assaggia il libro
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Poema 1990 / 2000 di Rosaria Lo Russo ISBN 978-88-6438-347-7 Collana Level 48 © 2013 Editrice ZONA piazza Risorgimento, 15 – 52100 – Arezzo tel 0575.081353 – 338.7676020 www. editricezona.it – [email protected] Ufficio Stampa: Silvia Tessitore – [email protected] Progetto grafico: Serafina – [email protected] Stampa: Digital Team – Fano (PU) Finito di stampare nel mese di settembre 2013 2 Rosaria Lo Russo Poema 1990 / 2000 ZONA 3 Prefazione L’epica della storia, l’epica della voce Corre, corre come un baleno insieme al cane Aldo, Rosaria adolescente, percorre «a membra scoordinate» e intona a gola piena, un po’ ruvida, un po’ smagata, tutte le strade del suo «bel Sanfrediano», traboccante di vita e di riso, prorompente, e pronta subito alla carnevalizzazione della lingua e dei ruoli (primi fra tutti quello della Donna e del Poeta secondo sacra, Paterna Tradizione), sospettosissima delle norme, già acre e antilirica, con l’orecchio ben attento ai «falegnami bestemmianti». Corre «a volo pedestre» e già impasta la lingua, Rosaria adolescente, la incarna e l’arrota, la manipola e la schianta – schiantata ragazzina irrefrenabile malata «d’adolescenza esorbitante». Conosce subito la morte e la moda (pungolo filosofico, non menzione a testo, il rimando all’Operetta leopardiana), ossia il raccapricciante volo di una ragazzina che dalla finestra «esorbitò distratta e stravolta» e le «zeppe distratte» che nella fretta le fanno «inciampo di tacchi». Inizia con le passeggiate sanfredianine il suo Poema di dieci anni, 1990-2000 – dieci anni in allegoria, perché datazione «veridica e vaga» –, Poema che raccoglie (e in fin dei giochi, finalmente, storicizza) una produzione strutturatissima ed esemplare, attraversata da una vis narrativa epico-poematica e orale. E al tempo stesso abitata da un’ironia attiva e da una coscienza lucida e già dall’inizio programmatica: «S’io fossi un poeta/ canterei le ragazze/ quelle garrule/ furbe come gazze/ e con le minigonne al culo/ truccate con la Deborah o la Pupa/ come farfalle col lucidalabbra/ e col gelato». Già preparata e in controcanto, e tutta schiusa, la strada al rovesciamento (non solo giocoso) della letteratura tràdita e dei ruoli. «Tentativi poematici», definisce quei testi di fine secolo, oggi, a posteriori, Rosaria Lo Russo, e inconsapevoli di alcune opere nelle quali avrebbe riconosciuto solo dopo, «paradossalmente», un magistero femminile autorevole e valido non per la sua 5 scrittura soltanto. In quell’«impulso epico-ironico ed eroico-parodico» che è appartenuto alla Rosselli della Libellula e alla Vicinelli di Non sempre ricordano e dei Fondamenti dell’essere (con screzi anche tragici, però) Rosaria Lo Russo ricostruisce, per sé e per noi, un canone che è vocazione al poema e fondamentale ripensamento, ribaltamento della funzione io-tu. Inchiesta sul soggetto e processo di individuazione, scrittura della donna non più “in funzione di” ma in persona prima. Non più la Donna-tu – sia pure un “tu” ammirato e vagheggiato, desiderato in immagine e respiro, in ricordo e carne – cui si rivolge il Poeta-Padre della Tradizione, il Poeta lirico e maschio (su questo Rosaria è più volte intervenuta direttamente), ma la Donna che scrive e non è scritta da altri, ovvero la «poetrice», l’«attressa», la «femmina fonica». La donna che è stata, in una tappa fondamentale del suo percorso di formazione, musa a se stessa, avvolta da una messa in scena Kitsch di tutti i più pacchiani stilemi della seduzione-spettacolo. Musa a me stessa è chiusura di una tappa e insieme preambolo, col suo prologo (e pure con bando) che è la chiamata a un’esibizione da circo, a un’ostensione popolana e blasfema: «Venghino, siori!» a vedere la esposta «Madama Ricettacolo/ in Edicola Madonna/– grande madre da trivio – ». La relazione a due, io-tu, dunque, va cercata sotto altra specie, nel patrimonio letterario messo alla prova (e alla berlina): la dialogicità è in primis quella che s’instaura tra la poetrice e la lingua scelta. È attraverso la lingua che la ragazzina, in questo viaggio di sconfessione degli stilemi ricevuti e di fondazione di nuovi, viene poi, a un tratto, «fatta femmina» (nel senso voluto e su indicato). Il peccato originale dal quale nasce la lingua poetica usata da Rosaria Lo Russo è in realtà un peccato capitale, un magnifico, totalizzante e dispotico «peccato di gola»: nasce, come ha scritto lei stessa, dall’«abbuffata indigesta delle lingue genitoriali, dove l’accento dell’infanzia casca sulla commistione dei due lessici-inflessioni familiari del nonno toscano e della nonna calabrese, voci narranti da cui prende abbrivio il poemare mediante rievocazione, reinvenzione, falsificazione, simulazione 6 e contraffazione». Il legame tra poesia e nutrimento, anzi la sostanziale identità tra i due, è uno dei cardini più funzionali della sua scrittura. Giusta la Commedia dantesca, Omero – Lo Russo ama ripetere – è il poeta che «le Muse lattar più ch’altri mai». Alimento materno e arte poetica, nettare divino e parola di poesia. Il nutrimento della sua voce poetica (prima d’essere nutrimento a se stessa e ad altre voci) è insieme radice viscerale di lingua familiare (con le sue dichiarate doppie radici regionali, va da sé) e radice letteraria di testi rimuginati e assimilati, sprofondati – non solo deglutiti – dalla bocca al cupo dello stomaco, e lì mescolati e dagli acidi corrosi, e preziosamente usati. A dettare la distanza dal canone vulgato dei «Santi Padri», come scrive, sono i testi in elezione: accanto a un mai dimenticato Dante, a un presente Foscolo, a visioni campaniane di forza struggente e a scarne reminescenze carducciane, a divertiti echi montaliani (e a caratteri altri, anche volti in parodia), si stagliano