a nuove accensioni se non vi è stato un sufficiente
raffreddamento a causa di braci che possono rimanere sotto le polveri.
I gas inerti sono rappresentati da sostanze incombustibili gassose capaci di ridurre con la loro
presenza la concentrazione dell’ossigeno dell’aria al di sotto del limite oltre il quale non è più
possibile la combustione.
I gas inerti vengono utilizzati nel caso di incendi in ambienti chiusi dove generalmente si usa
anidride carbonica ede in minor misura l’azoto.
L’anidride carbonica non risulta tossica per l’uomo, è un gas più pesante dell’aria, perfettamente
dielettrico, normalmente conservata in recipienti a pressione allo stato liquido viene tuttora
utilizzata efficacemente su apparecchiature elettriche in tensione e su fuochi di classe B e C.
L’anidride carbonica, agendo sul comburente, è utilizzabile in qualsiasi tipo di incendio, fatta
eccezione per quelle sostanze che sono in grado, durante la combustione, di decomporla
sviluppando altro ossigeno (ad esempio le nitrocellulose).
Nel caso di incendi dovuti a sostanze gassose infiammabili, l’anidride carbonica garantisce
un’atmosfera inerte evitando il pericolo di esplosioni.
È in grado di produrre anche un’azione estinguente per raffreddamento, dovuta all’assorbimento
di calore generato dal passaggio dalla fase liquida alla fase gassosa.
Il brusco raffreddamento può provocare la formazione di una fase solida e quindi una limitazione
nella visibilità nell’ambiente. Una volta immessa nell’aria, l’anidride carbonica si sposta verso il
basso, lasciando gli strati superiori meno protetti e più esposti ad eventuali fenomeni di
riaccensione.
L’estintore emana anidride carbonica liquida, che espande al rilascio, trasformandosi subito al
contatto con l’atmosfera in “neve di anidride carbonica” (il cosiddetto ghiaccio secco), a
214
temperature di decine di gradi Celsius sotto zero: il brusco abbassamento di temperatura
( − 78 ° C ) e la forte sottrazione di ossigeno permettono di abbattere le fiamme con rapidità senza
lasciare residui (i cristalli di neve carbonica sublimano dopo poco tempo).
La neve si scioglie, sottraendo calore ai corpi in fiamme, e crea uno strato di anidride carbonica,
gas inerte più pesante dell’aria, che isola il combustibile dall’ossigeno comburente.
Relativamente abbondante e poco costosa, ha il grande vantaggio di non lasciare residui, essendo
un gas sostanzialmente inerte, e lo svantaggio di non prestarsi allo spegnimento di corpi di forma
complessa, come tessuti e simili, proprio per la proprietà di puro soffocamento.
L’impiego principale è su fuochi che interessano meccanismi delicati o preziosi, proprio per
l’assenza quasi totale di attività chimica e per l’assenza di residui.
Va usata con cautela in ambienti chiusi, a causa del suo effetto asfissiante.
Questi estintori di contro hanno una ridotta efficacia all’aperto, gittata limitata e nulla possono su
fuochi di classe A. Richiedono una minima attenzione durante l’uso, evitando di rimanere
asfissiati per deficienza di ossigeno o, possibilità attualmente remota, di ustionarsi per shock
termico.
Sono fortemente controindicati su fuochi di classe D per rischio esplosioni o reazioni violente e
su apparecchiature che risentano dello shock termico.
Gli idrocarburi alogenati furono tra i primi composti estinguenti usati negli estintori, alcuni
modelli vennero messi in commercio già nei primi del Novecento, riempiti di tetracloruro di
carbonio, successivamente rimpiazzati da agenti meno tossici e più efficaci.
Sono sostanzialmente dei derivati paraffinici alogenati, derivati da idrocarburi saturi in cui alcuni
atomi di idrogeno sono stati parzialmente o totalmente sostituiti con atomi di cloro, bromo,
fluoro (chiamati alogeni), con formula generica C n F m Cl p Brq .
La nomenclatura ed il relativo sistema di numerazione degli idrocarburi alogenati sono stati
proposti nel 1948 dai Corpi Armati Statunitensi di Ingegneria.
Il sistema identifica la composizione di un idrocarburo alogenato mediante un numero di cinque
cifre che rappresenta, nell’ordine, il numero di atomi di carbonio, fluoro, cloro, bromo e iodio
contenuti nella molecola. Gli eventuali zeri finali vengono eliminati. Così ad esempio l’Halon
1301 contempla 1 atomo di carbonio, 3 di fluoro, 0 di cloro,1 di bromo, e 0 di iodio, si ottiene
così la sigla 1301.
Quindi, l’Halon 1301 è un trifluoromonobromometano, l’Halon 1211 (nome commerciale BCF
BCF) è un difluoroclorobromometano, l’Halon 2402 (nome commerciale Fluobrene) è un
tetrafluorodibromoetano, il tetracloruro di carbonio C n Cl 4 è detto Halon 104, l’Halon 1301 è un
trifluoromonobromometano.
Hanno avuto un momento di successo tra il 1970 ed il 1990, per le loro caratteristiche di grande
efficacia di spegnimento ed assenza di residui.
I primi Halon utilizzati furono il bromuro di metile ( C n H 3 Br ) ed il tetracloruro di carbonio
(C
n
Cl 4 ) , sostituiti attualmente con altri con un grado minore di tossicità: bromotrifluorometano
( CBrF3 – Halon 1301), bromodifluorometano ( CHBrF 2 – Halon 1211), dibromotetrafluoroetano
( C Br F 2 C Br F 2 – Halon 2402).
Sono denominati commercialmente Halon (HALogenated – hydrocarbON) seguito da un numero
di 3 o 4 cifre rappresentanti il numero di atomi, nell’ordine, di carbonio, fluoro, cloro, bromo.
Gli idrocarburi alogenati sono conservati allo stato liquido e sono facilmente vaporizzabili, non
lasciano residui, sono dielettrici, non corrosivi, inalterabili ed allo stato vapore sono più pesanti
dell’aria.
La loro azione estinguente si esplica attraverso l’inibizione delle reazioni a catena che hanno
luogo nelle reazioni di combustione con fiamma (inibizione).
L’applicazione degli Halon ha avuto e conserva tuttora larga diffusione per i seguenti motivi:
215
grande capacità estinguente su fuochi di ogni classe modeste percentuali in aria per ottenere la
pratica inertizzazione di ambienti confinati, possibilità di utilizzo su apparecchiature elettriche in
tensione modesta tossicità e conseguente possibilità di impiego in ambienti con presenza di
persone, scarso danneggiamento di apparecchiature, anche delicate, a seguito di scariche assenza
di residui dopo l’intervento, disponibilità di standard internazionali di progettazione e collaudo.
Nonostante gli Halon abbiano ancora oggi larga diffusione, tuttavia già dal 1985 venne accertato
dalla Comunità scientifica internazionale che quelli contenenti il Bromo contribuiscono
fortemente alla distruzione dell’ozono stratosferico, in maniera ancora più marcata rispetto ai
clorofluorocarburi utilizzati nell’industria del freddo.
Per questo motivo la Legge italiana, recependo il regolamento C.E.E. 594/92, stabilisce che dal
1° gennaio 1994 non è più possibile autorizzare impianti ad Halon con scopi antincendio, mentre
per gli impianti esistenti spetterà al Ministero dell’Ambiente fissare le scadenze del loro utilizzo
attraverso appositi decreti.
In campo mondiale l’industria si sta adoperando molto nella ricerca di agenti estinguenti “puliti”
alternativi agli Halon.
Messi al bando in tutto il mondo per la forte attività antagonista alla formazione dello strato di
ozono stratosferico, a seguito dei protocolli di Montréal e di Copenhagen, sono stati sostituiti dai
cosiddetti H.C.F.C. (clorofluorocarburi idrogenati), di scarso successo perché molto costosi e
con limitata capacità estinguente ma non dannosi per l’alta atmosfera, come il
decabromodifeniletano.
L’estintore idrico, contenente una soluzione acquosa di prodotti schiumogeni denominati
A.F.F.F., acronimo di aqueous film forming foam, che uniscono il potere raffreddante dell’acqua
alle capacità soffocanti della schiuma.
Sono molto simili agli estintori a schiuma, variando nella composizione chimica e percentuale
dello schiumogeno e muniti di una lancia a “doccetta”, necessaria per migliorare la sottrazione di
calore.
Hanno impiego principale sui fuochi di idrocarburi (classe B), di tessili, carta e legno (classe A),
unendo l’attività raffreddante dell’acqua a quella isolante del film.
A causa dell’alto contenuto di acqua ( 97 % ) possono provocare danni ed incidenti durante l’uso
su apparecchiature elettriche (anche se gli estintori, mediante particolari accorgimenti, possono a
volte consentirne l’uso senza pericolo per l’operatore, entro determinati limiti di tensione e
distanza minima).
Inefficaci su fuochi di classe C, sono fortemente controindicati su quelli di classe D per sviluppo
di gas infiammabili o tossici.
Hanno gittata limitata ma in totale visibilità e tempo di scarica prolungato (qualche decina di
secondi).
7.5. Ulteriori estinguenti
Il pericolo per l’ozono stratosferico ha comportato la limitazione dell’uso degli Halon e di altri
idrocarburi alogenati la cui dispersione in atmosfera comporta un elevato rischio ambientale.
Per far fronte a tale limitazione le ricerche si sono indirizzate anche verso sistemi di ottimizzazione
dell’applicazione di sostanze estinguenti note quali:
acqua nebulizzata: realizzabile sia con mezzi fissi sia con attrezzature mobili mediante
l’erogazione con alta pressione; sono allo studio condizioni esatte di erogazione sia con acqua
allo stato puro sia con acqua additivata; l’uso di particolari additivi ne aumentano l’efficienza e
conseguentemente l’autonomia di intervento delle squadre di soccorso;
water mist: tecnica di erogazione di acqua additivata ad alta pressione; la finalità primaria è
aumentare l’efficienza di estinzione con forti riduzioni di acqua di dilavamento e di risorse
idriche necessarie; tale tecnologia è applicabile agli impianti fissi di estinzione;
twin agents: tecnica già in uso da diverso tempo che tende a garantire l’efficacia propria della
schiuma mediante l’azione simultanea della polvere chimica sulle fiamme sia durante la fase di
216
“attacco” sia durante quella di mantenimento contro l’inevitabile deterioramento termico.
È utilizzata negli ambiti aeroportuali mediante carrelli bibombola per schiuma e polvere.
La ricerca di alternative si è spinta fino alla valutazione di sostanze diverse dalle tradizionali quali
gli aerosol che sono estinguenti di natura pirotecnica.
Il prodotto primo sviluppante aerosol estinguente è il nitrato di potassio.
La distinzione tra i vari aerosol estinguenti esistenti è fondata sulla differente miscelazione del
“prodotto primo” con altre sostanze di ausilio.
Queste sostanze che caratterizzano le modalità di sviluppo e di azione, possono, se eccessive,
produrre composti tossici.
L’azione estinguente avviene principalmente per anticatalisi dei sali di potassio e carbonati, ma può
svilupparsi anche un’azione di soffocamento a seconda delle modalità di produzione dell’aerosol.
L’uso mediante mezzi portatili è stato verificato con esito negativo a causa del forte ed inevitabile
disturbo delle correnti convettive calde.
L’unico utilizzo oggi ipotizzabile è mediante impianti fissi a riempimento totale dell’ambiente da
proteggere.
Gli effettivi aspetti tossici sono ancora allo studio ma si pensa che, oltre ad una certa tossicità dei
componenti ausiliari, sia presente una tossicità di tipo fisico (possibile ingombro con eventuale
irritazione degli alveoli polmonari) ed una tossicità di tipo chimico, legata allo scioglimento nel
sangue delle piccolissime particelle di sali di potassio.
L’indubbia capacità estinguente, riscontrata con sperimentazioni puntuali, è oggi ancora allo studio
per regolamentarne l’effettiva utilizzazione ed installazione dei manufatti commercializzabili.
Per il momento sembra escluso l’uso in aree normalmente occupate.
7.6. Sostanze estinguenti e tipi di incendio
Ogni estintore riporta sull’etichetta una serie di informazioni, tra cui la o le classi di incendio per le
quali è utilizzabile e l’eventuale non utilizzabilità su apparecchi in tensione elettrica.
Classe di
incendio
Classe A
Classe B
Classe C
Classe D
Classe E
Acqua,
vapore
Schiuma
SI
NO
SI
NO
NO
SI
SI
NO
NO
NO
Tipologia di estinguente
Polvere
Polveri
Anidride
speciali
carbonica,
azoto
SI
NO
SI
SI
SI
NO
SI
NO
SI
NO
SI
NO
NO
NO
SI
Gas
alogenati
SI
SI
SI
NO
NO
Attenzione: non utilizzare estintori ad acqua, a schiuma su apparecchiature elettriche e/o
elettroniche.
8. Estintori
8.1. Generalità
Gli estintori sono mezzi mobili di estinzione, da usare per un pronto intervento su principi
d’incendio.
In particolare, un estintore è un apparecchio contenente un agente estinguente che può essere
proiettato e diretto su un fuoco grazie alla pressione di un propellente gassoso.
La pressione può essere fornita da una compressione preliminare permanente, da una reazione
chimica o dalla liberazione di un gas ausiliario.
L’agente estinguente è il complesso dei prodotti contenuti nell’estintore, la cui azione provoca
l’estinzione del focolaio.
217
Si intende per carica d’un estintore la massa od il volume dell’agente estinguente contenuto
all’interno dell’estintore.
Dal punto di vista quantitativo, la carica degli apparecchi a base di acqua si esprime in volume (litri)
e quella degli altri apparecchi in massa (chilogrammi).
Gli estintori, che costituiscono i mezzi estinguenti più usati per il primo intervento su di un
incendio, si suddividono in portatili e carrellati.
I primi sono più leggeri, essendo concepiti per un utilizzo a mano, mentre gli altri sono impiegati
nel caso sia necessario disporre di una maggior capacità estinguente e, comunque, mai da soli.
Le principali categorie di estintori sono le seguenti:
estintori ad acqua;
estintori a schiuma;
estintori a polvere, caricati con polveri di varia natura (generalmente miscele di bicarbonato di
sodio e materiali inerti) insieme a gas propellenti quali anidride carbonica od azoto;
estintori ad anidride carbonica;
estintori ad idrocarburi alogenati.
I tipi di estintori di più comune in uso sono quelli a polvere e quelli ad anidride carbonica, in quanto
sono indicati per quasi tutti i tipi d’incendio.
Recentemente è stato vietato l’uso degli estintori ad idrocarburi alogenati in quanto tali composti
sono risultati dannosi per l’ozono dell’atmosfera; al loro posto sono impiegati agenti sostitutivi che
conservano circa le stesse proprietà e sono, di conseguenza, idonei per le medesime tipologie
d’incendio.
Su ogni estintore deve essere applicata un’etichetta raffigurante i simboli delle classi d’incendio per
cui l’estintore è predisposto, onde non incorrere nel pericolo di un uso improprio di tale dispositivo.
L’etichetta deve contenere inoltre chiare e semplici istruzioni per l’uso, precisazioni sulle
condizioni d’utilizzo, eventuale contrassegno distintivo a non intervenire su apparecchiature
elettriche in tensione, i nomi della ditta costruttrice e della ditta manutentrice.
Per norma gli estintori devono essere rossi; qualora l’agente estinguente sia un gas compresso, la
parte superiore dell’estintore deve essere verniciata nel colore distintivo del gas (ad esempio grigio
nel caso di CO 2 ).
La scelta dipende da diversi fattori, come le caratteristiche costruttive del fabbricato, la tipologia ed
il numero degli occupanti e dal materiale che, presumibilmente, può bruciare.
Vanno usati soltanto su principi di incendio localizzati e comunque se si è ricevuta adeguata
istruzione.
Gli estintori si possono classificare secondo principio di funzionamento, sistema di propulsione,
trasportabilità, carica di agente estinguente, metodo di impiego.
8.2. Tipologie di estintori
Esistono due tipologie di estintori:
Estintore portatile: apparecchio contenente un agente estinguente;
Estintore carrellato: estintore trasportato su ruote di massa superiore a 20 kg e contenuto
estinguente sino a 150 kg .
8.3. Classi di fuoco
Il parametro atto ad identificare le caratteristiche di un estintore è la capacità estinguente più che il
peso ed il contenuto dello stesso.
La classe di fuoco è un volume o dimensione nominale di combustibile, di un certo tipo che
l’estintore riesce a spegnere. Le classi sono definite:
• come volume di liquido in vasche di dimensioni standard, per i fuochi di combustibile liquido;
• come lunghezza in decimetri di una catasta di quadrotti di legno di una dimensione definita, per
i fuochi di combustibili solidi.
218
Le dimensioni sopra descritte sono standardizzate, e seguono la successione di Fibonacci: 1 2 3 5 8
13 21 (27) 34 (43) 55 (70) 89 (113) 144 (183) 233, dove i valori 1, 2 e 3 non vengono usati, e i
valori 5 e 43 sono usati solo per i fuochi di tipo A.
I valori 27, 43, 70, 113 e 183, che non sono elementi dalla successione di Fibonacci, sono stati
mantenuti per tradizione.
Sugli estintori è presente un’etichetta sulla quale sono presenti una serie di indicazioni e di
pittogrammi, numeri seguiti dalle lettere A, B, C che indicano la capacità estinguente.
Ad esempio un estintore di classe 21A144B, se utilizzato con perizia ed in condizioni standard, è in
grado di spegnere un fuoco di una catasta di legno di dimensioni unificate, lunghezza pari a
2100 mm , tale da assumere la classe 21A (maggiori dimensioni di catasta spenta implicano un
numero maggiore nella classe di appartenenza) e quello generatosi in un contenitore “unificato” di
forma circolare contenente all’interno una miscela di acqua e combustibile ben precisa, 144 litri di
liquido (parte inferiore acqua, superiore n – eptano), tale da fargli assumere la classe 144B.
Non sono invece definite classi per i fuochi di tipo C: le norme richiedono unicamente la capacità di
interrompere la fiamma generata da un bruciatore di G.P.L. di dimensioni standard, senza
distinguere dimensioni od altre grandezze.
L’estintore sopra citato, se in grado di estinguere il fuoco standard di gas, avrà designazione
21A144BC.
I fuochi di tipo D non sono definiti dalle norme, mentre per il tipo E viene unicamente definita una
prova dielettrica che dimostri la capacità di non condurre elettricità da una sorgente elettrica
all’operatore dell’estintore.
Ad esempio, un buon estintore a polvere polivalente da 6 kg di massa estinguente avrà classe
34A233B; un buon estintore ad anidride carbonica da 5 kg classe 113B; l’estintore per
l’autovettura, se estingue solo i fuochi di benzina, 55B o, se è in grado di estinguere anche fiamme
provenienti dalla tappezzeria o selleria, 8A55B.
Nel caso di estintori di grandi dimensioni di tipo carrellato, pur mantenendo la stessa definizione
per i tipi di fuoco, le classi sono definite in modo diverso.
In considerazione delle grandi capacità, si considera per i fuochi di tipo A solo la capacità di
estinguere un fuoco di legna di determinate dimensioni entro un tempo massimo, e per i fuochi di
liquidi il tempo di estinzione di una vasca da 233 litri.
Si avranno quindi designazioni del tipo A – B1, che mostrano che l’estintore è in grado di spegnere
sia la catasta di legno sia la vasca, e questa in un tempo breve, B2 significa un tempo più lungo, e
così via; ovviamente un estintore B1 è preferibile ad un B2.
Tipo di rischio e superficie coperta
Rischio medio
Rischio elevato
Tipo estintore
13 A 89 B
Rischio basso
100 m 2
21 A 113 B
150 m 2
100 m 2
34 A 144 B
200 m 2
150 m 2
100 m 2
55 A 233 B
250 m 2
200 m 2
200 m 2
8.4. Classificazione per principio di funzionamento
In base al principio di funzionamento gli estintori si distinguono in:
a separazione o soffocamento;
a diluizione;
a disgregazione;
a raffreddamento;
ad inibizione della reazione chimica;
219
8.5. Classificazione per tipo di propellente
La quasi totalità degli estintori espelle l’agente estinguente mediante l’utilizzo di gas propellenti.
Non vengono infatti considerati estintori gli apparecchi come gli spruzzatori d’acqua a pompa,
anche utilizzati nello spegnimento dei fuochi boschivi (alcuni di essi, in effetti, pompano aria che
espelle l’acqua, e quindi ricadono nel caso precedente).
Alcuni agenti estinguenti sono autopropulsori, ed il caso tipico (e praticamente l’unico) è l’anidride
carbonica, che viene conservata in bombole ad alta pressione allo stato liquido (purché si resti al di
sotto della temperatura critica).
Poiché a pressione atmosferica ed a temperature ordinarie l’anidride carbonica è allo stato gassoso,
la stessa – che è anche l’agente estinguente – esce dall’estintore per semplice differenza di
pressione. Tutti gli altri agenti estinguenti, invece, necessitano di un gas propellente.
Benché venga spesso usata l’aria, che contiene il comburente ossigeno, come propellente (pratica
consentita dalle norme), i migliori propellenti sono ovviamente i gas inerti, e tra questi vengono
utilizzati l’azoto ed, ancora, l’anidride carbonica; molto raramente elio e argon; l’elio viene talvolta
utilizzato usando la semplicità del suo tracciamento per via spettroscopica allo scopo di rivelare
fughe in fase di costruzione o manutenzione.
In genere, l’azoto o l’aria vengono utilizzati a contatto permanente con l’agente estinguente
(estintori a pressione permanente o pressurizzati), mentre l’anidride carbonica è spesso conservata
in bombolette chiuse e messa in contatto con l’agente estinguente solo immediatamente prima
dell’uso (estintori a bombolina interna/esterna).
Ciascuno dei due sistemi ha i propri vantaggi e svantaggi: in linea di massima, gli estintori a
bombolina permettono di non avere contenitori sottoposti a pressione in posizioni atte a ricevere urti
(vi è ad esempio un rischio potenziale per estintori montati su mezzi mobili, quali autocarri e simili,
benché le norme richiedano particolari verifiche per scongiurare il pericolo).
D’altra parte, l’estintore a pressione permanente è di costruzione più semplice (e quindi più sicura)
e meno costoso.
In passato sono stati utilizzati come propellenti gas liquefatti in pressione, in particolare il Freon 11
ed il Freon 12 – spesso in miscela – che avevano il vantaggio di essere praticamente inerti od
addirittura debolmente estinguenti, conservabili a bassa pressione e quindi utilizzabili con serbatoi
commerciali di grandissima diffusione (e basso costo) come le bombolette spray.
Negli anni ’70 vi è stata grande produzione di estintori di questo tipo, con agente estinguente
polvere od, in seguito, Halon.
La messa al bando dei Freon (e degli Halon), inibitori della formazione di ozono, e l’introduzione di
norme che hanno regolato il mercato, una volta selvaggio, degli estintori, ne hanno in pratica
decretato la fine.
Vi è infine la possibilità teorica di azionamento dell’estintore con gas propellente generato da
cariche esplosive di tipo pirotecnico, sul modello di pressurizzazione degli airbag ma sono tuttora
allo stato sperimentale.
8.6. Classificazione per trasportabilità
Una caratteristica importante dell’estintore è la trasportabilità.
Le cariche standard devono essere compatibili con l’utilizzabilità dell’estintore; è evidente che non
si può concepire un estintore di massa elevata utilizzato da un bambino o da una persona in qualche
modo incapacitata.
Le norme EN3, in relazione alla massa complessiva dell’estintore, distinguono due tipologie:
estintore portatile: estintore concepito per essere portato ed utilizzato a mano e che, pronto
all’uso, ha una massa minore o uguale a 20 kg (Decreto Ministeriale del 07.01.2005).
Il suddetto parametro nasce dal fatto che l’estintore portatile è concepito per essere portato ed
utilizzato a mano da un singolo operatore.
Un eccessivo peso dell’estintore comporterebbe naturalmente difficoltà operative nell’azione di
estinzione.
220
A tale scopo le norme obbligano a dotare gli estintori portatili di maniglie di sollevamento per un
agevole trasporto, e basi di appoggio per un sicuro deposito.
estintore carellato: estintore trasportato su ruote di massa totale maggiore di 20 kg e contenente
estinguente fino a 150 kg (Decreto Ministeriale del 06.03.92).
Oltre il limite di 20 kg (che in pratica limita la massa della carica estinguente a 12 kg per
polvere, acqua e derivati, e a 5 kg per l’anidride carbonica a causa della bombola ad alta
pressione), gli estintori sono in genere dotati di ruote in grado di consentirne il movimento a
spinta o traino (in genere a mano); le norme in vigore ed in preparazione ne comportano
l’obbligo.
Gli estintori di questo tipo vengono definiti carrellati, ed hanno massa complessiva non
eccedente i 100 ÷ 125 kg , oltre tale valore, si provvedono in genere gli apparecchi di sistemi di
traino motorizzato, realizzando in pratica dei piccoli rimorchi, spesso omologati per uso stradale.
Hanno le medesime caratteristiche funzionali degli estintori portatili ma, a causa delle maggiori
dimensioni e peso, presentano una minore praticità d’uso e maneggevolezza connessa allo
spostamento del carrello di supporto. La loro scelta può essere dettata dalla necessità di disporre
di una maggiore capacità estinguente e sono comunque da considerarsi integrativi di quelli
portatili.
8.7. Classificazione per metodo di impiego
Le norme in vigore definiscono l’estintore come un apparecchio a comando manuale.
Nell’uso comune, ed in accordo alla definizione qui sopra data, si possono considerare estintori
anche altri modelli.
Si possono quindi definire:
• estintori manuali quelli che richiedono l’azionamento di dispositivi posti sull’estintore stesso o
su parti ad esso collegate stabilmente;
• estintori ad azionamento remoto quelli che possono essere comandati a distanza;
• estintori automatici quelli che sono azionati dal verificarsi di particolari cause (tipicamente
l'aumento di temperatura).
Gli estintori ad azionamento remoto, impiegati in genere in zone di difficile accesso, possono essere
comandati tramite sistemi di tiranti e rinvii (che però ne limitano la distanza di possibile
azionamento), o mediante cariche pirotecniche che, di solito, causano la rottura di dischi ciechi con
conseguente espulsione dell’agente estinguente.
Gli estintori automatici intervengono autonomamente al verificarsi di particolari condizioni.
La quasi totalità di questi ha sistemi di chiusura dotati di apparecchiature sensibili alle temperature;
nei casi più comuni, fiale di vetro riempite da miscele di alcoli che cambiano stato fisico a
temperature esattamente definite, facendo così esplodere la fialetta, oppure barrette costituite da due
differenti metalli accoppiati la cui diversa dilatazione fa sì che a temperature definite queste
cambino forma di scatto (bimetalli); in ambedue i casi si libera un otturatore la cui caduta consente
l’espulsione dell’agente estinguente attraverso un apposito orifizio.
È possibile combinare le due caratteristiche, ottenendo estintori automatici con possibilità di
azionamento remoto. In tal caso, la soluzione tipica è rappresentata da una valvola con fialetta
termolabile e comando per la sua rottura ad azione meccanica, tramite un percussore azionato dalla
cartuccia pirotecnica e/o da un sistema a tirante.
I modelli ad azionamento remoto e/o automatico sono impiegati in zone di difficile accesso o non
presidiate; ad esempio le centrali termiche ed i vani motore delle navi.
Alcuni modelli sono appositamente concepiti per la protezione dei quadri elettrici, degli armadi
contenenti sostanze infiammabili e dei vani motore di autovetture e mezzi pesanti. Sono obbligatori,
ad esempio, sulle vetture di Formula 1.
221
8.8. Classificazione per carica di agente estinguente
Estinguente/
Massa
1 kg o dm 3
Anidride
Polvere
Idrico Schiuma
Carbonica
Si
No
No
No
Clean
Agente
Halon
Note
Si
Per
autovetture
e
piccole
imbarcazioni, di limitata efficacia
Si
Si
Si
Si
Si
Dimensione generalmente usata per
estintori ad anidride carbonica,
valgono le stesse condizioni del
precedente
3 kg
Si
No
Si
No
No
Per autovetture, imbarcazioni
veicoli commerciali leggeri
4 kg
Si
No
No
No
Si
Come il precedente
5 kg
No
Si
No
No
No
Dimensione unicamente usata per gli
estintori ad anidride carbonica
2 kg o dm
3
e
3
Si
No
Si
Si
Si
Il più comune, presenta buona
maneggevolezza e capacità di
spegnimento
9 kg o dm 3
Si
No
Si
Si
No
Facilmente reperibile, capacità di
spegnimento migliore rispetto al
precedente (a parità di estinguente)
12 kg
Si
No
No
No
No
Come sopra ma di migliore capacità,
indicato per grossi impianti
18 kg
No
Si
No
No
No
Carrellato,
esclusivamente
anidride carbonica
ad
27 kg
No
Si
No
No
No
Carrellato,
esclusivamente
anidride carbonica
ad
30 kg
Si
No
No
No
No
Carrellato, esclusivamente a polvere
50 kg o dm 3
Si
No
No
Si
No
Carrellato, utilizzato
sistemi Twin Agents
54 kg
No
Si
No
No
No
Carrellato,
esclusivamente
ad
anidride carbonica (bibombola 2 x
27 kg o monobombola da 54 kg)
100 kg o dm 3
Si
No
No
Si
No
Carrellato, utilizzato
sistemi Twin Agents
6 kg o dm
anche
anche
in
in
Gli estintori carrellati “Twin Agents” vengono adottati in luoghi ad altissimo rischio d’incendio,
dove è richiesto un veloce e potente abbattimento delle fiamme in tempi brevi.
Questa tipologia di estintori è formata da un carrello che sostiene tre bombole, due di estinguente di
pari capacità (una di schiuma e una di polvere) e l’altra di azoto, più piccola, per pressurizzare le
bombole solo al momento dell’uso.
Il tutto termina con un doppio tubo attaccato ad una speciale lancia combinata.
Gli estintori possono suddividersi in due tipologie, già pressurizzati (denominati a “pressione
permanente”) od in versione da pressurizzare al momento dell’uso attraverso una bombolina di
propellente (estintori a “pressione ausiliaria”).
Questa classificazione non vale per gli estinguenti a pressione propria, come il biossido di carbonio,
dove lo stesso estinguente è presente anche in fase gassosa.
222
Negli estintori portatili la bombolina è caricata con biossido di carbonio e può essere interna od
esterna al serbatoio, mentre i carrellati a pressione ausiliaria sono equipaggiati con una piccola
bombola esterna di azoto.
Oltre agli estintori propriamente detti, ovvero portatili e carrellati, esistono unità estinguenti con
cariche superiori, ma si tratta in genere di mezzi semoventi o su rimorchio, quindi non classificabili
come estintori.
Le unità estinguenti possono essere integrate all’interno degli automezzi antincendio.
8.9. Normative vigenti
Gli estintori sono in genere sottoposti ad approvazione di organismi ufficiali, che verificano la
corrispondenza a precise norme di riferimento.
Per gli estintori portatili, in Europa si applicano le norme EN 3, più volte aggiornate. In sostanza, le
norme EN 3 stabiliscono che l’estintore debba avere alcune caratteristiche fondamentali:
identificabilità di tipo, agente estinguente, uso, efficacia, per cui richiedono la presenza di
un’etichetta esplicativa che riporti i pittogrammi identificativi dei tipi di fuoco su cui l’estintore è
utilizzabile, il tipo di agente estinguente e le classi ottenibili, oltre al già citato colore rosso (RAL
3000);
semplicità ed adattabilità d’uso, per cui l’estintore deve avere evidenti metodi di azionamento,
non richiedere azioni ripetute ed, oltre una certa massa, essere dotato di una manichetta che ne
consente il facile brandeggiamento;
sicurezza di esercizio, per cui tutte le parti sottoposte a pressione devono sottostare a particolari
prescrizioni;
efficacia, per cui un estintore di massa determinata deve soddisfare delle classi di fuoco minime.
Sostanzialmente equivalenti alle norme EN 3 sono le I.S.O. 7165, di origine statunitense, che però
impongono caratteristiche e prove diverse.
Gli estintori carrellati sono meno definiti dei portatili, essendo evidentemente di uso più
specialistico.
Non esistono norme generali per gli estintori trainabili, salvi naturalmente gli aspetti relativi alla
sicurezza dei recipienti in pressione ed eventualmente di corrispondenza alle normative dei mezzi di
trasporto.
In Italia l’ultimo Decreto in merito è il Decreto 7 gennaio 2005 – Norme tecniche e procedurali per
la classificazione ed omologazione di estintori portatili di incendio, pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana n. 28 del 4 febbraio 2005; tramite il quale è avvenuto il
recepimento della Norma EN 3 – 7.
8.10. Manutenzione degli estintori
Gli estintori, come anche tutti i dispositivi e le attrezzature antincendio, devono essere mantenuti in
efficienza e controllati nel rispetto di quanto previsto dalle disposizioni legislative e dai regolamenti
vigenti, dalle norme di buona tecnica emanate dagli organismi di normalizzazione nazionali od
europei od in assenza di dette norme delle istruzioni fornite dal produttore come previsto dal
Decreto Ministeriale n. 64 del 10/03/1998 all’art. 4.
Secondo il Decreto Legislativo 81/2008 allegato IV art. 4.1.3, i mezzi di estinzione degli incendi, in
particolare gli estintori portatili, devono essere mantenuti in efficienza e controllati almeno una
volta ogni sei mesi da personale esperto..
La manutenzione degli estintori è regolamentata dalla norma nazionale U.N.I. 9994: 2003, la quale
dà delle chiare indicazioni sulle attività di manutenzione degli estintori che devono essere effettuate.
In particolare indica metodi e fasi che vanno oltre il semplice controllo semestrale previsto dal
Decreto Legislativo 81/2008 Allegato IV art. 4.1.3.
Sinteticamente, è possibile riassumere le varie fasi della manutenzione:
Sorveglianza: Consiste nell’esecuzione, da parte di personale interno all’azienda, di alcuni
223
accertamenti: l’estintore sia presente e segnalato con apposito cartello; l’estintore sia
chiaramente visibile, immediatamente utilizzabile e l’accesso allo stesso sia libero da ostacoli;
l’estintore non sia manomesso; i contrassegni distintivi siano esposti a vista e siano ben leggibili;
l’indicatore di pressione (se presente) indichi un valore di pressione compreso all’interno del
campo verde; l’estintore non presenti anomalie (ugelli ostruiti, perdite, tracce di corrosione,
sconnessioni, etc.); l’estintore sia esente da danni alle strutture di supporto ed alla maniglia di
trasporto; se carrellato abbia le ruote funzionanti; il cartellino di manutenzione sia presente
sull’apparecchio e compilato correttamente. Tutte le eventuali anomalie riscontrate devono
essere subito segnalate alle figure appositamente incaricate per una tempestiva eliminazione.
Controllo: Consiste nell’esecuzione, da parte di personale esterno specializzato e riconosciuto e
con frequenza semestrale, di una verifica dell’efficienza dell’estintore tramite una serie di
accertamenti tecnici specifici a seconda del tipo di estintore. Il controllo deve essere effettuato
sia attraverso operazioni previste nella sorveglianza e sia con una verifica fisica della consistenza
dell’estintore e dei suoi componenti. Deve essere effettuato l’accertamento delle condizioni
interne di pressurizzazione mediante, a seconda del caso, verifica della pressione indicata
(pressurizzati permanentemente esclusi quelli a biossido di carbonio) oppure pesatura (a biossido
di carbonio – CO 2 ). Deve essere firmato e datato un cartellino.
Revisione: Consiste nell’esecuzione, da parte di personale esterno specializzato e riconosciuto di
una serie di accertamenti ed interventi per verificare e rendere perfettamente efficiente
l’estintore.
Tra questi interventi (tutti elencati all’art. 5.3 delle norme U.N.I. 9994: 2003) è inclusa la ricarica
e/o sostituzione dell’agente estinguente presente nell’estintore (polvere chimica, CO 2 , schiuma,
etc.).
In particolare gli estintori devono essere verificati sia esternamente sia internamente, comprese le
eventuali ostruzioni nei tubi flessibili, nel pescante e negli ugelli liberandoli eventualmente
anche da eventuali incrostazioni, nonché verificare la taratura dei dispositivi di sicurezza.