le mistiche con la loro scrittura fisica e bruciante di innegabile fascinazione, col loro approccio istantaneo, sanguigno e folgorante a questioni teologiche, col sacrificio dell’itinerario a Dio, con la loro ricerca inesausta che è sete assoluta e desiderio di parola (e di tutto ciò che il Verbo presuppone, in senso giovanneo). E l’esplosione è un distillato carnale e orante in sequenza, uno scritto continuo, inesausto, dilagante e languente, malioso e già sedotto, Sequenza orante, che monta, ma di fatto agglutina la voce della Beata Angela da Foligno e quella di Campana in Lo Russo. Questa Sequenza è un testo di incalzante e ruminata deriva letteraria e psicologica, inchiodato all’aberrazione del solipsismo eppure espanso, religiosamente comunicato; ed è qui, ora, posto quasi al centro, chiave di volta, immediatamente prima di quel compiutissimo e concreto poemetto nel poema che è Penelope. Monologo concreto di materia e pasta di lingua, quello di Penelope sdegnata sposa ibernata, vedova in contumacia e anzitempo, anzi vedova a tempo, fino al ritorno di Ulisse superbo, abbagliato e vagabondo, «lazzarone magnaloto» che da vent’anni va «a orecchi a falsirene», castone mariniano dalla «Falsirena la falsa incantatrice» dell’Adone (XVIII, 7). La parte più corposa del poemetto, allora, il 7 Lamento di Penelope, dopo due decadi di nozze in absentia, diventa un controimeneo, un canto antilirico e anticelebrativo pieno di risentimento: «zitta zitta decompongo l’imeneo che t’accolse». Prende voce di livore, Penelope, che nella letteratura antica è stata fedele e parca di parola. E nel Poema di Lo Russo le onde lunghe del suo disincantato lamento si fanno azione scenica, ribadiscono un’inclinazione alla teatralità della voce, voce-corpo e voce-gesto, manifestata fin dai primi scritti. A partire, tra i tanti, da quel testo screziato, con effetti ipermanieristi e iperbarocchi, e insieme abissali fino alla fisiologia più elementare, vitale, che è Gli angoli della bocca (L’Alimentazione), in cui la già teatralizzata messa in scena assorbiva – portava a testo –, ostentate, alcune didascalie: «(LUCE!)», «(LUCI DELLA RIBALTA!)», «SIPARIO»; per proseguire poi con la trascrizione di un materiale nato nella pura oralità, destinato al palco, alla dizione e alla performance, com’è Musa a me stessa. I libri che Rosaria Lo Russo ha scritto nel decennio dei Novanta sono romanzi poetanti e autobiografici articolati in effettivi capitoli, o atti teatrali, o «melologhi» tessuti di voce e pathos. O canti di un unico poema. Insieme delineano un percorso coerente e compiuto, narrativo di sé e delle sue modalità compositive, nel quale si collocano l’urgenza, la prepotenza, la barthesiana «grana» della voce, e l’impellenza, l’invadenza del corpo (anche se bisogna esser cauti, ormai, nel sottolineare il tema del corpo nella poesia femminile, qui tuttavia occorre farlo, anche perché agli albori di tanta, altra scrittura). Nell’incedere epico-narrativo-eroico-ironico di Poema s’inscrive anche la Tradizione – con la discussione e rivisitazione cui si accennava – e s’inscrive una dinamica della parola che assorbe dalle filastrocche alle lingue dell’infanzia (memore di «pappo» e «dindi»), dal linguaggio comune a quello letterario, fondendo tutto in un bolo, in un nucleo rappreso, il cui esito sarà la digestione, dunque la perfetta metabolizzazione (e si torna al vitale nutrimento...), trasformazione in energia. E ancora, nello sviluppo di Poema, perché di unico, globale romanzo di crescita si deve anche parlare per questo libro sommativo, e di romanzo emblematico, punto 8 d’arrivo e di cesura nella produzione di Rosaria Lo Russo, s’inseriscono gesti dinamici tra loro differenti: dalla sempre accorta scaltrezza metrica, alla sensibilità ritmica che è spesso forzata in piegature ironiche, dalle onomatopee alle allitterazioni in parodie e camuffamenti, dagli echi epici seri e ironizzati all’attenzione viva per la fisicità della voce e per quella sensualmente coreutica e pittorica (si vedano certi Trittici). Fino allo sparpagliamento di sé – «Son sparpagliata/ Mi crocifiggo», traduceva Lo Russo nella Ballata della masturbatrice solitaria di Anne Sexton –, qui sparpagliamento nel testo che è anche e sempre piacere, il piacere testuale che Barthes pensava si dovesse trovare nella «scrittura ad alta voce» quella che, gutturale, palatale, labiale, se davvero è «in una prospettiva di godimento», si muove verso «il teatro delle emozioni», perché «ciò che cerca sono gli incidenti pulsionali, è il linguaggio tappezzato di pelle, un testo in cui si possa sentire tutta una stereofonia della carne profonda: l’articolazione del corpo, della lingua, non quella del senso, del linguaggio». Se di autobiografia si tratta, e scopertamente, va intesa in senso proprio: scrittura di sé e del Sé che si riconosce, si individua, in quanto è scrittura dell’esperienza che il soggetto poetante – la «poetrice» – ha potuto avere nella stretta offerta da mediazione dei sensi e poesia. E in questo è scrittura narrativa, e poematica. In questo, inoltre, esperita nel pieno attrito con Amore Dittatore, e in sua piena, rivolta fascinazione. Nella sua compiutezza Poema si propone come libro esemplare: alla filiazione, al canone femminile, Rosaria è attentissima, e ama collocarsi quale anello intermedio di una collana che vede crescere già nel presente, allungarsi, proseguire dopo di lei. E intanto, mentre storicizza, presenta il cerchio chiuso quanto fertile della sua prima produzione: prese le mosse dall’attrazione per una voce in vertigine – «Questa lingua estrema/ questa lingua tirata alla radice/ strappata alle corde/ corde e radici/ in gola in petto/ radici cordiali/ corde radicali/ dalla vertigine muta affiorate», immagine forte in Vertigo (Vrusciamundo, 1994) un testo che dal portato concettuale di Poema è fuori, ma non dal significato pulsante della lingua –, passeggia poi per Sanfrediano, altrove definito, con trasparente 9 enunciato di formazione/alimentazione, «cuore pinocchio di una città che era prima di tutto e sopra a tutto/ latte di lingua, lingua di carne lessa brodo della mente coltura di risata». E poi, dopo le corse con Aldo, ragazzina «occhialuta», attraversata la «vita infanta testarda», presi i panni di «Rosi la pasionaria», diventata femmina e «fatta maschio/ soldata del Signore/ carismatica martire»; e dopo aver adorato «la gaiezza che fa tremare» e nel «grande letto» aver fatto delle sue «membra sottili languente sparpagliatura»; affrontata poi la dialettica intellettuale con lo Dittatore amore (con la poetica e l’estetica dei Padri letterari, e con le forme chiuse abilmente forzate), e ascoltato poi, «cronista del cuore», un secco suono d’ossa quando «si ruppero le benevolenti tutt’e sei le rotule»; e liquidato infine il ruolo della donna oggetto di poesia e assunto quello di soggetto in quanto «fattrice» di poesia, allora si è imposto d’obbligo, conclusivo, al termine d’un viaggio saturo d’esperienza e di scrittura, l’abbandono dello specchio paterno con tutte le sue lusinghe, e in sua vece la conseguente ricerca di un’immagine non riverberata, neppure in senso reattivo, oppositivo. Vale a dire l’abbandono dell’autoseduzione letteraria, dell’erotismo poetico autoriflessivo, teso ad arco su di sé. Il percorso così tracciato, inoltre, è perfezionato dall’aver conosciuto e dall’essersi riconosciuta in certe opere poematiche femminili del secondo Novecento. E dall’averle manducate, foneticamente articolate, sillabate, interpretate in voce. Ora, a decennio ulteriore lasciato decantare e già dati alle stampe due testi non solo nuovi ma differenti, Nel nosocomio e Crolli, l’ultimo atto del romanzo autobiografico è, e non poteva che essere, massime per i lettori, l’epica della storia (che della storia, poi, è anche un po’ il sugo): la ricomposizione del libro-vita, libro-voce e libro-actio, in un intero, in un tutto intero ricco di scene e quadri diversi, di frizioni esistenziali e letterarie, sovrabbondante, compiuto e coscientemente proiettato al(la forma) Poema. Cecilia Bello Minciacchi 10 Sanfredianina 11 Cos’io ricordo come fosse da lunga pezza eppur son cento metri e due piani in altezza e ci son tutta in mezzo impantanata invischiata, le mi’ sanfredianesche passeggiate a membra scoordinate quasi cotidie così per sdilinquirsi e le gambe sgranchirsi, fra pezzi di legno pinocchi polverosi merli indiani in vacanza e falegnami bestemmianti e – Maremma cane, Maremma inzaccherata – con quel cretino di Aldo al guinzaglio scappellotti nocchini e via a volo pedestre con Aldo cane infedele e porco cane anche pedofilo pederasta, che tutti salutavano come fosse un cristiano. Cos’io ricordo come fosse ieri perché a gran voce me la chiedi l’esibizione di me bufina fantastichina, in questa frotta di versi maldestri che vanno pel verso 13 di marciapiedi sconnessi in cui con furia mi verso quasi con esultanza evitando le cacche fra rialzi petrosi e cretti d’acciottolato screpolato (per inciampo di tacchi di zeppe distratte, mi bistratto a mozzafiato dopo una storta, ahi! per fretta troppa). Ma il mio dolce io il corpo mio impesante ad altrui predisposto dolorante rimembra in sua continua adolescenza i visi e le parole di me sanfredianina. S’io fossi un poeta canterei le ragazze quelle garrule furbe come gazze e con le minigonne al culo truccate con la Deborah o la Pupa come farfalle col lucidalabbra e col gelato, 14 ma tu vedessi invece com’è invecchiata di botto la paralitichina con la permanente di riccioli mummificati, s’è spenta adesso che aveva sempre gli occhi dipinti di celeste forte come la veste della Regina Angelorumme ora pro nobis all’angolo di via San Giovanni dove mi segno sempre in quell’infernaccio rauco di falegnami sudati e bestemmioni. Com’è invecchiata come immobile ti fissa poverina, che le piaceva tanto Aldo e gli sorrideva scimunita. Ma quando Aldo corre come un baleno sfiora gli inferi, sfiora il cielo L’aria settembrina m’alluma il cervello mi lucida le scarpe e mi sovvengo che l’arlechinesca mia persona stravagantemente sta male d’adolescenza esorbitante. Io dovevo essere alle medie convinta d’essere immortale la ragazzina si buttò di sotto dalla finestra là in via Santa Monaca 15 dove stava l’Angelina in Piazza del Carmine lì, all’incrocio di tante Madonne occhieggianti – regali e vane – col bambino occhieggianti col bambino ben stretto lì sulla ragazzina ch’esorbitò distratta e stravolta senza esitare l’esito d’adolescenza sua maldestra – me lo disse l’Angelina – si faceva insieme le medie. Tredici anni tutta pura ma la materna struttura già ce l’ha, l’Angelina che adesso s’è sposata ci ha i figlioli, ne voleva tanti me lo raccontò l’Angelina mentre si faceva i compiti che trovavano spruzzi di sangue e grumi di cervello dappertutto, ogni volta che ci passo ancora dopo anni ho paura di trovarli e me l’allùcino quel volo di ragazzina, di triste monaca imbaverata dall’alto. 16 E quando Aldo corre sfiora il cielo sfiora gli inferi come un baleno Oh grigiore di monaca quando vo a Santo Spirito con Aldo al guinzaglio grufolante e zummolemmerda serpente strisciante, là dove stava l’Angelina la Laura la Nicco la Sonia che rideva sempre fino a piangere col singulto fino a farsi pipì addosso come una bimba, che piaceva ai maschi – diobòno – perché rideva forte, con le fossette ed era porcellona rideva alle barzellette sporche rideva sconcia rideva forte – regale e vana – esorbita dal ricordo distratta e stravolta con un piccolo angioma nell’occhio sinistro per lo sforzo d’una vomitata, per altro luminoso e furbetto mandorlino latte di fico sanfredianino. 