In fase di revisione i ricambi devono far conservare all’estintore la conformità al prototipo
omologato ed essere garantiti all’utilizzatore a cura del manutentore.
L’agente estinguente utilizzato deve essere conforme sia a quello previsto per il prototipo
omologato e sia alla regola dell’arte applicabile.
Gli estintori devono comunque essere ricaricati anche quando siano usati parzialmente o
totalmente scaricati. In caso di subentro a diverso manutentore, il nuovo manutentore ha diritto
di procedere alla “revisione” indipendentemente dalla periodicità precedentemente stabilita.
Deve essere firmato e datato un cartellino.
La frequenza della revisione e, quindi, della ricarica e/o sostituzione dell’agente estinguente
dipende dalla tipologia dell’estintore e parte dalla prima data di carica.
In particolare:
estintori a polvere chimica: 36 mesi (3 anni);
estintori a CO 2 : 60 mesi (5 anni);
estintori a schiuma: 18 mesi;
estintori alogenati: 72 mesi.
Collaudo: Consiste in una misura di prevenzione atta a verificare, da parte di personale esterno
specializzato e riconosciuto, la stabilità dell’involucro metallico tramite prova idraulica
verificando che lo stesso non subisca deformazioni.
La frequenza dell’operazione dipende dal tipo di estintore e dalla data di costruzione:
estintori a CO 2 sono sottoposti alle Direttive I.S.P.E.S.L. per le bombole di gas compressi:
frequenza stabilita dalla legislazione vigente in materia di gas compressi e liquefatti, collaudo
decennale con punzonatura del serbatoio;
altri estintori conformi alla Direttiva 97/23/C.E. (cioè marcati C.E.): frequenza del collaudo
12 anni;
224
altri estintori non conformi alla Direttiva 97/23/C.E. (cioè non marcati C.E.): frequenza del
collaudo 6 anni.
In quest’ultimo caso si esegue il collaudo alla pressione di 3.5 MPa , nei casi precedenti si fa
riferimento alla pressione di collaudo riportata sul serbatoio o bombola.
La data di collaudo e la pressione di prova devono essere riportate sull’estintore in modo ben
leggibile, indelebile e duraturo.
8.11. Cartellino di Controllo e Manutenzione
Il cartellino può essere strutturato in modo da poter essere utilizzato per più interventi e per più
anni, sullo stesso devono essere obbligatoriamente riportati: numero di matricola o altri estremi
identificativi dell’estintore; ragione sociale ed indirizzo completo ed altri estremi di identificazione
del manutentore; massa lorda dell’estintore; carica effettiva; tipo di fase effettuata; data dell’ultimo
intervento effettuato (mese/anno formato mm/aa); firma leggibile o punzone identificativo del
manutentore.
8.12. Riconoscimento
Sugli estintori fabbricati in Italia non vi sono simboli di riconoscimento o scritte per determinare
dalla distanza il tipo di estinguente contenuto (marcatura presente invece in altri Paesi come ad
esempio gli Stati Uniti e l’Inghilterra).
In linea di massima si possono riconoscere a distanza gli estintori dalla loro manichetta od
erogatore.
8.11. Durata dell’estintore
La durata di funzionamento è il tempo durante il quale si verifica la completa proiezione dell’agente
estinguente, senza interruzioni, con la valvola di intercettazione completamente aperta, non tenendo
conto dell’emissione del gas residuo. L’importanza di una durata minima esigibile è fondamentale,
infatti una buona durata di funzionamento può determinare l’estinzione immediata di un principio
d’incendio.
Comunque è importante non superare di molto la durata minima, per non perdere potenza nel getto
iniziale fondamentale per l’attacco al principio d’incendio.
Per Legge ogni estintore deve avere, in base alla quantità di estinguente contenuto, una durata
minima di funzionamento:
Quantità di estinguente contenuto
fino a 3 kg
3 ÷ 5 kg
6 ÷ 10 kg
oltre 10 kg
Durata
6 secondi
9 secondi
12 secondi
15 secondi
In realtà gli estintori durano di più dei tempi citati, anche se l’ordine di grandezza resta quello dei
secondi.
Gli estintori devono essere utilizzati per principi di incendio, cioè per piccoli focolai che se colti
sul nascere sono facili da spegnere.
9. Procedure da adottare in caso di incendio
9.1. Procedure da adottare quando si scopre un incendio
Le procedure da adottare in caso di incendio sono differenziate, dipendono soprattutto dall’entità
del pericolo insorto, dalla presenza di persone a rischio, dalla tipologia dell’ambiente di lavoro,
ufficio e/o studio, vicinanza e/o presenza di deposito di infiammabili o sostanze pericolose,
225
presenza di apparecchiature o macchinari anche molto costosi, etc.
In generale comunque tutte le situazioni che nascono al momento dell’avvistamento di un incendio,
sono accomunate dall’adozione delle medesime procedure:
comportarsi secondo le procedure prestabilite (ove esistono);
se si tratta di un principio di incendio, valutare bene la situazione di pericolo analizzando se
esiste la possibilità di estinguere immediatamente l’incendio con mezzi a portata di mano;
non tentare di iniziare lo spegnimento con i mezzi portatili se non si è sicuri di riuscirvi;
dare immediatamente l’allarme;
intercettare le alimentazioni del gas, dell’energia elettrica, etc.;
limitare la propagazione del fumo e dell’incendio chiudendo le porte di accesso e/o di
compartimentazione dei locali;
iniziare l’opera di estinzione solo con la garanzia di una via di fuga sicura alle proprie spalle e
con l’assistenza di altre persone;
se necessario, iniziare le procedure di evacuazione ed accertarsi che l’edificio venga evacuato;
se necessario, chiamare i Vigili del Fuoco;
se non si riesce a mettere sotto controllo l’incendio in breve tempo, portarsi all’esterno
dell’edificio e dare adeguate indicazioni alle squadre dei Vigili del Fuoco.
9.2. Procedure da adottare in caso di allarme e modalità di evacuazione
In caso di allarme, il personale deve attenersi a quanto previsto dal piano di emergenza (ove esiste)
e, comunque, rispettare le seguenti disposizioni:
mantenere la calma;
interrompere immediatamente ogni attività;
lasciare tutto l’equipaggiamento (non preoccuparsi dei documenti, macchinari, attrezzature, etc.);
ricordarsi di non spingere, non gridare, non correre e non trasmettere il panico ad altre persone;
seguire le vie di fuga indicate10;
prestare assistenza a chi si trova in difficoltà, ma solo se c’è la garanzia di riuscire nell’intento;
allontanarsi immediatamente e raggiungere la zona di raccolta assegnata;
non rientrare nell’edificio fino a quando non viene ripristinata la situazione di normalità.
Negli edifici sprovvisti di ascensori antincendio, il loro utilizzo in caso di emergenza è VIETATO,
in quanto l’uso di un ascensore “normale” potrebbe, oltre che non consentire l’esodo per
interruzione dell’energia elettrica, causare un maggior danno alle persone per diversi motivi, come
il soffocamento degli occupanti a causa del fumo, la morte dovuta alla trasmissione delle fiamme,
etc…
A questo punto, occorre sottolineare che la conoscenza dell’ambiente è il presupposto fondamentale
per mettere in atto correttamente il piano di evacuazione.
Alla luce di ciò è necessario che il personale tenga bene a mente:
le caratteristiche spaziali e distributive dell’edificio (utilizzando per esempio le planimetrie);
i luoghi in cui si possono verificare situazioni di pericolo;
le strutture e gli impianti di sicurezza (scale, uscite di sicurezza, estintori, idranti, etc.);
i luoghi sicuri in cui è possibile trovare rifugio (cortili interni o esterni, etc.).
9.3. Chiamata dei soccorsi
Una buona gestione dell’emergenza non può prescindere da una corretta attivazione delle squadre di
soccorso.
Infatti, una volta individuata la persona incaricata della diramazione dell’allarme, occorre
predisporre uno schema con le corrette modalità d’intervento.
Nella richiesta di soccorso non devono mancare i seguenti dati:
l’indirizzo ed il numero di telefono dell’azienda;
10
Nel seguire le vie di esodo, è importante percorrere i percorsi segnalati da apposita cartellonistica: corridoi e scale.
226
il tipo di emergenza in corso;
le persone coinvolte ed i feriti;
il reparto interessato;
lo stadio a cui è l’evento (in fase di sviluppo, stabilizzato, etc.);
altre indicazioni particolari;
indicazioni sul percorso.
9.4. Rapporti con i Vigili del Fuoco
Le squadre dei Vigili del Fuoco sono addestrate ad operare in condizioni di emergenza e pertanto
sono semplicemente abituate a prendere decisioni in condizioni di emergenza, di stress e spesso
anche di panico collettivo.
In generale, supponendo che la squadra degli addetti antincendio della struttura sia riuscita ad
applicare al meglio le procedure di evacuazione e si trovi all’esterno nei punti di raccolta, al
momento dell’arrivo dei VVF i suoi compiti possono considerarsi finiti.
Il modo migliore per collaborare con i VVF durante le loro operazioni di spegnimento
dell’incendio, è quello di fornire loro tutte le informazioni utili per metterli a conoscenza dei luoghi,
delle situazioni di ulteriore pericolo, etc.
Nel caso in cui l’incendio sia sufficientemente ristretto ad una zona ed ivi limitato, un’ottima
attività di collaborazione con i Vigili del Fuoco è quella di andare a controllore nelle altre zone, non
coinvolte dall’incendio, ma ad esso prossime, che le persone siano evacuate, che le porte di
compartimentazione siano chiuse, che le utenze a maggior rischio siano state intercettate, etc.
9.5. Il piano di emergenza per l’incendio
Contiene quelle informazioni che servono per mettere in atto i primi comportamenti e le prime
manovre permettendo di ottenere nel più breve tempo possibile i seguenti obiettivi:
salvaguardia ed evacuazione delle persone;
messa in sicurezza degli impianti di processo;
compartimentazione e confinamento dell’incendio;
protezione dei beni e delle attrezzature;
estinzione completa dell’incendio.
Scopo del piano di emergenza è consentire la migliore gestione possibile degli incidenti ipotizzati,
determinando delle sequenze di azioni che sono ritenute le più idonee al fine di controllare le
conseguenze dell’incidente stesso.
Le scuole di ogni ordine, grado e tipo, collegi accademie e simili per oltre 100 persone presenti,
ricadono nella disciplina del Decreto Ministeriale del 16 febbraio 1982, quindi sono soggette alle
visite ed ai controlli di prevenzione incendi da parte dei Comandi Provinciali dei Vigili del Fuoco e
debbono rispettare le norme tecniche di prevenzione incendi nell’edilizia scolastica.
227
13. Movimentazione manuale dei carichi
(DECRETO LEGISLATIVO 81/08 TITOLO VI – CAPO I – Artt. 167-169 – Allegato XXXIII)
Premessa
Per movimentazione manuale dei carichi (M.M.C.) si intendono le attività lavorative che
comportano per i lavoratori rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in particolare dorso –
lombari per le operazioni di trasporto o di sostegno di un carico ad opera di uno o più lavoratori,
comprese le azioni del sollevare, deporre, spingere, tirare, portare o spostare un carico, poste in
relazione alle caratteristiche del carico o alle condizioni ergonomiche sfavorevoli.
Il carico può essere animato (una persona od un animale) od inanimato (un oggetto).
Pur essendo recentemente diminuita a 25 % , la percentuale di lavoratori nell’Unione Europea che
riferiscono di compiere operazioni di trasporto o movimentazione di carichi, continua a rimanere
alta ( 34.5 % ) e raggiunge il 38 % nei 10 nuovi Stati membri.
1. Movimentazione manuale dei carichi e salute dei lavoratori
La movimentazione manuale di carichi può essere causa di:
disturbi cumulativi dovuti alla graduale usura cumulativa dell’apparato muscolo – scheletrico,
riconducibile ad operazioni continue di sollevamento o movimentazione (per esempio, dolori
muscolo – scheletrici, dorso – lombari, usura dei dischi intervertebrali, ernia del disco, etc.);
traumi acuti quali ferite o fratture in seguito ad infortuni.
Il mal di schiena è uno dei principali disturbi professionali riferiti nell’U.E. ( 23.8 % ) ; il numero di
lavoratori colpiti da questi disturbi è significativamente più alto ( 38.9 % ) nei nuovi Stati membri.
Le affezioni cronico – degenerative della colonna vertebrale sono di frequente riscontro presso
collettività lavorative dell’agricoltura, dell’industria e del terziario.
Esse, sotto il profilo della molteplicità delle sofferenze e dei costi economici e sociali indotti
(assenze per malattia, cure, cambiamenti di lavoro, invalidità), rappresentano uno dei principali
problemi sanitari nel mondo del lavoro.
Il National Institute of Occupational Safety and Health (N.I.O.S.H. – U.S.A.) pone tali patologie al
secondo posto nella lista dei dieci problemi di salute più rilevanti nei luoghi di lavoro.
Negli Stati Uniti il low – back pain determina una media di 28.6 giorni di assenza per malattia ogni
100 lavoratori; le patologie del rachide sono la principale causa di limitazione lavorativa nelle
persone con meno di 45 anni e gli indennizzi per patologie professionali della colonna assorbono il
33 % dei costi totali di indennizzo.
È stato stimato che, per tali affezioni, i settori produttivi dell’industria statunitense spendono ogni
anno una somma di circa 20.000 miliardi di lire italiane per trattamenti e compensi assicurativi.
In Italia, le sindromi artrosiche sono, secondo ripetute indagini I.S.T.A.T. sullo stato di salute della
popolazione, le affezioni croniche di gran lunga più diffuse.
Tali sindromi sono al secondo posto tra le cause di invalidità civile.
Secondo stime provenienti dagli Istituti di Medicina del Lavoro, le patologie croniche del rachide
sono la prima ragione nelle richieste di parziale non idoneità al lavoro specifico.
Tra gli infortuni sul lavoro, la lesione da sforzo, che nel 60 ÷ 70 % dei casi è rappresentata da una
lombalgia acuta, non fa registrare andamento negativo nonostante vi siano ampi fenomeni di
sottostima per via di omesse registrazioni.
Gran parte delle affezioni qui citate, trovano in specifiche condizioni lavorative un preciso ruolo
causale o concausale. In particolare in letteratura è ormai consolidato il rapporto tra
movimentazione manuale di carichi ed aumento del rischio di contrarre affezioni acute e croniche
soprattutto del rachide lombare.
Questa constatazione ha spinto alcuni Paesi occidentali ad emanare specifiche normative e standard,
228
rivolti a limitare l’impiego della forza manuale, nello svolgimento delle attività lavorative; sono di
rilievo in tal senso la guida dello statunitense N.I.O.S.H. (1981) per il sollevamento dei carichi e la
legislazione svedese (1984) sull’argomento.
La normativa italiana, con il Decreto Legislativo 81/2008, prevede che il datore di lavoro adotti le
misure organizzative necessarie e ricorra ai mezzi appropriati, in particolare attrezzature
meccaniche, per evitare la necessità di una movimentazione manuale dei carichi da parte dei
lavoratori.
A tale fine organizza i posti di lavoro in modo che detta movimentazione assicuri condizioni di
sicurezza e salute valutando, se possibile anche in fase di progettazione, le condizioni di sicurezza e
di salute connesse al lavoro da eseguire.
Inoltre dovrà fornire informazioni sufficienti ed una formazione specifica in relazione ai rischi
lavorativi ed alle modalità di corretta esecuzione delle attività.
Al datore di lavoro viene richiesto anche di fornire ai lavoratori l’addestramento adeguato in merito
alle corrette manovre e procedure da adottare nella movimentazione manuale dei carichi.
Nell’ambito della valutazione dei rischi occorre fare riferimento alla norma I.S.O. 11228 (parti 1; 2;
3) per quanto riguarda il sollevamento; il trasporto, il traino e la spinta; la movimentazione di
carichi leggeri ad alta frequenza.
Gli elementi principali di riferimento nella M.M.C. sono: caratteristiche del carico (pesantezza
eccessiva) e dell’ambiente di lavoro (spazio libero insufficiente), sforzo fisico richiesto (eccessivo,
posture incongrue), particolari esigenze connesse all’attività (alta frequenza di movimentazione dei
carichi).
In particolare, per quanto riguarda i rischi dorso – lombari, si devono considerare quattro diversi
aspetti della M.M.C.:
il carico;
l’attività lavorativa;
l’ambiente;
il singolo lavoratore.
1.1. Il carico
Il rischio di lesioni dorso – lombari aumenta se il carico è:
troppo pesante: non esiste un peso esatto che può essere considerato sicuro, un peso di
20 ÷ 25 kg può essere troppo pesante da sollevare per la maggior parte delle persone;
troppo grande: se il carico è ingombrante, diventa impossibile rispettare le regole di base per il
sollevamento ed il trasporto, ossia tenere il carico il più possibile vicino al corpo; pertanto, la
muscolatura si affatica più rapidamente;
difficile da afferrare: la conseguenza può essere un incidente dovuto al fatto che il carico è
scivolato di mano; i carichi con bordi spigolosi o contenenti materiali pericolosi possono ferire i
lavoratori;
instabile o sbilanciato: ciò comporta un sovraccarico su determinati muscoli ed affaticamento,
dato che il centro di gravità dell’oggetto è lontano dal centro del corpo del lavoratore;
difficile da raggiungere: il fatto di dover stendere le braccia o di dover piegare o ruotare il tronco
per poter raggiungere il carico implica un maggiore sforzo muscolare;
ha una forma o dimensioni tali da impedire la visuale al lavoratore: in tal caso aumentano le
possibilità che il carico scivoli o sfugga di mano o che il lavoratore cada od urti qualcosa o
qualcuno.
1.2. L’attività lavorativa
Il rischio di lesioni dorso – lombari aumenta se il lavoro è:
estenuante, per esempio perché deve essere svolto con ritmi troppo frequenti o per una durata
eccessiva;
tale da implicare l’adozione da parte del lavoratore di posture scorrette o l’esecuzione di
229
movimenti scorretti, per esempio con il tronco piegato e/o ruotato, con le braccia sollevate, con i
polsi piegati, per movimentare un carico lontano dal corpo;
tale da richiedere l’esecuzione di movimenti ripetuti.
1.3. L’ambiente
Le seguenti caratteristiche dell’ambiente di lavoro possono accrescere il rischio di lesioni dorso –
lombari:
se lo spazio per eseguire le operazioni di M.M.C. è insufficiente, il lavoratore può essere
costretto ad assumere una postura scorretta od a spostare i carichi in maniera rischiosa;
il rischio di infortuni è maggiore in presenza di pavimenti irregolari, instabili o scivolosi;
il calore fa aumentare il senso di stanchezza dei lavoratori ed il sudore rende difficile l’uso degli
attrezzi, costringendo le persone a ricorrere maggiormente alla forza per poterli utilizzare;
il freddo può far perdere sensibilità alle mani e, di riflesso, ostacolare la presa;
un’illuminazione scarsa può accrescere il rischio di infortuni o costringere i lavoratori ad
assumere posture scorrette per vederci meglio.
1.4. Il singolo lavoratore
Alcuni fattori soggettivi potrebbero influire sul rischio di lesione dorso – lombare:
mancanza di esperienza, formazione e familiarità con l’attività svolta;
età: il rischio di disturbi dorso – lombari aumenta con l’età e con il numero di anni di lavoro;
corporatura fisica e capacità fisiche quali altezza, peso e forza;
precedente storia di disturbi dorso – lombari.
2. Valutazione del rischio
Ai datori di lavoro viene chiesto di valutare i rischi per la salute e la sicurezza dei loro dipendenti.
Per svolgere un’analisi del rischio efficace è possibile seguire alcuni semplici passi:
individuare i pericoli che possono essere causa di infortuni, lesioni o malattie;
valutare chi potrebbe rimanere vittima di un infortunio ed in che modo ciò potrebbe accadere;
stabilire se le precauzioni esistenti sono adeguate oppure se occorre adottare misure aggiuntive;
monitorare i rischi e revisionare le misure preventive.
3. Misure preventive
È possibile prevenire infortuni e malattie eliminando o perlomeno riducendo i rischi correlati alle
operazioni di M.M.C.
Deve essere rispettata la seguente gerarchia di misure preventive:
eliminazione: valutare se la M.M.C. può essere evitata, per esempio utilizzando apparecchiature
di movimentazione automatiche o meccaniche quali nastri trasportatori o carrelli elevatori;
misure tecniche: se non è possibile evitare la M.M.C., valutare l’opportunità di utilizzare
dispositivi di supporto quali montacarichi, carrelli e sistemi di sollevamento a vuoto;
l’adozione di misure organizzative quali la rotazione degli incarichi e l’introduzione di intervalli
di durata sufficiente andrebbero valutate soltanto se non è possibile eliminare o ridurre i rischi di
M.M.C.;
attività di informazione sui rischi e gli effetti negativi per la salute della M.M.C.;
esercitazioni nell’uso di apparecchiature e tecniche di movimentazione corrette.
La riabilitazione e reintegrazione al lavoro dei lavoratori con disturbi muscolo – scheletrici (D.M.S.)
dovrebbe essere parte integrante della politica in materia di D.M.S. del datore di lavoro.
Queste misure contribuiscono a migliorare la salute ed il benessere dei lavoratori, oltre che a
prevenire cali della produttività.
Il coinvolgimento dei lavoratori e dei loro rappresentanti nelle questioni relative ai pericoli sul
luogo di lavoro è fondamentale.
230
4. Tecniche di movimentazione corrette
Per limitare i danni, derivanti da una cattiva movimentazione manuale dei carichi, occorre eseguire
le seguenti operazioni:
evitare di sollevare manualmente carichi pesanti.
Il N.I.O.S.H. fissa come limiti (peso sollevabile nelle migliori condizioni possibili):
30 kg per gli uomini adulti;
20 kg per le donne adulte.
In particolare la norma U.N.I. EN 1005 – 2, punto 4.3.3 prospetto 1 (Movimentazione manuale di
macchinario e di parti componenti il macchinario) indica come massa di riferimento per la
valutazione del rischio 25 kg per gli uomini e 15 kg per le donne (garantendo una protezione
del 90 % della popolazione lavorativa adulta).
evitare il trasporto manuale su una lunga distanza ma, avvalersi di carrelli od altro;
evitare di depositare i carichi sopra la testa sia durante il trasporto sia per brevi momenti;
effettuare il sollevamento dei carichi ponendo il tronco dorsale in posizione verticale ed avendo
cura di utilizzare la muscolatura delle gambe per far forza, in particolare occorre non spingere o
prendere un carico oltre i 30 cm dall’asse del corpo.
4.1. Sollevamento da terra
Prima di sollevare un carico, è necessario pianificare e preparare l’operazione.
Ci si deve assicurare:
di sapere dove si sta andando;
che la zona in cui si deve operare sia libera da ostacoli;
di afferrare il carico con sicurezza;
che le mani, il carico ed eventuali maniglie non siano scivolosi;
se si esegue l’operazione con un’altra persona, di concordare prima come procedere.
Regole fondamentali per sollevare un carico da terra:
posizionare i piedi accanto al carico, piegando il tronco sopra l’oggetto da trasportare (se ciò non
fosse possibile, tenere il corpo molto vicino al carico);
utilizzare la muscolatura delle gambe per sollevare il carico;
piegare le gambe;
tenere la schiena ben eretta;
afferrare saldamente il carico;
tenere il carico il più possibile vicino al corpo;
sollevare e trasportare il carico con le braccia distese verso il basso.
4.2. Depositamento a terra
Regole fondamentali per depositare un carico a terra:
afferrare saldamente il carico;
tenere il carico più vicino possibile al corpo;
depositare il carico piegando le gambe e mantenendo la schiena più eretta possibile.
4.3. Accorgimenti generali
evitare sempre la torsione del tronco dorsale;
ruotare i piedi e non il tronco dorsale quando occorre effettuare un cambio di direzione del
percorso;
effettuare la movimentazione di carichi pesanti o molto ingombranti o difficilmente afferrabili
sempre insieme ad un altro operatore;
servirsi di attrezzature idonee come scale portatili per prelevare i carichi posti a quota superiore
rispetto alla propria altezza;
231
le donne in stato di gravidanza non possono essere adibite al sollevamento ed al trasporto di pesi,
nonché ai lavori pericolosi, faticosi e insalubri durante la gestazione, stessa misura di sicurezza
dovrà essere attuata fino a sette mesi dopo il parto.
4.4. Spingere e tirare
È importante che:
queste operazioni siano svolte sfruttando il peso del corpo: se si spinge un carico è necessario,
piegare il corpo in avanti; se si tira un carico è necessario piegare il corpo all’indietro;
si abbia una presa sufficiente a terra per poter piegare in avanti od all’indietro con il corpo;
evitare di ruotare o piegare la schiena;
i sistemi di movimentazione siano dotati di maniglie od impugnature per consentire all’operatore
di esercitare una forza con le mani; la maniglia deve trovarsi a metà altezza tra la spalla e la vita
perché l’operatore possa spingere o tirare il carico mantenendo una posizione corretta e neutrale;
i sistemi di movimentazione siano sottoposti regolarmente a manutenzione, in modo che le ruote
abbiano le dimensioni giuste e si muovano senza incepparsi;
i pavimenti siano duri, regolari e puliti.
5. Legislazione europea
La legislazione europea fa capo alla Direttiva 90/269/C.E.E. del Consiglio, relativa alle prescrizioni
minime di sicurezza e di salute concernenti la movimentazione manuale di carichi, che comporta tra
l’altro rischi dorso – lombari per i lavoratori.
Anche le prescrizioni di altre Direttive, norme o linee guida europee, nonché le disposizioni vigenti
nei singoli Stati membri, possono essere rilevanti per la prevenzione dei problemi di salute sul
lavoro causati dalle operazioni di M.M.C.
232
14. Attrezzature munite di videoterminali
(DECRETO LEGISLATIVO 81/08 TITOLO VII – CAPO I e II – Artt. 172-177 – Allegato XXXIV)
Premessa
Una delle caratteristiche più evidenti delle trasformazioni avvenute nel mondo del lavoro
nell’ultimo ventennio è senza dubbio costituita dall’enorme diffusione che i processi di
informatizzazione hanno avuto sia nell’industria sia nel terziario.
Tali processi, se da un lato hanno rappresentato un’evoluzione tecnica, che ha permesso il
conseguimento di miglioramenti anche sostanziali sotto il profilo produttivo e gestionale, dall’altro
lato hanno imposto mutamenti così radicali e rapidi rispetto al modo tradizionale di lavorare da non
consentire agli operatori di poter comprendere e conseguentemente adeguare le proprie conoscenze
ed abitudini alle esigenze del nuovo modello organizzativo.
Inoltre, mentre i processi di informatizzazione delle procedure e tecniche di lavorazione
richiedevano un grande sforzo di adattamento con notevole impegno sul piano professionale oltre
che umano per i lavoratori coinvolti, non congrui né soddisfacenti sono stati gli interventi di
riprogettazione per i conseguenti ed indispensabili adeguamenti strutturali dell’ambiente in generale
e del posto di lavoro in particolare.
Ciò è verosimilmente la principale causa del disagio psichico e somatico denunciato da questi
operatori sin dai primi anni ’80 e che la letteratura scientifica internazionale ampiamente descrive.
Poiché tuttavia vi è stata una certa confusione sugli effetti di salute, connessi al lavoro con unità
video appare in questa sede opportuno puntualizzare quelle che sono, allo stato attuale, le relative
certezze acquisite al proposito dalla letteratura internazionale.
Estremamente utile allo scopo risulta un editoriale curato da U. Bergqvist e comparso sul British
Journal of Industrial Medicine (n. 46; pag. 217-221, 1989) con il quale si sintetizzava il rapporto di
un gruppo di lavoro promosso dall’Oms sull’argomento.
In quell’editoriale venivano evidenziati alcuni principali concetti:
Il lavoro con unità video può comportare effetti sulla salute in relazione alla durata
dell’esposizione, alle caratteristiche del lavoro svolto, alle caratteristiche dell’hardware e del
software, alle caratteristiche del posto di lavoro e dell’ambiente. “L’esposizione” pertanto va
valutata con riferimento a tali elementi.
Effetti di salute legati al lavoro con unità video sono dimostrabili per quanto concerne i disturbi
oculo – visivi (astenopia), i disturbi muscolo – scheletrici ed, in minore misura, le reazioni da
stress e i disturbi cutanei. Sono da escludere associazioni con patologie oculo – visive e gli effetti
sulla gravidanza.
Su di un altro versante va rilevato che attualmente le apparecchiature informatizzate, pur con
“hardware” e “software” molto differenziati, tendono ad essere utilizzate praticamente in tutti i
settori lavorativi.
Se è vero che molti PC prevedono un’utilizzazione solo domestica, è anche vero che per quelli usati
presso i luoghi di lavoro vi è un rapporto almeno di 2 – 3 ad 1 tra numero di utilizzatori
professionali ed il numero di personal computer installati.
Un ulteriore dato di stima proviene dalla Gran Bretagna: in quel Paese è stato valutato che nel ’91
erano 6.750.000 i posti di lavoro attrezzati con unità video “coperti” dalla Direttiva C.E.E. 270/90
(secondo le definizioni e il campo di applicazione ivi adottate).
Poiché la Gran Bretagna ha una composizione di popolazione produttiva, sia pure grossolanamente,
assimilabile a quella italiana si può utilizzare anche tale dato per dimensionare la diffusione dei
posti di lavoro con unità video.
Tenendo conto in modo combinato di questi elementi si può ritenere che siano in Italia non meno di
5 milioni (ma forse la stima è per difetto) i posti di lavoro attrezzati con unità video e certamente di
più i lavoratori che utilizzano tale apparecchiatura, per tempi più o meno prolungati, quale ausilio
233
allo svolgimento dei compiti professionali.
La normativa di cui al Decreto Legislativo 81/08 si applica alle attività lavorative in cui si fa uso di
attrezzature munite di Videoterminali (V.D.T.) anche portatili.
I requisiti minimi che tale attrezzature devono possedere sono previsti dall’Allegato XXXIV al
Decreto Legislativo 81/08 e si applicano anche alle attività che prevedono l’impiego di lavoratori a
progetto e collaboratori coordinati e continuativi ove la prestazione lavorativa si svolga nei luoghi
di lavoro del committente.
1. Definizioni
videoterminale: uno schermo alfanumerico o grafico a prescindere dal tipo di procedimento di
visualizzazione utilizzato;
posto di lavoro: l’insieme che comprende le attrezzature munite di videoterminale,
eventualmente con tastiera ovvero altro sistema di immissione dati, incluso il mouse, il software
per l’interfaccia uomo – macchina, gli accessori opzionali, le apparecchiature connesse,
comprendenti l’unità a dischi, il telefono, il modem, la stampante, il supporto per i documenti, la
sedia, il piano di lavoro, nonché l’ambiente di lavoro immediatamente circostante;
lavoratore videoterminalista: il lavoratore che utilizza un’attrezzatura munita di videoterminali,
in modo sistematico od abituale, per venti ore settimanali, dedotte le interruzioni di cui all’art.
175 che prevede una pausa di quindici minuti ogni centoventi minuti di applicazione
continuativa al V.D.T.
2. Requisiti delle attrezzature munite di V.D.T.
Dette attrezzature devono rispondere alle caratteristiche seguenti:
Schermo: I caratteri sullo schermo devono avere una buona definizione e l’immagine sullo
schermo deve essere stabile, senza sfarfallamento.
Lo schermo deve essere posizionato di fronte all’operatore in maniera che lo spigolo superiore
dello schermo sia posto un po’ più in basso rispetto all’orizzontale che passa per gli occhi
dell’operatore e ad una distanza dagli occhi pari a circa 50 ÷ 70 cm , per i posti di lavoro in cui
va assunta preferenzialmente la posizione seduta.
Tastiera e dispositivi di puntamento: La tastiera deve essere separata dallo schermo, regolabile
nella pendenza.
Lo spazio sul piano di lavoro deve consentire un appoggio degli avambracci davanti alla tastiera.
Il mouse od altro dispositivo di puntamento deve essere posto sullo stesso piano della tastiera, in
posizione facilmente raggiungibile e si deve disporre di uno spazio adeguato per il suo uso.
Piano di lavoro: Il piano di lavoro deve essere stabile, avere una superficie ampia, di dimensioni
sufficienti per disporre i materiali necessari e le attrezzature (video, tastiera, etc.) nonché
consentire un appoggio per gli avambracci dell’operatore davanti alla tastiera, nel corso della
digitazione.
Deve presentare uno spazio idoneo per il comodo alloggiamento e la movimentazione degli arti
inferiori e per infilarvi il sedile.
L’altezza del piano di lavoro fissa o regolabile deve essere indicativamente compresa fra
70 ÷ 80 cm . La profondità del piano di lavoro deve essere tale da assicurare un’adeguata
distanza visiva dallo schermo.
Il colore della superficie deve essere chiaro, possibilmente diverso dal bianco, ed in ogni caso a
basso indice di riflessione.
Sedile di lavoro: Il sedile di lavoro deve essere stabile, avere altezza regolabile.
Deve avere il basamento di tipo girevole a 5 razze e dotato di rotelle, facilmente spostabile anche
in rapporto al tipo di pavimento; il piano (regolabile in altezza tra 40 ÷ 55 cm ) e schienale
(meccanismo di inclinazione compreso tra 2° in avanti e 15° all’indietro) regolabili in maniera
indipendente così da assicurare un buon appoggio dei piedi ed il sostegno della zona lombare.
234
Lo schienale deve supportare la regione dorso – lombare del lavoratore e deve poter essere
regolato nella posizione desiderata, altezza di circa 50 cm dal piano del sedile e deve avere
l’imbottitura a livello della sede di appoggio della colonna lombare ( 10 ÷ 20 cm dal sedile).
I bordi del piano smussati, in materiale non troppo cedevole, permeabile al vapore acqueo e
pulibile. Un poggiapiedi sarà messo a disposizione di coloro che lo richiedano.
Computer portatili: L’impiego prolungato dei computer portatili necessita della fornitura di una
tastiera e di un mouse od altro dispositivo di puntamento esterni nonché di un supporto per il
corretto posizionamento dello schermo.
Illuminazione naturale dell’ambiente: Tutte le superfici vetrate che danno all’esterno devono
essere schermabili mediante tende od altro tipo di oscuramento per attenuare la luce diurna che
illumina il posto di lavoro.
La soluzione più efficace è comunque costituita dalle cosiddette “veneziane”.
È assolutamente da evitare la collocazione delle postazioni di lavoro sotto i lucernari; se non è
possibile altra soluzione i lucernari devono essere dotati di tende schermanti.
La posizione delle postazioni rispetto alle finestre è idealmente quella nella quale le finestre sono
parallele alla direzione dello sguardo. Sono da evitare finestre di fronte all’operatore, a meno che
non siano perfettamente schermabili, in quanto la luminanza naturale risulta preponderante
rispetto a quella del V.D.T.
Ugualmente sconsigliabile è la finestra alle spalle dell’operatore, in quanto provoca riflessi sullo
schermo che riducono od annullano il contrasto.
Illuminazione artificiale dell’ambiente: L’illuminazione artificiale deve garantire
un’illuminazione uniforme in tutto l’ambiente ed assicurare un’adeguata flessibilità in funzione
delle esigenze del lavoro da svolgere e degli occupanti.
È quindi necessario che siano presenti più corpi illuminanti al soffitto con comandi di accensione
distinti.
Per evitare abbagliamenti e riflessi fastidiosi sul videoterminale è opportuno utilizzare lampade a
griglia antiriflesso o comunque schermate, che devono sempre essere montate parallelamente
alle finestre e disposte lateralmente rispetto al posto di lavoro.
In generale sul soffitto, in corrispondenza del monitor, non devono esserci luci accese.
In caso di lampade a soffitto non schermate, l’angolo tra la linea dello sguardo dell’operatore e la
lampada al soffitto non deve essere inferiore a 60°.
L’illuminamento dovrebbe avere valori compresi tra 300 ÷ 500 lx (lux).
Per la lettura delle informazioni direttamente dallo schermo bastano 300 lx ; se invece occorre
leggere un documento da digitare, sono giustificati 500 lx .
Per le persone che hanno bisogno di più luce, è opportuno installare lampade da tavolo
appropriate.
Le sorgenti artificiali ottimali per il lavoro al V.D.T. sono quelle cosiddette “bianche a tonalità
calda” che emanano una luce tendente al giallo.