17 Oh s’io fossi un poeta ti canterei grassoccia e villanella Angelina, che tuo padre era così mingherlino pur avendoci il ristorante in Santo Spirito che faceva le bisteccone bone. Angelina Nicco Sonia Laura si parlava sempre dei maschi e dell’imbrocco io occhialuta ero sempre innamorata fino al deliquamento e scimunita mi spingeste al primo bacio davanti al Chiardiluna estivo du’ lingue in gola là seduti sul motorino, e col bicchierone di latte poi tornare bambina. Bambina bambina Aldo vola verso casa sfiora gli inferi sfiora il cielo lo ingoia il buio come un baleno. E sotto casa ci stava una vecchia pazza, la vedova siciliana, che gli era morta la bambina e stava sempre alla finestra 18 a lisciare la gatta siamese e tutta notte urlava e si dimenava e tutti avevano paura della strega scarruffata, ma io mi ci fermavo mi chiamava perchè comprassi cinquanta lire di gelato per la siamese strabica, e io glielo compravo. Qualche volta una farfallina gialla le svolazzava torno torno alla finestrina del bugigattolo basso antro di strega siculo sanfredianina al livello della strada tutta polverosa la farfallina gialla lucignòla, e lei mi diceva ch’era la bambina che tornava gialla lucina a salutar cotidie sua madre luciferina ed era proprio così svolazzava proprio lì, e lei tutte le sere apparecchiava per tre. 19 * (L’Angelina O come tu se’ bona, Mazzantina Quando tu ridi, alle code degl’occhi Hai zampe di gallina, e tutta Tu fremi, mmh, o bellafìa Corpo di fragole in gelatina. Come tu se’ belloccia, Mazzantina Quando tu ridi tutta sgangherata Fino a pisciarti e lacrimosa In quegl’occhietti a mandorla, puttana. Poi ti ripigli e mugolante Imbragata ti tiri su le hollante E rigridoli dal riso, Mazzantina Bocca di fragole in gelatina. O sovraesposta, in te solo s’è fisso Un capillare rotto nell’occhio sinistro). 20 Trittico testacaudato detto de Lo Dittatore Amore 141 I Primavera - Pian de’ Giullari In alcuni paradisi è permesso accondiscendere ai piaceri vili come godere di un fregio finto liberty, come una pergoletta ch’io vidi. Ma non stopparmi, anima toscana, al rigor viso della tua luna diurna; non disarmare il canto pietrificando piagenza, né mira al cielo dell’altra metà del cielo che ti chiude le porte del regno: venuta meno al pegno che le schiuse. Abusa pure di me mia lingua di velcro che raspa felina il fondàco dove mi salvo catastando bisogni in paradisi permissivi. 143 II Responsi a F. A suon di ah! di uh! di squilli ferventi di lanci di slanci di squilli per vani conati intermittenti, di falsi destini destinatari e mittenti à la manière di padri e figli madri e figlie minori e maggiori minorate o maggiorate: tutte comunque perdenti nella durata fatìca dei [mutamenti, mi consiglia di darti un morso che spezzi la concitata viltà che mi condanna alla chiesta, perché risplenda alfine la doppia chiarezza (limitando decisamente i danni, – sentenzia – ) del foco che mi affina onde rifulgo chiara e lucro fra le genti, del foco che disprezza tutti questi vani impulsi veniali d’incertezza (in lanci o slanci di squilli tinnanti in ah! e uh! a nulla propizi): si smorza l’ambigua flebile fiamma mendace di rimorso e tenerezza. Ed io risalgo alla ragione prima in me di tua assenza (di caramello in [cruna di cunno), di assenza insomma in te di te di un’interezza, ergo d’interenezza. Stretto stretto è il vicolo buco di salvezza; t’incontro al buio, inoltro malintesa carezza, ruga d’espressione, sordido di pienezza commosso sgorga spurgando tiepido, se contempli se contempli, tiepido un mare ottuso di sangue, un rombo muto ma verace di stizza che [intrinseco s’estrinseca e guizza: dell’addore d’un fiotto impepato di cozza si rimpinzò verace adorazione. 144 La fiamma di nuovo secante ti depone fra le mani il pomo della discordia: non è propizio perseverare delimitando un possesso tanto grande. Allora risalto figura nobile fra intrepidi bovi che si spremono a freddo (la mia carrozza strappata all’indietro – sciagura! – : il tremendo tremante rinculo ma di nulla mi curo che non ti sia prezioso e propizio) con lingua e capelli mozzati e naso e orecchie mozze vado monca al cospetto del saggio che giudice ricuce espettorando le nozze: Ritìrati prima di cadere in disonore, rintuzza ignobili voglie, vedi che ricetta d’elemosina non trattiene il viandante! La fretta muta di cani che ti scortica la pelle e ti fa a brani sovvertirà gli ordinamenti celestiali del creare in tutte balle e nella generazione che ricetta ti annienta soffolcendo muda di siero in dolca di ricotta calda, soffocherà il tuo cuore con fummo giallo pungente, il lezzo d’orina del niente che mente, soffocherà gli esuli indizi di altri tramonti, gli esili schiocchi di pollice e indice uniti per sempre (tra morti, s’intende, blandi intrecci di dita raggelate da danni a terzi a quarti, blandizie tumulate in quarti di vitella da latte), soffocherà tumulti fra denti ridenti in nota di cuor di cicogna: e quest’ennesima inutile rampogna soffocherà sospesa fra le braccia [vizze di una svaccata di salute che a generare ti sospende per le spicce, [galoppando forte, e scaloppa. In quel porcavacca soffocherai beato di rinuncia. Rinuncio anch’io per te, se vuoi, ma dimmi, chiedo: una volta tanto anche tu rinuncerai ad avermi scolta, mea culpa? Rinuncerai a me scoliotica scoliasta, matrice di non sai se scoli o scòlii, pedofila inveterata, castratura pederasta, casta Giocasta? 145 Nella beata rinuncia a te per la ricettatrice che ti ricatta e t’arresta, chi perde chi chi prende che a chi va chi dà accoglienza, appartenenza? Ma a me, ma a me cosa cazzo mi resta? Irrigidisci, ti prego, l’osso sacro. E spegni quella luce che mi ottenebra la vista. 146 III Chiusi Drappeggiata e acefala incombe bianca l’arcana pietra come nera l’arcigna sagoma d’Amiata ammutolisce di torba le nubi che d’intorno l’ostacolano. Annotta sull’amata il sarcofago manto che stende pietoso un indefesso: allotta? che allampa nella lotta continua che ci divide: testa e busto, testo e contesto trapunta di stelle versus pezzato di mucca. Allotta? balbetto. Allotta? chiesi e chiedo, balba e mesta, Aracne e Atena. (Diramano sottopelle come urticanti sfoghi d’acne le lacrime dell’amata piantonate nel petto. Picchiettano in me tosche come schegge d’amianto). Liscio come cefalo il canopo etrusco s’imbottisce di visceri neri come l’asprigna susina di Montepulciano che stucca s’appiccica in viva pietra fetida o pacata in morto bùcchero, nero l’Amiata urna incenerito soverchia la strapotente rocca di Ghino di Tacco o quel che fu ricetto all’invitto eresiarca di Arcidosso: 147 così l’anima pesa sul corpo come un coperchio. Mute nubi trascorrono sorvolando ignare il manto che su di me stende pietoso Morte, l’unico mio figlio maschio. 148 IV Rama Chandra al Parterre (O Lotte, o solita lolita Lotte...) Sto qui nel salvifico kitsch della festa, mi senti? E luminaria nell’odore arcano di luci di pesci Ti aspetto come lei lui o come Pavese aspettava la danseuse Con aria intimorita suspicando l’odore incenso Di sessopesce. E’ la festa della luce e mi contento Pare l’India – ti penso – mio celibe inganno, Mio fallato portofranco, affusolato pianto Nel burro chiarificato, come di cera ti penso. Non mi ci raccapezzo. Inerte assisto A questa divertente cerimonia pagana: Rama Chandra, Re Rama, oggi rincasa La moglie sua che gli fu gli fu rubata (Sempre accesi terzomondi i lumini di Natale) O anche: quando Krishnabimbo rubò il burro Mamma Yaso per punirlo lo legò ad un mortaio (Hanno acceso gli stoppini che chiarificano il buio) Ma non riuscì non ci riuscì a legarlo: la corda è troppo Corta. L’olezzo di pesce è forse un rosso paravento Come un guizzo dell’aria come ogni breve cenno Di un tuo prossimo inguaribile spegnimento O scernimento o svenimento, mah. Il sopore Del giovane Werther sotto la doccia allunga una saponetta Al patchouli all’umida giovinetta Ch’ell’è embolo dell’assoluta totale inincidenza 149 Ormai dell’età schietta della più pura Più pura purezza. Invece loro sembrano tutti Usciti da Bollywood! O rumorosa luce! L’eresia Nell’induismo proprio non esiste. Fra loro solo Si sospetta: le voci si alterano, ma nell’alterco Che tu metta sull’altare la dea Kali, Kali la bella O le foto di Bill Gates con occhiali e frangetta A Kristokrishna tutto gli piace gli piace tutto Purchè odori d’incenso e di pesce di spezie Odori di rossetto e di denti di burro di cera Di pelle, di questa dolce scura pelle bruna: Sto circospetta: «l’eresia nell’induismo non esiste», Sorride Rama Chandra Hare Rasa Rama Rama ninna oh Da di là arriva l’odore di burro fritto affogato nel riso. Dunque cos’è che ancora c’impaura nella stretta Fra maschio e femmina, chi è che chiede ancora Cosa ci aspetta? «Non è possibile legare dio In alcun modo – ecco – materiale». Bruciano sull’altare Fra frutte abborracciando sacri stami e stoppie, spaccano Cocchi, s’incrociano fumi d’incenso in eccesso: piangono Lacrime di coccodrillo sul latte versato sacrificando Al battito di tuoi candidi e rubri piedi (: o te che plori Mi vedi?) O tu che forte e fiori, forte e fiori. 150 V Primo di primavera fiorentina «File di cipressi in morte e germogli incappucciati e il vagito innaturale dei rumori dalle strade. Caste tende si sollevano sopra bui interni rifratti: sono otto mesi oggi che sfogliamo al contrattacco. Sapremmo quanto smodata punga reclami ogni ramo quando linfatico urla e geme per perfumarsi. Oh il tuo vanesio richiamo e la mia scuffia trinata – che rosa sfiora una guancia – , schiaffato lì ci mortàla». (L’uccello femmina e il maschio in gabbia così cantava) 151 Postfazione Poetrice Sotto il titolo Poema 1990-2000 Rosaria Lo Russo raccoglie e ripropone, riorganizzandoli, quei testi che compongono il suo progetto più ambizioso e complesso, quel “romanzo allegorico in versi sfacciatamente autobiografico”1 iniziato con la composizione di Comedia (Bompiani, Milano 1998) e conclusosi con l’uscita de Lo Dittatore Amore – Melologhi (Effigie, Milano 2004). Tale macrotesto non sarà da intendersi come volume di collected poems (legittima pratica editoriale accorpante opere esaurite o introvabili) bensì come la realizzazione definitiva di un progetto coltivato per un intero decennio in cui le varie aggregazioni testuali sono organi pulsanti di un unico corpus allo stesso tempo poetico e (auto)biologico, organismo solo apparentemente ridotto a “morto orale”, in realtà pronto a resuscitare qualora il lettore decidesse di immettervi il proprio afflato vocale: solo in questo modo sarà possibile “coglierne pienamente la drammaticità, verificarne la necessità”2 e inquadrarlo anche come opera metaletteraria avente per oggetto il suo stesso formarsi e le relative conseguenze. Onde avvicinarci a questo corpus (da intendersi sia come opera che come operazione) sarà necessario fornire alcuni dati biografici essenziali circa la formazione dell’autrice ed illustrare le peculiarità intramediali del suo lavoro. Nata a Firenze nel 1964, Rosaria Lo Russo si laurea in Lettere Moderne discutendo una tesi in Storia dello Spettacolo dal titolo La protagonista 1. Lo Russo, Rosaria, Postille e glossario in corpo minore in Ead. Lo Dittatore Amore. Melologhi, Effigie, Milano 2004. 2. Pagliarani, Elio, Prefazione in Lo Russo, Rosaria, Comedia, Bompiani, Milano 1998. 