3. Patologie indotte dall’uso di videoterminali
Le principali patologie correlate all’uso dei videoterminali possono ricondurre ai seguenti tipi di
disturbi:
mal di testa;
dolori al collo;
dolori di schiena;
dolori ai polsi;
dolori ai piedi;
problemi circolatori;
bruciore agli occhi;
arrossamento oculare;
235
deficit della messa a fuoco.
3.1. Disturbi muscolo – scheletrici
3.1.1. Cause principali
Tra le cause principali dell’insorgenza di disturbi muscolo – scheletrici si hanno:
posizioni di lavoro inadeguate per l’errata scelta e disposizione degli arredi e del V.D.T.;
posizioni di lavoro fisse e mantenute per tempi prolungati anche in presenza di posti di lavoro
ben strutturati;
movimenti rapidi e ripetitivi delle mani: digitazione od uso del mouse per lunghi periodi.
3.1.2. Indicazioni atte ad evitare l’insorgenza di disturbi muscolo – scheletrici
Tra le indicazioni atte ad evitare l’insorgenza di disturbi muscolo – scheletrici si hanno:
assumere la postura corretta di fronte al video, con piedi ben poggiati al pavimento e schiena
poggiata allo schienale della sedia nel tratto lombare, regolando allo scopo l’altezza della sedia e
l’inclinazione dello schienale;
posizionare lo schermo del video di fronte in maniera che, anche agendo su eventuali
meccanismi di regolazione, lo spigolo superiore dello schermo sia posto leggermente più in
basso dell’orizzontale che passa per gli occhi dell’operatore e ad una distanza dagli occhi pari a
circa 50 ÷ 70 cm ;
disporre la tastiera davanti allo schermo, salvo che lo schermo non sia utilizzato in maniera
saltuaria, ed il mouse, od eventuali altri dispositivi di uso frequente, sullo stesso piano della
tastiera ed in modo che siano facilmente raggiungibili;
eseguire la digitazione ed utilizzare il mouse evitando irrigidimenti delle dita e del polso,
curando di tenere gli avambracci appoggiati sul piano di lavoro in modo da alleggerire la
tensione dei muscoli del collo e delle spalle;
evitare, per quanto possibile, posizioni di lavoro fisse per tempi prolungati.
Nel caso ciò fosse inevitabile si raccomanda la pratica di frequenti esercizi di rilassamento
(collo, schiena, arti superiori ed inferiori).
3.1.3. Prevenire disturbi muscolo – scheletrici
Per prevenire disturbi muscolo – scheletrici è sufficiente svolgere alcuni semplici esercizi, che
richiedono pochi minuti e che possono essere fatti, oltre che a casa, anche nelle pause di lavoro.
Dopo un periodo di utilizzo del V.D.T. è necessario ripristinare la corretta impostazione della
colonna vertebrale con degli opportuni esercizi del tronco.
In modo analogo si deve operare con la testa ed il collo facendo movimenti in alto, in basso e di
lato.
3.2. Disturbi visivi
In passato questo tipo di disturbi risultavano più frequenti; in seguito, con l’evoluzione della tecnica
sono state realizzate apparecchiature che riducono al minimo i disagi visivi.
Questi disturbi possono presentarsi ove l’illuminazione dell’ambiente di lavoro sia incongrua e
quando si utilizzano schermi non idonei sotto il profilo ergoftalmologico per la luminosità, il
contrasto, le dimensioni dei caratteri, lo sfarfallamento, etc.
3.2.1. Cause principali
Tra le cause principali dell’insorgenza di disturbi visivi si hanno:
errate condizioni di illuminazione;
postazione di lavoro non corretta e ubicazione sbagliata del V.D.T.;
condizioni ambientali sfavorevoli;
caratteristiche inadeguate del V.D.T (ad esempio sfarfallamento) e/o insufficiente contrasto dei
caratteri rispetto allo sfondo;
236
posizione statica ed impegno visivo di tipo ravvicinato e protratto nel tempo;
difetti visivi non o mal corretti che aumentano lo sforzo visivo.
3.2.2. Indicazioni atte ad evitare l’insorgenza di disturbi visivi
Tra le indicazioni atte ad evitare l’insorgenza di disturbi visivi si hanno:
illuminare correttamente il posto di lavoro, possibilmente con luce naturale, mediante la
regolazione di tende o veneziane, ovvero con illuminazione artificiale;
assumere la postura corretta di fronte al video in modo tale che la distanza occhi – schermo sia
pari a circa 50 ÷ 70 cm ed orientare ed inclinare lo schermo per eliminare, per quanto possibile,
riflessi sulla sua superficie;
l’aria non deve essere troppo secca per evitare possibili irritazioni degli occhi;
il monitor deve essere impostato con caratteri definiti, di grandezza sufficiente e facilmente
leggibili.
Ciò può essere controllato verificando se due caratteri maiuscoli adiacenti (ad esempio “MM”)
restano facilmente distinguibili e nitidi (osservati da 50 ÷ 70 cm dal monitor).
distogliere periodicamente lo sguardo dal video per guardare oggetti lontani, al fine di ridurre
l’affaticamento visivo;
durante le pause ed i cambiamenti di attività previsti, è opportuno non dedicarsi ad attività che
richiedano un intenso impegno visivo, come ad esempio la correzione di un testo scritto; si
raccomanda l’utilizzo di eventuali mezzi di correzione della vista se prescritti.
3.3. Disturbi da affaticamento mentale
Possono verificarsi problemi di affaticamento fisico e mentale, in caso di:
cattiva organizzazione del lavoro;
rumore ambientale;
software non adeguato;
difficoltà degli operatori a seguire adeguatamente il continuo aggiornamento dei software.
Questi disturbi sono difficilmente classificabili in quanto causati normalmente dall’organizzazione
del lavoro, dal contenuto intellettuale dell’attività svolta e dall’eventuale conflittualità con la
macchina.
4. Obblighi del datore di lavoro
Il datore di lavoro, organizza e predispone i posti di lavoro, a seguito della valutazione del rischio
per esposizione al lavoro al V.D.T., con particolare riguardo:
ai rischi per la vista e per gli occhi;
ai problemi legati alla postura ed all’affaticamento fisico o mentale;
alle condizioni ergonomiche e di igiene ambientale.
Il datore di lavoro adotta le misure appropriate per ovviare ai rischi riscontrati in base alle
valutazioni, tenendo conto della somma ovvero della combinazione dell’incidenza dei rischi
riscontrati.
Il datore di lavoro organizza e predispone i posti di lavoro, in conformità ai requisiti minimi di cui
all’Allegato XXXIV Decreto Legislativo 81/08, integrato con Decreto Legislativo 106/09.
5. Svolgimento quotidiano del lavoro
Il lavoratore, ha diritto ad un’interruzione della sua attività mediante pause ovvero cambiamento di
attività.
Le modalità di tali interruzioni sono stabilite dalla contrattazione collettiva anche aziendale.
In assenza di una disposizione contrattuale riguardante l’interruzione, il lavoratore comunque ha
237
diritto ad una pausa di quindici minuti ogni centoventi minuti di applicazione continuativa al
videoterminale.
Le modalità e la durata delle interruzioni possono essere stabilite temporaneamente a livello
individuale ove il medico competente ne evidenzi la necessità.
È comunque esclusa la cumulabilità delle interruzioni all’inizio ed al termine dell’orario di lavoro.
Nel computo dei tempi di interruzione non sono compresi i tempi di attesa della risposta da parte
del sistema elettronico, che sono considerati, a tutti gli effetti, tempo di lavoro, ove il lavoratore non
possa abbandonare il posto di lavoro.
La pausa è considerata a tutti gli effetti parte integrante dell’orario di lavoro e, come tale, non è
riassorbibile all’interno di accordi che prevedono la riduzione dell’orario complessivo di lavoro.
L’interruzione deve garantire in particolare un effettivo riposo dell’apparato visivo, delle strutture
muscolari e tendinee degli arti superiori, impegnate in movimenti ripetitivi, ed un cambiamento
posturale che consenta di modificare la postura assisa.
Non necessariamente l’interruzione coinciderà con un non lavoro; essa potrà essere anche una
“pausa attiva”, comportante, cioè, lo svolgimento di un altro tipo di operazione purché questa non
comporti un impegno in visione ravvicinata continua, movimenti ripetitivi degli arti superiori od
una postura assisa uguale a quella mantenuta durante il lavoro a V.D.T.
Per alcuni soggetti con particolari problemi di carattere sanitario (ad esempio soggetti con deficit
della motilità oculare) il medico competente potrà stabilire frequenza e durata differente delle
interruzioni.
6. Sorveglianza sanitaria
I lavoratori sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria, con particolare riferimento:
ai rischi per la vista e per gli occhi;
ai rischi per l’apparato muscolo – scheletrico.
Sulla base delle risultanze degli accertamenti, i lavoratori vengono classificati ai sensi dell’art. 41,
comma 6.
Salvo i casi particolari che richiedono una frequenza diversa, stabilita dal medico competente, la
periodicità delle visite di controllo è biennale per i lavoratori classificati come idonei con
prescrizioni o limitazioni e per i lavoratori che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età;
quinquennale negli altri casi.
Per i casi di inidoneità temporanea il medico competente stabilisce il termine per la successiva
visita di idoneità.
Il lavoratore è sottoposto a visita di controllo per i rischi con propria richiesta, secondo specifiche
modalità.
Il datore di lavoro fornisce a sue spese ai lavoratori i dispositivi speciali di correzione visiva, in
funzione dell’attività svolta, quando l’esito delle visite ne evidenzi la necessità e non sia possibile
utilizzare i dispositivi normali di correzione.
7. Informazione e formazione
In ottemperanza a quanto previsto in via generale dall’art 18, comma 1, lettera l), il datore di lavoro:
1. fornisce ai lavoratori informazioni, in particolare per quanto riguarda:
le misure applicabili al posto di lavoro, in base all’analisi dello stesso di cui all’art. 174;
le modalità di svolgimento dell’attività;
la protezione degli occhi e della vista;
2. assicura ai lavoratori una formazione adeguata in particolare in ordine a quanto indicato al
comma 1, lettera a) Decreto Legislativo 81/08 integrato con Decreto Legislativo 106/09.
238
15. Misure per la sicurezza nei cantieri temporanei e mobili
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, TITOLO IV, CAPI I, II, III, artt. da 88 a 160)
Premessa
Il Decreto Legislativo 81/2008 ha recepito e fatte proprie, limitatamente alle attività cantieristiche,
le indicazioni di cui al Decreto del Presidente della Repubblica 164/56 “Norme per la prevenzione
degli infortuni nelle costruzioni” e del Decreto Legislativo 494/96 “Prescrizioni minime di
sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili”.
Il nuovo impianto giuridico del Decreto Legislativo 81/2008 colloca pertanto al Titolo IV le misure
per la salute e sicurezza nei cantieri temporanei o mobili.
Tali argomentazioni vengono trattate dall’art.88 “campo di applicazione” ed all’art.160 “sanzioni
per i lavoratori”.
Il Titolo IV risulta composto da 3 Capi e precisamente:
Capo I: misure per la salute e sicurezza nei cantieri temporanei o mobili;
Capo II: norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nei lavori in
quota;
Capo III: sanzioni;
1. Capo I: Articoli di riferimento
Articolo
art. 88
art. 89
art. 90
art. 91
art. 92
art. 93
art. 94
art. 95
art. 96
art. 97
art. 98
art. 99
art. 100
art. 101
art. 102
art. 10
art. 104
Titolo
Allegato di
riferimento
Campo di applicazione
Definizioni
Obblighi del committente e del responsabile dei lavori
Obblighi del coordinatore per la progettazione
Obblighi del coordinatore per l’esecuzione dei lavori
Responsabilità dei committenti e dei responsabili dei
lavori
Obblighi dei lavoratori autonomi
Misure generali di tutela
Obblighi dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti
Obblighi del datore di lavoro dell’impresa affidataria
Requisiti dei C.S.P. e C.S.E.
Notifica preliminare
Piano di sicurezza e coordinamento
Obblighi di trasmissione
Consultazione dei rappresentanti per la sicurezza
Modalità di previsione dei livelli di emissione sonora
Modalità attuative particolari
Allegato X
Allegato XVII
Allegato XV – XVI
Allegato XIII
Allegato XVII
Allegato XIV
Allegato XII
Allegato XI – XV
2. Capo II: Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni
e nei lavori in quota
Sezione I – Campo di applicazione, artt. 105 – 107: vengono definite le attività soggette, quelle
escluse dal presente Titolo e le relative definizioni;
Sezione II – Disposizioni di carattere generale, artt. 108 – 117: si ritrovano le indicazioni relative
all’apprestamento di cantiere, alla regolarità delle opere provvisionali, sistemi di protezione dei
posti di lavoro ed uso di sistemi alternativi, quali le funi per eseguire lavori in quota;
Sezione III – Scavi e fondazioni, artt. 119 – 121: viene trattato il rischio presente negli scavi e la
239
relativa loro realizzazione;
Sezione IV – Ponteggi ed impalcature in legname, artt. 122 – 130: viene trattata l’idoneità
dell’opera provvisionale ponteggio, passerelle etc;
Sezione V – Ponteggi fissi, artt. 131 – 138: Regolamentazione relativa all’impiego dei ponteggi
metallici;
Sezione VI – Ponteggi mobili, artt. 139 – 140: Ponti su cavalletti e ponti su ruote a torre;
Sezione VII – Costruzioni edilizie, artt. 141 – 149: in questa sezione vengono trattate le strutture
speciali, posa e disarmo delle armature e centine, difesa delle aperture e delle scale in muratura.
Sezione VIII – Demolizioni, artt. 150 – 156: in questa sezione viene trattata l’argomentazione
relativa alle demolizioni, il relativo convogliamento del materiale a terra e le relative verifiche.
1. Capo III: Sanzioni
Artt. 157 – 160: Apparato sanzionatorio.
Definizioni:
La definizione di cantiere è riportata nell’Allegato X del Decreto Legislativo 81/08.
Il Responsabile dei lavori: risulta il “soggetto incaricato, dal committente, della progettazione o
del controllo dell’esecuzione dell’opera; tale soggetto coincide con il progettista per la fase di
progettazione dell’opera e con il direttore dei lavori per la fase di esecuzione dell’opera”.
Quindi tale figura è sempre presente ed ha valenza diversa in funzione del momento temporale.
Coincide con il C.S.P. (Coordinatore per la Sicurezza in fase di Progettazione) nella fase di
progettazione dell’opera e con il direttore dei lavori nella fase esecutiva.
L’impresa affidataria: viene introdotta una nuova figura giuridica “impresa titolare del contratto
di appalto con il committente che, nell’esecuzione dell’opera appaltata, può avvalersi di imprese
subappaltatrici o di lavoratori autonomi”.
L’impresa affidataria in caso di subappalto è quindi garante nei confronti del committente delle
varie imprese o lavoratori autonomi che dovranno operare nel cantiere.
Coordinatore: decade quanto previsto dal Decreto Legislativo 494/96 e viene introdotto all’art.
90 comma 3 “Nei cantieri in cui è prevista la presenza di più imprese, anche non
contemporanea, il committente, anche nei casi di coincidenza con l’impresa esecutrice, o il
responsabile dei lavori, contestualmente all’affidamento dell’incarico di progettazione, designa
il coordinatore per la progettazione”.
Piano operativo di sicurezza: è il documento che il datore di lavoro dell’impresa esecutrice
redige, in riferimento al singolo cantiere interessato, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera a),
i cui contenuti sono riportati nell’Allegato XV.
Tale documento è quindi la valutazione dei rischi specifici per il singolo cantiere.
240
16. Tutela della salute e sicurezza delle lavoratrici madri
(DECRETO LEGISLATIVO del 26.03.2001 n.151. del 26.03.2001; DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81,
TITOLO I, CAPO III art. 28)
Premessa
La tutela della sicurezza e della salute delle lavoratrici madri si applica durante il periodo di
gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio ed alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in
adozione o in affidamento, fino al compimento di sette mesi di età.
Secondo il disposto dell’art.7 commi 1 e 2 del Decreto Legislativo n.151 del 26.03.2001: “è vietato
adibire le lavoratrici al trasporto ed al sollevamento di pesi, nonché ai lavori pericolosi, faticosi,
insalubri”.
In particolare l’allegato B “Elenco non esauriente di agenti e condizioni di lavoro di cui all’art. 7”
della suddetta Legge, e l’allegato C “Elenco non esauriente di agenti, processi e condizioni di
lavoro di cui all’art.11” della suddetta Legge, citano come agenti e situazioni di pericolo le seguenti
condizioni:
agenti fisici;
agenti biologici;
agenti chimici;
agenti cancerogeni;
movimentazione manuale dei carichi;
radiazioni ionizzanti;
radiazioni non ionizzanti;
sollecitazioni termiche.
L’applicazione di quanto previsto dal Decreto Legislativo n. 151 del 26.03.01 è sotto la
responsabilità del Datore di lavoro.
È previsto dallo stesso Decreto che sia la lavoratrice ad attivare le procedure di tutela per la
maternità attraverso la notifica con certificato medico attestante lo stato di gravidanza, secondo i
seguenti steps:
la lavoratrice fa pervenire al Responsabile il certificato medico attestante lo stato di gravidanza;
viene informato il medico competente;
il medico competente, previa valutazione clinica della lavoratrice, stabilisce in accordo con il
Servizio di Prevenzione e Protezione, se debbono essere adottate le misure preventive previste
dal Decreto Legislativo n. 151 del 26.03.01;
le misure preventive previste dal Decreto Legislativo n. 151 del 26.03.01, vengono comunicate al
Responsabile del Centro di Spesa.
Vengono a configurarsi le seguenti possibilità:
la lavoratrice può svolgere le abituali mansioni fino al periodo di congedo di maternità;
è necessario modificare l’organizzazione e/o l’orario di lavoro;
è necessario il cambio di mansione;
è necessario richiedere all’Ispettorato del Lavoro l’astensione anticipata per la lavoratrice.
1. Note di sintesi
La tutela della sicurezza e della salute della lavoratrice madre è governata dal Decreto
Legislativo n. 81/2008 (Testo Unico della sicurezza sul lavoro) e dal Decreto Legislativo 26
marzo 2001, n. 151 (Testo Unico della famiglia).
È affidato al datore di lavoro il compito di valutare tutti i rischi per la gravidanza e
l’allattamento, tenendo conto sia della salute della donna, sia di quella del bambino, e di
prevedere le conseguenti misure di prevenzione e protezione, ivi comprese eventuali modifiche
241
di orario e condizioni di lavoro e lo spostamento ad una mansione non a rischio (artt. 11 e 12 del
Decreto Legislativo 151/01).
Punto di partenza è la definizione di lavoratrice madre legata al processo d’informazione del
proprio stato al datore di lavoro: come dire che, in assenza di tale elemento (il quale costituisce a
tutti gli effetti un onere posto a carico della lavoratrice ed in alcuni casi un vero e proprio
obbligo, sia pure sfornito di sanzione), la tutela non risulta obbligatoriamente applicabile.
L’informazione al datore di lavoro del proprio stato dovrà avvenire mediante presentazione, da
parte della lavoratrice, del certificato medico di gravidanza e di quello successivo di assistenza al
parto (artt. 14 e 15 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1026/1976).
Eventuali ritardi non comportano la perdita dei diritti derivanti dalle norme di tutela fisica, le
quali però diventano operanti soltanto dopo la presentazione di detti documenti.
Peraltro la tutela si applica, altresì, alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o in
affidamento.
Rispetto alla normativa precedente, anche il Decreto Legislativo n. 151/2001, improntato alla
medesima ‘‘filosofia’’ ed ai principi codificati nelle Direttive comunitarie, ha concepito nei
confronti delle lavoratrici madri una tutela non (sol)tanto diretta, bensì intermediata da quella
fondamentale, imprescindibile, preliminare attività di valutazione dei rischi professionali, della
quale il Documento di valutazione dei rischi rappresenta la sintesi più efficace.
È così che, anche nell’ambito della tutela della maternità, in tutte le sue fasi: gestazione, parto,
allattamento, il metodo dell’(auto)valutazione dei rischi ed il consensuale obbligo di tradurlo
nella redazione di un documento programmatico – operativo finalizzato alla prevenzione, il
cosiddetto Documento di valutazione dei rischi, fanno sì che il tema della prevenzione entri a
pieno titolo tra i modelli organizzativi aziendali.
Anche per quanto riguarda la tutela delle lavoratrici madri, gli strumenti fondamentali per la
gestione delle aree di rischio professionale sono due:
1. la valutazione del rischio;
2. la proceduralizzazione delle misure di prevenzione e di protezione.
L’art. 11 del Decreto Legislativo n. 151/2001 sancisce l’obbligo del datore di lavoro (fermo
restando il divieto di adibire la lavoratrice madre a determinati lavori specificati e considerati
faticosi, pericolosi ed insalubri) di valutare preventivamente i rischi per la sicurezza e la salute
delle lavoratrici gestanti, puerpere ed in allattamento, in particolare i rischi di esposizione ad
agenti fisici, chimici o biologici, nonché i processi o le condizioni di lavoro di cui all’allegato C
del medesimo Decreto, individuando le misure di prevenzione e protezione da adottare.
Detta valutazione preventiva consente al datore di lavoro di informare le lavoratrici, prima
ancora che sopraggiunga una gravidanza, dei rischi esistenti in azienda, delle misure di
prevenzione e protezione che egli ritiene di dover adottare in tal caso e, quindi, dell’importanza
che le dipendenti gli comunichino tempestivamente il proprio stato, in modo che possano essere
valutati con immediatezza i rischi specifici e adottate le conseguenti misure di tutela.
La valutazione dovrà prendere in particolare esame i rischi di esposizione agli agenti fisici,
chimici o biologici, processi o condizioni di lavoro di cui all’allegato C, individuando le misure
di prevenzione e protezione da adottare.
All’esito della valutazione, il datore di lavoro ha l’obbligo di informare le lavoratrici madri e gli
RLS aziendali, ai sensi dell’art. 36 del T.U.
2. Sicurezza, sui risultati della valutazione e sulle conseguenti misure di
protezione e di prevenzione adottate.
Le misure adottate devono evitare l’esposizione al rischio delle lavoratrici, attraverso una
modifica temporanea delle condizioni o dell’orario di lavoro.
Secondo le condivisibili indicazioni della circolare del Ministero del Lavoro del 16 dicembre
2002, n. 3328, la valutazione del rischio per la sicurezza e la salute delle lavoratrici madri,
242
prevista dall’art. 11 del Decreto Legislativo n. 151/ 2001, deve avvenire “contestualmente alla
valutazione dei rischi generali.
Infatti, detta valutazione preventiva consente al datore di lavoro di informare le lavoratrici, prima
ancora che sopraggiunga una gravidanza, dei rischi esistenti in azienda, delle misure di
prevenzione e protezione che egli ritiene di dover adottare in tal caso e, quindi, dell’importanza
che le dipendenti gli comunichino tempestivamente il proprio stato, in modo che possano essere
valutati con immediatezza i rischi specifici e la conseguente opportunità di spostarle ad altre
mansioni compatibili con la gestazione e poi con il periodo di allattamento, fino a sette mesi
dopo il parto”.
Cosa diversa dall’obbligo di valutazione dei rischi è la concreta applicazione delle misure
preventive e protettive, e delle procedure di sicurezza, la quale risulta invece condizionata dalla
conoscenza – conoscibilità da parte del datore di lavoro dello stato di gravidanza della
lavoratrice.
L’obbligo di informazione stabilito dall’art. 227 (Titolo IX – Sostanze pericolose) del Decreto
Legislativo 81/08, e successive modificazioni, comprende anche quello di informare le
lavoratrici ed i loro rappresentanti per la sicurezza della valutazione e sulle conseguenti misure
di protezione e di prevenzione adottate.
Sulla base di quanto esposto, il datore di lavoro quando viene informato che una lavoratrice è
incinta, oltre ad eseguire la valutazione generale del rischio, deve valutare i rischi specifici cui
essa è esposta ed adoperarsi per assicurare che nessun danno possa pregiudicare la sua salute o
quella del bambino.
Devono inoltre essere determinati la natura e la durata dell’esposizione.
Se dalla valutazione emerge un rischio il datore di lavoro deve informare la donna
comunicandole quali misure si adotteranno per assicurare che la sua salute e sicurezza e quella
del bambino non subiscano danno. Si deve inoltre intervenire affinché non subentrino danni alla
salute o qualsiasi effetto sulla gravidanza, sul bambino non ancora nato o sul neonato ovvero
sulla puerpera. Infine deve essere rimosso il rischio potenziale includendo anche eventuali
adeguamenti dell’organizzazione di lavoro.
Come accennato, ai fini dell’applicazione delle norme di tutela, è indispensabile l’informazione
al datore di lavoro del proprio stato, il che ordinariamente avverrà mediante presentazione, da
parte della lavoratrice, del certificato medico di gravidanza e di quello successivo di assistenza al
parto (artt. 14 e 15 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1026/1976).
Eventuali ritardi non comportano la perdita dei diritti derivanti dalle norme di tutela fisica, le
quali però diventano operanti soltanto dopo la presentazione di detti documenti. Peraltro la
tutela si applica, altresì, alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione od in
affidamento.
3. Schema per l’applicazione della normativa
Il datore di lavoro deve, contestualmente alla redazione/revisione del D.V.R.:
aggiornare il Documento di valutazione rischi;
valutare i rischi per la sicurezza e la salute delle lavoratrici, in particolare i rischi di
esposizione ad agenti fisici, chimici o biologici, processi o condizioni di lavoro di cui
all’allegato C, individuando le misure di prevenzione e protezione da adottare;
valutare i rischi particolari tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro – correlato, secondo
i contenuti dell’Accordo Europeo dell’ottobre 2004;
informare le lavoratrici ed i loro rappresentati per la sicurezza sui risultati della valutazione e
sulle conseguenti misure di protezione e di prevenzione adottate.
Tutte le lavoratrici vanno comunque informate preventivamente sulle norme della tutela della
maternità.
Il datore di lavoro, informato dalla lavoratrice del proprio stato di gravidanza, deve:
vietare alla lavoratrice le attività di trasporto e di sollevamento di pesi, nonché i lavori
243
pericolosi, faticosi ed insalubri di cui agli allegati A e B;
vietare le attività con esposizione a radiazioni ionizzanti in zone classificate o, comunque,
attività che potrebbero esporre il nascituro ad una dose che ecceda un millisievert;
vietare il lavoro, dalle ore 24 alle ore 6, dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al
compimento di un anno di età del bambino.
Il Direttore/Direttrice, sentiti il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione ed il
medico competente, invia alla lavoratrice, che abbia informato il datore di lavoro del suo stato di
gravidanza, la lettera bozza allegata per informarla sui lavori eventualmente vietati, lettera che
sarà inviata per conoscenza anche al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, al medico
competente ed al Responsabile dell’attività.
Si ricorda che l’obbligo di comunicare al datore di lavoro il proprio stato di gravidanza, non
appena accertato, riguarda le lavoratrici che svolgono attività in zone classificate o, comunque,
che potrebbero esporre il nascituro ad una dose che ecceda un millisievert.
Le forme di tutela elencate si applicano anche alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in
adozione od in affidamento, fino al compimento dei sette mesi di età del bambino.
4. Valutazione rischi e misure adottate
Sulla base di quanto esposto il datore di lavoro quando viene informato che una lavoratrice è
incinta, oltre ad eseguire la valutazione generale del rischio, deve valutare i rischi specifici cui
essa è esposta ed adoperarsi per assicurare che nessun danno possa pregiudicare la sua salute o
quella del bambino.
Devono inoltre essere determinati la natura e la durata dell’esposizione.
All’esito della valutazione, il datore di lavoro ha l’obbligo di informare le lavoratrici madri ed il
R.L.S., ai sensi dell’art. 36 del T.U. Sicurezza, sui risultati della valutazione e sulle conseguenti
misure di protezione e di prevenzione adottate.
Le misure adottate devono evitare l’esposizione al rischio delle lavoratrici, attraverso una
modifica temporanea delle condizioni o dell’orario di lavoro.
Tra i fattori di rischio per le lavoratrici gestanti, puerpere od in allattamento, cui il datore di
lavoro deve prestare particolare attenzione nella preliminare attività di valutazione dei rischi,
vanno segnalati:
movimenti e posizioni di lavoro, spostamenti, sia all’interno sia all’esterno dello stabilimento;
la fatica mentale e fisica ed altri disagi connessi all’attività svolta ed alle condizioni dei luoghi
di lavoro (condizioni e carichi di lavoro, stress, carichi posturali);
l’esposizione al fumo passivo in ambiente di lavoro da considerarsi fattore di rischio
particolare.
La sanzione per la violazione del divieto di fumare è raddoppiata qualora sia commessa in
presenza di una donna in evidente stato di gravidanza.
L’art. 53 del Decreto Legislativo n. 151/2001, prevede in particolare il divieto assoluto di adibire
le donne al lavoro, dalle ore 24 alle ore 6, «dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al
compimento di un anno di età del bambino».
E’ altresì prevista la non obbligatorietà di tale modalità oraria per le lavoratrici con figli di età
inferiore ai 3 anni (o in alternativa per il lavoratore padre convivente) o con figli inferiori a 12
anni, se unico genitore affidatario.
Tale prescrizione si appalesa particolarmente rilevante nell’ottica di prevenire lo stress lavoro –
correlato scaturente dalla difficoltà di conciliare gli impegni familiari con quelli lavorativi.
Gli orari di lavoro prolungati ed il lavoro in turni rappresentano condizioni che, inducendo un
affaticamento mentale o fisico, aggravano la stanchezza della lavoratrice, stanchezza correlata
alla gravidanza ed al periodo post natale.
Misure di prevenzione, in tal senso, consistono nella modifica dell’organizzazione del lavoro
mirata a disciplinare la frequenza delle pause, la tipologia e la durata dei turni lavorativi. Inoltre,
244
qualora le condizioni di lavoro risultino troppo dispendiose dal punto di vista fisico o mentale, il
datore di lavoro deve provvedere affinché le donne incinte o le madri che allattano abbiano la
possibilità di riposarsi in posizione distesa ed in condizioni appropriate.
Un’ulteriore importante prescrizione a tutela della maternità (art. 56 Decreto Legislativo 151/01)
riguarda il diritto al rientro della lavoratrice madre al termine dei periodi di divieto di lavoro
sopra richiamati. Vi è il rischio che l’assenza obbligatoria si ripercuota sulla condizione
lavorativa della madre, ove ella rientrando non venga ricollocata nella stessa unità operativa od
in altra per lo meno ubicata nello stesso comune, con il diritto di rimanervi fino al primo anno di
vita del bambino o non venga adibita alle mansioni da ultimo svolte od a mansioni equivalenti.
L’eventuale dimensionamento peraltro può generare, oltre che un danno alla professionalità,
anche un danno biologico che, se debitamente certificato, è suscettibile di risarcimento a carico
del datore di lavoro.
Anche di tale aspetto si dovrà tenere conto per evitare, a carico delle lavoratrici madri,
l’insorgenza di danni alla salute psicofisica derivanti da disfunzioni organizzative.
La lavoratrice madre dovrà inoltre essere informata circa la possibilità di estendere il periodo di
congedo per maternità anticipandolo o posticipandolo: a tre mesi dalla data presunta del parto in
caso di lavori gravosi o pregiudizievoli (art. 17 comma 1 Decreto Legislativo 151/01 ),
dall’inizio della gravidanza fino all’astensione obbligatoria non solo in caso di complicanze della
gravidanza o preesistenti forme morbose che possono essere aggravate dalla gravidanza, ma
altresì ove le condizioni di lavoro od ambientali siano ritenute pregiudizievoli alla salute della
donna e del bambino, e quando la lavoratrice non possa essere spostata ad altre mansioni.
Sarà necessario informare la lavoratrice delle procedure da adottare nel caso in cui i problemi
siano di ordine sanitario od ambientale, delle istanze da proporre al servizio ispettivo del lavoro e
dei tempi prescritti per le relative autorizzazioni.
Poiché l’accertamento medico ed ambientale non è immediato, ma richiede tempi che per quanto
brevi comunque implicano un lasso di tempo lavorativo di potenziale rischio (i provvedimenti
autorizzativi devono essere emanati in un massimo di 7 giorni) sarà opportuno predisporre le
opportune iniziative organizzative ed informarne la lavoratrice.
245
17. Segnaletica di sicurezza
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, TITOLO V, artt. da 161 a 166)
Premessa
Un importante aspetto, legato da sempre alla sicurezza sui luoghi di lavoro, che tuttavia trova
applicazione e si estende anche consistentemente al di fuori di questo ambito, è la normativa che
definisce e standardizza la segnaletica per la sicurezza, già ampliamente affrontato nel Testo Unico
e recentemente interpretato e reso obbligatorio a livello Europeo con la normativa U.N.I./EN/I.S.O.
7010/2012.
Fanno parte dei numerosi doveri del datore di lavoro anche gli adempimenti relativi all’utilizzo
della segnaletica di sicurezza, con lo scopo di “avvertire di un rischio o di un pericolo le persone
esposte, vietare comportamenti che potrebbero causare pericolo; prescrivere determinati
comportamenti necessari ai fini della sicurezza; fornire indicazioni relative alle uscite di sicurezza
o ai mezzi di soccorso o di salvataggio; fornire altre indicazioni in materia di prevenzione e
sicurezza.” [Decreto Legislativo 493/96].
1. Segnaletica di sicurezza nel Decreto Legislativo 81/08
Il Decreto Legislativo 81/08 dà disposizioni riguardanti la segnaletica di sicurezza che deve essere
presente in tutte le aziende e unità produttive.
Tali disposizioni fanno sempre parte dell’informazione dei lavoratori, infatti la segnaletica serve a
indicare loro dove si trovano i rischi e dove sono ubicate le attrezzature o le vie di fuga nel caso in
cui si verifichi un pericolo.
Il Testo Unico sulla sicurezza sul lavoro affronta l’argomento agli artt. 161 e 162 e più nel dettaglio
negli allegati :
Allegato LI – (articolo 262, comma 3): Segnali di avvertimento per indicare le aree in cui
possono formarsi atmosfere esplosive;
Allegato XXIV: Prescrizioni generali per la segnaletica di sicurezza;
Allegato XXV: Prescrizioni generali per i cartelli segnaletici;
Allegato XXVI: Prescrizioni per la segnaletica dei contenitori e delle tubazioni;
Allegato XXIX: Prescrizioni per i segnali luminosi.
Il presente Titolo stabilisce le prescrizioni per la segnaletica di sicurezza e di salute sul luogo di
lavoro.
Le disposizioni del presente Decreto non si applicano alla segnaletica impiegata per regolare il
traffico stradale, ferroviario, fluviale, marittimo ed aereo.
1. Ai fini del presente Titolo si intende per:
a) segnaletica di sicurezza e di salute sul luogo di lavoro, di seguito indicata come segnaletica di
sicurezza: una segnaletica che, riferita ad un oggetto, ad una attività o ad una situazione
determinata, fornisce un’indicazione od una prescrizione concernente la sicurezza o la salute sul
luogo di lavoro, e che utilizza, a seconda dei casi, un cartello, un colore, un segnale luminoso od
acustico, una comunicazione verbale od un segnale gestuale;
b) segnale di divieto: un segnale che vieta un comportamento che potrebbe far correre o causare un
pericolo;
c) segnale di avvertimento: un segnale che avverte di un rischio o pericolo;
d) segnale di prescrizione: un segnale che prescrive un determinato comportamento;
e) segnale di salvataggio o di soccorso: un segnale che fornisce indicazioni relative alle uscite di
sicurezza od ai mezzi di soccorso o di salvataggio;
f) segnale di informazione: un segnale che fornisce indicazioni diverse da quelle specificate alle
lettere da b) ad e);
246
g) cartello: un segnale che, mediante combinazione di una forma geometrica, di colori e di un
simbolo o pittogramma, fornisce un’indicazione determinata, la cui visibilità è garantita da
un’illuminazione di intensità sufficiente;
h) cartello supplementare: un segnale impiegato insieme ad un cartello del tipo indicato alla lettera
g) e che fornisce indicazioni complementari;
i) colore di sicurezza: un colore al quale è assegnato un significato determinato;
j) simbolo o pittogramma: un’immagine che rappresenta una situazione o che prescrive un
determinato comportamento, impiegata su un cartello o su una superficie luminosa;
k) segnale luminoso: un segnale emesso da un dispositivo, costituito da materiale trasparente o
semitrasparente, che è illuminato dall’interno o dal retro in modo da apparire esso stesso come
una superficie luminosa;
l) segnale acustico: un segnale sonoro in codice, emesso e diffuso da un apposito dispositivo, senza
impiego di voce umana o di sintesi vocale;
m) comunicazione verbale: un messaggio verbale predeterminato, con impiego di voce umana o di
sintesi vocale;
n) segnale gestuale: un movimento o posizione delle braccia o delle mani in forma convenzionale
per guidare persone che effettuano manovre implicanti un rischio od un pericolo attuale per i
lavoratori.