203 di Pirandello. Miti, personaggi e ruoli. Dal 1986 si specializza come lettrice-performer di testi poetici propri e altrui; si tratta di una attività che non si limita alla mera dizione pubblica di un testo, bensì presuppone un accurato studio filologico e una precisa disamina delle componenti ritmiche e prosodiche in rapporto alle proprie doti vocali: un calibrare la voce attenendosi al testo considerato innanzitutto come partitura fonica generatrice di significati complementari che solo la dinamica di flusso espiratorio e vibrazione di corde vocali è in grado di mettere in luce. Tale attività di esegesi orale (svolta negli ultimi vent’anni all’interno di master universitari, programmi televisivi e radiofonici, convegni, performance e spettacoli in Italia e all’estero) è da considerarsi parte integrante e inter/ agente della sua opera. Non è un caso infatti che Lo Russo definisca sé stessa “poetrice”, neologismo che al suo interno racchiude e fonde i ruoli di “poeta” e “attrice” e allo stesso tempo conia un’alternativa creativa ad una definizione come “poetessa”, avvertita come limitante e subordinata alla figura del “poeta-maschio” da molte autrici italiane già negli anni della contestazione femminista. Quando Sequenza orante3, primo (ma solo all’interno della cronologia editoriale) pannello di Poema vede la luce è il 1995 e Lo Russo ha già al suo attivo due raccolte4; l’anno seguente una scelta da questi due testi (sigillati dalla poesia Sanfredianina) verrà pubblicata nel Quinto quaderno italiano5 di Poesia contemporanea a cura di Franco Buffoni, corredata da una nota critica di Antonello Satta Centanin, all’epoca non ancora Aldo Nove. Il percorso di ricerca intellettuale ha portato Lo Russo a confrontarsi con la traduzione della statunitense Anne Sexton, un impegno che, al di là della fortuna editoriale, inaugura una serie di 3. Lo Russo, Rosaria, Sequenza orante implorazione derelizione derelizione implorazione, Gazebo, Firenze 1995, poi in Comedia, cit., col titolo Sequenza orante. 4. Ead., L’estro, Cesati, Firenze 1987; Ead. Vrusciamundo, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta 1994. 5. Ead., Sanfredianina, in Poesia contemporanea. Quinto quaderno italiano, Crocetti, Milano 1996. 204 riflessioni saggistiche intorno all’identità della donna-scrittrice in relazione al concetto poietico (poetico ed etico) di Padre e a quello di Tradizione Letteraria (da lei identificata come “patriarchista” – crasi fra “petrarchismo” e “patriarcato”). Figlia incestuosa di solo padre Se la ricerca del padre è intrapresa della figlia novecentesca, se il punto di vista filiale è quello delle poetesse, l’atto stesso della scrittura si configura come ricerca della propria identità poetante tramite la ricostruzione dell’identità del padre, figura contraffatta in metafore strabordanti, in un gioco di seduzione reciproca per continui travestimenti e metamorfosi, sublimi o turpi, che conduce a morte quando l’amplesso proibito implica la fusione, anzi la confusione, fra le due identità, fino alla perdita, alla sparizione di entrambe nella vorticosità delle metafore.6 In Poema – e, in particolare, nel poemetto tripartito Gli angoli della bocca (L’alimentazione) – la ricerca di un’identità poetante femminile si struttura secondo un processo costitutivo di identificazione col Poema di Dante7, padre (appunto) della tradizione letteraria italiana. Si tratta di un rapporto allegorico solo apparentemente comico: in realtà esso mima, camuffa e parodizza la tragica condizione della donna all’interno della tradizione letteraria italiana: musa-oggetto del Poeta Maschio Patriarchista fin dalle origini, incorporea musa-morta ovviamente angelicata e cristofora, sembra non aver mai goduto di un pieno diritto di parola. La Figlia 6. Ead., Figlia di solo Padre. Note in margine ad una traduzione in “Semicerchio. Rivista di poesia comparata”, 1994, XI, 1-2. 7. Per l’analisi dei riferimenti danteschi si rimanda a: Lo Russo, Rosaria, Comèdia&Comedìa (Anonimo Fiorentino) in Rizzante, Massimo, Gubert, Carla (a cura di), La scoperta della poesia, Metauro Edizioni, Pesaro 2008, p. 61-92. 205 Novecentesca descriverà la ricerca della propria identità poetante rivendicando per prima cosa una corporalità individuale e autonoma, viva e sessualizzata, in vista (si spera) di un rapporto paritario. Gli angoli è il racconto allegorico in presa diretta della traumatica nascita e complicata infanzia di questa protagonista, eroina ironica-ma-non-troppo che cerca di “prendere la parola” all’interno della Tradizione e con essa instaurare un rapporto dialogico paritario. La voce “uscita viva dal guaio della nascita”, per esistere, ha bisogno di assimilare i tratti di un altro individuo (testuale) e di modellarsi su di essi: le fago/citazioni (variazioni e centonizzazioni) dantesche saranno quindi alimento da divorare (cioè incorporare nella propria scrittura), metabolizzare (vale a dire risemantizzare) per poi essere espulse in forma di nuovo ordito fonico-poetico (“LE PAROLE SONO UN MOTO CHE VA// DALL’INTERNO// VERSO L’ESTERNO”). Si sviluppa così un’allegoria protratta fino alle sue estreme conseguenze: in assenza di una Madre (vale a dire una realtà autoriale femminile con cui identificarsi) la voce non può che incarnarsi (farsi corpo) tramite partenogenesi (cioè una riproduzione in assenza di fecondazione). Non potendo metaforicamente suggere nutrimento dal seno materno poiché inesistente, questa neonata protagonista letteraria instaura per sopravvivere un “rapporto orale con il Padre”8: è il “momento dell’incaglio”, “malinteso, malefatta” dove “la mente (…) s’indementa” schiacciata dall’ombra dell’incesto. In questa chiave va letto un testo come Bocchino: non tanto un termine volgare per designare la fellatio quanto un ammiccante diminutivo volto a sottolineare che “è lavoro di una piccola bocca”9, cioè di una scrittura vocale “infante” poiché priva di consolidate basi storiche. Il titolo iperconnotativo sintetizza la prassi compositiva dell’intera compagine: la bocca come ingresso del cibo e sede di emissione ed articolazione vocale è il palcoscenico su 8. Comèdia & Comedìa cit. p. 81. 9. Ibid. 206 cui si svolge il dramma dell’adolescenza corporale della ProtagonistaFiglia, una ricerca di identità che si scontra inevitabilmente con l’alimento, inteso sia come pietanza, sia come esperienza, sia come linguaggio genitoriale (o, più ampiamente, come linguaggio del mondo preesistente, tradizione letteraria inclusa). A tal proposito sarà opportuno citare ciò che ebbe a dire in proposito Marco Berisso presentando in anteprima per la rivista il rosso e il nero alcuni estratti de Gli angoli: L’alimentazione, la crescita, sono tutti momenti psichici e fisiologici attraverso i quali il corpo originario, la materia, a partire dall’embrione, muta senza fine la propria identità (…) Il cibo che ingeriamo ha un nome e un cognome, una tradizione storica e culturale, è una figura parentale che ci condiziona e snerva con il suo prepotere. Assimilando (“rendendo simile”, proprio etimologicamente) il cibo, insomma, perdiamo la nostra figura per assumerne altre, ci falsifichiamo in altrui forma.10 Colei che falsifica “sé in altrui forma” è “Mirra scellerata, che divenne/ al padre fuor del dritto amore amica”11: un’amante del Padre che tuttavia sconta la dannazione eterna non per peccato di lussuria quanto per fraudolenta falsificazione di sé. La falsificazione intesa come alterazione e imitazione è stilema costitutivo del poemetto e di Poema tutto, nonché “presa di posizione performativa: comica, teatrale”12 e difatti la partitura testuale de Gli angoli ingloba didascalie, annotazioni sceniche di modulazione vocale (“moderare con quiete”, “pispigliando”), di illuminazione significante (“spia rossa”, “LUCE!”), di ironica condizione sensoriale (“VAMPATA!”, “CALDANA!”). Siamo “sull’infame boccascena/ della vita infanta testarda” su cui la Protagonista “balza en travesti” onde 10. Berisso, Marco, Nutrice, in “il rosso e il nero”, 1998 , VII, 13. 11. Cfr. Inf. XXX 39-41. 12. Comèdia & Comedìa cit. p. 62. 207 con-fondersi col Padre. Ma Gli angoli è anche, come la stessa autrice ha suggerito, “un testo sull’insorgere dell’anoressia”13, patologia da intendersi come mancanza di appetito in senso lato. Il “buco allo stomaco” si apre infatti in un “onfalo-encefalo”, nel “luogo carnale da cui fuoriesce il poetare”14: “piatto” (usato sia come sostantivo che come aggettivo) è “l’eccitazione sessual-alimentare data dal Padre/Madre tramite la Voce (...), in assenza della quale l’onfalo-encefalo rimarrebbe anoressicamente piatto, morente, in presenza della quale il ‘piatto’ diventa recipiente di Cibo Orale Informativo”15. La “costrizione della mente” (che diventa però “coscrizione”, arruolamento più militante che militare) è la condizione mortifera dell’anoressia (nervosa e verbale) da cui staccarsi mediante ipertrofia linguistica: la scrittura fago/cita i versi danteschi per restituire a luoghi ed episodi autobiografici spesso traumatici “il sapor della pietade acerba”16, una pietade a cui attribuire il valore nutritivo di una pietanza. Ecco dunque la componente autobiografica che si mescola (si con-fonde) nel poemetto: si pensi a Piano sequenza di cucina toscana con ben tetragona donna dove torna un personaggio come “la Graziella” (nella realtà biografica, tata dell’autrice Lo Russo) il cui “soffritto” viene chiamato in causa già nella protasi Vegetativa I, insieme a “l’odore del mio bel Sanfrediano”; in entrambi i casi si tratta di aromi paterni, emblemi di una Firenze intesa come Patria del Padre. Con piglio comico-realistico, Piano sequenza ritrae questa “donna-cubo (…) con l’Unità e Famiglia Cristiana sottobraccio” che “spolvera gli aggeggini della vita infanta bastarda”, prendendo “a gabbo”17 (alla leggera) il “primo mestruo il primo estro” della Protagonista. Il dramma del menarca sessualpoematico precipita in uno slapstick, col suo fraseggiare barocco mima 13. Nutrice cit. p. 92. 14. Comèdia & Comedìa cit. p. 79. 15. Ibid. 16. Pur. XXX, 81. 17. Inf. XXII, 7. 208 una gag di torte in faccia accendendosi di cromatismi significanti (“sangue”, pappa col pomodoro, “vino rosso” contro “cenere”, “farina lattea”). In Recita di fine anno al Rondò di Bacco la spinta autobiografica vira verso la transpersonalizzazione del soggetto: narrando la sua prima esperienza attoriale (il Rondò di Bacco è un teatro fiorentino sito nell’ala laterale destra di Palazzo Pitti), la Protagonista sigilla il “rito di iniziazione al linguaggio del Padre”18, rendendo definitivamente “teatro” la propria “gola d’inferno”; l’intero processo viene esplicitato tramite la desemantizzazione del dantesco “cocco e biacca”19: in origine cromatismi impiegati nella descrizione della valletta dei principi e qui riferiti al “tentennante testoncino” della Protagonista. In una nota di poetica del febbraio 1998 Lo Russo aveva dichiarato: All’origine della mia lingua poetica c’è (…) l’abbuffata indigesta delle lingue genitoriali, dove l’accento dell’infanzia casca sulla commistione dei due lessici-inflessioni familiari toscano e calabrese, voci narranti da cui prende abbrivio il poemare mediante rievocazione, reinvenzione, falsificazione, simulazione e contraffazione20. Se nella prima parte de Gli angoli il processo di ricerca avviene operando sul Padre Dante inteso come cibo linguistico, nella seconda l’ormai costituitasi Protagonista Femminile metabolizzerà nel suo poemare “l’altra origine”, quella che le deriva dall’identità paterna biografica calabrese. Trattasi sempre di messa in scena testuale-allegorica dove il grado di performatività non è da cercarsi nella resa fonica autoriale bensì nella capacità mimetica e trasformista dell’io-scrivente approdato, tramite il processo mitobiografico fin qui esposto, allo status di Personaggio. 18. Comèdia & Comedìa cit. p. 86. 19. Pur. VII, 73. 20. Lo Russo, Rosaria, Prendere la lingua per la gola in “il rosso e il nero”, VII, 13. 