Il sistema informativo deve essere standardizzato, allo scopo di ovviare alle difficoltà dovute
all’eventuale presenza di persone prive di un linguaggio comune, oppure affette da menomazioni
sensoriali (deficit visivi e/o uditivi).
La segnaletica di sicurezza ha lo scopo di fornire ai lavoratori le informazioni essenziali sulle
caratteristiche dei pericoli presenti in un dato contesto di lavoro anche se deve essere intesa come
“punto di arrivo”, sia pure obbligatorio, di una più complessa attività di informazione dei lavoratori.
1.1. Classificazione della segnaletica di sicurezza
In generale la segnaletica di sicurezza di tipo permanente, segue una nomenclatura convenzionata e
riconosciuta a livello internazionale, classificando i segnali nelle categorie seguenti:
segnali di divieto di forma circolare con un pittogramma nero in campo bianco e cornice rossa;
segnali di pericolo od avvertimento di forma triangolare in campo giallo;
segnali prescrittivi di forma rotonda con simbologia bianca in campo azzurro;
segnali di salvataggio di forma quadrata o rettangolare con scritta o pittogrammi bianchi in
campo verde;
segnali antincendio di forma quadrata o rettangolare con scritta bianca in campo rosso.
La segnaletica invece di tipo occasionale assume rilevanza nel momento in cui si voglia sottolineare
l’importanza di un evento limitato nel tempo, focalizzando l’attenzione del ricevente su situazioni
contingenti, vengono in questo caso utilizzati segnali luminosi, vocali, acustici o gestuali.
In generale le segnalazioni devono essere sempre brevi e facilmente comprensibili anche dai non
addetti ai lavori e tenendo conto delle eventuali situazioni ambientali di disagio, allarme e scarsa
visibilità ipotizzabili in caso di un’emergenza.
Un capitolo a parte è dedicato alla segnaletica che identifica i rischi specifici di tipo chimico e
biologico, il nuovo Regolamento internazionale R.E.A.C.H. (Registration Evaluation Authorization
of Chemicals), introdotto in Europa a partire dal 2008 (Regolamento 1272/2008/C.E), stabilisce e
standardizza tutta la normativa relativa alla produzione, al trasporto ed alla classificazione dei
prodotti chimici, identificando di conseguenza nuovi pittogrammi di rischio e nuova segnaletica da
adottare per i trasporti di sostanze pericolose.
1.2. Scopi della segnaletica di sicurezza
La segnaletica di sicurezza si applica quando dalla valutazione risultano rischi che non possono
essere evitati o sufficientemente limitati con misure, metodi, o sistemi di organizzazione del lavoro,
247
o con mezzi tecnici di protezione collettiva.
La segnaletica di sicurezza deve essere utilizzata solamente per trasmettere il messaggio o
l’informazione precisati nelle definizioni specifiche.
Scopo della segnaletica di sicurezza è quello di attirare in modo rapido e facilmente comprensibile
l’attenzione su oggetti e situazioni che possono provocare determinati pericoli, ed in particolare:
vietare comportamenti pericolosi;
avvertire di un rischio o di un pericolo le persone esposte;
fornire indicazioni relative alle uscite di sicurezza e ai mezzi di soccorso o di salvataggio;
prescrivere comportamenti necessari ai fini della sicurezza;
indicare ulteriori elementi di prevenzione e sicurezza (fornire indicazioni relative alle uscite di
sicurezza od ai mezzi di soccorso e di salvataggio).
La superficie del cartello dev’essere opportunamente dimensionata in relazione alla distanza dalla
quale lo stesso deve risultare riconoscibile.
La dimensione di un segnale deve rispettare la seguente formula:
L2
A>
2000
essendo:
A
la superficie del segnale espressa in m 2 ;
L
la distanza in metri alla quale il segnale deve essere riconoscibile.
1.3. Efficacia della segnaletica di sicurezza
evitare di disporre un numero eccessivo di cartelli troppo vicini gli uni agli altri;
non utilizzare contemporaneamente due segnali luminosi che possano confondersi;
non utilizzare un segnale luminoso nelle vicinanze di un’altra emissione luminosa poco distinta;
non utilizzare contemporaneamente due segnali sonori;
non utilizzare un segnale sonoro se il rumore di fondo è troppo intenso.
La segnaletica non deve essere compromessa da:
cattiva progettazione;
numero insufficiente;
ubicazione irrazionale;
cattivo stato o cattivo funzionamento dei mezzi o dei dispositivi di segnalazione.
1.4. Condizioni di impiego per i cartelli segnaletici
I cartelli vanno sistemati:
tenendo conto di eventuali ostacoli;
ad un’altezza ed in una posizione appropriata rispetto all’angolo di visuale:
all’ingresso della zona interessata in caso di rischio generico:
nelle immediate vicinanze di un rischio specifico o dell’oggetto che si intende segnalare ed in un
posto bene illuminato e facilmente accessibile e visibile.
Ferme restando le disposizioni del Decreto Legislativo 81/08, in caso di cattiva illuminazione
naturale sarà opportuno utilizzare colori fosforescenti, materiali riflettenti od illuminazione
artificiale.
Il cartello va rimosso quando non sussiste più la situazione che ne giustificava la presenza.
248
2. I segnali di sicurezza di tipo permanente
non devono essere mai rimossi, anche in caso di ordinaria manutenzione;
sono di 4 diversi colori (rosso, giallo, azzurro e verde);
devono essere posti calcolando l’angolo di visuale dell’utente.
Colore
Rosso
Significato o scopo
Segnali di divieto
Pericolo e allarme
Giallo o giallo - arancio
Azzurro
Materiali e attrezzature antincendio
Segnali di avvertimento
Segnali di prescrizione
Verde
Segnali di salvataggio o di soccorso
Situazione di sicurezza
Indicazioni e precisazioni
Atteggiamenti pericolosi.
Alt; arresto, dispositivi di
interruzione
d’emergenza,
sgombero.
Identificazione ed ubicazione.
Attenzione, cautela, verifica.
Comportamento od azione
specifica, obbligo di portare un
mezzo di sicurezza personale.
Porte,
uscite,
percorsi,
materiali, postazioni, locali.
Ritorno alla normalità.
Figura 25: Segnaletica di sicurezza di tipo permanente.
249
2.1. Segnali di divieto
Figura 26: Segnaletica di sicurezza: segnali di divieto.
Caratteristiche intrinseche:
forma rotonda;
pittogramma nero su fondo bianco, bordo e banda (verso il basso da sinistra a destra lungo il
simbolo con un’inclinazione di 45°) rossi (il rosso deve coprire almeno il 35% della superficie
del segnale).
250
2.2. Segnali di avvertimento
Figura 27: Segnaletica di sicurezza: segnali di avvertimento.
Caratteristiche intrinseche:
forma triangolare;
pittogramma nero su fondo giallo (il giallo deve coprire almeno il 50% della superficie del
segnale).
251
2.3. Segnali di prescrizione od obbligo
Figura 28: Segnaletica di sicurezza: segnali di prescrizione od obbligo.
Caratteristiche intrinseche:
forma rotonda;
pittogramma bianco su fondo azzurro (l’azzurro deve coprire almeno il 50% della superficie del
segnale).
252
2.4. Segnali di salvataggio e di soccorso
Figura 29: Segnaletica di sicurezza: segnali di salvataggio e di soccorso.
Caratteristiche intrinseche:
forma quadrata o rettangolare;
pittogramma bianco su fondo verde (il verde deve coprire almeno il 50% della superficie del
segnale).
253
2.5. Segnali per la lotta contro l’incendio
Figura 30: Segnaletica di sicurezza: segnali per la lotta antincendio.
Caratteristiche intrinseche:
forma quadrata;
pittogramma bianco su fondo rosso (il rosso deve coprire almeno il 50% della superficie del
segnale).
Le attrezzature antincendio devono essere identificate mediante apposita colorazione ed un cartello
indicante la loro ubicazione o mediante colorazione delle posizioni in cui sono sistemate o degli
accessi a tali postazioni. Il colore di identificazione è rosso la cui superficie dovrà avere
un’ampiezza sufficiente per consentire un’agevole identificazione. I cartelli descritti devono essere
utilizzati per identificare l’ubicazione delle attrezzature in questione.
254
3. Altri tipi di segnalazioni
3.1. Segnali gestuali
Si usano nei cantieri e consistono in un movimento od in una particolare posizione delle braccia o
delle mani per guidare persone che effettuano manovre.
Figura 31: Segnali gestuali.
3.2. Segnalazioni di ostacoli
Per la segnalazione di ostacoli come fosse, gradini,
pilastri lungo una via di passaggio, bozzelli di gru,
oggetti di macchine sporgenti, etc., si usano bande
giallo/nere inclinate a 45° .
Figura 32: Segnalazioni di ostacoli.
3.3. Segnaletica da affiggere in alcuni laboratori
Per quanto concerne i laboratori si definiscono, in materia di sicurezza, delle segnalazioni
specifiche in relazione a:
laboratori biochimici;
laboratori biologici;
laboratori che utilizzino radioisotopi;
laboratori chimici;
laboratori laser;
depositi di rifiuti speciali e sanitari.
255
3.3.1. Segnaletica specifica per laboratori biochimici
Figura 33: Segnaletica di sicurezza per laboratori biochimici.
3.3.2 Segnaletica specifica per laboratori biologici
Figura 34: Segnaletica di sicurezza per laboratori biologici.
256
3.3.3 Segnaletica specifica per laboratori che utilizzano radioisotopi
Figura 35: Segnaletica di sicurezza per laboratori che utilizzano radioisotopi.
3.3.4 Segnaletica specifica per laboratori chimici
Figura 36: Segnaletica di sicurezza per laboratori chimici.
257
3.3.5 Segnaletica specifica per laboratori laser
Figura 37: Segnaletica di sicurezza per laboratori laser.
3.3.6 Segnaletica specifica per depositi rifiuti speciali e sanitari
Figura 38: Segnaletica di sicurezza per depositi rifiuti speciali e sanitari.
258
3.4. Segnaletica da usare in alcuni ambienti di lavoro
Per quanto concerne particolari ambienti di lavoro, si prescrive per essi una specifica segnaletica di
sicurezza.
Si considerano in questa sede:
cabine elettriche;
officine meccaniche;
depositi di bombole di gas compressi;
edifici con uffici ed aule.
3.4.1. Cabine elettriche
Principali adempimenti, in tema di segnaletica previsti dal Decreto del Presidente della Repubblica
547/55 per le cabine elettriche:
art. 34 – Segnaletica mezzi di estinzione;
art. 35 – Segnaletica indicante divieto di utilizzare acqua per spegnere incendi;
art. 277 – Segnaletica indicante il divieto di accedere allo spazio compreso fra la barriera e i
conduttori prima di aver tolto la tensione;
art. 287 – Targhette in corrispondenza degli organi di comando dei quadri elettrici, per
l’indicazione dei circuiti cui gli stessi si riferiscono;
art. 337 – Schema elettrico unifilare dell’impianto;
art. 338 – Colorazione distinta dei conduttori ad alta tensione a valori diversi o dei conduttori sia
ad alta sia a bassa tensione; tabelle con indicazione dei valori delle tensioni presenti e della
relativa colorazione;
art. 339 – Segnaletica indicante il “pericolo di morte” ed il “divieto di accesso alle persone non
autorizzate”.
art. 342 – Segnaletica indicante il “Divieto di depositare materiale estranei all’esercizio
elettrico”;
art. 343 – Segnaletica con “istruzioni sui soccorsi da prestarsi ai colpiti da corrente elettrica”;
art. 345 – Segnaletica “ Lavori in corso, non effettuare manovre” (da conservare in loco per
eventuali utilizzazioni).
Figura 39: Segnaletica di sicurezza per cabine elettriche.
259
3.4.2. Officine Meccaniche
Principali adempimenti, in tema di segnaletica previsti dai Decreti del Presidente della Repubblica
547/55 e dal 303/56 per le officine meccaniche:
dal Decreto del Presidente della Repubblica 547/55:
art. 4 – Obblighi del Datore di lavoro, Dirigenti, Preposti: Affissione negli ambienti di lavoro
delle norme essenziali di prevenzione e di estratti del Decreto stesso;
Norme di sicurezza per: Macchine utensili, Mole abrasive, Fresatrice, Saldatura ossiacetilene;
art. 47 – Divieto di rimozione delle protezioni e dei dispositivi di sicurezza delle Macchine;
art. 48 – Divieto di pulire, oliare ed ingrassare durante il moto;
art. 48 – Divieto di operazioni di riparazioni o registrazioni di organi in moto;
art. 86 – Macchine molatrici: Indicazione diametro max della mola, n. giri albero motore e tipo
di impasto;
art. 91 – Macchina molatrice: Registrazione del portapezzo, indicazioni riguardanti la sua
distanza;
art.254 – Saldatura ossiacetilenica: Obbligo di ancorare le bombole;
art. 259 – Saldatura elettrica: Adottare misure preventive e protettive, per i lavoratori contro le
radiazioni dirette o riflesse;
art. 378 – Abbigliamento: Divieto di usare, sul luogo di lavoro, indumenti personali od
abbigliamenti che possano costituire pericolo per l’incolumità personale;
art. 382 – Protezione degli occhi: Obbligo di uso del mezzo protettivo specifico.
dal Decreto del Presidente della Repubblica 303/56:
art. 27/28 – Pacchetto o cassetta di pronto soccorso.
Figura 40: Segnaletica di sicurezza per officine meccaniche.
260
3.4.3. Deposito di bombole gas compressi
Principali adempimenti, in tema di segnaletica previsti dal Decreto del Presidente della Repubblica
547/55 per i depositi gas compressi.
art. 33 e 34 – Difesa contro gli incendi;
art. 249 – Indicazioni recipienti per gas compressi;
art. 254 – Ancoraggio gas compressi;
art. 353 – Materie e prodotti pericolosi.
Figura 41: Segnaletica di sicurezza per depositi di bombole di gas compressi.
261
3.4.4. Edifici con uffici e aule
Principali adempimenti, in tema di segnaletica previsti per gli edifici adibiti ad uffici ed aule;
cartelli con dicitura VIETATO FUMARE negli ambienti ove non è espressamente consentito;
applicazione sulle porte di uscita della scritta USCITA;
applicazione lungo le vie di esodo, di cartelli con il percorso per portarsi all’esterno;
segnaletica in corrispondenza dei mezzi di estinzione;
segnaletica indicante il divieto di utilizzare acqua per spegnere incendi su apparecchiature
elettriche;
segnaletica in corrispondenza della valvola intercetto combustibile dell’impianto termico;
indicazione interruttore generale;
cartelli agli sbarchi degli ascensori con divieto di utilizzo in caso di incendio;
segnaletica riportante indicazioni sui provvedimenti da attuarsi ed il comportamento da tenere in
caso di emergenza.
Figura 42: Segnaletica di sicurezza per edifici con uffici ed aule.
Figura 43: Segnaletica di sicurezza per edifici con uffici ed aule.
262
18. Emergenze
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, TITOLO I, CAPO III, art. 18)
Premessa
L’emergenza è una situazione anomala che può costituire fonte di rischio per la sicurezza delle
persone e di danno per le cose.
L’emergenza può essere definita come il “rischio imminente o di grave di minaccia di pericolo per
le persone ed i beni”, questa è caratterizzata dalla non prevedibilità dell’evento o per la vastità dello
stesso, risultando comune denominatore il fatto di non poter essere gestita dalla singola persona o
squadra che operano sulla macchina, sull’impianto o nell’ambiente in cui si è manifestata
l’emergenza.
L’ emergenza è un evento al di fuori dell’ordinario che comporta una rapida reazione aziendale al di
fuori delle normali prassi e processi produttivi.
Le situazioni di emergenza sono quelle in cui è richiesto un intervento tempestivo per prevenire o
limitare i danni che possono derivare a causa della presenza di un pericolo grave e immediato:
questa locuzione è presa dall’art. 18, comma 1, lettera t) del Decreto Legislativo 81/2008 che fissa
l’obbligo per il datore di lavoro ed i dirigenti di gestire le emergenze.
Per valutare la gravità di un pericolo si può fare riferimento alla gravità dei suoi effetti, ricordando
che il Codice Penale (art. 583, comma 1) definisce “grave” una lesione che mette in pericolo di vita
o che produce un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai
quaranta giorni o che produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo.
Quanto al termine “immediato” pare logico riferirlo sia alle situazioni in cui il pericolo può
effettivamente produrre immediatamente i suoi effetti lesivi gravi, sia quelle in cui è facile e
ragionevole prevedere che si potranno presto avere effetti lesivi gravi in assenza di un intervento
efficace e tempestivo, come è il caso di un principio d’incendio, del blocco di persone all’interno di
un ascensore, etc.
Le emergenze possono derivare da problemi tecnologici (inadeguatezze delle strutture o degli
impianti), comportamenti colposi (errori) o dolosi (sabotaggi, atti criminali), eventi naturali
(terremoti, inondazioni, fenomeni meteorologici estremi) o da un loro mix.
L’emergenza più tipica è probabilmente rappresentata dagli incendi, ma altri esempi di emergenze
sono i black out, gli allagamenti, le esplosioni, le fughe di gas, il blocco degli ascensori, etc.
È opportuno attrezzarsi ed organizzarsi per gestire le emergenze in proprio, cioè senza soccorsi
esterni, tutte le volte in cui questo obiettivo sembra realisticamente perseguibile ma vanno allo
stesso tempo individuate le situazioni in cui è necessario ricorrere a soccorsi esterni così da poter
prendere per tempo gli opportuni accordi.
1. Stati di emergenza
Le emergenze non comportano automaticamente la necessità di evacuare in tutto o in parte la
R.S.A..
Occorre perciò individuare i criteri cui attenersi per valutare la necessità di evacuare in tutto o in
parte la R.S.A. e va stabilito a chi tocca tale valutazione.
Gli stati di emergenza sono classificati in tre categorie a gravità crescente:
Emergenza contenuta (di tipo 1): essa può essere affrontata e controllata dal personale coinvolto,
senza l’ausilio del personale addetto (ad esempio principio lieve d’incendio, sversamento di
quantità non significative di liquidi contenenti sostanze pericolose, etc.);
Emergenza interna (di tipo 2): può essere affrontata e controllata mediante l’intervento degli
incaricati per l’emergenza come nel seguito definiti e senza ricorso agli enti di soccorso esterni
(ad esempio principio d’incendio di una certa entità, sversamento di quantità significative di
liquidi contenenti sostanze pericolose, black – out elettrico, danni significativi da eventi naturali,
etc.); personale addetto alla gestione dell’emergenza, senza l’ausilio di soccorsi esterni;
263
Emergenza grave: deve essere affrontata e controllata solamente mediante intervento degli enti
di soccorso esterni (VVF, PS, etc.) con l’aiuto della squadra di pronto intervento (ad esempio
incendio di vaste proporzioni, eventi naturali, catastrofici, etc.).
In funzione dell’entità e della gravità dell’emergenza creatasi, oltre a valutare il possibile danno a
persone e beni, determinato dallo svilupparsi della ragione del pericolo, è necessario considerare
anche il fattore emotivo uomo che, in situazioni di forte paura od alto stress, spesso può determinare
danni maggiori o comunque gravissimi a se stessi od ad altri.
Lo stato confusionale che si raggiunge quando si è in situazione di pericolo, unito all’incapacità di
riuscire in breve tempo a dare un’immediata risoluzione al problema insorto, è comunemente
denominato e riconosciuto dalla scienza come stato di panico.
Il panico produce varie reazioni, il timore, la paura, l’oppressione, l’ansia, inoltre è facilmente
trasmettibile ad altri: quindi, anche per questo motivo, è bene farsi trovare preparati a possibili
situazioni di emergenza, al fine di diminuire al massimo i livelli di ansia, riuscire in tempi
brevissimi a dare una risposta attiva alla risoluzione del problema, sia essa l’intervento attivato
singolarmente o mediante squadra, come lo spegnimento localizzato di un piccolo incendio o
l’evacuazione dei vari ambienti.
2. Possibili cause delle emergenze
Emergenze Interne, cause:
Incendi od esplosioni;
Fughe di gas;
Sversamenti di prodotti;
Incidenti;
Black – Out;
Infortuni od intossicazioni;
Rilasci tossici;
Guasti macchine.
Emergenze esterne, cause:
Allagamenti;
Neve;
Ghiaccio;
Fulmini;
Terremoti;
Rapine od atti terroristici;
Incidenti stradali.
3. Gestione delle Emergenze
3.1. Responsabilità del datore di lavoro
I compiti del datore di lavoro per l’implementazione del sistema di gestione delle emergenze, in
ottemperanza a quanto riportato nella Sezione VI del Titolo I del Decreto Legislativo 81/08 e nel
Decreto Ministeriale 10/03/1998, comprendono:
il rispetto delle disposizioni generali in materia di gestione delle emergenze;
la nomina e la relativa formazione dei lavoratori addetti alla lotta antincendio e primo soccorso;
la redazione del piano di emergenza ed evacuazione aziendale;
le relative prove di esodo.
Il datore di lavoro, ai fini degli adempimenti di cui all’art.18, comma1, lett. t) del Decreto
Legislativo 81/08:
organizza i necessari rapporti con i servizi pubblici competenti in materia di primo soccorso,
264
salvataggio, lotta antincendio e gestione dell’emergenza;
designa preventivamente i lavoratori di cui all’art. 18, comma 1, lettera b) del Decreto
Legislativo 81/08;
informa tutti i lavoratori che possono essere esposti ad un pericolo grave ed immediato circa le
misure predisposte ed i comportamenti da adottare;
programma gli interventi, prende i provvedimenti e dà istruzioni affinché i lavoratori, in caso di
pericolo grave ed immediato che non può essere evitato, possano cessare la loro attività, o
mettersi al sicuro, abbandonando immediatamente il luogo di lavoro;
adotta i provvedimenti necessari affinché qualsiasi lavoratore, in caso di pericolo grave ed
immediato per la propria sicurezza o per quella di altre persone e nell’impossibilità di contattare
il competente superiore gerarchico, possa prendere le misure adeguate per evitare le conseguenze
di tale pericolo, tenendo conto delle sue conoscenze e dei mezzi tecnici disponibili;
garantisce la presenza di mezzi di estinzione, idonei alla classe di incendio ed al livello di rischio
presenti sul luogo di lavoro, tenendo anche conto delle particolari condizioni in cui possono
essere usati.
L’obbligo si applica anche agli impianti di estinzione fissi, manuali od automatici, individuati in
relazione alla valutazione dei rischi.
Il datore di lavoro designa preventivamente i lavoratori destinati alla gestione della prevenzione
incendi e del primo soccorso all’interno dell’organizzazione.
A tale scopo un numero di soggetti adeguato alle dimensioni dell’organizzazione viene formato
attraverso corsi specifici ed entra a fare parte della squadre cosiddette di “Prevenzione incendi” e
“Primo soccorso”.
I lavoratori non possono, se non per giustificato motivo, rifiutare la designazione.
Essi devono essere formati, essere in numero sufficiente e disporre di attrezzature adeguate, tenendo
conto delle dimensioni e dei rischi specifici dell’azienda o dell’unità produttiva.
Tutti gli altri soggetti presenti all’interno della struttura, in caso di emergenza, sono tenuti a fare
riferimento al suddetto personale ed alle indicazioni da questo fornite
I nominativi del personale, facente parte delle squadre, sono reperibili presso ciascuna struttura
segnalati da apposita cartellonistica che contiene anche i recapiti degli addetti ed altri numeri utili.
Il datore di lavoro deve, salvo eccezioni debitamente motivate, astenersi dal chiedere ai lavoratori di
riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave ed immediato.
Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone
presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni od omissioni, conformemente
alla sua formazione, alle istruzioni ed ai mezzi forniti dal datore di lavoro.
3.2. Il sistema di gestione delle emergenze
In breve, il sistema di gestione delle emergenze comprende:
l’organizzazione dei necessari rapporti con i servizi pubblici competenti in materia di primo
soccorso, salvataggio, lotta antincendio e gestione dell’emergenza;
la programmazione degli interventi necessari affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave ed
immediato, possano cessare la loro attività, o mettersi al sicuro, abbandonando immediatamente
il luogo di lavoro;
la presenza di mezzi di estinzione idonei alla classe di incendio ed al livello di rischio presenti
sul luogo di lavoro, tenendo anche conto delle particolari condizioni in cui possono essere usati;
la presenza dei presidi di primo soccorso idonei al tipo di attività in oggetto;
il controllo e la manutenzione degli impianti e delle attrezzature antincendio e dei presidi di
primo soccorso.
Inoltre. il datore di lavoro, al fine di proteggere la salute e la sicurezza dei lavoratori dalle
265
conseguenze di incidenti o di emergenze, deve predisporre procedure di intervento adeguate da
attuarsi al verificarsi di tali eventi.
Tale misure comprendono esercitazioni di sicurezza da effettuarsi ad intervalli connessi alla
tipologia di lavorazione e la messa a disposizione di appropriati mezzi di pronto soccorso.
3.3. Il piano di emergenza e di evacuazione
Il Decreto Legislativo 81/08 e s.m.i. tra le misure generali di tutela della salute e della sicurezza dei
lavoratori nei luoghi di lavoro individua anche “le misure di emergenza da attuare in caso di primo
soccorso, di lotta antincendio, di evacuazione dei lavoratori e di pericolo grave ed immediato”
(art.15 comma 1 lettera u).
Il Decreto continua, stabilendo che il datore di lavoro ed i dirigenti devono “designare
preventivamente i lavoratori incaricati dell’attuazione delle misure di prevenzione incendi e lotta
antincendio, di evacuazione dei luoghi di lavoro in caso di pericolo grave ed immediato, di
salvataggio, di primo soccorso e, comunque, di gestione delle emergenze” (art. 18 comma 1 lettera
b).
Sulla base delle prescrizioni sopra citate ed all’esito della valutazione del rischio d’incendio, il
datore di lavoro adotta le necessarie misure organizzative e gestionali da attuare in caso di incendio,
riportandole in un piano di emergenza, elaborato in conformità ai criteri dell’allegato VIII del D.M.
10/03/98.
Il Piano di Emergenza è quindi uno strumento operativo mediante il quale vengono studiate e
pianificate le operazioni da compiere per una corretta gestione degli incidenti, siano essi incendi,
infortuni, fughe di gas, fuoriuscite di sostanze pericolose o qualsiasi altro evento calamitoso che
determini la necessità di abbandonare la struttura (ad esempio terremoti, inondazioni, etc..), al fine
di consentire un esodo ordinato e sicuro a tutti gli occupanti di un edificio.
Il piano di emergenza è l’insieme delle misure straordinarie, procedure operative di intervento da
attuare per fronteggiare una qualsiasi calamità e ridurre i danni da essa derivanti.
L’obiettivo del piano di emergenza è di stabilire le norme di comportamento e le responsabilità dei
singoli, affinché le conseguenze di eventuali situazioni d’emergenza possano risultare le minori
possibili.
Il “Piano di emergenza ed evacuazione”, obbligatorio per tutte le aziende con più di 10 lavoratori
e per quelle con presenza di attività, soggette al controllo dei Vigili del Fuoco, è un valido aiuto per
conoscere il proprio ambiente di lavoro ai fini dei centri di rischio e delle protezioni antincendio,
oltre che uno strumento operativo vero e proprio in caso di emergenza.
È importante sottolineare che un piano di emergenza ed evacuazione è un valido strumento di
sicurezza a disposizione di tutti, che può facilmente essere utilizzato in qualsiasi “situazione di
pericolo”, sia determinata dall’insorgere di un incendio, sia da altre condizioni tali da determinare
l’allarme e la necessità di fare evacuare il fabbricato.
In generale, indipendentemente dalla realtà lavorativa, dai materiali depositati od impiegati nelle
lavorazioni e delle caratteristiche costruttive ed impiantistiche dell’azienda, uno degli aspetti che ha
enorme importanza in termini di quantificazione dell’evento – danno, è quello relativo alle prime
misure approntate nei primi momenti, nell’attesa dell’arrivo dei Vigili del Fuoco: appare dunque
evidente l’importanza che assume la corretta gestione della situazione di emergenza.
Il piano di Emergenza tende a perseguire i seguenti obbiettivi:
prevenire o limitare pericoli alle persone;
coordinare gli interventi del personale a tutti i livelli, in modo che siano ben definiti tutti i
comportamenti e le azioni che ogni persona presente nell’Azienda deve mettere in atto per
salvaguardare la propria incolumità e, se possibile, per limitare i danni ai beni ed alla struttura
dell’edificio;
intervenire, dove necessario, con un pronto soccorso sanitario;
individuare tutte le emergenze che possano coinvolgere l’attività, la vita e la funzionalità
dell’impianto;
266
definire esattamente i compiti da assegnare al personale che opera all’interno dell’Azienda,
durante la fase emergenza.
Il piano di emergenza è l’unione delle planimetrie di emergenza e di un documento scritto che
raccoglie le informazioni sia generali sia dettagliate (procedure) atte a scandire i diversi momenti
della gestione della situazione di emergenza, e capaci di descrivere tutte le azioni da intraprendere e
quelle da non fare: in mancanza di appropriate procedure un incidente diventa caotico, causando
confusione ed incomprensione, quindi aumentando il rischio di infortuni.
Il piano include le planimetrie nelle quali sono riportati:
le caratteristiche distributive del luogo con particolare riferimento alla destinazione delle varie
aree ed alle vie di esodo;
il tipo e l’ubicazione degli impianti di estinzione;
l’ubicazione del quadro generale, gruppi di continuità, depositi di materiale pericoloso, etc.
Nella formulazione del Piano si provvede, tra l’altro a predisporre le mappe dei vari piani con
indicazione delle vie d’uscita, scale, ascensori, aree sicure, ubicazione apprestamenti e mezzi
antincendio, e con l’indicazione di un’area esterna come punto di ritrovo in caso di evacuazione.
Il piano di emergenza deve essere:
preciso (compiti, ruoli, responsabilità);
chiaro e conciso;
flessibile;
revisionato ed aggiornato;
concreto ed applicabile.
Per luoghi di lavoro, ubicati nello stesso edificio e ciascuno facente capo a titolari diversi, il piano
deve essere elaborato in collaborazione tra i vari datori di lavoro.
Il datore di lavoro deve inoltre individuare le necessità particolari dei lavoratori disabili nelle fasi di
pianificazione delle misure di sicurezza antincendio, e delle procedure di evacuazione del luogo di
lavoro.
Occorre altresì considerare le altre persone disabili che possono avere accesso nel luogo di lavoro.
Al riguardo occorre anche tenere presente le persone anziane, le donne in stato di gravidanza, le
persone con difficoltà di deambulazione ed i bambini.
In primo luogo il piano di emergenza ha come scopo quello di salvaguardare la vita delle persone,
siano esse dipendenti dall’azienda, clienti, visitatori od, addirittura, abitanti delle aree circostanti.
Tutte le azioni, definite in tale piano, devono essere assolutamente correlate all’effettiva capacità
delle persone di svolgere determinate operazioni.
Durante la sua stesura ed eventuale applicazione, occorre ricordarsi che, in condizioni di stress o di
panico, le persone tendono a perdere la lucidità.
3.3.1. Contenuti del piano di emergenza
Il piano contiene nei dettagli:
le azioni che i lavoratori devono mettere in atto in caso di emergenza;
le procedure per l’evacuazione del luogo di lavoro che devono essere attuate dai lavoratori e
dalle altre persone presenti;
le disposizioni per chiedere l’intervento dei Vigili del Fuoco o dell’ambulanza e fornire le
necessarie informazioni al loro arrivo;
le specifiche misure per assistere le persone disabili;
l’identificazione di un adeguato numero di persone incaricate di sovrintendere e controllare
l’attuazione delle procedure previste.
3.3.2. Obbligatorietà del piano di emergenza
La redazione del Piano di Emergenza è obbligatoria per tutti i luoghi di lavoro ove sono occupati 10
267
o più dipendenti ed in quelli ove si esercitano attività soggette al controllo dei Vigili del Fuoco ai
sensi del Decreto Ministeriale del 16/02/1982 (ad esempio Impianti per la produzione del calore
alimentati a combustibile solido, liquido o gassoso con potenzialità superiore a 100000 kcal h ,
Scuole di ogni ordine, grado e tipo, collegi, accademie e simili per oltre 100 persone presenti, etc.).
3.3.3. Criteri adottati
I fattori di cui si deve tenere conto nella compilazione del piano di emergenza sono:
le caratteristiche dei luoghi con particolare riferimento alle vie di esodo;
il sistema di rivelazione e di allarme incendio;
il numero delle persone presenti e la loro ubicazione;
i lavoratori esposti a rischi particolari;
il numero di addetti all’attuazione ed al controllo del piano, nonché all’assistenza per
l’evacuazione (addetti alla gestione delle emergenze, evacuazione, lotta antincendio, primo
soccorso);
il livello di informazione e formazione fornito ai lavoratori.
Il piano di emergenza è basato su chiare istruzioni scritte ed include:
i doveri del personale di servizio incaricato di svolgere specifiche mansioni;
i doveri del personale cui sono affidate particolari responsabilità in caso di incendio;
i provvedimenti necessari per assicurare che tutto il personale sia informato sulle procedure da
attuare;
le procedure per la chiamata dei Vigili del Fuoco o dell’ambulanza o delle Forze dell’Ordine, per
informarli dell’accaduto al loro arrivo e per fornire la necessaria assistenza durante l’intervento.
3.3.4. Aggiornamento del piano
È un documento in continuo aggiornamento, che deve tener conto dell’evoluzione dell’assetto
territoriale e delle variazioni negli scenari attesi.
Il piano verrà aggiornato ogni qualvolta necessario per tenere conto:
delle variazioni avvenute negli edifici sia per quanto attiene agli edifici stessi ed agli impianti,
sia per quanto riguarda le modifiche nell’attività svolta;
di nuove informazioni che si rendono disponibili;
di variazioni nella realtà organizzativa che possano avere conseguenze per quanto riguarda la
sicurezza;
dell’esperienza acquisita;
delle mutate esigenze della sicurezza e dello sviluppo della tecnica e dei servizi disponibili.
Anche le esercitazioni contribuiscono all’aggiornamento del piano perché ne convalidano i
contenuti e valutano le capacità operative e gestionali del personale.
La formazione aiuta, infatti, il personale che sarà impiegato in emergenza a familiarizzare con le
responsabilità e le mansioni che deve svolgere in emergenza.
Un piano deve essere sufficientemente flessibile per essere utilizzato in tutte le emergenze, incluse
quelle impreviste, e semplice in modo da divenire rapidamente operativo.
3.4. Criticità specifiche delle RSA
La gestione delle emergenze ed, in particolare, dell’eventuale evacuazione totale o parziale della
struttura possono essere notevolmente complicate da alcune specifiche criticità delle R.S.A. che si
ricordano brevemente:
le R.S.A. sono ospitate in edifici molto diversi tra loro per quanto riguarda l’epoca di
costruzione, l’originaria destinazione, il rispetto di regole costruttive che abbiano tenuto nel
debito conto le possibili emergenze e l’eventuale necessità di abbandonare la struttura;
nelle R.S.A. molti ospiti presentano difficoltà motorie, cognitive, sensoriali anche di grado
268
elevato;
nelle R.S.A. la capacità di affrontare le emergenze e di gestire l’eventuale evacuazione va
garantita nelle 24 ore, tutti i giorni dell’anno e particolare attenzione va posta alle ore notturne ed
ai giorni festivi per le importanti riduzioni di personale che li caratterizzano;
in molte R.S.A. si fa largo ricorso a personale dipendente da imprese esterne il che comporta
problemi non banali di coordinamento che possono essere aggravati dall’eventuale elevato
turnover; né vanno sottovalutate le difficoltà linguistiche e culturali che derivano dalla presenza
di lavoratrici e di lavoratori provenienti da altri Paesi e da altri continenti.
3.5. Le prove d’esodo
Nei luoghi di lavoro ove ricorre l’obbligo della redazione del piano di emergenza connesso con la
valutazione dei rischi, i lavoratori devono partecipare ad esercitazioni antincendio, effettuate
almeno una volta l’anno, per mettere in pratica le procedure di esodo e di primo intervento.
Nei luoghi di lavoro di piccole dimensioni, tale esercitazione deve semplicemente coinvolgere il
personale nell’attuare quanto segue:
percorrere le vie di uscita;
identificare le porte resistenti al fuoco, ove esistenti;
identificare la posizione dei dispositivi di allarme;
identificare l’ubicazione delle attrezzature di spegnimento.
Nei luoghi di lavoro di grandi dimensioni, in genere, non dovrà essere messa in atto un’evacuazione
simultanea dell’intero luogo di lavoro.
In tali situazioni l’evacuazione da ogni specifica area del luogo di lavoro deve procedere fino ad un
punto che possa garantire a tutto il personale di individuare il percorso fino ad un luogo sicuro.
Nei luoghi di lavoro di grandi dimensioni, occorre incaricare degli addetti, opportunamente
informati, per controllare l’andamento dell’esercitazione e riferire al datore di lavoro su eventuali
carenze.
4. Quadro d’insieme
4.1. Cosa fare prima dell’emergenza
identificare le possibili emergenze;
Quando si parla di emergenze la prima (e talora la sola) situazione cui si pensa è l’incendio.
Senza dubbio l’incendio è un tipo di emergenza che può capitare praticamente ovunque e va
pertanto sempre preso in considerazione ma non ci si può fermare qui.
L’individuazione delle possibili emergenze è una parte rilevante del processo di valutazione dei
rischi e pertanto deve essere svolta in ogni R.S.A. con la massima specificità possibile,
individuando non solo le tipologie di emergenza che hanno una ragionevole probabilità di
accadere (cadute di meteoriti, attacchi missilistici e altri eventi analoghi non interessano!) ma
anche, quando possibile, le aree interessate ad esse.
Oltre a considerare le emergenze che si possono originare per deficit strutturali o gestionali della
R.S.A. occorre considerare anche le caratteristiche del territorio in cui è inserita la R.S.A. (la
sismicità non è la stessa ovunque, la possibilità di essere interessati da un movimento franoso è
tipico solo di alcune zone, la frequenza ed i punti in cui alcuni fiumi esondano sono diversi ed in
genere noti, etc.).
È dunque necessario compilare la lista delle emergenze che hanno una ragionevole probabilità di
capitare perché è in relazione a ciascuna di esse che andranno condotte le necessarie specifiche
valutazioni, adottate le specifiche misure di prevenzione ed elaborati gli specifici piani di
gestione.
Senza pretese di esaustività, si propone una lista di emergenze di cui è bene considerare sempre
la possibilità di accadimento nella propria R.S.A.:
incendio;
269
allagamento;
blocco degli ascensori;
altri disservizi tecnologici (black out elettrici, blocco dell’impianto di riscaldamento o di
condizionamento) ;
crolli dovuti a terremoti, smottamenti e frane, intense nevicate;
fuga di gas.
Se queste sembrano le emergenze più probabili nella maggior parte delle R.S.A., può essere che
in alcune abbia una certa consistenza anche il rischio di esplosioni, fughe o sversamenti
significativi di sostanze tossiche od irritanti, rapine, aggressioni ed altri atti criminali od altri tipi
ancora di emergenza e se è così tali ulteriori emergenze vanno inserite nella lista ed
adeguatamente gestite.
prevenire le emergenze;
Le emergenze sono prevenibili? Le emergenze sono più o meno prevenibili non solo, come è
ovvio, in relazione a quanto e come ci si impegna a questo scopo ma anche in relazione
all’origine dei diversi tipi di emergenza.
Se sembrano più controllabili quelle che si originano da problemi tecnologici e/o da
comportamenti (ad esempio: il blocco degli ascensori) è in genere più difficile la prevenzione di
quelle che derivano da comportamenti dolosi o da eventi naturali. In realtà, significativi spazi
d’azione esistono anche in questi ultimi casi: ad esempio le banche, le gioiellerie ed altri tipici
bersagli dei rapinatori adottano misure finalizzate a contrastare le rapine che rappresentano un
tipo particolare di emergenza sulle cui cause di fondo possono fare ben poco, mentre possono
fare qualcosa per impedirne l’effettivo accadimento.
Analogamente, i responsabili di una R.S.A. non possono certo prevenire l’esondazione di un
fiume ma possono prendere per tempo le misure contro l’allagamento della loro struttura, se si è
valutato che esiste tale rischio.
Le ripetute esperienze di terremoti nel nostro Paese dimostrano come i danni che ne derivano
siano molto variabili, a parità di intensità delle scosse, in relazione al modo con cui gli edifici
sono stati costruiti.
Alle R.S.A., come ad ogni altra azienda, non si chiede quindi l’impossibile, ma si chiede invece
di agire nello spazio del possibile per mettere in atto le misure concretamente realizzabili che
sono in grado di ridurre la probabilità che si manifesti un’emergenza.
prepararsi alla gestione delle emergenze;
Cosa vuol dire “gestire le emergenze”?
Le cose da fare per gestire un’emergenza possono essere diverse:
se c’è un principio d’incendio bisogna spegnerlo immediatamente, impedirgli di prendere
consistenza e di produrre danni materiali significativi;
se invece l’incendio è già consistente si deve tentare di contenerlo prima, di spegnerlo poi,
cercando di evitare vittime o danni alle persone e limitando i danni materiali;
se ci sono delle persone bloccate all’interno di un ascensore, gestire l’emergenza significa
tirarle fuori al più presto da lì;
gestire un black out elettrico vuol dire far in modo che i gruppi di continuità diano corrente là
dove previsto ed operare per far tornare la normale erogazione dell’energia elettrica al più
presto.
E così via. In ultima analisi, gestire le emergenze vuol dire fare cose diverse ma tutte
accomunate dalla stessa finalità: intervenire quanto prima sul problema che ha creato la
situazione d’emergenza per impedirgli di far danni, per limitare gli eventuali danni ai soli danni
materiali e comunque per tenerli al più basso livello possibile.
Un’emergenza si affronta tanto più efficacemente quanto più sono chiari i ruoli di chi la deve
gestire e se viene ben definita la catena di comando: se tutti si mettono a fare tutto ed intanto
danno anche ordini a destra ed a sinistra, l’insuccesso è praticamente garantito.
270
Ogni piano di emergenza deve dunque indicare chiaramente gli specifici compiti assegnati ad
ogni lavoratore incaricato della sua gestione e la gerarchia che esiste tra i vari incaricati.
Quanto alla “catena di comando” quest’espressione, di evidente origine militare, richiama la
necessità di definire con estrema precisione il percorso che va dall’origine degli ordini fino ai
loro destinatari attraverso una serie di passaggi anch’essi definiti lungo un verso tipicamente
top→down.
Durante un’emergenza gli addetti alla sua gestione devono già sapere quel che devono fare e la
formazione, l’addestramento e le esercitazioni periodiche servono proprio a questo scopo, fino a
far loro acquisire dei veri e propri automatismi.
È però normale che nel corso di un’emergenza si debbano prendere decisioni che vanno
trasmesse fino a chi le deve attuare.
In questi casi non ci possono essere equivoci e deve essere assolutamente chiaro chi decide e chi
esegue e l’organizzazione non può quindi che essere gerarchica.
Per evidenti ragioni di funzionalità, la linea di comando deve essere breve ed è utile che
rispecchi, per quanto possibile, la normale gerarchia aziendale.
È intuitivo che per la gestione di ogni specifica emergenza è necessario elaborare uno specifico
piano: è evidente che non ha alcun senso fare le stesse cose per fronteggiare un incendio e per far
uscire le persone rimaste bloccate in un ascensore.
Eppure è di comune riscontro trovare aziende in cui esiste un unico piano di emergenza, in
genere riservato all’incendio.
I piani possono (debbono?) risultare anche molto diseguali tra loro, non solo nei contenuti ma
anche nelle dimensioni, in relazione alle caratteristiche delle diverse emergenze.
Si può cercare – ma senza forzature – di dare ai diversi piani la stessa struttura, od una struttura
simile, per facilitarne l’assimilazione da parte degli incaricati alla gestione delle emergenze che
di solito sono sempre gli stessi.
I piani devono essere operativi, concisi, per quanto possibile privi di ambiguità ed è buona cosa
ricorrere all’uso di flow charts per sottolineare anche visivamente l’importanza di rispettare
l’ordine temporale delle operazioni.
Il Decreto Legislativo 81/2008 obbliga il datore di lavoro ed i dirigenti a designare per tempo,
previa consultazione dei R.L.S. (art. 50, comma 1, lettera c), i lavoratori incaricati di fronteggiare
gli incendi e di gestire le emergenze (art. 18, comma 1, lettera b).
Nella loro designazione il datore di lavoro deve tener conto delle dimensioni aziendali e delle
specifiche emergenze che possono capitare; inoltre, tali incaricati devono essere in numero
sufficiente ed adeguatamente attrezzati ed i lavoratori non possono rifiutare la designazione se
non per giustificato motivo.
Si noti come la Legge parli sempre di “incaricati” e mai di “squadre”, il che lascia al datore di
lavoro una notevole libertà sul piano organizzativo, come è opportuno che sia per rispondere al
meglio alle multiformi concrete specifiche situazioni.
Se non ci sono dubbi sul fatto che gli incaricati di gestire le emergenze non possono agire come
individui isolati, ma devono invece lavorare in sinergia all’interno di squadre, è invece opinabile
se sia meglio formare una sola squadra o più squadre, opzione quest’ultima che pare opportuna
nelle situazioni più grandi; inoltre, se si pensa a certe emergenze, come i black out elettrici od i
gravi disservizi degli impianti di riscaldamento o di condizionamento, è opportuno prevedere il
ricorso a tecnici specializzati da inserire nelle squadre o da affiancare ad esse.
I lavoratori, incaricati di gestire le emergenze devono saper fronteggiare tutti i diversi tipi di
emergenza previsti come maggiormente probabili in una certa R.S.A., anche se può risultare
molto difficile garantire la presenza di tutte le diverse specializzazioni nell’arco delle 24 ore e
per tutti i giorni dell’anno.
Al di là della presenza fisica possono essere prese in considerazione altre forme, quali la
reperibilità, da valutare sempre con grande attenzione sul piano dell’effettiva praticabilità e
dell’efficacia.
271
Fronteggiare le emergenze in qualunque momento si presentino è un problema cruciale di cui
non vanno sottovalutate le difficoltà così come non si può fingere di ignorare le possibili
conseguenze derivanti da risposte parziali o comunque inadeguate a questo problema.
Il Decreto Legislativo 81/2008 obbliga il datore di lavoro ed i dirigenti ad informare tutti i
lavoratori sulle possibili emergenze e sulle misure per contrastarle, sulle procedure relative al
primo soccorso, alla lotta antincendio, all’evacuazione dei luoghi di lavoro, sui nominativi dei
lavoratori incaricati del primo soccorso e della prevenzione incendi.
Va sottolineato che il Decreto Legislativo 81/2008 si preoccupa di assicurare l’effettività
dell’informazione data ai lavoratori e raccomanda perciò che si presti attenzione alla sua
comprensibilità ed all’effettiva acquisizione delle informazioni fornite, con particolare attenzione
alle difficoltà linguistiche che possono avere i lavoratori immigrati.
Quest’ultimo tema è di particolare rilievo nelle R.S.A. per il largo ricorso a lavoratrici e
lavoratori stranieri che si fa in questo settore di attività.
Le esercitazioni periodiche per la gestione delle emergenze possono essere eseguite sia
all’esterno della R.S.A. (ad esempio per addestrarsi all’uso degli estintori) sia al suo interno,
attraverso opportune simulazioni.
Scopo fondamentale delle esercitazioni è quello di verificare l’idoneità dei comportamenti messi
in atto dagli incaricati alla gestione dell’emergenza: si tratta perciò di una verifica relativa al
saper fare che non può essere validamente sostituita dalla semplice verifica delle conoscenze
relative a ciò che si deve fare.
Nella preparazione delle esercitazioni occorre procedere per gradi, passando progressivamente
dal semplice al complesso. Il loro svolgimento deve interferire quanto meno possibile con la vita
ordinaria della R.S.A. e la massima cura va posta nell’evitare danni sia a chi sta compiendo
l’esercitazione, sia agli altri lavoratori ed agli ospiti.
Di ogni esercitazione va redatto un rapporto in cui si descrive ciò che si è fatto e si valuta come
sono andate le cose.
La messa in evidenza di criticità è particolarmente preziosa, per non doverle malauguratamente
scoprire il giorno in cui non dovesse trattarsi di un’esercitazione bensì di una reale emergenza.
Al termine del rapporto vanno indicate le azioni migliorative che gli esiti dell’esercitazione
suggeriscono come opportune.
prepararsi alla gestione dell’evacuazione;
L’evacuazione serve ad allontanare i lavoratori e gli ospiti della R.S.A., ed ogni altra persona
presente al suo interno, dalla situazione di pericolo grave ed immediato per evitare che subiscano
lesioni dovute all’esposizione a tale pericolo.
Si fa notare che l’evacuazione:
non è una conseguenza obbligatoria di tutti i tipi di emergenza;
quando va effettuata, non riguarda necessariamente tutta la struttura ma può interessare solo
una sua parte;
non comporta sempre la necessità di abbandonare l’edificio, ma consiste molto spesso nello
spostamento delle persone dalla zona in cui c’è il pericolo ad altra zona fuori pericolo;
è sempre un’operazione delicata ed ancor più lo è nelle R.S.A. per le criticità; è bene quindi
che, per quanto possibile, venga effettuata con spostamenti ridotti su uno stesso piano.
Il trasferimento verticale di persone che hanno difficoltà motorie, sensoriali od intellettive è
infatti molto impegnativo.
Si ricorda che occorre definire bene chi è autorizzato a dare l’ordine di evacuazione e chi
stabilisce quando è possibile rientrare nei locali precedentemente abbandonati.
Per quanto riguarda l’ordine di evacuazione va considerato, in relazione alle concrete condizioni
di ogni R.S.A. ed in particolare alle sue dimensioni, se ricorrere a segnali acustici e luminosi, o
se dare l’allarme a voce.
Va inoltre stabilito, per i segnali acustici e luminosi, se devono essere attivati manualmente
quando si decide l’evacuazione o se devono scattare in automatico in casi particolari (ad esempio
272
collegandoli a un rivelatore di fumo).
Va inoltre definito se articolare l’allarme in due livelli (preallarme, ordine di evacuazione) e
come fare in modo di non allarmare tutta la struttura quando la necessità di evacuazione riguarda
solo una sua parte.
In caso di incendio, crolli e fughe di gas, l’evacuazione risulta spesso necessaria e da effettuare
molto rapidamente; vi è invece più tempo a disposizione quando fa seguito ad un allagamento
oppure a disservizi tecnologici (black out elettrici, blocco dell’impianto di riscaldamento o di
condizionamento).
Infine, quando delle persone rimangono bloccate all’interno di un ascensore non è da prevedere
alcuna evacuazione ma si tratta evidentemente solo di far uscire le persone dall’ascensore.
Nell’elaborazione del piano di evacuazione è bene tenere conto di alcune peculiarità, legate alle
diverse emergenze, in relazione alle quali va attuato: oltre alla velocità di esecuzione, di cui si è
già detto, particolari cautele vanno adottate in caso di incendio o di fuga di gas per evitare di
inalare prodotti irritanti, asfissianti o tossici.
Se si eccettuano le strutture molto piccole, il piano di evacuazione deve tener conto della
complessità della struttura edilizia e va pertanto elaborato in relazione alle sue diverse parti
(piani, ali, settori, etc.).
La segnaletica finalizzata all’efficace gestione dell’evacuazione, particolarmente utile per le
persone che non hanno una buona conoscenza della R.S.A. (visitatori, fornitori, etc.), deve essere
d’immediata comprensibilità, non ambigua, con testi molto brevi o meglio ancora con immagini
di ovvia ed univoca interpretazione.
Per i cartelli risultano importanti la scelta dei colori, le dimensioni, il punto in cui sono collocati,
la riconoscibilità rispetto ai cartelli ed ai segnali che hanno altre finalità.
A tal proposito si ricorda che la segnaletica, finalizzata all’evacuazione, non deve “annegare” in
mezzo a mille altri avvisi, cartelli, manifesti la cui proliferazione va messa sotto controllo.
Si ritiene che almeno nelle R.S.A. di maggiori dimensioni la segnaletica finalizzata
all’evacuazione vada vista come un particolare e rilevante aspetto della comunicazione interna,
da gestire con livelli adeguati di formalizzazione e di responsabilizzazione.
Anche per la gestione dell’evacuazione, così come per le emergenze, ogni R.S.A. deve puntare
all’autosufficienza, ma è irrealistico credere di poter far sempre e tutto da soli.
È quindi necessario prendere per tempo gli opportuni accordi con soggetti esterni (Vigili del
fuoco, Protezione civile) cui richiedere di intervenire in caso di bisogno.
Per l’evacuazione si attira l’attenzione in particolare su due elementi:
gli incaricati di gestire l’evacuazione devono essere adeguatamente formati ed addestrati ma
non si richiedono loro particolari cognizioni tecniche;
le criticità che spesso presentano le persone ospiti delle R.S.A. comportano la necessità di
disporre di un elevato numero di persone per assistere gli ospiti durante l’evacuazione.
Pare quanto mai opportuno che nelle R.S.A. venga preparato a gestire un’eventuale evacuazione
il maggior numero possibile di operatori, in particolare tutti coloro che sono addetti all’assistenza
degli ospiti.
In realtà, anche questo può non essere sufficiente, specialmente negli orari notturni, nei giorni
festivi, nei mesi estivi per la diminuzione di personale che si registra in tali circostanze.
In questi casi può risultare cruciale la tempestiva attivazione di soggetti esterni.
Le esercitazioni periodiche sono molto utili perché familiarizzano i lavoratori e gli ospiti delle
R.S.A. con le emergenze contribuendo così a diminuire, almeno in parte, la paura che spesso ad
esse si accompagna; ma ancor più perché aiutano ad acquisire progressivamente gli automatismi
che sono di fondamentale importanza quando c’è da gestire davvero un’emergenza.
È quindi consigliabile effettuare un certo numero di esercitazioni in tempi non troppo distanziati
tra loro, fino ad acquisire una buona operatività, procedendo per gradi lungo una scala a
complessità crescente e facendo molta attenzione a non creare situazioni di pericolo e, per quanto
possibile, di disagio.
273
4.2. Cosa fare durante l’emergenza
riconoscere l’emergenza ed attivare chi la deve gestire;
intervenire per mettere l’emergenza sotto controllo;
gestire l’eventuale evacuazione;
gestire il ritorno alla normalità;
L’impatto che un’emergenza può avere sulla normale vita di una R.S.A. è assai variabile, a
seconda della sua gravità e della sua estensione: altro è, ad esempio, un incendio di vaste
proporzioni, altro l’allagamento di un locale seminterrato, usato come deposito di biancheria.
Il ritorno alla normalità risulta quindi tanto più difficile e perciò tanto più bisognoso di essere
definito nelle sue modalità ed attentamente gestito quanto più l’emergenza è stata importante.
La fine dello stato di emergenza va reso noto sia agli incaricati della sua gestione, sia a tutte le
persone che sono state coinvolte in essa.
Nei casi più gravi il venir meno dello stato di emergenza viene stabilito da autorità esterne alla
R.S.A. (è il caso dei terremoti, delle esondazioni, degli incendi di vaste proporzioni, etc.) mentre
negli altri deve di norma essere deciso dal responsabile della gestione delle emergenze.
La fine dell’emergenza non significa che possano essere tranquillamente usate le apparecchiature
il cui guasto ha provocato l’emergenza o che a causa dell’emergenza sono state danneggiate.
Il loro impiego va subordinato ad un loro attento controllo ed all’esecuzione dei necessari
controlli, revisioni o riparazioni.
Il rientro degli evacuati pone problemi non dissimili da quelli posti dalla loro evacuazione,
soprattutto per quanto riguarda le persone con limitazioni motorie o con problemi sensoriali o
psichici.
Il solo aspetto che cambia significativamente è il clima psicologico, decisamente più disteso
rispetto a quello dell’evacuazione, ma è importante che la tensione non venga meno così da
effettuare con una certa celerità anche il rientro degli ospiti nei loro normali ambienti di vita.
4.3. Cosa fare dopo l’emergenza
Dopo un’emergenza si richiede:
analizzare le cause dell’emergenza e ricercare eventuali misure di miglioramento;
analizzare la gestione dell’evacuazione e ricercare eventuali misure di miglioramento;
attuare le azioni di miglioramento identificate.
Dopo l’emergenza vanno fatte due cose: va analizzata l’emergenza e vanno adottate le misure che la
sua analisi indica come necessarie (riparazioni e miglioramenti).
Superata l’emergenza ne va fatta un’analisi, più o meno approfondita a seconda dell’entità
dell’emergenza stessa, e che nei casi di maggiore gravità deve:
descrivere che cosa è successo
ricercare le cause dell’emergenza;
ricercare eventuali punti critici nella sua gestione;
individuare le riparazioni da effettuare e le eventuali misure di miglioramento da introdurre.
L’analisi va condotta da personale adeguatamente preparato e deve di norma coinvolgere il R.S.P.P.
ed il responsabile della gestione delle emergenze; se ritenuto necessario può essere richiesto
l’intervento e la consulenza di tecnici esterni alla R.S.A. Per la conduzione dell’analisi si può
ricorrere a:
sopralluoghi eventualmente integrati da fotografie e altri rilievi;
documentazione tecnica;
rapporti stilati dai soggetti intervenuti durante la gestione dell’emergenza;
interviste ai lavoratori, agli addetti alla gestione dell’emergenza o ad altre persone presenti
durante l’emergenza, etc.
L’analisi va avviata quanto prima possibile e deve concludersi in tempi non troppo lunghi.
Un protrarsi dei tempi di analisi porta quasi sempre ad un abbassamento della sua qualità.
274
La descrizione dell’emergenza deve essere prima di tutto una cronistoria di quanto accaduto, da
quando è scattato l’allarme fino alla dichiarazione della cessazione dell’emergenza, che può essere
integrata dalla stima dei danni consistente nella descrizione qualitativa dei danni materiali e di
quelli patiti dalle persone, eventualmente corredata dalla stima dei costi.
La parte più complessa dell’analisi, quella che più spesso può richiedere l’apporto di consulenze
esterne, è quella della determinazione delle cause.
A determinare le emergenze di maggiore gravità di solito concorrono più fattori, anche di natura
diversa:
problemi di hardware (inadeguatezza delle strutture, degli impianti, delle apparecchiature,
guasti);
errori nel comportamento delle persone (lavoratori, ospiti, etc.);
deficit organizzativi.
Nella ricerca delle cause occorre evitare posizioni preconcette, atteggiamenti colpevolizzanti,
approcci semplicistici.
Si ricorda che la funzione fondamentale di questa operazione è la comprensione degli errori e delle
inadeguatezze, a chiunque possano essere fatte risalire, per imparare dall’esperienza e mettere a
punto misure di miglioramento.
È necessario esaminare se tutto ha funzionato bene sia per quanto riguarda il contrasto
dell’emergenza (spegnere le fiamme, allontanare l’acqua, riattivare un impianto di
condizionamento, etc.) sia per quanto riguarda l’evacuazione dei lavoratori e degli ospiti, se è stata
effettuata.
In realtà, va valutato anche se i piani predisposti (per la gestione di una certa emergenza, per
l’evacuazione) alla prova dei fatti si sono dimostrati all’altezza di quanto necessario.
Gli interventi da individuare e programmare dopo un’emergenza appartengono a due generali
categorie:
riparazioni e reintegro a seguito dei danni subiti (danni alla struttura, agli impianti, alle
attrezzature, etc.);
misure di miglioramento (della struttura, delle attrezzature, dei comportamenti individuali ed
organizzati).
La riparazione dei danni ed il reintegro di quanto è andato distrutto o consumato a causa
dell’emergenza va effettuato in tempi variabili, più o meno stretti, a seconda dei variabili livelli di
necessità.
Per quanto riguarda l’adozione delle misure di miglioramento i tempi sono necessariamente più
lunghi ed è in ogni caso necessario procedere ad un’attenta programmazione.
5. Comportamenti a seconda della tipologia di emergenza
5.1. Emergenza per incendio
In caso d’incendio con presenza di fiamme e fumo in un locale, i presenti devono dare l’allarme ed
allontanarsi celermente da questo, avendo cura di aprire le finestre e chiudere alla fine
dell’evacuazione la porta del locale.
Nelle vie d’esodo (corridoi, atrii, scale, etc.), in presenza di fumo in quantità tale da rendere
difficoltosa la respirazione, camminare chini, proteggere naso e bocca con un fazzoletto bagnato (se
possibile) ed orientarsi tramite il contatto con le pareti per raggiungere luoghi sicuri.
Nel caso che dal luogo in cui ci si trovi non fosse possibile evacuare all’esterno per impedimenti
dovuti a fiamme, fumosità e forte calore, è importante recarsi nei locali con presenza di acqua e
poco materiale combustibile oppure restare nell’ambiente in cui ci si trova avendo cura di chiudere
completamente la porta di accesso ed applicare panni bagnati sulle fessure.
Le persone che indossano tessuti acrilici e sintetici (nylon, poliestere etc.) dovranno spogliarsi di
questi.
Chi rimane intrappolato, deve segnalare ai soccorritori la propria presenza in ogni modo.
In caso d’incendio è proibito categoricamente utilizzare ascensori e montacarichi per l’evacuazione.
275
È fatto divieto di percorrere le vie d’esodo in direzione opposta ai normali flussi di evacuazione.
Al di là di suggerimenti tecnici è opportuno che durante le operazioni di evacuazione ciascuno
mantenga un comportamento ispirato a sentimenti di solidarietà, civismo e collaborazione verso gli
altri.
allontanarsi al più presto dalla zona dell’incendio;
non usare ascensori;
avvisare sempre la portineria se non vi è già allarme in atto;
in caso di fumo camminare carponi, vicino al pavimento, con un fazzoletto bagnato sulla bocca e
sul naso;
intervenire solo se possibile e senza correre alcun rischio per la propria incolumità;
seguire le indicazioni degli addetti all’emergenza (fascia/giacca verde e gialla) e degli operatori
esterni eventuali (Vigili del Fuoco, Polizia, etc.);
spostarsi lungo i muri se la visibilità è scarsa;
non salire mai più in alto!
in caso di fuoco all’esterno del locale in cui ci si trova:
chiudersi dentro, sigillare ogni fessura per evitare l’ingresso di fumo, avvisare e segnalare la
propria presenza;
in caso di persona i cui abiti prendano fuoco:
evitare che corra, stenderla a terra e soffocare le fiamme avvolgendola con una coperta od altri
indumenti non sintetici.
5.2. Emergenza per Black-out
In caso di assenza di energia elettrica:
muoversi lentamente, non correre onde evitare cadute;
seguire le luci di emergenza e portarsi verso le zone di raccolta;
attendere alle istruzioni degli addetti all’emergenza.
rassicurare le persone presenti;
informarsi sulle cause del black – out;
adoperarsi per la risoluzione rapida del problema;
attivare le procedure di evacuazione se le cause sono riconducibili all’incendio.
5.3. Emergenza per incidente/infortunio
In caso di infortunio è bene attuare subito alcune importanti azioni, fondamentali per la salute della
persona, chiamando subito i soccorsi, secondo le modalità indicate.
È necessario rimanere vicini all’infortunato, tranquillizzandolo se cosciente altrimenti è da
segnalare subito lo stato di incoscienza.
Si deve evitare l’accalcamento intorno all’infortunato, è bene invece fare spazio attorno e lasciare
libera la strada per i soccorsi in arrivo e chiedere se nelle vicinanze sono presenti persone in grado
di prestare i primi aiuti (medici, infermieri, volontari…).
Se l’infortunio coinvolge noi stessi è bene chiamare subito aiuto, se si è soli si deve cercare di
raggiungere un telefono e di dare l’allarme indicando dove si è e come fare a raggiungerci.
In ogni modo è bene mantenere la calma.
avvisare sempre le portinerie dell’accaduto;
avvisare gli addetti al pronto soccorso dell’edificio se i danni alla/e persona/e appaiono limitati;
se entro pochi minuti dalla chiamata non interviene nessuno chiamare il pronto intervento
esterno (118);
se possibile assistere la/e persona/e fino all’arrivo dei soccorsi e/o dell’addetto al pronto
soccorso;
276
collaborare con gli eventuali operatori esterni di pronto soccorso.
5.4. Emergenza di sicurezza interna
se si nota la presenza di qualcosa (borse, oggetti, etc.) di strano, abbandonato e particolarmente
anomalo rispetto alla situazione abituale segnalare alle portinerie il fatto;
nel caso di situazione di pericolo per minacce o presenza di persona armata e non sotto controllo
non lasciare il proprio luogo di lavoro e non andare a curiosare nelle zone interessate;
se si è minacciati mantenere il controllo e non intervenire direttamente nei confronti della
persona che minaccia;
attenersi alle disposizioni impartite da Polizia, Carabinieri e operatori interni (banda gialla –
verde).
5.5. Emergenza per minaccia armata o presenza di un folle
Telefonare al 112.
Nel caso di minaccia armata o presenza di un folle i lavoratori dovranno attenersi ai seguenti
principi comportamentali:
non abbandonare i posti di lavoro e non affacciarsi alle porte del locale per curiosare all’esterno;
restare ciascuno al proprio posto, con la testa china, se la minaccia è diretta;
offrire la minore superficie ad azioni di offesa fisica;
non contrastare con i propri comportamenti le azioni compiute dall’attentatore/folle;
mantenere la calma ed il controllo delle proprie azioni per offese ricevute e non deridere i
comportamenti squilibrati del folle.
Qualsiasi azione e/o movimento deve essere eseguito con naturalezza e con calma (non si devono
compiere azioni che possano apparire furtive o movimenti che possano apparire una fuga od una
reazione di difesa).
5.6. Emergenza per annuncio ordigni esplosivi
Nel caso venga denunciata la presenza di ordigni esplosivi si dovrà dare immediatamente l’allarme
al numero di emergenza 112 specificando esattamente:
le proprie generalità;
il recapito telefonico del luogo in cui si telefona;
il luogo esatto in cui si trova (edificio, stanza);
il contenuto della telefonata;
procedere all’evacuazione dell’edificio.
5.7. Emergenza generale esterna
procedere all’evacuazione seguendo le istruzioni degli addetti (banda gialla – verde);
in caso di non – evacuazione per emergenza esterna e pericolo esterno non abbandonare il
proprio posto di lavoro e non affacciarsi alle finestre;
attenersi alle disposizioni degli addetti (banda gialla – verde) e degli operatori esterni, polizia,
Carabinieri.
5.8. Emergenza generica: allagamento, terremoto, perdite di gas
in caso si allagamento:
se possibile togliere tensione al locale;
verificare se vi sono cause visibili, perdite d’acqua da impianti od altro.
in caso di perdita di gas percepibile:
provvedere all’immediata chiusura ed intercettazione delle valvole presenti nelle vicinanze e
chiamare immediatamente la portineria per segnalare l’inconveniente;
277
in caso di perdita di gas percepibile: se non è possibile mettere in sicurezza il locale, chiudendo
le valvole, aprire le finestre ed evacuare immediatamente il locale, provvedendo comunque ad
avvisare la portineria.
in caso di terremoto:
Telefonare al 115.
alle eventuali prime scosse telluriche, anche di lieve intensità, è necessario portarsi fuori
dall’edificio in modo ordinato, anche senza la segnalazione da parte degli addetti all’emergenza
(banda gialla – verde), utilizzando le regolari vie di esodo, escludendo gli ascensori ed attuando
l’evacuazione secondo le procedure già verificate in occasione di simulazioni;
una volta fuori dallo stabile, allontanarsi da questo e da altri vicini e portarsi in ampi piazzali,
lontano da alberi ad alto fusto e linee elettriche aeree e restare in attesa che l’evento venga a
cessare;
nel caso che le scosse telluriche dovessero coinvolgere subito lo stabile e dovessero interessare le
strutture, tanto da non permettere l’esodo delle persone, non sostare al centro degli ambienti ed è
preferibile raggrupparsi vicino alle pareti perimetrali od in aree d’angolo in quanto strutture più
resistenti;
prima di abbandonare lo stabile, una volta che è terminata l’emergenza, accertarsi con cautela se
le regolari vie di esodo siano integre e fruibili, altrimenti attendere l’arrivo dei soccorsi esterni.
Se lo stabile è stato interessato consistentemente nella resistenza delle strutture, rimanere in
attesa di soccorsi ed evitare sollecitazioni che potrebbero creare ulteriori crolli.
5.9. Emergenza ambientale: sversamento, inquinamento
in caso di sversamento accidentale di quantità limitate di sostanze pericolose, nelle aree di
lavoro, seguire le disposizioni presenti sulle schede di sicurezza delle sostanze che devono essere
sempre a disposizione di coloro che operano nei laboratori;
utilizzare sempre i dispositivi di protezione individuale;
non mettere mai a rischio la propria incolumità ed eventualmente chiudere le aree contaminate,
avvisando immediatamente gli operatori delle zone vicine;
avvisare sempre le portinerie dell’accaduto;
restare a disposizione del responsabile all’emergenza per eventuali informazioni inerenti la/e
sostanze coinvolte ed il loro uso e la necessità eventuale di evacuazione in zone ampie;
evacuare ordinatamente le zone se indicato dagli addetti (banda gialla – verde), prestare
eventualmente il primo soccorso a persone colpite da malore e chiamare gli addetti al pronto
soccorso della zona;
collaborare, se richiesto, con gli operatori esterni di pronto intervento, Vigili del Fuoco,etc.
278
19. Primo soccorso
(DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81, TITOLO I, CAPO III, SEZIONE VI, art. 45)
Premessa
Il primo soccorso è l’insieme delle operazioni che permettono di aiutare un lavoratore in attesa che
arrivino i soccorsi qualificati.
1. Obblighi del datore di lavoro in materia di primo soccorso (dal Decreto
Legislativo 81/2008 art. 45)
Il Datore di Lavoro, tenendo conto della natura dell’attività e delle dimensioni dell’azienda o
dell’unità produttiva, sentito il Medico Competente ove nominato, prende i provvedimenti necessari
in materia di primo soccorso e di assistenza medica di emergenza, tenendo conto delle altre
eventuali persone, presenti sui luoghi di lavoro, e stabilendo i necessari rapporti con i servizi
esterni, anche per il trasporto dei lavoratori infortunati.
Le caratteristiche minime delle attrezzature di primo soccorso, i requisiti del personale addetto e la
sua formazione, individuati in relazione alla natura dell’attività, al numero dei lavoratori occupati
ed ai fattori di rischio sono individuati dal Decreto Ministeriale del 15 luglio 2003, n. 388 (N) e dai
successivi Decreti Ministeriali di adeguamento, acquisito il parere della Conferenza permanente per
i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.
2. Primo soccorso in azienda: gli adempimenti del datore di lavoro (dal Decreto
legislativo 106/09)
Con l’intervento correttivo effettuato ad opera del Decreto Legislativo n. 106, il legislatore ha
semplificato e reso più coerente l’intero complesso normativo in materia di primo soccorso nei
luoghi di lavoro.
La recente entrata in vigore del Decreto Legislativo 3 agosto 2009, n. 106, cosiddetto “Decreto
correttivo”, ha apportato importanti modifiche al Decreto Legislativo n. 81/2008, tra le quali è
possibile citare la sostituzione dell’Allegato IV al suddetto Decreto e, con essa, l’eliminazione di
una parte dei suoi contenuti, in particolare quelli riguardanti le misure relative al primo soccorso
nelle aziende.