209 Col Trittico del tempopieno degli addii la Protagonista si dedica “all’abbandono delle abitudini”98. Intonando un ultimo “pianto straziato”99, dice addio “al Bello che fu-fui, che vidi, che godetti letterariamente”100. In Solo e penoso spostamenti trasloco “svanisce la perdùra”, cioè il “tempo di durata della perdita di Lui-Me”101 mentre ne I piatti della bilancia la “voce in maschera/ che permutava sé in figuranti pennose” stila un rendiconto definitivo dell’esperienza poematica, quasi chiamando sul palco testuale tutte le sue incarnazioni per un inchino finale. Poema si è aperto con la passeggiata di Sanfredianina e con L’adorazione dei Magi (La sfilata), una “parata storica (…) che esordisce in piazza della Signoria e termina in piazza Pitti”102, trova la sua conclusione ideale, mimando quel movimento di passi che caratterizza le terzine del Poema dantesco. È il giorno dell’epifania, a Firenze gli sbandieratori in costume rinascimentale omaggiano il “creatore neonato” e alla Protagonista “la disimmetria tremenda/ Del graziosissimo volto della figurante bimba” provoca “un’ondata di nausea”: la disparità storico-social-letteraria fra i sessi non potrebbe esserle più palese. “Quello che mi fa più male è di non avermi conosciuto di persona”, nota tragicamente fra sé e Sé, fra il suo essere sia persona/Personaggio Figlia Novecentesca, sia autrice/Poetrice che ha destrutturato il mito posticcio della Musa Morta della Tradizione Patriarchista. Nel paradosso c’è un attimo di commosso e improvviso riconoscimento: “allora io esisto – incredibile– pare che esisto nel mentre/ Vengo a mancare”, “esisto apposta per lasciarti finalmente/ Lasciarmi lì morta di tenerezza”, “nel quartiere immenso della mente”. Su questo estremo riconoscimento in punto di morte dei “primi nomi di persona” (non più nomi di Protagonista o femminile Personaggio 98. Ibid. 99. Ibid. 100. Ibid. 101. Ibid. 102. Ivi, p. 77. 236 bensì topografia mentale: “Passera”, “miranda”, “Toscanella”) Poema si chiude con la luce che “avvampa”, “vergognosa”, su una nuova “alba”. Post-it post-mortem Addio, ecco, alla Musa Poetessa Suicida del suo Sé: c’è da piangere sul suo latte versato che ha nutrito Padri e Grandi Fratelli, senza ingrassarsi, mostrandosi in figure mistiche, erotiche, ma senza biologia in movimento e mutamento. Dopo ci scriviamo su un bell’Epitaffio e muoriamo finalmente alla Musa Morta. Accettando l’onere che tutto dopo taccia, dopo di aver tentato una Rifondazione Femminista dell’immagine femminile, dopo averla ascoltata e non solo parlata, vivendola come persona, di persona. Ahi! Lo Dittatore Amore! Più dittatore che dictator.103 Una volta conclusosi, Poema giace e tace. Chi non smette di parlare è la sua Protagonista. Nata morta come Musa del Padre e morta adesso anche come Musa di Sé Stessa, continua a parlare da sotto la lapide su cui campeggia il proprio Epitaffio. Si direbbe che non abbia fine la sua sfacciataggine: impudente e impenitente, chiassosa, vistosa ed eccessiva lo è sempre stata per tutta la durata di Poema e, vista la missione che si era proposta di compiere, possiamo dire adesso che queste caratteristiche siano state le sue armi vincenti, nonostante tutto. Sfacciata? Sì, poiché “senza faccia”, nonostante si sia prodotta nell’amplificazione delle sue molteplici sfaccettature. Ma è proprio la “Musa Poetessa Suicida del suo Sé” a compilare l’Epitaffio? Oppure è la persona-autrice che smette di con/fondersi col suo dettato-dittatore a parlare? Può darsi che qui la Protagonista sia già scesa dal palco della sua bocca, si sia tolta i costumi di scena e sia tornata ad essere Rosaria Lo Russo? Ce la immaginiamo 103. Ivi, p. 75. 237 nel suo camerino-studiolo, mentre riflette sulle sue sudate carte poematiche, mentre le asciuga dalle lacrime piante durante il melodramma melologico. Dopotutto si è arresa a “chi sbatte contro l’insopportabile ingenuità” del suo “teatro”. È la “contemplazione dell’immagine” di sé che ha come conseguenza “dedizione ed arresto”: consegnandoci il suo Poema Lo Russo consegna sé stessa ad un inevitabile silenzio poetico; passeranno anni prima che la “scrittura corrente” torni a sgorgare dalla sua penna e quando ciò accadrà (con l’uscita di un’anticipazione di Crolli104) ci ritroveremo davanti a una voce profondamente mutata che inaugura un altro tempo di ricerca abbandonando temi e poemi del passato, come a prenderne le distanze. E Poema? È stato soltanto una masturbazione “allo specchio del Padre”? Un esercizio di autoerotismo solipsistico? Un morboso autocompiacimento? Lo Russo ha manipolato il linguaggio genitale della lingua italiana (il Poema dantesco), l’ha portato alla bocca facendolo suo, nutrendosene e nutrendo il lettore con un fiotto sillabico, ipnotico e biologico altamente carnale e femminile, generando sensi e significati plurimi. No, non si è trattato affatto di masturbazione, piuttosto di un inno di lode laico e perturbante (e tanto eroicomico quanto necessario) rivolto alla maestà di ciò che per secoli è stato il tabù per eccellenza della letteratura italiana, la “glucùpikra prìapa pàprika fìca”. Marco Simonelli Firenze, novembre 2012 104. Lo Russo, Rosaria, Crolli, Battello Stampatore, Trieste 2006; poi confluito in Ead, Crolli, Le Lettere, Firenze 2012. 238 Sommario Prefazione. L’epica della storia, l’epica della voce, di Cecilia Bello Minciacchi 5 Sanfredianina 11 Tre variazioni sulla nascita 21 Gli angoli della bocca (L’Alimentazione) 27 Musa a me stessa 79 Sequenza orante 103 Penelope 115 Trittico figurativo 129 Trittico testacaudato detto de Lo Dittatore Amore 141 Epicedi 153 Triduo pasquale 161 Trittico fabuloso 175 Trittico del tempopieno degli addii 187 Epitaffio 193 Sonettesssa 197 Nota 201 Postfazione, di Marco Simonelli 203 239