La presenza dei suddetti precetti aveva creato non poche perplessità tra gli addetti ai lavori, poiché
con essi si riproponevano una serie di adempimenti a carico delle aziende già risalenti al Decreto
del Presidente della Repubblica n. 303/1956, tra i quali l’obbligo di possedere nei casi previsti la
camera di medicazione, nonché alcuni dubbi interpretativi di questa vecchia normativa che si
sperava fossero stati accantonati definitivamente grazie all’entrata in vigore del Testo Unico sulla
sicurezza.
Con l’intervento correttivo effettuato ad opera del Decreto Legislativo n. 106, il legislatore ha
semplificato e reso più coerente l’intero complesso normativo in materia di primo soccorso nei
luoghi di lavoro.
Gli obblighi, in merito in capo al datore di lavoro, sono descritti nella Sezione VI del Titolo I del
Decreto Legislativo n. 81/2008, dedicato alla gestione delle emergenze ed in particolare nella
rubrica “primo soccorso” dell’art. 45.
Difatti, fermo restando l’obbligo di cui all’articolo 18, comma 1, lett. b) del medesimo Decreto di
nominare preventivamente i lavoratori, addetti alle misure di primo soccorso, ribadito dall’articolo
43, comma 1, lettera b), quest’ultimo assistito da una contravvenzione penale che prevede la pena
alternativa dell’arresto da 2 a 4 mesi o l’ammenda da 750 a 4000 euro, il datore di lavoro, sentito
anche il parere del medico competente, dovrà prendere tutti i provvedimenti necessari in materia di
primo soccorso e di assistenza medica di emergenza.
La norma non definisce il numero di componenti della squadra addetta al primo soccorso, lasciando
279
alla valutazione del datore di lavoro l’onere di definirne l’entità.
Per tale valutazione il datore di lavoro dovrà tenere conto della reale disponibilità di personale sul
posto di lavoro (verificando che, per esempio, anche in caso di turnazione del personale il servizio
sia sempre garantito), ma anche della presenza di altre persone, oltre i lavoratori, che possono essere
presenti sul luogo di lavoro e stabilendo i necessari rapporti con i servizi esterni (118, ma anche
servizi privati), anche per il trasporto degli infortunati.
Per ciò che concerne le caratteristiche minime delle attrezzature di primo soccorso, il riferimento è
rappresentato dal Decreto Ministeriale n. 388/2003, in particolare dagli Allegati 1 e 2 che
definiscono rispettivamente i contenuti minimi della cassetta di pronto soccorso e del pacchetto di
medicazione.
La scelta dell’uno o dell’altro presidio dovrà essere effettuata sulla base della classificazione
dell’azienda, eseguita, ai sensi del medesimo Decreto Ministeriale 388/2003, sulla base dei seguenti
criteri:
Gruppo A: aziende a rischio di incidente rilevante, centrali termoelettriche, impianti e laboratori
nucleari, aziende estrattive ed altre attività minerarie, lavori in sotterraneo, aziende per la
fabbricazione di esplosivi, polveri e munizioni, aziende od unità produttive appartenenti o
riconducibili a gruppi tariffari I.N.A.I.L. con indice infortunistico di inabilità permanente
superiore a 4, aziende agricole con oltre 5 lavoratori a tempo indeterminato;
Gruppo B: aziende con tre o più lavoratori non appartenenti al Gruppo A;
Gruppo C: aziende con meno di tre lavoratori non appartenenti al gruppo A.
Le aziende del Gruppo C devono essere provviste di pacchetto di medicazione, mentre per gli altri
gruppi dovrà essere prevista la cassetta di pronto soccorso.
In tutti i casi l’azienda dovrà dotarsi anche di un mezzo di comunicazione idoneo ad attivare i
soccorsi.
In assenza di altre specifiche in merito, riguardanti quest’ultimo precetto, si ritiene che la presenza
di un normale telefono fisso o di un telefono cellulare, verificata la costante disponibilità di segnale,
possa essere sufficiente.
In tutti i casi, in presenza di lavoratori che svolgano lavori isolati in luoghi diversi dalla sede
dell’azienda, dovranno essere garantiti sia il pacchetto di medicazione sia il mezzo di
comunicazione.
Dalla classificazione delle aziende discende altresì la necessità di formazione dei lavoratori addetti
alle misure di primo soccorso.
In particolare, per le aziende appartenenti al gruppo A, i lavoratori designati dovranno frequentare
un corso di formazione della durata minima di 16 ore, secondo i contenuti riportati nell’Allegato 3
al Decreto Ministeriale.
Per i restanti gruppi B e C, il corso avrà invece una durata minima di 12 ore, conformemente ai
contenuti di cui all’Allegato 4 del medesimo Decreto.
I corsi possono essere erogati esclusivamente da personale medico o, per la sola parte pratica da
personale infermieristico od altro personale specializzato e dovranno essere aggiornati ogni tre anni
con un modulo della durata minima di 4 ore almeno per l’addestramento pratico.
Si richiama infine l’attenzione ad una delle novità introdotte dal Decreto Legislativo n. 106/2009, in
particolare l’inserimento all’interno dell’art. 34 del comma 1 – bis che consente al datore di lavoro,
nei medesimi casi in cui la norma prevede egli possa svolgere il ruolo di Responsabile del Servizio
di Prevenzione e Protezione (definiti dall’Allegato II al Decreto Legislativo n. 81/2008), di poter
svolgere direttamente il ruolo di addetto al primo soccorso, ma limitatamente al caso in cui
l’azienda abbia fino a 5 lavoratori.
280
20. Responsabilità civili e penali
(DECRETO LEGISLATIVO 81/08 CAPO IV, TITOLO I, artt. 18, 19, 20, TITOLO XII)
1. Le sanzioni sulla sicurezza sul lavoro
Il complesso sistema delle sanzioni in materia di Sicurezza e Salute sul lavoro, merita un
approfondimento dettagliato e riguarda, in relazione al diverso grado di responsabilità, pressoché
tutte le figure coinvolte nel Servizio di Prevenzione e Protezione aziendale, datore di lavoro e non
solo.
Per meglio comprendere come è articolato il sistema sanzionatorio è opportuno innanzitutto
ricapitolare le diverse tipologie di Responsabilità, come previste dal sistema giuridico, e di
conseguenza le relative sanzioni applicabili ai diversi casi.
La normativa italiana prevede tre categorie di responsabilità giuridica, Penale, Civile ed
Amministrativa; all’interno delle categorie vi è poi una distinzione tra responsabilità individuali
che possono essere di tipo soggettivo e di tipo oggettivo.
Nel primo caso il soggetto è responsabile, e dunque sanzionabile, per atti di tipo colposo o doloso
commessi direttamente; nel secondo caso invece il soggetto è tenuto a rispondere anche del danno
commesso da altri, in considerazione della posizione occupata.
Un esempio è il caso in cui un genitore risponde di un danno causato da un minore, oppure in
situazioni attinenti alla sicurezza sul lavoro, il caso in cui un datore di lavoro od un funzionario, in
virtù della posizione gerarchica aziendale, sia tenuto a rispondere del comportamento di propri
collaboratori.
2. Tipi di responsabilità
2.1. Responsabilità giuridica di tipo amministrativo
È di tipo soggettivo e prevede sanzioni di tipo pecuniario, piuttosto che interdittivo, e colpisce sia
soggetti individuali sia Enti.
Entrando quindi maggiormente nel merito delle specifiche sanzioni attribuibili alle diverse figure
aziendali va precisato che lo stesso Decreto Legislativo 81/08 (o meglio il Decreto Legislativo
106/09 che ha introdotto numerose modifiche relative agli aspetti sanzionatori), elenca le sanzioni
per ogni obbligo e per ogni figura.
Gli articoli 18, 19 e 20 definiscono quindi rispettivamente gli obblighi previsti per i datori di lavoro,
i preposti ed i lavoratori, nel Capo IV del Titolo I, relativo alle disposizioni generali.
2.2. Responsabilità giuridica civile
Può essere sia di tipo soggettivo sia oggettivo, le sanzioni sono definite dal Codice Civile
(responsabilità extracontrattuale) o da un contatto tra le parti (responsabilità contrattuale) e
colpiscono il soggetto individuale ma anche un’impresa, prevedono generalmente il risarcimento
del danno causato, più eventualmente quello delle spese istruttorie in caso di processo.
A questo proposito è importante ricordare e fare riferimento all’art 2087 del Codice Civile:
“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa, le misure che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro.”(Responsabilità Soggettiva).
Ricadono inoltre in questa categoria di oneri, anche i casi di responsabilità del Datore di Lavoro per
i danni cagionati dai lavoratori da lui utilizzati nella propria organizzazione di lavoro
(Responsabilità Oggettiva).
2.3. Responsabilità giuridica penale
È sempre di tipo esclusivamente soggettivo, le sanzioni definite nel Codice Penale, previste per
delitti e contravvenzioni colpiscono il soggetto individuale e prevedono pene di tipo detentivo,
pecuniario od applicazioni di tipo accessorio (sospensioni, interdizioni e divieti).
281
A questo proposito è opportuno ricordare che all’interno del complesso Sistema di Gestione,
definito dal Decreto Legislativo 231/01, in materia di Responsabilità amministrativa delle società e
degli Enti, nell’art. 25 viene estesa la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle
società e delle associazioni, anche prive di personalità giuridica, ai reati in materia di salute e
sicurezza sul lavoro (omicidio colposo e lesioni personali colpose gravi o gravissime commessi con
violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro) reati definiti dagli artt. 589 e
590 del Codice Penale.
2.3.1. Distinzione dei reati
La Responsabilità penale comporta la condanna per un reato: a tal fine si devono distinguere i reati
(comportamenti sanzionati penalmente) in:
Contravvenzioni, punite con ammenda e/o arresto (da 5 giorni a 3 anni).
Sono meno gravi dei delitti, sono punite sia per colpa sia per dolo.
Esistono due strumenti che consentono l’estinzione della contravvenzione:
La procedura di oblazione, in applicazione della quale, mediante il pagamento di una somma
pari ad un terzo (art. 162 del Codice Penale: pena esclusiva ammenda) oppure ad un mezzo
(art. 162 bis del Codice Penale: pene alternative arresto/ammenda) della pena edittale
massima prevista, oltre le spese di giustizia, si consegue l’estinzione del reato (artt. 555 e 557
del Codice di Procedura Penale).
Si paga un quarto del massimo edittale previsto (art. 24 comma 3 Decreto Legislativo
758/94).
L’Organo di Vigilanza, verificato l’adempimento, ne dà comunicazione all’Autorità Giudiziaria
(Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario territorialmente competente), che
dispone l’archiviazione del procedimento, (aperto a seguito dell’obbligatoria denuncia
dell’Organo di Vigilanza ed immediatamente sospeso in pendenza del termine prescrizionale)
per intervenuta estinzione del reato.
Non è ammissibile il tentativo!
Delitti, puniti con ergastolo, reclusione (da 15 giorni a 24 anni), multa.
Sono più gravi delle contravvenzioni e possono essere puniti solo se commessi con dolo, salvo i
casi dei delitti:
preterintenzionali;
colposi espressamente previsti dalla Legge.
Sono suscettibili di tentativo!
2.3.2. Definizione di dolo e colpa
Reato doloso: secondo il disposto dell’art. 43, comma 1, del Codice Penale si ha dolo quando
l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione o dell’omissione, è preveduto e voluto
dall’agente come conseguenza della propria azione od omissione.
Si ha il dolo quando il soggetto agisce con coscienza e volontà nella rappresentazione e nella
realizzazione dell’evento; un esempio di reato doloso in materia di prevenzione degli infortuni è
rappresentato dall’art. 437 del Codice Penale, “Rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli
infortuni sul lavoro”.
Reato colposo: secondo il disposto dell’art. 43, comma 3 del Codice Penale, il reato “è colposo, o
contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a
causa di negligenza od imprudenza od imperizia, ovvero per l’inosservanza di Leggi, Regolamenti,
ordini o discipline.
La colpa si distingue ulteriormente in colpa generica e colpa specifica secondo la seguente
suddivisione :
colpa generica dovuta a: negligenza (omesso compimento di un’azione doverosa), imprudenza
282
(inosservanza di un divieto assoluto di agire o di un divieto di agire secondo determinate
modalità), imperizia (negligenza od imprudenza in attività che richiedono l’impiego di
particolari abilità o cognizioni).
colpa specifica dovuta ad inosservanza di: Leggi (atti del potere legislativo), Regolamenti (atti
del potere esecutivo), ordini (atti di altre pubbliche autorità), discipline (atti emanati da privati
che esercitano attività rischiose).
La maggior parte dei reati antinfortunistici sul lavoro sono di natura contravvenzionale e salvo
qualche eccezione, presuppongono l’atteggiamento tecnico − giuridico della colpa.
Ma vi sono appunto anche alcune eccezioni, come l’art. 437 del Codice Penale che prevede la
rimozione o l’omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro e la punisce con la
reclusione da sei mesi a cinque anni e addirittura con la reclusione da tre a dieci anni, se dal fatto
deriva effettivamente un disastro o un infortunio.
3. Il contesto normativo italiano
Nel corso del 2007, il legislatore ha esteso la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche,
delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica ai reati, commessi con
violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro.
L’art. 25 septies del Decreto Legislativo 231/01, introdotto dalla Legge 123/07 e poi modificato
dall’art. 300 del Decreto Legislativo 81/08 (T.U.S. − Testo Unico in materia di salute e sicurezza
sul lavoro), recepisce tale novità nell’ordinamento italiano.
I reati contemplati dall’art. 25 septies del Decreto 231 sono:
il reato di omicidio colposo, configurabile in caso di morte (art. 589 del Codice Penale);
il reato di lesioni personali gravi o gravissime (artt. 583 e 590 comma 3 del Codice Penale).
Con il T.U.S., il legislatore ha operato un complessivo riordino e revisione della normativa rilevante
in materia di salute e sicurezza sul lavoro, precisando altresì alcuni presupposti applicativi del
Decreto Legislativo 231/01.
Il Testo Unico ripresenta poi la stessa struttura per ogni titolo successivo, elencando prima le
disposizioni e poi, nell’ultimo Capo di ogni Titolo, le relative sanzioni previste in caso di
inadempimento.
Sia la quantità sia l’entità delle sanzioni sono di conseguenza proporzionali al ruolo gerarchico e
quindi al numero ed al livello di responsabilità e di potere esecutivo.
L’art. 30 del Decreto Legislativo 81/08, in particolare, ha definito ed approfondito le caratteristiche
dei Modelli di organizzazione e gestione, necessarie ad assicurare la conformità ai requisiti ed
obblighi giuridici in materia di salute e sicurezza sul lavoro ed a rappresentare un possibile esimente
per la responsabilità amministrativa dell’ente.
La responsabilità dell’ente per i reati, commessi in violazione delle norme in materia di salute e
sicurezza sul lavoro, può investire tutte le realtà aziendali, indipendentemente dalle dimensioni e
dalle attività svolte; inoltre, essendo prevista con riferimento a fattispecie di reato di origine
colposa, comporta un’attività di prevenzione più complessa rispetto a quella prevista per reati di
origine dolosa.
Per l’ente sorge pertanto la necessità di:
adeguarsi alle nuove prescrizioni introdotte dal Decreto Legislativo 81/08;
adottare modelli di organizzazione e gestione idonei a prevenire i reati e ad avere efficacia
esimente, in linea con i requisiti previsti dalla normativa di riferimento.
283
3.1. I reati nella sicurezza del lavoro
Nell’ambito delle responsabilità penali in materia di sicurezza del lavoro occorre fare riferimento ai
seguenti reati previsti nel Codice Penale:
1. Il reato di lesioni colpose gravi o gravissime
Per la sussistenza del reato di lesioni personali colpose è necessaria un’azione od omissione che
cagioni ad altri una lesione (art. 590 del Codice Penale).
Per lesione s’intende qualsiasi alterazione anatomica (ad esempio sfregio del viso, perdita di un
arto) o funzionale (ad esempio diminuzione dell’udito, difficoltà respiratorie) dell’organismo e,
dunque, può assumere sia la forma dell’infortunio sia quella della malattia.
Ai sensi dell’art. 583 del Codice Penale, la lesione si divide, ai fini della determinazione della
pena, in:
lesione grave, se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa
ovvero una malattia od un’incapacità di attendere alle normali occupazioni per un tempo
superiore ai 40 giorni ovvero se il fatto produce l’indebolimento permanente di un senso o di
un organo;
lesione gravissima, se dal fatto deriva una malattia certamente o probabilmente insanabile,
ovvero la perdita di un senso, di un arto, una mutilazione che renda l’arto inservibile ovvero la
perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, una deformazione o lo sfregio
permanente del viso, ovvero una permanente e grave incapacità di mettersi in relazione con
altri.
Ai fini della configurabilità del reato di lesioni colpose, non è necessario che il soggetto agente
abbia agito con coscienza e volontà di cagionare l’evento lesivo, essendo sufficiente la mera
negligenza, imprudenza od imperizia dello stesso, ovvero l’inosservanza di Leggi, Regolamenti,
ordini o discipline (art. 43 del Codice Penale).
Per la sussistenza del reato è necessario che l’azione od omissione del datore di lavoro abbia
determinato o concorso a determinare l’evento.
Ai fini della sussistenza del reato è necessaria la “colpa” (art. 590 del Codice Penale, in relazione
agli artt. 40 e 43 Codice Penale), che viene riconosciuta pressocché automaticamente una volta
che sia accertato che l’infortunio o la malattia siano occorsi in conseguenza della violazione di
una norma in materia di igiene e sicurezza del lavoro.
La colpa può anche essere costituita dalla violazione delle norme sulla prevenzione degli
infortuni o dell’igiene del lavoro dalla quale derivi la lesione di un soggetto diverso dai
lavoratori.
La circostanza che il reato di lesioni personali colpose sia commesso con violazione delle norme
sulla prevenzione degli infortuni del lavoro, comporta un inasprimento della pena.
2. Il reato di omicidio colposo
Un altro reato è quello relativo all’omicidio colposo: “Chiunque cagiona, per colpa, la morte di
una persona è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni. Se il fatto è commesso con violazione
delle norme [...omissis…] per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione
da 1 a 5 anni” (art. 589 del Codice Penale).
Ai fini dell’integrazione del reato, non è richiesto l’elemento soggettivo del dolo, ovvero la
coscienza e la volontà di cagionare l’evento lesivo, ma la mera negligenza, imprudenza od
imperizia del soggetto agente, ovvero l’inosservanza, da parte di quest’ultimo di Leggi,
Regolamenti, ordini o discipline (art. 43 del Codice Penale).
Entrambi i reati sopra richiamati rilevano, ai fini del Decreto, unicamente nel caso in cui sia
ascrivibile al soggetto agente, sotto il profilo dell’elemento soggettivo, la cosiddetta “colpa
specifica”, consistente nella violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o
284
relative all’igiene ed alla salute sul lavoro.
Atteso che, in forza di tale circostanza, assume rilevanza la legislazione prevenzionistica vigente, ai
fini della presente Parte Speciale è stata considerata, in particolare, la normativa di cui al Decreto
Legislativo n. 81/2008, portante attuazione della delega di cui all’art. 1 Legge n. 123/2007
(cosiddetto “Testo Unico” in materia di salute e sicurezza sul lavoro; di seguito, anche ‘TU’).
Le condotte, penalmente rilevanti, consistono nel fatto, da chiunque commesso, di cagionare la
morte o lesioni gravi/gravissime per effetto dell’inosservanza di norme antinfortunistiche.
Ai fini dell’integrazione del reato, trattandosi di reati di natura colposa, non è richiesto il dolo o la
coscienza della volontà di commettere il reato, essendo sufficiente la negligenza o l’imperizia o
l’inosservanza delle regole e procedure antinfortunistiche.
Pertanto, in linea teorica, il soggetto attivo dei reati può essere chiunque debba osservare o far
osservare le norme di prevenzione e protezione e, quindi, il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti, i
soggetti cui siano delegate funzioni in materia di salute e sicurezza dei luoghi di lavoro ed anche gli
stessi lavoratori.
Per i predetti reati, in aggiunta alla responsabilità individuale del soggetto che ha commesso
l’illecito, sono previste sanzioni interdittive e pecuniarie a carico dell’impresa.
Le sanzioni interdittive, che possono essere applicate, per una durata non inferiore a tre mesi e non
superiore ad un anno, sono le seguenti:
interdizione dell’esercizio dell’attività (essa si applica solo qualora l’irrogazione di altre sanzioni
interdittive risulti inadeguata);
divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione (il quale può essere limitato a determinati
tipi di contratto o a determinate amministrazioni);
sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione
dell’illecito;
esclusione da agevolazioni, finanziamenti e contributi;
divieto di pubblicizzare beni e servizi.
3.1.1. Il nesso di causalità
Per riconoscere la sussistenza del reato di lesioni personali colpose o di omicidio colposo occorre
che tra la condotta colposa dell’agente e l’evento della lesione o della morte vi sia un nesso di
causalità.
La giurisprudenza adotta criteri piuttosto rigidi per valutare l’esistenza di tale nesso di causalità in
materia di infortuni ed igiene del lavoro.
Infatti in primo luogo, le sentenze affermano spesso che non basta che il lavoratore abbia posto in
essere una condotta, a sua volta colposa per imprudenza o imperizia per interrompere il nesso di
causalità tra comportamento del datore, dirigente o preposto ed evento e, quindi, per escludere la
responsabilità penale di tali soggetti se, comunque, il comportamento del datore, del dirigente o del
preposto abbia costituito un elemento senza il quale la lesione del lavoratore non si sarebbe
verificata (per tutte, Cassazione Penale n. 1501 del 2 febbraio 1990).
Così, ad esempio, il datore di lavoro od il preposto è responsabile se abbia consentito che i
dipendenti lavorino senza usare − colpevolmente − le maschere protettive che l’azienda abbia loro
fornito (Cassazione Penale n. 774 del febbraio 1994).
In secondo luogo le sentenze, una volta accertata la violazione di una norma di sicurezza od il
verificarsi di un infortunio in coincidenza con essa tendono a presumere che questo sia stato
provocato da quella invertendo, in buona sostanza, l’onere di provare l’(in)esistenza del nesso di
causalità tra condotta ed evento.
La Corte di Cassazione ha affermato che “se la cautela non viene posta in essere e il sinistro si
verifica, ne deriva la presunzione iuris tantum che l’incidente non si sarebbe prodotto o quanto
meno che l’evento avrebbe presentato conseguenze meno gravi se la norma fosse stata osservata, e,
per escludere tale presunzione (su cui si fonda il rapporto di causalità) occorre “che si adduca
qualche elemento concreto atto a distruggere o ad incrinare la presunzione stessa” (Cassazione
285
Penale n. 2325 del 7 marzo 1995).
Analogamente è stato affermato (Cassazione Penale n. 1501 del 2 febbraio 1990) che “basta
l’inosservanza della regola cautelare imposta dalla Legge, Regolamento, ordine o disciplina,
purché, beninteso, l’evento verificatosi sia riconducibile al tipo di evento che tale regola intende
prevenire”.
3.1.2. Omissione dolosa e omissione colposa
L’inosservanza delle norme, che prevedono specifiche cautele contro gli infortuni e le malattie dei
lavoratori nei luoghi di lavoro, costituisce generalmente un reato di natura contravvenzionale di
volta in volta punito da singole norme sanzionatorie.
Va però detto che il Codice Penale prevede peraltro due “tipi” di reati che hanno riguardo alla
generica omissione delle cautele antinfortunistiche e che, a seconda della loro natura dolosa o
colposa e degli altri elementi che caratterizzano la fattispecie, sono puniti dall’art. 437 del Codice
Penale (rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro) o dall’art. 451 del
Codice Penale (omissione colposa di cautele o difese contro disastri od infortuni sul lavoro).
Secondo la giurisprudenza di legittimità, entrambi i reati hanno natura permanente, il che determina
che anche ai fini della loro prescrizione il momento del loro esaurimento va individuato nel
momento in cui cessa la condotta omissiva del reo − ad esempio nel momento in cui viene
finalmente installato il dispositivo di sicurezza mancante − (Cassazione n. 6755 del 4 luglio 1996;
Cassazione Penale n. 2040 del 23 febbraio 1996; Cassazione Penale n. 6419 del 1o giugno 1995).
L’art. 437 del Codice Penale stabilisce che “chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o
segnali destinati a prevenire disastri od infortuni sul lavoro ovvero li rimuove o li danneggia, è
punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni [...omisssis…], se dal fatto deriva un disastro od un
infortunio la pena è della reclusione da 3 a 10 anni”.
L’elemento soggettivo (il dolo) è costituito dalla consapevolezza e dalla volontà di omettere o
rimuovere gli “impianti, apparecchi o segnali” di cui sopra e di arrecare, con ciò, pericolo
all’incolumità di un numero indeterminato di lavoratori (Cassazione Penale n. 9815 del 22
settembre 1995; Cassazione Penale n. 11699 del 24 novembre 1994; Cassazione Penale n. 9376 del
31 agosto 1994; Cassazione Penale n. 10048 dell’8 novembre 1993; Cassazione Penale 14 gennaio
1999, n. 350).
L’art. 451 del Codice Penale prevede che “chiunque, per colpa, omette di collocare ovvero rimuove
o rende inservibili apparecchi od altri mezzi destinati all’estinzione di un incendio, od al
salvataggio, od al soccorso contro i disastri od infortuni sul lavoro, è punito con la reclusione fino
ad un anno o con la multa da 10 fino a 516 Euro”.
Secondo la sentenza n. 2720 del 14 marzo 1996 della Corte di Cassazione, la condotta punita
dall’art. 451 del Codice Penale è soltanto quella che consiste nell’omessa collocazione ovvero nella
riduzione ovvero ancora nella procurata inidoneità allo scopo dei mezzi predisposti all’estinzione di
incendi, salvataggio e soccorso onde, a tal fine non è necessario che si verifichi uno degli eventi che
la norma mira ad impedire o quanto meno a scongiurare nelle loro possibili conseguenze dannose
(cfr. anche Cassazione Penale n. 9967 del 20 settembre 1994).
L’art. 451 del Codice Penale è applicabile nei casi in cui le norme contro gli infortuni sul lavoro
non prevedano sanzioni ovvero per i soggetti ai quali tali norme non si applicano.
Mentre le sanzioni sono generalmente previste solo nei confronti di soggetti determinati (ad
esempio i datori di lavoro, i dirigenti, i preposti, i lavoratori, i commercianti, i costruttori), l’art. 451
del Codice Penale è applicabile a “chiunque”.
L’art. 451 del Codice Penale non è comunque applicabile ai casi di omissione di cautele per l’igiene
del lavoro dal momento che fa riferimento solo all’omissione di “cautele o difese contro ... infortuni
sul lavoro” e le norme penali non sono suscettibili di applicazione analogica (art. 14 disp. prel.
Codice Civile).
Il reato in oggetto, secondo la Corte di Cassazione, è ravvisabile quando si riferisce ad un numero
indeterminato di persone. A tal fine, però, è stato ritenuto che per “indeterminato” non si deve
286
intendere necessariamente una pluralità di persone (Cassazione Penale n. 7175 del 18 luglio 1996;
cfr. anche Cassazione Penale n. 9815 del 22 settembre 1995).
3.2. Illeciti amministrativi nella sicurezza nel lavoro
Il Codice Civile stabilisce che chiunque cagiona ad altri un danno ingiusto per proprio dolo o colpa
è tenuto a risarcirlo (art. 2043 del Codice Civile).
Se il danno è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno;
colui che ha risarcito il danno ha regresso contro ciascuno degli altri nella misura determinata dalla
gravità della rispettiva colpa e dall’entità delle conseguenze che ne sono derivate; nel dubbio le
singole colpe si presumono uguali (art. 2055 del Codice Civile).
Ai fini della determinazione del danno si possono avere:
il danno patrimoniale deve comprendere sia la perdita subita (danno emergente) sia il mancato
guadagno (lucro cessante) in quanto siano conseguenza immediata e diretta del danno (art. 1223
del Codice Civile);
gli interessi legali (art. 1224 del Codice Civile);
la perdita patrimoniale subita dal danneggiato – cosiddetto danno emergente − è diminuita se
questi ha concorso per sua colpa a determinare il danno ovvero ne ha colposamente aumentato
gli effetti (artt. 2056 e 1227 del Codice Civile);
il mancato guadagno futuro che il danneggiato ha subito − cosiddetto lucro cessante − è
determinato con equo apprezzamento delle circostanze del caso (art. 2056 comma 2 del Codice
Civile);
quando il danno alle persone ha caratteristiche permanenti la liquidazione può essere fatta dal
giudice tenuto conto delle condizioni delle parti e della natura del danno sotto forma di una
rendita vitalizia (art. 2057 del Codice Civile);
se il danno non può essere provato nel suo preciso ammontare, è liquidato dal giudice con
valutazione equitativa (art. 1226 del Codice Civile);
il danno alla salute ed alla vita di relazione in sé e per sé considerato (e cioè a prescindere dal
mancato guadagno e dalle spese che questo può aver comportato) − cosiddetto danno biologico
− è determinato spesso equitativamente o, talora, prendendo a parametro il triplo della pensione
sociale ragguagliata all’ammontare del danno alla salute;
i danni non patrimoniali, cosiddetti danni morali (turbamento d’animo e dolore fisico, subito dal
danneggiato o da persone legate ad esso da un particolare vincolo affettivo) sono risarcibili solo
nei casi previsti dalla Legge (art. 2059 del Codice Civile).
Si tratta, in buona sostanza, dei casi in cui il fatto costituisce reato (art. 185, Codice Penale).
3.3. Individuazione del soggetto civilmente responsabile
Secondo la regola generale prima indicata (art. 2043, Codice Civile) la responsabilità per danni
sussiste solo in capo al soggetto che ha posto in essere un comportamento doloso o colposo: per
ottenere il risarcimento il danneggiato deve provare il dolo o la colpa del danneggiante nonché il
nesso causale tra il comportamento di questi ed il danno.
Tali regole generali subiscono una deroga in materia di igiene e sicurezza del lavoro dal momento
che il datore di lavoro risponde anche per danni eventualmente cagionati dai suoi “commessi” (art.
2049 del Codice Civile) ed è liberato dalla responsabilità solo se prova di avere adottato tutte le
misure necessarie per evitare il danno (art. 2050 del Codice Civile).
L’art. 2050 del Codice Civile stabilisce che “chiunque cagiona ad altri un danno nello svolgimento
di un’attività pericolosa” − quali sono la maggior parte delle attività imprenditoriali, specie se
afferenti al settore produttivo − “per la sua natura o per la natura dei mezzi utilizzati è tenuto al
risarcimento se non prova di avere adottato tutte le misure per evitare il danno”.
Ne deriva che il datore di lavoro, il dirigente ed il preposto possono liberarsi dalla responsabilità
civile solo se provano che l’infortunio del lavoratore si è verificato pur avendo essi rispettato tutte le
norme contro gli infortuni e per l’igiene del lavoro ed, in genere, pur avendo essi adottato tutte le
287
misure per evitare il danno, ivi compreso l’obbligo di sorvegliare l’attività dei lavoratori e di esigere
che essi rispettino le norme di sicurezza.
I datori di lavoro ed i committenti sono responsabili per i danni arrecati da fatto illecito dei
domestici e dei commessi nell’esercizio delle incombenze cui sono adibiti (art. 2049, Codice
Civile).
Con particolare riferimento alla responsabilità dell’appaltante (o subappaltante) per la violazione
delle norme di sicurezza e per eventuali infortuni o malattie professionali, occorsi in conseguenza
del mancato rispetto da parte dell’appaltatore (o del subappaltatore) di tali norme, è da dire che
dall’esame della giurisprudenza in materia possono desumersi i seguenti principi:
di regola l’appaltante non risponde dell’osservanza o no delle norme di sicurezza da parte
dell’appaltatore e, quindi, neanche di eventuali malattie od infortuni professionali che siano
derivati ai dipendenti di quest’ultimo in conseguenza della violazione di tali norme;
la regola di cui sopra non viene meno neppure se l’appaltante abbia nominato un direttore dei
lavori con il compito di sorvegliare l’andamento dell’esecuzione dell’appalto e la sua conformità
al progetto da realizzare;
l’appaltante è invece responsabile dell’osservanza o no delle norme di sicurezza e, quindi anche
di eventuali malattie od infortuni professionali che siano derivati in conseguenza della violazione
di tali norme se egli si sia ingerito − direttamente od attraverso il direttore dei lavori od altre
persone da lui incaricate − nell’esecuzione dei lavori;
la circostanza che l’appaltante abbia fornito i materiali o gli attrezzi di lavoro non costituisce di
per sé un’ingerenza nella realizzazione dei lavori ma, al più, un indice della stessa;
allo stesso modo, la circostanza che l’appalto abbia ad oggetto un’opera che si inserisce in un più
ampio progetto a cura dell’appaltante, se non comporta necessariamente la responsabilità di
quest’ultimo costituisce però un motivo che induce a far ritenere che l’appaltante si sia “ingerito”
nell’esecuzione della stessa opera.
L’art. 10 del Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 1965 stabilisce che
“l’assicurazione a norma del presente Decreto esonera il datore di lavoro dalla responsabilità civile
per gli infortuni sul lavoro”.
Tale esonero però non sussiste, e quindi il datore di lavoro è responsabile per i danni arrecati in caso
di infortunio, quando l’infortunio è derivato da un fatto costituente reato, accertato con sentenza
penale di condanna, sia che il fatto sia imputabile al datore sia a coloro i quali egli ha incaricato
della direzione o della sorveglianza del lavoro ovvero (dopo la sentenza della Corte costituzionale
n. 22 del 9 marzo 1967) ad altri dipendenti (Cassazione Civile n. 8201 del 6 luglio 1992;
Cassazione Civile n. 7760 del 24 giugno 1992; Cassazione Civile n. 2417 del 7 marzo 1987).
Le considerazioni sin qui esposte si riferiscono alla responsabilità per danni di natura
extracontrattuale.
In particolare la responsabilità extracontrattuale consiste nella violazione non tanto di un obbligo
nei confronti di un soggetto determinato quanto nella violazione del dovere generale, che
l’ordinamento pone in capo ad ogni soggetto nei confronti di chiunque, del non cagionare ad altri un
danno ingiusto per proprio dolo o colpa (cosiddetta violazione del dovere generale di “neminem
laedere”).
Tuttavia le norme generali del Codice Civile individuano due “tipologie” di responsabilità civile e
cioè non solo la suesposta responsabilità, derivante dal fatto di avere cagionato ad altri un danno
ingiusto (detta responsabilità extracontrattuale), ma anche la responsabilità che consiste nella
violazione di un obbligo che l’ordinamento giuridico pone nei confronti di una persona determinata
− creditore − (detta responsabilità contrattuale, a prescindere dall’esistenza o no di un contratto in
senso stretto).
Orbene, al datore di lavoro, al dirigente ed al preposto fanno capo:
come a chiunque altro, l’obbligo generale di non cagionare ad altri un danno ingiusto per proprio
dolo o colpa (art. 2043 del Codice Civile);
288
l’obbligo di adottare le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei
lavoratori (artt. 2087 del Codice Civile).
Pertanto il datore di lavoro è responsabile nel caso di infortunio o malattia professionale occorsi ad
un proprio dipendente in conseguenza dell’inosservanza delle cautele sull’igiene e la sicurezza del
lavoro, sia a titolo di inadempimento di un obbligo di natura contrattuale che fa capo al datore di
lavoro, sia a titolo di inadempimento dell’obbligo extracontrattuale generale di cui s’è detto
(Cassazione Civile n. 4078 dell’8 aprile 1995).
Secondo una plausibile considerazione tale conclusione riguarda anche i dirigenti ed i preposti.
4. Le sanzioni applicabili
Nel caso di responsabilità amministrativa per i reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro, oltre
alle sanzioni derivanti da responsabilità personali, sono applicabili all’ente sanzioni diversificate e
graduate in relazione al tipo di reato ed alla presenza o meno della valutazione dei rischi.
In particolare possono essere comminate:
sanzioni pecuniarie;
sanzioni interdittive, che possono comportare, tra l’altro, l’interdizione dall’esercizio
dell’attività, la sospensione o revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla
commissione dell’illecito, il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, l’esclusione
da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi, il
divieto di pubblicizzare beni o servizi;
confisca del profitto conseguito con l’illecito;
pubblicazione della sentenza di condanna, per estratto o per intero.
Le imprese che risponderanno in misura adeguata a queste implicazioni potranno beneficiare:
della riduzione del numero di infortuni attraverso la prevenzione ed il controllo;
della diminuzione dei costi e miglioramento delle prestazioni aziendali;
della minimizzazione dei rischi di sanzioni pecuniarie ed interdittive;
del possibile esimente dalla responsabilità amministrativa dell’ente;
della tutela della reputazione interna ed esterna.
4.1. Sanzioni sulla sicurezza per i lavoratori
Il lavoratore sarà soggetto a sanzioni per inadempimenti relativi agli obblighi previsti, sanzioni di
tipo prevalentemente pecuniario (sono previste in realtà anche pene detentive ma sono nella pratica
assolutamente inattese) che vanno da un minimo di 50 fino ad un massimo di 600 Euro di ammenda
nei casi di infrazioni più gravi.
In ogni caso è opportuno ricordare che gli obblighi dei lavoratori risultano genericamente di tipo
omnicomprensivo e sono condizionati dalla sussistenza di presupposti necessari indispensabili al
loro adempimento, quali la formazione, l’informazione e la messa a disposizione di adeguati
strumenti.
Nella realtà di tutti i giorni è improbabile che un lavoratore incorra nelle sanzioni detentive ed
economiche previste dall’art 59 del Decreto Legislativo 81/08, generalmente si procede a
segnalazioni o richiami ufficiali; salvo che dall’omissione o dalla manomissione non ne derivi un
incidente od un infortunio, casi per i quali l’istruttoria che ne deriva automaticamente può
ragionevolmente portare all’applicazione della pena prevista.
4.2. Sanzioni sulla sicurezza per i preposti e i dirigenti
Di natura diversa, rispetto a quelle previste per i lavoratori, sono le sanzioni previste per preposti e
dirigenti, in seguito ad inadempienze sulla sicurezza sul lavoro.
Se per i preposti un’inadempienza, legata per lo più ai doveri di sorveglianza e vigilanza, può
portare a pene detentive ed a sanzioni economiche fino ad un massimo di 1200 euro; per la figura
del dirigente le sanzioni previste dall’ordinamento giuridico possono essere ben più severe, e
soprattutto maggiormente applicate, in funzione proprio del ruolo e delle responsabilità ricoperte.
289
L’art. 55 del Decreto Legislativo 81/08 elenca le principali sanzioni applicabili ai datori di lavoro e
dirigenti, sia di tipo detentivo (fino ad un massimo di otto mesi) sia di tipo economico (fino ad un
massimo di 6.600 Euro): sanzioni che fanno riferimento agli obblighi descritti nei precedenti articoli
relativamente alle disposizioni generali.
Le sanzioni per i dirigenti tuttavia, vanno ben oltre quelle elencate nell’art. 55, ogni Titolo del
Decreto che elenca obblighi a carico del Datore di lavoro, la maggior parte, ha un Capo in cui sono
definite le relative sanzioni, secondo il principio per cui ad ogni obbligo non soddisfatto,
corrisponde una relativa sanzione.
Vi sono quindi sanzioni ascrivibili ai dirigenti, relative alla non conformità dei luoghi di lavoro
(Titolo II), piuttosto che alla mancata o non conforme apposizione d’adeguata segnaletica (Titolo
V) o all’errata od incompleta valutazione dei diversi tipi di rischio (Titoli dal VI all’XI) piuttosto
che alla mancata formazione ed informazione del personale; quest’ultimo aspetto è stato ripreso ed
aggiornato anche nel testo degli accordi Stato Regioni del Dicembre 2011.
Un importante capitolo è poi dedicato alle disposizioni in materia di procedura penale, art. 61 e
Titolo XII del Testo Unico.
Per le infrazioni da cui scaturiscano casi riconducibili all’omicidio colposo o lesioni personali
colpose, “se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni o che
abbia determinato una malattia professionale” si innesca con procedura automatica un’istruttoria di
tipo penale, a carico dei soggetti inadempienti coinvolti, in relazione alla dinamica dei fatti, ed alla
responsabilità gerarchica e giuridica sia soggettiva sia oggettiva.
4.3. Sanzioni per altre figure
Esistono altre figure all’interno del sistema di prevenzione aziendale, che possono essere sanzionate
se inadempienti rispetto ai propri obblighi.
Per esempio il medico competente (art. 58) è sanzionabile con sanzioni amministrative, ammende e
pene detentive, per la mancata elaborazione della corretta sorveglianza sanitaria, per la mancata
trasmissione dei documenti sanitari agli enti preposti, ed in generale per la non soddisfazione degli
obblighi di cui all’art. 25.
Il Decreto Legislativo 81/08 non prevede sanzioni penali a carico del Responsabile del Servizio di
Prevenzione e Protezione.
Lo stesso però può essere chiamato a rispondere del reato di lesione personale colposa, per colpa
professionale, al verificarsi di infortuni o malattie professionali per:
la mancata individuazione dei rischi;
l’inidoneità delle misure indicate;
il mancato od inidoneo adempimento ai compiti previsti dall’art. 33.
Va inoltre tenuta presente la possibilità di rispondere civilmente per danni arrecati all’azienda per
l’erronea individuazione di rischi o misure di prevenzione.
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione è un consulente del datore di lavoro, ma è
assai frequente che gli vengano attribuite deleghe operative o di coordinamento dell’attuazione delle
misure di prevenzione e protezione.
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione può essere sanzionato penalmente laddove
gli siano stati conferiti obblighi tramite deleghe particolari; in tal caso risponderà per i poteri
conferitigli tramite la delega, tra i collaboratori del datore di lavoro è l’unico a non essere soggetto
ad un apparato sanzionatorio specifico, proprio per la sua funzione di “staff”.
Il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, che non sia destinatario di alcuna delega,
può essere, altresì, sanzionato penalmente laddove una sua imprudenza, negligenza, imperizia,
relativa esclusivamente ai compiti istituzionalmente previsti per la sua carica (art. 33 del Decreto
Legislativo 81/2008), abbia provocato comunque nocumento a terzi e cioè solo in caso di infortunio
o malattia professionale.
Più estesa di quella penale è la responsabilità civile del Responsabile del Servizio di Prevenzione e
Protezione derivante dall’inesatto adempimento dei propri compiti, così come sanciti dall’art. 33 del
290
Decreto Legislativo 81/2008, e/o dall’esecuzione di atti dolosi o colposi che causino danni.
Questa responsabilità viene considerata qualora il datore di lavoro adempia correttamente ai suoi
doveri nei confronti del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, come previsto
dall’art. 18, comma 2 del Decreto Legislativo 81/2008: “il datore di lavoro fornisce al Servizio di
Prevenzione e Protezione ed al medico competente informazioni in merito a:
la natura dei rischi;
l’organizzazione del lavoro, la programmazione e l’attuazione delle misure preventive e
protettive;
la descrizione degli impianti e dei processi produttivi;
i dati di cui al comma 1, lettera r del Decreto Legislativo 81/2008 e quelli relativi alle malattie
professionali;
i provvedimenti adottati dagli organi di vigilanza.
Le informazioni ed i dati forniti al Servizio di Prevenzione e Protezione costituiranno il metro di
valutazione dell’adeguatezza dei comportamenti del Responsabile del Servizio di Prevenzione e
Protezione.
La responsabilità civile comporta l’accertamento di un comportamento illecito (atto doloso o
colposo che abbia causato un danno ingiusto) ovvero di un inadempimento contrattuale, per cui ne
consegue l’obbligo di risarcire i danni scaturiti.
291
21. Impatto ambientale ed economico della gestione dei rifiuti prodotti
da aziende a rischio di incidente rilevante
(DECRETO LEGISLATIVO del 17 agosto 1999, n. 334, “Attuazione della direttiva 96/82/C.E. relativa al controllo dei
pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose”; DECRETO LEGISLATIVO del 21
settembre 2005, n. 238 “Attuazione della Direttiva 2003/115/C.E. sul controllo di pericoli di incidenti rilevanti connessi
con sostanze pericolose; DIRETTIVE SEVESO I, II, III)
Premessa
La ricerca ha puntato a fornire indicazioni e valutazioni per massimizzare il riutilizzo/riciclo dei
rifiuti al fine di diminuirne i costi, finanziari ed ambientali, di gestione e smaltimento.
A tal fine sono state analizzate le problematiche relative alla produzione ed alla gestione dei rifiuti
industriali in Italia, affrontando aspetti di tipo quantitativo e quelli più generali relativi alle
innovazioni tecnologiche per il recupero di rifiuti speciali.
La ricerca ha valutato gli aspetti di costi – benefici connessi con l’adozione di alcuni processi
innovativi di recupero dei rifiuti come materie prime per settori di largo mercato, come le
costruzioni, tenendo presente non solo i fattori di costo diretto ma anche quelli di costo indiretto
(costi esterni) nonché i vantaggi anche economici derivanti dall’utilizzo di materiali recuperati in
luogo di materie prime prelevate dall’ambiente.
L’analisi dei dati ha evidenziato che mentre quelli relativi alla produzione ed ai principali flussi
della gestione dei rifiuti sono sistematicamente raccolti dagli enti preposti e pubblicati dall’Istituto
Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (I.S.P.R.A., ex A.P.A.T.) e dall’Osservatorio
Nazionale sui Rifiuti (O.N.R.), altrettanto non si può dire per tutto ciò che concerne le informazioni
di carattere economico circa le diverse modalità di gestione dei rifiuti.
La valutazione dei costi diretti viene quindi condotta con notevoli difficoltà, non potendo fare
riferimento a prezzari ufficiali per alcuna tipologia di gestione o smaltimento.
Inoltre, per quanto concerne i costi indiretti, detti anche costi esterni, dovuti ai danni ambientali,
sanitari e sociali prodotti dalle attività di smaltimento dei rifiuti speciali, non esistendo studi
sistematici specifici analoghi a quelli già realizzati, da anni, per alcuni settori produttivi, sono state
realizzate adeguate valutazioni dei valori economici di danno utilizzando ed adattando studi
esistenti e facendo ricorso anche ad alcuni casi studio disponibili in letteratura e diverse banche dati
per la valutazione di ciclo di vita (L.C.A.), che contengono anche informazioni relative agli impatti
ambientali prodotti dai vari sistemi di gestione dei rifiuti.
I risultati mettono in evidenza come, utilizzando processi di recupero messi a punto in Italia, le
aziende potrebbero ottenere vantaggi economici notevoli (riduzione costi di smaltimento),
consentendo anche alle amministrazioni pubbliche, nazionali e locali, di ridurre la sempre crescente
spesa per mitigare gli impatti ambientali e sanitari derivanti dallo smaltimento dei rifiuti speciali.
1. Materiali e metodi
1.1. Le aziende a rischio di incidente rilevante
Il Decreto Legislativo 334/99, che ha recepito la Direttiva 96/82/C.E. del Consiglio Europeo del 9
dicembre 1996 nota come “Direttiva Seveso bis”11, si applica agli stabilimenti a rischio di incidente
rilevante, ovvero alle aziende pubbliche e private, ai depositi industriali operanti nel settore
merceologico che presentano al loro interno sostanze pericolose in quantità tali da superare i limiti
definiti nell’Allegato I del Decreto stesso.
A differenza del precedente Decreto del Presidente della Repubblica 175/88, che prendeva in
considerazione l’attività industriale, il Decreto Legislativo 334/99 è incentrato sulla valutazione
11
Con la pubblicazione del Decreto Legislativo 21 settembre 2005, n. 238 viene recepita nel nostro ordinamento la
Direttiva 2003/105/C.E. del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2003 che modifica la Direttiva
96/82/C.E. del Consiglio, recepita nel nostro paese con il Decreto Legislativo 17 agosto 1999, n. 334 (cosiddetta
Direttiva Seveso bis), sul controllo dei pericoli di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose.
292
della presenza di specifiche sostanze pericolose o preparati che sono individuati per categorie di
pericolo ed in predefinite quantità.
Il Decreto Legislativo 334/99 detta disposizioni finalizzate a prevenire incidenti rilevanti (intesi in
termini di emissioni accidentali, incendio od esplosione di grande entità) dovuti a sviluppi
incontrollati durante l’attività dello stabilimento, in cui sono presenti sostanze pericolose che danno
luogo ad un pericolo grave, immediato o differito, per la salute umana o per l’ambiente.
In particolare, questa norma stabilisce l’obbligo, per i proprietari ed i gestori di depositi ed impianti
in cui sono stoccate od impiegate certe sostanze pericolose (in quantità tali da poter dar luogo ad
incidenti rilevanti), di adottare tutte le precauzioni finalizzate ad evitare il verificarsi di incidenti ed
alla mitigazione delle conseguenze, qualora essi dovessero verificarsi.
In base all’art. 5, comma 3, del Decreto Legislativo 334/99 il gestore degli stabilimenti industriali in
cui sono presenti sostanze pericolose in quantità uguali o superiori a quelle indicate nell’Allegato I
del Decreto:
deve presentare una relazione contenente informazioni relative al processo produttivo, alle
sostanze pericolose presenti, alla valutazione dei rischi di incidente rilevante nonché una scheda
di informazione che è contenuta nell’Allegato V.
La relazione e la scheda devono essere inviate alla Regione territorialmente competente ed al
Prefetto ed aggiornate ogni 5 anni.
è obbligato, oltre a quanto disposto agli artt. 7 (politica di prevenzione degli incidenti rilevanti),
8 (rapporto di sicurezza) ed 11 (piano di emergenza interno), a trasmettere agli organi competenti
una notifica contenente informazioni relative al gestore o responsabile dello stabilimento,
all’attività svolta dall’impianto e notizie che consentano di individuare le sostanze pericolose, la
loro quantità e la loro forma fisica.
La norma attuale introduce novità importanti rispetto al controllo dei pericoli da incidente rilevante:
“l’effetto domino” (art. 12), ovvero individua gli stabilimenti per i quali la probabilità o le
conseguenze di un incidente rilevante possono essere maggiori a causa del luogo, della vicinanza
degli stabilimenti stessi e dell’inventario delle sostanze pericolose presenti in essi;
lo studio delle aree ad elevata concentrazione di stabilimenti (art. 13);
il controllo dell’urbanizzazione (art. 14) per contenere la vulnerabilità del territorio circostante
ad un’attività a rischio di incidente rilevante;
la maggiore informazione al pubblico ed il maggior coinvolgimento della popolazione interessata
nei processi decisionali relativi alla costruzione di nuovi stabilimenti, a modifiche sostanziali
degli stabilimenti esistenti ed alla creazione di insediamenti ed infrastrutture attorno agli stessi.
In Italia, secondo l’elenco predisposto dal Servizio Inquinamento Atmosferico e Rischi Industriali
del Ministero dell’Ambiente in collaborazione con il Dipartimento Rischio Tecnologico e Naturale
dell’I.S.P.R.A. (ex A.P.A.T.), sono stati censiti 1.094 stabilimenti a rischio di incidente rilevante.
Nella Tabella 1, contenuta nel paragrafo 4, sono riportate le principali tipologie di aziende di cui al
Decreto Legislativo 334/99.
Le categorie di stabilimenti percentualmente più diffusi sul territorio italiano sono:
depositi di oli minerali ( 26.5 % ) ;
stabilimenti chimici e petrolchimici ( 25.6 % ) ;
depositi di gas liquefatti ( 22 % ) .
1.2. La produzione di rifiuti speciali
Secondo i dati più recenti forniti dal Rapporto Rifiuti 2007 dell’I.S.P.R.A., ex A.P.A.T., l’Annuario
statistico italiano 2002 a cura dell’Istituto Nazionale di Statistica (I.S.T.A.T.), l’Annuario dei dati
ambientali 2002 dell’A.P.A.T., la Relazione sullo stato dell’ambiente (varie edizioni) a cura del
Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, è stata redatta la Tabella 2, di cui
293
al paragrafo 4, che mostra la produzione di rifiuti speciali in Italia, relativamente agli anni 2004 –
2005.
I dati utilizzati per la stima della produzione dei rifiuti speciali effettuata dall’A.P.A.T. sono tratti
dalle dichiarazioni di Modello Unico di Dichiarazione ambientale (M.U.D.)12 dell’anno 2006,
presentato alle camere locali ai sensi dell’art. 189 del Decreto Legislativo 152/06.
Mentre nel triennio 2003 – 2005 si è registrato un incremento della produzione totale di rifiuti
speciali, compresi quelli da costruzione e demolizione (C&D), pari al 7 % , un incremento dei rifiuti
non pericolosi pari al 6.3 % ed un aumento dei rifiuti pericolosi pari al 9 % , nel biennio 2004 –
2005 si è registrata una flessione del 2.5 % dei rifiuti speciali non pericolosi, esclusi quelli da
C&D, ed un incremento dell’ 8.6 % , dei rifiuti speciali pericolosi.
Tuttavia la diminuzione della produzione di rifiuti speciali non pericolosi risulta essere solo una
diminuzione apparente poiché derivata dall’introduzione dell’esonero dall’obbligo di dichiarazione
MUD da parte dei produttori di tale tipologia di rifiuto.
Per quanto riguarda la distribuzione geografica della produzione di rifiuti speciali questi sono
perlopiù prodotti dalle regioni del Nord, con un 62.1 % nel 2005, mentre Centro e Sud incidono in
misura abbastanza simile (rispettivamente 16.7 % e 21.2 % ).
Secondo la Tabella 3, di cui al paragrafo 4, la produzione di rifiuti media pro – capite nel 2005 è
risultata pari a circa 1048 kg abitante di cui 947 kg di rifiuti non pericolosi, 101 kg pericolosi.
Da evidenziare ancora una volta la diversa distribuzione geografica della produzione di rifiuti che
vede il Nord con una produzione media per abitante pari a circa 1410 kg , mentre il Centro ed il Sud
presentano valori piuttosto vicini, 850 kg abitante e 691 kg abitante rispettivamente.
La Tabella 4, di cui al paragrafo 4, riporta la produzione di rifiuti in Italia nel 2005, suddivisa
secondo il codice del Catalogo Europeo dei Rifiuti (C.E.R.), dell’Elenco Europeo dei Rifiuti
(Decisione 2000/532/C.E. come modificata dalle decisioni 2001/118/C.E., 2001/119/C.E. e
2001/573/C.E.) e mostra che, dal punto di vista quantitativo, le categorie di rifiuti speciali non
pericolosi che incidono maggiormente sono:
i rifiuti da costruzione e demolizioni (macrocategoria 17), con 45.9 milioni di tonnellate, pari al
42.6 % del totale;
i rifiuti da impianti di trattamento dei rifiuti e delle acque reflue fuori sito (macrocategoria 19),
con 15.4 milioni di tonnellate, pari al 14.4 % del totale;
i rifiuti inorganici prodotti da processi termici (macrocategoria 10), con 11.9 milioni di
tonnellate, pari all’11 % del totale;
i rifiuti della prospezione, estrazione e lavorazione di minerali e materiali di cava
(macrocategoria 01), con 5.9 milioni di tonnellate, pari al 5.5 % del totale;
i rifiuti prodotti dalla lavorazione e trattamento fisico meccanico superficiale di metalli e plastica
(macrocategoria 12), con 4.2 milioni di tonnellate, pari al 3.9 % del totale;
i rifiuti di imballaggio (macrocategoria 15) con 3.9 milioni di tonnellate;
i rifiuti prodotti da agricoltura, caccia e pesca (macrocategoria 02) con 3.1 milioni di tonnellate.
Per quanto riguarda invece i rifiuti speciali pericolosi le categorie che incidono maggiormente dal
punto di vista quantitativo, sono:
i rifiuti da processi chimici organici (macrocategoria 07), con 1.03 milioni di tonnellate, pari a
circa l’1 % del totale prodotto;
i rifiuti da impianti di trattamento rifiuti e delle acque (macrocategoria 19), con 0.83 milioni di
tonnellate, pari allo 0.78 % del totale;
12
Modello Unico di Dichiarazione ambientale (M.U.D.), è un modello in cui indicare la quantità e qualità dei rifiuti
speciali e non prodotti e/o smaltiti nell’anno dalle attività economiche con oltre dieci lavoratori che è obbligatorio
presentare ogni anno alla Camera di Commercio locale.
294
i rifiuti da operazioni di costruzione e demolizione (macrocategoria 17), con 0.80 milioni di
tonnellate, pari allo 0.75 % del totale;
i rifiuti non specificati altrimenti nell’elenco (macrocategoria 16), con 0.67 milioni di tonnellate,
pari allo 0.62 % % del totale;
i rifiuti inorganici prodotti da processi termici (macrocategoria 10), con 0.55 milioni di
tonnellate, pari allo 0.51 % del totale;
gli oli esauriti e residui di combustibili liquidi (macrocategoria 13), con 0.54 milioni di
tonnellate, pari allo 0.50 % ;
i rifiuti prodotti dalla lavorazione e dal trattamento superficiale di metalli e plastica
(macrocategoria 12) con 0.47 milioni di tonnellate;
i rifiuti prodotti dal trattamento chimico superficiale (macrocategoria 11) con 0.37 milioni di
tonnellate.
La Tabella 5, di cui al paragrafo 4, riporta la produzione di rifiuti speciali in Italia nel 2005, distinta
per attività economica come da codici ATECO13 2002 e per tipologia di rifiuto (pericoloso/non
pericoloso).
I comparti che maggiormente contribuiscono alla produzione di queste tipologie di rifiuti sono:
1. per i rifiuti speciali non pericolosi:
trattamento rifiuti e depurazione acque di scarico, che incide per circa il 22 % ;
produzione metalli e leghe, per circa il 15 % ;
industria minerali non metalliferi, per circa il 9 % ;
altre industrie manifatturiere, per circa il 7 % .
2. per i rifiuti speciali pericolosi:
industria chimica, 20 % ;
trattamento rifiuti e depurazione acque di scarico, 16 % ;
produzione metalli e leghe, 14 % ;
commercio, riparazioni ed altri servizi, 9.03 % .
1.3. La gestione dei rifiuti speciali in Italia
Secondo il Rapporto Rifiuti 2007 dell’A.P.A.T. nel 2005 in Italia i rifiuti speciali sono stati
sottoposti alle seguenti attività di gestione:
recupero di energia ( 2.6 % ) ;
recupero di materia ( 48.6 % ) ;
messa in riserva (11.2 % ) ;
smaltimento in discarica (19.4 % ) ;
incenerimento (1.1 % ) ;
altre operazioni di smaltimento (14.6 % ) ;
deposito preliminare ( 2.5 % ) .
I rifiuti gestiti nel 2005 (cfr. Tabella 6 di cui al paragrafo 4) sono stati complessivamente 101.6
milioni di tonnellate ( 93 % rifiuti speciali non pericolosi, 7 % pericolosi) rispetto ad una
produzione di oltre 107,5 milioni di tonnellate.
L’indagine dell’A.P.A.T. ha rilevato che 52.1 milioni di tonnellate sono destinate ad operazioni di
recupero, mentre 35.7 milioni di tonnellate sono avviate ad operazioni di smaltimento.
L’analisi della situazione impiantistica italiana per lo smaltimento dei rifiuti industriali è relativa
13
ATECO 2002 è la versione nazionale della nomenclatura delle attività economiche nella Comunità europea, N.A.C.E.
Rev 1.1
295
all’anno 1999 ed i dati sono stati tratti dalla pubblicazione Rapporto Rifiuti 2002, A.P.A.T.– O.N.R.
Gli impianti censiti relativi allo smaltimento dei rifiuti industriali sono riconducibili a quattro
categorie:
impianti di incenerimento;
impianti di discarica di tipo A, di tipo B e di tipo C, secondo la classificazione del Decreto del
Presidente della Repubblica 915/82.
In Italia quindi il numero totale degli impianti esistenti può essere così riassunto:
149 inceneritori per rifiuti industriali di cui 80 al Nord, 26 al Centro e 43 al Sud;
544 discariche di tipo A per rifiuti industriali di cui 439 al Nord, 42 al Centro e 63 al Sud;
140 discariche di tipo B per rifiuti industriali di cui 82 al Nord, 27 al Centro e 31 al Sud;
10 discariche di tipo C per rifiuti industriali di cui 3 al Nord, 2 al Centro e 5 al Sud.
1.4. Trattamento dei rifiuti speciali
Sulla base dei dati forniti dall’I.S.P.R.A., ex A.P.A.T., è possibile richiamare i principali impianti di
trattamento per il riciclaggio od il recupero dei rifiuti speciali ed i relativi impatti ambientali che
essi provocano:
a. Impianti che utilizzano i rifiuti come combustibile (R1)14 – i prodotti della combustione sono
sostanzialmente fumi e residui di combustione. Per quanto concerne i fumi, gli inquinanti
prodotti sono: ossidi di azoto, zolfo, monossidi di carbonio, particolato, diossina, furani e metalli
pesanti. Per quanto concerne i residui di combustione si trovano metalli pesanti e particolato.
b. Impianti di rigenerazione/recupero solventi (R2) – poiché questa operazione viene attuata
principalmente per distillazione, il concentrato rimanente conterrà del solvente con parecchi
rifiuti da considerarsi pericolosi che dovrà essere smaltito da centri autorizzati.
c. Impianti per il riciclaggio/recupero delle sostanze organiche (non solventi) (R3) –
quest’operazione comprende sia il compostaggio dei rifiuti dell’industria agro – alimentare e dei
fanghi avviati assieme ai rifiuti urbani negli impianti di compostaggio, sia i rifiuti dell’attività
dell’industria cartaria e del legno avviati ad altre tipologie di impianti di recupero.
Questa operazione dovrebbe comprendere una separazione di sostanze plastiche e vetro e di altri
rifiuti solidi non compatibili (che dovrebbero essere a loro volta riciclati o finire in discarica)
dalla massa che invece verrà avviata a compostaggio.
d. Impianti per il riciclo/recupero di metalli o composti metallici (R4) – questo recupero risulta
l’operazione più frequente per i rifiuti speciali pericolosi. Include il recupero delle batterie
esauste e il recupero dell’alluminio secondario.
Gli impatti provocati sono principalmente emissioni di metalli pesanti, di acido solfidrico e
cloridrico.
e. Impianti per il riciclo/recupero di altre sostanze inorganiche (R5) – questo recupero è il
maggiormente rappresentato rispetto a tutte le altre operazioni di recupero.
Questa operazione comprende molte attività di recupero, dalla produzione di laterizi alla
produzione di cemento, di materiali per l’edilizia. Vi sono elevate quantità di inerti riutilizzati,
anche se il trattamento cui vengono sottoposti risulta nullo o spesso inadeguato.
Il recupero di queste sostanze inorganiche invece consta nel loro impiego per ripristini e
rimodellamenti ambientali, nella ricopertura giornaliera di discariche, o per il riutilizzo, previa
riduzione granulometrica, nello stesso cantiere di provenienza.
f. Spandimento sul suolo a beneficio dell’agricoltura e dell’ecologia (R10) – questa operazione
vede l’uso agricolo di fanghi di depurazione delle acque reflue urbane eD industriali e le
operazioni di ripristino ambientale con l’utilizzo di rifiuti derivanti dalle lavorazioni lapidee, da
C&D e da altre lavorazioni industriali.
14
4 La Direttiva 2006/12/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 relativa ai rifiuti, attribuisce dei
codici ‘D’ - da D1 a D15 - alle operazioni di smaltimento elencate e dei codici ‘R’ – da R1 a R13 – alle operazioni di
recupero elencate come avvengono nella pratica. Ai sensi dell’art. 4, i rifiuti devono essere recuperati senza pericolo per
la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che possano recare pregiudizio all’ambiente.
296
I maggiori impatti ambientali che questi processi possono generare sono le emissioni di diossina,
di policlorobifenili (P.C.B.), di metalli pesanti, di solfati e di cloruri.
Queste categorie di trattamento dei rifiuti comportano, quindi, due diversi tipi di impatto che
possono essere sinteticamente schematizzati come:
impatti diretti dovuti alle emissioni in aria ed in acqua dei processi stessi con la diffusione
nell’ambiente di sostanze inquinanti, come quelle sopra elencate, l’abbattimento di una buona
parte di esse ed il loro smaltimento come rifiuti secondo una delle procedure elencate nel
paragrafo successivo;
impatti indiretti dovuti alla reimmissione nell’ambiente di materiali comunque contenenti
sostanze inquinanti in piccole quantità ma che nel tempo ed attraverso i percorsi biogeochimici
possono accumularsi in alcuni esseri viventi e determinare danni nel medio – lungo termine a
qualche ecosistema.
In Italia, le più diffuse modalità di gestione dei rifiuti industriali prevedono il loro smaltimento
attraverso:
la combustione in impianti appositi od in cementifici come aggiunta in porzioni limitate
( 5 ÷ 10 % ) ai combustibili convenzionali.
Nel primo caso possono essere prodotte ceneri, volanti e di caldaia, che in genere sono sottoposte
ad inertizzazione e messe in discarica (cfr. punto successivo);
l’inertizzazione e messa in discarica.
1.5. Applicazioni sperimentali per la riduzione del flusso di rifiuti industriali
Sono riportati in sintesi alcuni esempi di progetti finalizzati a ridurre il flusso dei rifiuti industriali.
La produzione di ceneri da combustibili fossili e da inceneritori di rifiuti urbani e speciali,
specialmente le frazioni leggere (ceneri volanti) raccolte nei sistemi di filtraggio, è da
considerare come settore critico per la presenza dei materiali in esse contenute (metalli pesanti),
per le elevate quantità prodotte a livello nazionale (circa 1 milione di tonnellate/anno), per le
difficoltà di trattamento e per l’elevato impatto ambientale che può determinare.
Questi rifiuti in molti casi sono conferiti a cementifici che li utilizzano come apporto di sostanza
silicea in un processo tale da consentire una cattura relativamente efficace dei materiali
pericolosi in essi contenuti. Tuttavia, l’inclusione nel cemento e la sua successiva destinazione
come materiale da costruzione esposto spesso a degrado da parte degli agenti atmosferici non
assicura una destinazione stabile di queste sostanze nel tempo.
Recentemente sono stati sviluppati processi per l’utilizzazione di questi rifiuti come materia
prima per produzione di vetro e fibre vetrose che consentono la cattura definitiva dei materiali
pericolosi e la loro inclusione in un prodotto che risulta inerte, ma che è destinato ad essere
riciclato un numero infinito di volte.
Un settore che può essere considerato critico per le quantità di rifiuti prodotti è quello della
produzione dei materiali inerti e delle escavazioni per opere civili che mette in circolazione
decine di milioni di tonnellate di materiali l’anno. Finora una porzione rilevante dei materiali
cavati e/o scavati ( 50 ÷ 100 % ) è stata destinata a rifiuto in quanto non immediatamente
rispondente alle norme tecniche relative all’uso di materiali inerti nella costruzione di opere
civili e nella produzione del calcestruzzo, norma C.N.R. – U.N.I. 10006/02.
Tuttavia, accurati studi condotti alla fine degli anni ’90 hanno dimostrato che praticamente tutti i
materiali cavati od escavati potrebbero essere utilizzati in vari applicazioni, attraverso semplici
trattamenti, con costi nettamente inferiori ai costi di messa a discarica.
Peraltro, queste prospettive sono oggi fortemente concordanti con le nuove norme europee sui
materiali inerti, che sono in corso di adozione anche in Italia, e che prevedono la certificazione
dei materiali inerti in rapporto alle prestazioni che devono assolvere e non più in rapporto alla
loro provenienza “geologica”, come richiesto dalla vecchia normativa italiana.
297
Vari settori produttivi, in particolar modo il settore della chimica, della concia, del metallurgico,
malgrado notevoli impegni per il recupero di reagenti, solventi, bagni, etc., si trova a dover
smaltire quantitativi consistenti di rifiuti a costi anche considerevoli.
Un’attenta analisi di questi rifiuti è stata condotta negli anni passati al fine di valutare,
sperimentare e dimostrare la loro utilizzazione per produzione di materiali inerti a fini strutturali
e non che avessero caratteristiche innovative e convenienti anche nei confronti delle prestazioni
ambientali dei prodotti finali.
In particolare è stata condotta una dimostrazione industriale per il trattamento termico di rifiuti
provenienti dalla produzione di acciaio, da processi conciari, dalla depurazione delle acque,
dall’industria chimica, dall’industria cartaria e dall’industria tessile, per la produzione di
aggregati leggeri impiegati per produrre calcestruzzi leggeri (densità circa 1 kg dm 3 ).
Questi materiali possono essere utilizzati anche in elementi strutturali e hanno dimostrato di
avere caratteristiche di isolamento termico e acustico molto migliori dei materiali tradizionali.
Altri settori critici sono quelli dei trattamenti e rivestimenti superficiali, nei quali peraltro negli
ultimi anni sono da registrare sensibili passi avanti dovuti tanto alla diffusione di sistemi di
contenimento (e quindi di recupero delle sostanze utilizzate per il trattamento/rivestimento)
imposti dalle norme, quanto ad innovazioni che hanno consentito di eliminare dai trattamenti
molte sostanze pericolose (ad esempio cianuri, etc.).
Per la pericolosità dei materiali trattati, un settore critico che non può essere sottaciuto è quello
dei rifiuti contenenti amianto derivanti dallo smantellamento di molte strutture produttive
(edifici, navi, treni, etc.).
Si tratta di un settore per il quale non esiste ancora in Italia un sistema di smaltimento
consolidato nonostante le molte sperimentazioni di processi di trattamento termico di
inertizzazione in matrici varie (cementizie, vetrose, etc.).
In Italia, per questo materiale non si dispone di sistemi diversi dalla discarica e per soluzioni
diverse si deve ricorrere a servizi offerti in altri Paesi con aumento consistente del costo di
trasporto.
Situazione analoga a quella del punto precedente si ha per lo smaltimento dei P.C.B., molto
diffusi nell’industria elettrica come additivi per gli oli di raffreddamento dei trasformatori, per i
quali si deve ricorrere a servizi al di fuori del territorio italiano.
Il riciclaggio delle batterie in Italia ha incontrato molte difficoltà; nonostante le precise
disposizioni normative che hanno istituito un sistema di raccolta e di gestione di questi rifiuti
(Consorzio Nazionale Batterie Esauste, C.O.B.A.T., istituito con il Decreto Legislativo 22/97) e
la buona funzionalità di alcuni impianti dedicati al recupero delle tre frazioni principali (acido,
plastica e piombo), si è assistito negli ultimi anni a forme di raccolta, deposito e trattamento non
corrette da parte di operatori non in grado di coprire con adeguate tecnologie l’intero ciclo di
recupero dei materiali che hanno certamente determinato impatti ambientali notevoli.
1.6. I costi dello smaltimento dei rifiuti speciali
La gestione dei rifiuti speciali comporta una serie di oneri economici che possono essere distinti in
due grandi categorie:
oneri diretti;
oneri indiretti.
Nella prima categoria rientrano tutti i costi diretti di gestione, smaltimento e trattamento derivanti
dagli oneri di Legge da una parte e dai veri e propri costi operativi dall’altra.
Nella seconda categoria rientrano tutte quelle voci di costo, non altrimenti contabilizzate, derivanti
dagli impatti ambientali e sociali delle diverse modalità di gestione dei rifiuti speciali che,
normalmente, non sono pagate da chi produce i rifiuti, ma dalla collettività.
Fino a qualche anno addietro il costo di trattamento/smaltimento di queste categorie di rifiuti era
relativamente elevato (in media compreso tra 0.5 e 2.5 euro kg ) ed ha motivato un numero
cospicuo di ricerche per la riduzione dei rifiuti, purtroppo prevalentemente attraverso sistemi di
298
trattamento a valle, ma anche attraverso la rianalisi dei processi e la loro evoluzione verso un uso
più efficiente dei materiali.
1.6.1. I costi diretti di smaltimento e trattamento dei rifiuti speciali
L’analisi dei costi diretti di smaltimento dei rifiuti industriali risulta estremamente difficoltosa dal
momento che, in Italia, non esiste un prezzario standardizzato cui fare riferimento, né a livello
nazionale, né a livello locale.
L’Agenzia Regione Recupero Risorse (A.R.R.R.) in Toscana a proposito dei costi di smaltimento
dei rifiuti industriali asserisce che:
non esistono prezzari riconosciuti da organi formalmente delegati a questo;
anche le istituzioni hanno difficoltà a definire tariffe specifiche;
la grande varietà di situazioni e l’incertezza della composizione dei rifiuti richiede la definizione
di un costo caso per caso;
l’intervallo di variabilità dei costi per chilogrammo (dati 2005) va da circa 8 centesimi a 80
centesimi di euro, con punte, per casi particolarmente complessi, di 1 euro;
queste tariffe comprendono il costo di inertizzazione e quello di messa in discarica, ma non il
costo di trasporto.
I soggetti maggiormente accreditati a livello nazionale (ad esempio Agenzia Regione Recupero
Risorse, Borsa del recupero, Albo degli smaltitori) pur effettuando rilevazioni periodiche e
sistematiche anche sullo smaltimento di rifiuti industriali, non dispongono di alcuna forma di
prontuario di tali costi.
In pratica, per ogni impianto (non solo per tipologia di impianto) si dovrebbe espletare un’analisi
accurata di tutti i parametri di costo e valutare il costo complessivo.
Gli stessi gestori degli impianti non dispongono di valutazioni adeguate in quanto i servizi che
offrono sono costituiti da processi composti da varie fasi di lavoro che spesso restano aperte, ovvero
non si concludono con lo smaltimento immediato dei rifiuti o con il loro recupero e reinserimento
nel mercato commerciale. Pertanto, vi sono voci di costo che restano affidate a future operazioni
delle quali non esiste alcuna certezza né dimensione di costo e, quindi, ci si affida a stime
orientative finalizzate a produrre su base trimestrale, semestrale od annuale, un’adeguata copertura
dei costi correnti, un profitto consistente ed eventuali utili da destinare ad investimenti.
In tal modo l’attività di trattamento dei rifiuti speciali, non essendo dimensionata su valutazioni
economiche certe nel tempo e nelle singole voci, si è dimostrata di volta in volta produttrice di
perdite od al contrario fonte di notevole profitto.
Più in generale ci si affida a contrattazioni singole per ogni lotto di attività con tariffe che
dipendono da fattori esterni ai costi effettivi (disponibilità di spazi di messa in riserva oD in
discarica, urgenza del produttore di rifiuti, disponibilità di altre potenziali offerenti, distanza del
trasporto, problemi amministrativi e pratici di trasporto, etc.).
Le poche informazioni disponibili riguardano i costi di smaltimento in discarica, di incenerimento e
di trattamento in impianti di tipo biologico e chimico – fisico (dati 2005):
discarica: 5 ÷ 10 centesimi di € kg ;
inceneritore: 10 ÷ 20 centesimi di € kg ;
trattamento biologico e chimico – fisico: 10 ÷ 20 centesimi di € kg .
Questi costi indicativi possono, comunque, essere utilizzati come riferimento per valutare in termini
generali le dimensioni economiche del sistema ed i potenziali vantaggi che metodi alternativi
possono offrire, sia dal punto di vista ambientale sia economico.
In breve, essi possono essere usati per un’analisi di costo/beneficio rispetto a scenari tecnologici ed
organizzativi alternativi.
Anche i costi di trattamento per rifiuti che vengono poi effettivamente riutilizzati (ad esempio da
299
costruzione e demolizione) o per autovetture ed altri beni di consumo a fine vita non seguono un
tariffario preciso ma dipendono da condizioni locali spesso variabili in modo sensibile in base alla
capacità delle imprese che eserciscono questi servizi di organizzarli in modo efficiente al fine di
conseguire un utile economico anche praticando tariffe ridotte.
In questo campo il costo di trattamento si aggira intorno ai 5 ÷ 10 centesimi di € kg essendo
determinato principalmente dai costi fissi delle aree e delle infrastrutture di messa riserva dei
materiali e delle operazioni di smontaggio.
Il costo di smaltimento delle varie categorie di rifiuti (inerti, speciali, solidi, pericolosi, etc.) è molto
variabile e, pertanto, sono state raccolte informazioni solo per specifici e più rilevanti settori
industriali, per i rifiuti caratterizzati da maggiore dimensione dei relativi flussi, o per le loro
caratteristiche in funzione della loro gestione e del loro eventuale riutilizzo.
1.6.2. I costi esterni della gestione dei rifiuti speciali
In ambito economico e scientifico sono convenzionalmente definiti con il termine “esternalità” gli
effetti prodotti da un’attività che ricadono non solo su di essa, ma anche sulla collettività.
La presenza di esternalità determina un imperfetto funzionamento delle Leggi di mercato; infatti, se
i costi esterni sono sopportati da terzi e non vengono incorporati nei prezzi di mercato, questi ultimi
non sono in grado di assolvere in maniera corretta la loro principale funzione, cioè regolare
l’equilibrio tra domanda ed offerta.
Il progetto ExternE (Externalities of Energy), avviato nel 1991 dalla Commissione Europea in
collaborazione con il Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti d’America, è il primo studio
organico che si occupa di valutare i costi esterni, generati dai cicli dei combustibili per la
produzione di elettricità.
La ricerca, che ha coinvolto oltre cinquanta gruppi di lavoro europei, ha visto la collaborazione di
molteplici figure professionali: economisti, ecologisti, specialisti di ambiente, energia e salute,
chimici dell’atmosfera, studiosi di modelli atmosferici, specialisti di software e computer.
Tra i principali meriti del progetto ExternE figura l’aver definito in modo chiaro un metodo di
analisi e di stima quantitativa degli impatti, in grado di consentire il confronto tra diverse tecnologie
di produzione di elettricità.
Inoltre, la quantificazione monetaria di tali impatti ha consentito di poter ragionare con un’unica
unità di misura, la moneta, rendendo il confronto tra le diverse tecnologie ancora più efficace.
Allo smaltimento dei rifiuti è associata una vasta tipologia di sentieri d’impatto o di rischio, molti
dei quali di complessa ed incerta quantificazione.
Ciononostante, sono sempre più numerosi gli studi che applicano a questo tipo di attività tecniche di
valutazione dei costi esterni.
I principali fattori di impatto associabili alle diverse tipologie di rifiuto sono: emissioni di gas serra,
emissioni di inquinanti nocivi per la salute e dannosi per l’agricoltura (prodotti da combustione),
rischi sanitari professionali da agenti biologici (virus, batteri, funghi, etc.), danno estetico –
percettivo (cattivi odori, impatto paesistico, etc.), rischi da incendi e, non ultimi, i rischi di danno
ambientale nel lungo periodo, normalmente dopo la chiusura di una discarica.
Occorre, inoltre, tenere conto delle possibilità di recupero energetico offerte dalle varie modalità di
smaltimento, alle quali corrispondono costi esterni evitati.
Al termine di una vasta rassegna critica della letteratura e dei dati disponibili, sono stati individuati i
valori monetari di danno differenziati per le seguenti modalità di smaltimento:
discarica o termovalorizzazione per i Rifiuti Solidi Urbani (RSU) e assimilati;
discarica per inerti;
discarica o termovalorizzazione per rifiuti speciali;
discarica per rifiuti pericolosi.
I dati disponibili hanno consentito di valutare le seguenti componenti di costo in relazione ai
sentieri d’impatto tipici di ciascuna modalità di smaltimento:
300
i costi ambientali associati alle emissioni di gas serra ( CO 2 e CH 4 );
i costi ambientali (danni sanitari, all’agricoltura ed ai materiali) associati alle emissioni dei
principali inquinanti atmosferici ( PM 10 , NO X , SO 2 , COVNM , cadmio, diossine e furani);
il danno estetico – percettivo;
i costi esterni “post – chiusura” delle discariche: si tratta dei costi di quelle attività, successive
alla chiusura della discarica, finalizzate alla prevenzione del danno ambientale nel lungo periodo
(manutenzione ordinaria e straordinaria, depurazione del percolato, monitoraggio, bonifica di
eventuali ricettori inquinati); i costi esterni ambientali evitati dall’eventuale recupero di
elettricità.
Sono stati assunti i seguenti valori medi di recupero energetico per tonnellata di rifiuto:
termovalorizzazione R.S.U.: 888 kWh ;
termovalorizzazione rifiuti speciali: 1184 kWh ;
produzione di energia elettrica da biogas di discarica per R.S.U.: 48 kWh ;
nessun recupero energetico per le altre tipologie di discarica.
La stima dei costi post – chiusura delle discariche per R.S.U. (cfr. Tabella 7 di cui al paragrafo 4) è
avvenuta a partire dai costi operativi (costi del personale, della strumentazione, della manutenzione
ordinaria) di 10 discariche della Regione Emilia Romagna.
Nel complesso, l’incidenza dei costi post – chiusura sugli attuali costi medi di gestione in Italia
risulta pari a circa il 50 % .
A partire da tale stima, è stata successivamente effettuata un’estrapolazione dei costi post – chiusura
per le altre categorie di rifiuti avviati a discarica:
rifiuti speciali non pericolosi (sono stati assunti gli stessi costi post – chiusura delle discariche di
R.S.U.);
rifiuti speciali pericolosi (sono stati assunti costi post – chiusura doppi rispetto agli R.S.U., cui
sono stati poi aggiunti i costi di rivegetazione);
rifiuti inerti (un terzo dei costi post – chiusura R.S.U. con l’aggiunta dei costi di rivegetazione).
La Tabella 8, di cui al paragrafo 4 riporta i valori di danno medio prodotto per tonnellata di rifiuto
secondo il tipo di impatto e le diverse categorie di smaltimento.
1.7. I rischi per i lavoratori
La trasformazione di un settore di attività molto eterogeneo, come lo smaltimento rifiuti, attraverso
il riassorbimento dei materiali da esso trattati nei cicli produttivi che li producono, dopo opportune
modifiche per la realizzazione di nuovi prodotti, ha risvolti importanti anche in termini dei rischi
per i lavoratori.
La complessità delle attività di smaltimento rifiuti e l’incertezza delle destinazioni e quindi, dei
processi da impiegare, rende questo settore molto poco standardizzato ed incerto nelle tipologie dei
processi.
Ne deriva una discreta precarietà tecnologica ed aumento dei rischi derivanti dalla occasionalità di
utilizzazione delle procedure operative, ivi compresi gli aspetti di sicurezza e di rischio per i
lavoratori.
La scarsa letteratura specifica in merito evidenzia aspetti di particolare importanza.
I dati dell’Istituto Nazionale Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (I.N.A.I.L.), riguardanti
infortuni e malattie professionali denunciate nel settore “pulizie e nettezza urbana” nel quinquennio
2001 – 2005, rilevano un elevato tasso di infortuni – che risulta essere ai primi posti per i lavoratori
addetti allo smaltimento dei rifiuti per numero di eventi infortunistici – con esiti sia in inabilità
temporanea sia in inabilità permanente; sul versante delle malattie professionali denunciate nello
stesso settore, va rilevato un basso riconoscimento.
Lo stesso studio ritiene necessario sensibilizzare riguardo agli alti rischi del settore gli addetti ai
lavori ed implementare i programmi di formazione dei lavoratori al fine di limitare gli eventi
301
dannosi.
Per contro, la realizzazione di processi di recupero dei rifiuti sotto forma di materiali certificati
consente una precisa standardizzazione delle procedure con notevole riduzione delle fonti di rischio
per i lavoratori, entro i limiti dei processi produttivi dai quali i rifiuti sono prodotti.
2. Risultati
Come si rileva dai numerosi casi studio proposti, non è possibile fornire un quadro di riferimento
economico univoco.
Ogni caso applicativo necessita di approfondimenti e studi mirati a valutare e stimare i costi ed i
benefici derivanti dall’adozione di procedure e/o sistemi tecnologici innovativi che consentano di
ottimizzare il ciclo dei rifiuti industriali.
Risulta, inoltre, evidente che la strategia da seguire per l’ottimizzazione e quindi la riduzione del
flusso dei rifiuti (e delle risorse) nel sistema industriale (e conseguentemente nel sistema socioeconomico) deve puntare su varie misure, tra cui:
l’adozione delle migliori tecnologie disponibili (Best Available Techniques, B.A.T.);
l’adozione di sistemi di gestione ambientale (Eco – Management and Audit Scheme – E.M.A.S.,
I.S.O. 14001) che spingano le singole industrie ad un continuo miglioramento delle loro
prestazioni ambientali;
il passaggio dal concetto di “industria”, al concetto di “sistema industriale”;
l’adozione, a livello di sistema industriale (di area, di distretto, etc.), di procedure di gestione che
consentano la realizzazione di sinergie e di simbiosi industriale;
la gestione delle problematiche ambientali, laddove possibile, a livello di area e non di singola
azienda.
In particolare, al fine della realizzazione dell’analisi costi/benefici di investimenti per il
miglioramento tecnologico per la prevenzione e la gestione dei rifiuti, particolare rilievo può
assumere l’Analisi Ambientale Iniziale (A.A.I.) effettuata per l’implementazione del Sistema di
Gestione Ambientale (S.G.A.) perché consente di individuare le maggiori criticità ambientali e le
maggiori criticità socio – economiche correlate all’attività industriale.
Anche l’Analisi Ambientale di Area Vasta può risultare uno strumento estremamente utile per
inquadrare correttamente le problematiche ambientali e socio – economiche della singola azienda
all’interno dell’area rilevante per la sua attività.
L’ottimizzazione dei processi esistenti e l’adozione di tecnologie innovative per la riduzione del
consumo di risorse sono operazioni che possono utilizzare buona parte dell’impiantistica esistente e
procedere per fasi di ammodernamento (revamping), sostituzione, modifica.
Valutando che un impianto in grado di trattare (per combustione o processo biologico e chimico –
fisico) 100.000 tonnellate/anno di rifiuti speciali ha un costo di investimento di circa 50 milioni di
euro, si può valutare che il valore complessivo dell’impiantistica esistente in Italia ammonti a 15
miliardi di euro.
Lo sviluppo di innovazioni del tipo sopra indicato comporterebbe un costo aggiuntivo che può
essere stimato in non più di 3 miliardi di euro e consentirebbe il raggiungimento di un obiettivo di
quasi completo utilizzo dei rifiuti speciali e la riduzione dei costi di smaltimento relativi.
Come si può verificare si tratta di investimenti che sono comparabili ai costi di smaltimento di
pochi anni (due o poco più) e consentirebbero di prevenire costi esterni molto rilevanti, senza
valutare i vantaggi economici derivanti dalla riduzione del prelievo di risorse naturali.
Naturalmente, se gli operatori dello smaltimento, in proprio od in conto terzi, potessero capire
quanto sarebbe più conveniente derivare praticamente lo stesso profitto con operazioni certificate e
trasparenti di recupero e riutilizzo dei rifiuti, anziché dal loro trattamento e smaltimento, il
passaggio dall’attuale sistema poco efficiente ad uno molto più efficiente potrebbe avere luogo
rapidamente ed efficacemente.
Infatti, un simile cambiamento avrebbe il vantaggio di:
302
ridurre in modo sensibile costi di produzione dei settori che producono rifiuti;
ridurre in modo drastico i costi ambientali, sanitari e sociali derivanti da un’esternalizzazione
tanto ampia dei costi di smaltimento;
aprire importanti spazi di innovazione alle attività di riciclaggio e ridurre il prelievo di risorse
naturali.
A fronte di tali vantaggi non vi sarebbe una consistente perdita di profitto da parte delle imprese che
attualmente operano nel campo dell’estrazione di risorse naturali (materiali inerti e minerali) in
quanto queste risorse potrebbero essere dotate di speciali certificazioni e riservate per attività di
nicchia e, quindi, essere vendute a costi maggiori, in modo da assicurare un profitto anche migliore
di quello attuale, che viene realizzato con un prelievo enorme ma con prezzi di vendita bassi.
Tali valutazioni sono comprovate dalle attività di dimostrazione industriale, condotte nell’ambito
delle due principali tecnologie di riutilizzo di rifiuti speciali, considerate nel presente studio e che
potrebbero avere un’ampia diffusione per il riciclaggio di rifiuti provenienti da varie importanti
categorie industriali.
In questi lavori è stato verificato che, come sopra accennato, con un investimento di circa 3 miliardi
di euro si potrebbe realizzare un’infrastruttura industriale in grado di trattare e riutilizzare
praticamente tutti i rifiuti speciali ancora oggi destinati in discarica.
Al contempo questo consentirebbe anche una riduzione del prelievo di risorse naturali del
10 ÷ 20 % con ulteriori vantaggi economici oltre che ambientali.
Ma è necessario anche tenere presente che un simile sviluppo di infrastrutture produttive avrebbe
almeno altri due importanti effetti.
Il primo consiste nel fatto che, anche in presenza di innovazioni tecnologiche e cambiamenti socio –
economici che riducessero la domanda di questi servizi, gli impianti potrebbero essere utilizzati per
trattare e portare al riutilizzo tutti i materiali finora messi in discariche, che diventerebbero vere e
proprie miniere di risorse, in modo da trarne un beneficio economico, oltre che ambientale, invece
di dover affrontare gli inevitabili costi di bonifica che si presenteranno nel tempo.
Il secondo ha caratteristiche unicamente commerciali e di mercato, in quanto un simile sviluppo
ancora non è prefigurato in nessun Paese industrializzato e, quindi, potrebbe migliorare
sensibilmente la competitività internazionale del sistema produttivo italiano facendogli recuperare
le posizioni perse negli ultimi anni.
Secondo l’art. 1 del Decreto Legislativo 334/99, gli impianti industriali ad elevato rischio di
incidenti sono sottoposti ad una disciplina tesa a “prevenire incidenti rilevanti connessi a
determinate sostanze pericolose ed a limitarne le conseguenze per l’uomo e l’ambiente”.
In simili complessi produttivi, pertanto, il problema dei rifiuti industriali si può porre a due diversi
livelli:
produzione di rifiuti speciali contenenti determinate sostanze pericolose in quantità uguali o
superiori a quelle indicate nell’Allegato I del citato Decreto Legislativo 334/99, durante il
normale funzionamento;
produzione di rifiuti speciali contenenti determinate sostanze pericolose in quantità uguali o
superiori a quelle indicate nell’Allegato I del citato Decreto Legislativo 334/99, durante eventi di
“incidente rilevante” (cfr. art.3, Decreto Legislativo 334/99) che sono elencati come incendio od
esplosione di grande entità, in seguito al quale si abbia un pericolo grave, immediato o differito,
per la salute umana o per l’ambiente, all’interno od all’esterno dello stabilimento e che coinvolga
una o più sostanze pericolose, sia perché ivi giacenti in attesa di utilizzo o smaltimento, sia
perché prodotte nel corso dell’incidente (ad esempio ceneri contenenti sostanze pericolose).
In entrambi i casi si configura uno specifico obbligo del gestore, all’interno di quelli generali
previsti dall’art. 5 del Decreto Legislativo 334/99, ai fini dell’integrazione del documento di
valutazione dei rischi di cui al Decreto Legislativo 81/08 e s.m.i., di fissare norme di sicurezza
relative alla gestione e smaltimento dei rifiuti.
303
Sempre ai fini degli adempimenti di cui al citato art. 5, comma 3, lettera b) del Decreto Legislativo
334/99, sussiste l’obbligo di predisporre le modalità di gestione e smaltimento/recupero di tali
rifiuti.
Lo smaltimento dei rifiuti speciali rappresenta un costo considerevole, che può essere ridotto se
viene previsto un sistema di recupero (esterno o in situazioni non soggette ad effetto domino) in
grado di utilizzare tali rifiuti per la produzione di materiali a specifica commerciale.
In tal modo le imprese potrebbero recuperare risorse da dedicare al miglioramento della sicurezza
generale del processo e degli impianti, elevando il grado di prevenzione di incidenti rilevanti; senza
considerare la riduzione dei relativi costi esterni a carico della collettività.
Tali impegni sono previsti esplicitamente dall’art. 7 del Decreto Legislativo 334/99 e potrebbero a
pieno titolo figurare esplicitamente nel documento che definisce la politica di prevenzione degli
incidenti rilevanti, così come nel rapporto di sicurezza previsto dall’art. 8 del citato Decreto; questo
deve infatti dimostrare che “sono state adottate le misure necessarie per prevenire incidenti rilevanti
e per limitarne le conseguenze per l’uomo e per l’ambiente”.
3. Conclusioni
Tutto quanto rilevato nel corso della ricerca, e presentato in questo capitolo, costituisce una chiara
indicazione delle notevoli potenzialità che il recupero dei rifiuti industriali ha anche nel settore delle
industrie di cui al Decreto Legislativo 334/99, nelle quali l’inserimento di pratiche di riutilizzo dei
rifiuti per la produzione di materiali a specifica commerciale comporta vantaggi sia economici sia
ambientali.
Gli investimenti, diretti od indiretti, necessari per avviare linee produttive che utilizzino rifiuti
speciali come materie prime prevalenti, possono trovare motivazioni ampie nei principi elencati
nell’Allegato III del Decreto Legislativo 334/99, come elementi del “sistema di gestione e
dell’organizzazione dello stabilimento ai fini della prevenzione degli incidenti rilevanti” rapportati
ai pericoli (tradotti anche in termini di costi, diretti ed esterni) ed agli elementi citati ai punti iii),
iv), vi) e vii) dell’Allegato medesimo.
Queste considerazioni sono consistenti anche con un’eventuale analisi costi/benefici applicata al
complesso industriale al fine di identificare le soluzioni maggiormente efficaci per la
prevenzione/riduzione effetti degli incidenti rilevanti.
L’analisi condotta sul quadro generale della gestione dei rifiuti industriali in Italia ha evidenziato
alcuni aspetti assolutamente critici, con notevoli potenzialità di innovazione, di innalzamento della
qualità dei sistemi produttivi, di riduzione degli impatti ambientali, di apertura di nuovi mercati e di
nuove consistenti fonti di profitto. Infatti:
il sistema di smaltimento dei rifiuti industriali in Italia non è organizzato come un settore o sub –
settore industriale, ma opera sulla base di un approccio smaltitorio tradizionale che favorisce gli
esercenti di settori di servizi ad elevato impatto ambientale, come il trasporto rifiuti e lo
smaltimento in discarica;
questa situazione aggrava il quadro nazionale, relativo all’intensità di uso delle risorse naturali,
che dovrebbe invece essere indirizzato verso una progressiva maggiore efficienza, anche al fine
di una migliore valorizzazione del patrimonio naturalistico e paesaggistico che, insieme a quello
storico ed artistico, rappresentano una delle aree dove l’Italia resta ancora altamente competitiva
(turismo culturale e naturalistico);
le prospettive e le potenzialità per innovazioni già validate ed altre da sviluppare, orientate
all’uso efficiente delle risorse ed al riutilizzo dei rifiuti industriali, sono molto ampie e
promettenti, sia per i vantaggi economici che possono assicurare alle imprese ed alle pubbliche
amministrazioni, sia per i vantaggi ambientali che ne deriverebbero;
tali convenienze sono altrettanto valide per le imprese ad elevato rischio di incidente che
potrebbero trovare in una migliorata gestione dei rifiuti prodotti nella normale attività, od in caso
di incidente, motivazioni economiche adeguate a migliorare le loro prestazioni globali.
304
Poiché le prassi consolidate sono molto resistenti al cambiamento ed all’innovazione, è chiaro che
una simile evoluzione difficilmente potrà trovare risorse adeguate per decollare in modo autonomo
e sulla base della capacità di sviluppare mercato dei soggetti che mettono a punto le innovazioni.
È necessario, quindi, promuovere adeguati supporti di tipo conoscitivo e normativo che possano
superare le attuali resistenze e far evolvere verso una maggiore efficienza e migliori prestazioni
economiche ed ambientali il sistema produttivo italiano.
4. Tabelle di riferimento per il capitolo 21
TABELLA 1 – Distribuzione nazionale degli stabilimenti soggetti agli obblighi degli artt. 6, 7 e 8
del Decreto Legislativo 334/99 suddivisi per tipologia di attività
Attività
Stabilimento chimico o petrolchimico
Deposito di gas liquefatti
Raffinazione petrolio
Deposito di oli minerali
Deposito di fitofarmaci
Deposito di tossici
Distillazione
Produzione e/o deposito di esplosivi
Centrale termoelettrica
Galvanotecnica
Produzione e/o deposito di gas tecnici
Acciaierie eD impianti metallurgici
Altro
TOTALE
Stabilimenti (n)
288
247
17
298
27
40
21
52
15
21
43
14
40
1.123
Stabilimenti (%)
25,6
22,0
1,5
26,5
2,4
3,6
1,9
4,6
1,3
1,9
3,8
1,3
3,6
100
Fonte: Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio; elaborazione A.P.A.T al 31/12/2002
305
TABELLA 2 – Produzione di rifiuti speciali in Italia (tonnellate, anni 2004 – 2005)
Rifiuti speciali non pericolosi
esclusi i rifiuti da C&D15
Rifiuti speciali pericolosi
Rifiuti speciali non pericolosi da
C&D*
Rifiuti speciali con C.E.R.16 non
determinato
Rifiuti speciali con attività
ATECO17 non determinata
Totale
2004
57.092.515
2005
55.647.338
%
– 2,53%
5.438.974
46.458.517
5.906.174
45.851.469
8,59%
– 1,31%
30.840
9.450
– 69,36%
149.651
111.689
– 25,37%
109.170.497
107.526.120
-1,51%
Fonte: A.P.A.T., Rapporto Rifiuti 2007.
TABELLA 3 – Produzione di rifiuti speciali in Italia nel 2005 (complessiva e pro – capite)
Rifiuti speciali non pericolosi
esclusi i rifiuti da C&D18 (t)
Rifuti speciali pericolosi (t)
Totale Rifiuti (t)
Rifiuti speciali non pericolosi
esclusi i rifiuti da C&D
( kg abitante ⋅ anno )
Rifuti
speciali
( kg abitante ⋅ anno )
Nord
33.363.831
Centro
8.931.953
Sud
13.351.554
Totale
55.647.338
4.233.432
9.617.921
1.251
685.968
14.338.328
789
986.774
61.553.512
643
5.906.174
37.597.263
947
159
61
48
101
1.410
850
691
1.048
pericolosi
Totale Rifiuti
( kg abitante ⋅ anno )
Fonte: A.P.A.T., Rapporto Rifiuti 2007.
15
C&D: Costruzione e demolizione.
CER: Catalogo Europeo dei Rifiuti.
17
ATECO 2002 = è la versione nazionale della nomenclatura delle attività economiche nella Comunità europea, NACE
Rev 1.1.
16
18
C&D: costruzione e demolizione.
306
TABELLA 4 – Produzione di rifiuti speciali suddivisi per codice del Catalogo europeo dei rifiuti
(CER) 2002 (anno 2005)
CER
01: Rifiuti derivanti da prospezione, estrazione da miniera
o cava, nonché dal trattamento fisico o chimico di minerali
02: Rifiuti prodotti da agricoltura, orticoltura,
acquacoltura, selvicoltura, caccia e pesca, trattamento e
preparazione di alimenti
03: Rifiuti della lavorazione del legno e della produzione
di pannelli, mobili, polpa, carta e cartone
04: Rifiuti della lavorazione di pelli e pellicce e
dell’industria tessile
05: Rifiuti della raffinazione del petrolio, purificazione del
gas naturale e trattamento pirolitico del carbone
06: Rifiuti dei processi chimici inorganici
07: Rifiuti dei processi chimici organici
08: Rifiuti della produzione, formulazione, fornitura ed uso
di rivestimenti (pitture, vernici e smalti vetrati), adesivi,
sigillanti ed inchiostri per stampa
09: Rifiuti dell’industria fotografica
10: Rifiuti provenienti da processi termici
11: Rifiuti prodotti dal trattamento chimico superficiale e
dal rivestimento di metalli ed altri materiali;
idrometallurgia non ferrosa
12: Rifiuti prodotti dalla lavorazione e dal trattamento
fisico e meccanico superficiale di metalli e plastica
13: Oli esauriti e residui di combustibili liquidi (tranne oli
commestibili, 05 e 12)
14: Solventi organici, refrigeranti e propellenti di scarto
(tranne le voci 07 e 08)
15: Rifiuti di imballaggio, assorbenti, stracci, materiali
filtranti ed indumenti protettivi (non specificati altrimenti)
16: Rifiuti non specificati altrimenti nell’elenco
17: Rifiuti delle operazioni di costruzione e demolizione
(compreso il terreno proveniente da siti contaminati)
18: Rifiuti prodotti dal settore sanitario e veterinario o da
attività di ricerca collegate
19: Rifiuti prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti,
impianti di trattamento delle acque reflue fuori sito
20: Rifiuti urbani (rifiuti domestici ed assimilabili prodotti
da attività commerciali ed industriali nonché dalle
istituzioni)
Totale C.E.R. 01 – 20
Istat attività n.d.
C.E.R. n.d.
Totale
307
Rifiuti speciali
non pericolosi
(t)
5.910.990
Rifiuti speciali
pericolosi
(t)
37.697
3.145.142
70
2.633.154
13.024
585.942
733
41.873
97.402
874.715
446.262
852.046
112.523
1.034.549
51.429
7.605
11.866.522
101.336
51.169
550.153
372.540
4.225.089
469.150
37
540.727
46.374
3.895.535
73.849 16
2.637.188
45.851.469
666.114
803.405
5.253
142.781
15.448.326
833.554
2.970.323
8.931
101.498.807
95.046
5.906.174
16.643
9.450
107.526.120
TABELLA 5 – Produzione di rifiuti speciali in Italia nel 2005 suddivisi per codice ATECO 2002*
Codice
attività Rifiuti
speciali
speciali Rifiuti
19
ATECO (t)
non
pericolosi pericolosi (t)
esclusi i C&D20 (t)
Agricoltura e pesca
01 – 05
449.826
7.106
Industria estrattiva
10 – 14
980.598
32.119
Industria alimentare
15
2.975.525
12.895
Industria tabacco
16
7.653
65
Industria tessile
17
361.206
43.366
Confezioni vestiario, preparazione
18
76.283
1.661
e tintura pellicce
Industria conciaria
19
416.621
6.436
Industria legno, carta e stampa
20 – 22
3.407.548
56.509
Raffinerie petrolio, fabbricazione
23
298.804
136.178
coke
Industria chimica
24
3.390.661
1.177.001
Industria gomma e materie
25
612.053
146.039
plastiche
Industria minerali non metalliferi
26
4.952.265
45.320
Produzione metalli e leghe
27
8.549.962
830.308
Fabbricazione
e
lavorazione
28
2.587.168
327.031
prodotti
metallici,
escluse
macchine ed impianti
Fabbricazione apparecchi elettrici,
29 – 33
1.277.205
275.131
meccanici ed elettronici
Fabbricazione mezzi di trasporto
34 – 35
690.599
163.037
Altre industrie manifatturiere
36 – 37
3.734.138
242.097
Produzione energia elettrica, acqua
40-41
3.607.238
190.066
e gas
Costruzioni
45
903.702
287.572
Commercio, riparazioni ed altri
50 – 55
2.404.245
534.548
servizi
Trasporti e comunicazione
60 – 64
719.700
157.070
Intermediazione
finanziaria,
65 – 74
401.93
66.948
assicurazioni ed altre attività
professionali
Pubblica
amministrazione,
75 – 85
433.516
186.893
istruzione e sanità
Trattamento rifiuti e depurazione
90
12.254.270
946.469
acque di scarico
Altre attività di pubblico servizio
91 – 99
154.619
34.309
Non Determinato (N.D.)
95.046
16.643
Totale
55.742.384
5.922.817
Fonte: A.P.A.T., Rapporto Rifiuti 2007.
19
ATECO 2002 = è la versione nazionale della nomenclatura delle attività economiche nella Comunità europea, NACE
Rev 1.1.
20
C&D = costruzione e demolizione.
308
TABELLA 6 – Quadro sinottico dei diversi sistemi di gestione dei rifiuti speciali in Italia nel 2005
Attività
Recupero di rifiuti speciali non pericolosi (R1 – R13)21
Recupero di rifiuti speciali pericolosi (R1 – R13)
Smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi (D1 – D15)
Smaltimento di rifiuti speciali pericolosi (D1 – D15)
Coincenerimento di rifiuti speciali non pericolosi
Coincenerimento di rifiuti speciali pericolosi
Coincenerimento di combustibile derivato dai rifiuti (C.D.R.)
Coincenerimento rifiuti urbani (R.U.)
Incenerimento rifiuti speciali non pericolosi
Incenerimento rifiuti speciali pericolosi
Trattamento chimico e biologico di rifiuti speciali non pericolosi
Trattamento chimico e biologico di rifiuti speciali pericolosi
Trattamento chimico e biologico di rifiuti urbani
Totale (t)
61.562.740
1.937.419
13.994.643
4.432.999
2.537.761
133.006
163.172
30.762
603.377
520.632
5.094.284
2.317.658
158.207
Fonte: APAT, Rapporto Rifiuti 2007.
TABELLA 7 – Costi di post – chiusura di 10 discariche per R.S.U. – Emilia Romagna
Voci di costo della fase di post – chiusura
calcolati su 30 anni
Personale (analisi, controlli, manutenzione)
Energia
Manutenzione ordinaria
Depurazione percolato
Strumentazione
Manutenzione straordinaria
Rivegetazione
Costi totali – media ponderata su 10 discariche
Costi totali senza rivegetazione
Costi/t R.S.U. – media ponderata su 10 discariche
Costi/t R.S.U. senza rivegetazione
Capacità assoluta media delle 10 discariche (t)
Superficie media delle 10 discariche ( m 2 )
Costi
(media ponderata su 10 discariche)
4.035.077,75 Euro
2.273.443,27 Euro
3.932.819,29 Euro
8.149,69 Euro
2.570,41 Euro
1.966,15 Euro
5.528,67 Euro
28.460,39 Euro
22.931,72 Euro
33,40 Euro
27,57 Euro
599.611
122.487
Fonte: Regione Emilia Romagna, 1990 ; elaborazione Amici della Terra Italia.
21
La Direttiva 2006/12/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 5 aprile 2006 relativa ai rifiuti, attribuisce dei
codici “D” - da D1 a D15 - alle operazioni di smaltimento elencate e dei codici “R” - da R1 a R13 - alle operazioni di
recupero elencate come avvengono nella pratica. Ai sensi dell’art. 4, i rifiuti devono essere recuperati senza pericolo per
la salute dell’uomo e senza usare procedimenti o metodi che possano recare pregiudizio all’ambiente.
309
TABELLA 8 – Danno medio per tonnellata di rifiuto secondo tipo di impatto e categorie di
smaltimento (€/tonnellate)
Termovalorizzazione
Fattori di
R.S.U.
Rifiuti
impatto
speciali
R.S.U.
1.
CO 2
47.810
47.810
253.000
253.000
35.699
n.d.
Rifiuti
speciali
non
pericolosi
15.122
n.d.
CH 4
–
–
35.699
2.
2.a
2.b
2.c
2.d
3.
4.
5.
6.
∑ (1 − 6 )
97.616
96.029
n.d.
1.095
492
n.d.
10.863
n.d.
–
156.289
97.616
96.029
n.d.
1.095
492
n.d.
10.863
n.d.
–
361.479
7.
∑ (1 − 7 )
– 126.265
30.024
– 168.353
193.126
Discarica
Rifiuti
speciali
pericolosi
Rifiuti
inerti
n.d.
n.d.
n.d.
15.122
–
–
1.089
1.051
0,2
11
27
n.d.
127.413
n.d.
64.670
228.871
n.d.
–
n.d.
–
–
n.d.
48.727
n.d.
64.670
128.519
n.d.
–
n.d.
–
–
n.d.
93.835
n.d.
118.044
211.879
n.d.
–
n.d.
–
–
23.375
–
29.087
52.462
– 6.825
222.046
–
128.519
–
211.879
–
52.462
Fonte: Lombard, Molocchi, 2000.
Voci di costo:
1.
2.
2.a.
2.b
2.c
Gas serra;
Inquinamento atmosferico;
Effetti sanitari da emissioni nella fase di combustione (nel caso della discarica:
combustione del biogas recuperato);
Effetti sanitari da emissioni in atmosfera in fasi diverse dalla combustione ( COV ) ;
Danni all’agricoltura da emissioni inquinanti nella fase di combustione ( SO 2 , ozono ) ;
2.d
Danni ai materiali da emissioni inquinanti nella fase di combustione ( SO 2 ) ;
3.
4.
5.
6.
7.
Danni sanitari occupazionali per agenti biologici (virus, batteri, funghi, etc.);
Danno da percezione di impatti (cattivi odori);
Rischi da incendio;
Costi esterni di lungo periodo (post – chiusura);
Benefici da recupero di energia elettrica.
310