assaggia il libro

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assaggia il libro
Poema 1990 / 2000
di Rosaria Lo Russo
ISBN 978-88-6438-347-7
Collana Level 48
© 2013 Editrice ZONA
piazza Risorgimento, 15 – 52100 – Arezzo
tel 0575.081353 – 338.7676020
www. editricezona.it – [email protected]
Ufficio Stampa: Silvia Tessitore – [email protected]
Progetto grafico: Serafina – [email protected]
Stampa: Digital Team – Fano (PU)
Finito di stampare nel mese di settembre 2013
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Rosaria Lo Russo
Poema
1990 / 2000
ZONA
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Prefazione
L’epica della storia, l’epica della voce
Corre, corre come un baleno insieme al cane Aldo, Rosaria adolescente, percorre «a membra scoordinate» e intona a gola piena, un po’
ruvida, un po’ smagata, tutte le strade del suo «bel Sanfrediano», traboccante di vita e di riso, prorompente, e pronta subito alla carnevalizzazione
della lingua e dei ruoli (primi fra tutti quello della Donna e del Poeta
secondo sacra, Paterna Tradizione), sospettosissima delle norme, già acre
e antilirica, con l’orecchio ben attento ai «falegnami bestemmianti». Corre «a volo pedestre» e già impasta la lingua, Rosaria adolescente, la
incarna e l’arrota, la manipola e la schianta – schiantata ragazzina
irrefrenabile malata «d’adolescenza esorbitante». Conosce subito la morte
e la moda (pungolo filosofico, non menzione a testo, il rimando all’Operetta leopardiana), ossia il raccapricciante volo di una ragazzina che dalla finestra «esorbitò distratta e stravolta» e le «zeppe distratte» che nella
fretta le fanno «inciampo di tacchi». Inizia con le passeggiate sanfredianine
il suo Poema di dieci anni, 1990-2000 – dieci anni in allegoria, perché
datazione «veridica e vaga» –, Poema che raccoglie (e in fin dei giochi,
finalmente, storicizza) una produzione strutturatissima ed esemplare, attraversata da una vis narrativa epico-poematica e orale. E al tempo stesso abitata da un’ironia attiva e da una coscienza lucida e già dall’inizio
programmatica: «S’io fossi un poeta/ canterei le ragazze/ quelle garrule/
furbe come gazze/ e con le minigonne al culo/ truccate con la Deborah o
la Pupa/ come farfalle col lucidalabbra/ e col gelato». Già preparata e in
controcanto, e tutta schiusa, la strada al rovesciamento (non solo giocoso) della letteratura tràdita e dei ruoli. «Tentativi poematici», definisce
quei testi di fine secolo, oggi, a posteriori, Rosaria Lo Russo, e inconsapevoli di alcune opere nelle quali avrebbe riconosciuto solo dopo, «paradossalmente», un magistero femminile autorevole e valido non per la sua
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scrittura soltanto. In quell’«impulso epico-ironico ed eroico-parodico» che
è appartenuto alla Rosselli della Libellula e alla Vicinelli di Non sempre
ricordano e dei Fondamenti dell’essere (con screzi anche tragici, però)
Rosaria Lo Russo ricostruisce, per sé e per noi, un canone che è vocazione al poema e fondamentale ripensamento, ribaltamento della funzione io-tu. Inchiesta sul soggetto e processo di individuazione, scrittura
della donna non più “in funzione di” ma in persona prima. Non più la
Donna-tu – sia pure un “tu” ammirato e vagheggiato, desiderato in immagine e respiro, in ricordo e carne – cui si rivolge il Poeta-Padre della
Tradizione, il Poeta lirico e maschio (su questo Rosaria è più volte intervenuta direttamente), ma la Donna che scrive e non è scritta da altri,
ovvero la «poetrice», l’«attressa», la «femmina fonica». La donna che è
stata, in una tappa fondamentale del suo percorso di formazione, musa a
se stessa, avvolta da una messa in scena Kitsch di tutti i più pacchiani
stilemi della seduzione-spettacolo. Musa a me stessa è chiusura di una
tappa e insieme preambolo, col suo prologo (e pure con bando) che è
la chiamata a un’esibizione da circo, a un’ostensione popolana e blasfema:
«Venghino, siori!» a vedere la esposta «Madama Ricettacolo/ in Edicola
Madonna/– grande madre da trivio – ».
La relazione a due, io-tu, dunque, va cercata sotto altra specie, nel
patrimonio letterario messo alla prova (e alla berlina): la dialogicità è in
primis quella che s’instaura tra la poetrice e la lingua scelta. È attraverso la lingua che la ragazzina, in questo viaggio di sconfessione degli stilemi
ricevuti e di fondazione di nuovi, viene poi, a un tratto, «fatta femmina»
(nel senso voluto e su indicato).
Il peccato originale dal quale nasce la lingua poetica usata da Rosaria
Lo Russo è in realtà un peccato capitale, un magnifico, totalizzante e
dispotico «peccato di gola»: nasce, come ha scritto lei stessa,
dall’«abbuffata indigesta delle lingue genitoriali, dove l’accento dell’infanzia casca sulla commistione dei due lessici-inflessioni familiari del nonno
toscano e della nonna calabrese, voci narranti da cui prende abbrivio il
poemare mediante rievocazione, reinvenzione, falsificazione, simulazione
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e contraffazione». Il legame tra poesia e nutrimento, anzi la sostanziale
identità tra i due, è uno dei cardini più funzionali della sua scrittura. Giusta la Commedia dantesca, Omero – Lo Russo ama ripetere – è il poeta
che «le Muse lattar più ch’altri mai». Alimento materno e arte poetica,
nettare divino e parola di poesia. Il nutrimento della sua voce poetica
(prima d’essere nutrimento a se stessa e ad altre voci) è insieme radice
viscerale di lingua familiare (con le sue dichiarate doppie radici regionali,
va da sé) e radice letteraria di testi rimuginati e assimilati, sprofondati –
non solo deglutiti – dalla bocca al cupo dello stomaco, e lì mescolati e
dagli acidi corrosi, e preziosamente usati. A dettare la distanza dal canone vulgato dei «Santi Padri», come scrive, sono i testi in elezione: accanto a un mai dimenticato Dante, a un presente Foscolo, a visioni campaniane
di forza struggente e a scarne reminescenze carducciane, a divertiti echi
montaliani (e a caratteri altri, anche volti in parodia), si stagliano le mistiche con la loro scrittura fisica e bruciante di innegabile fascinazione, col
loro approccio istantaneo, sanguigno e folgorante a questioni teologiche,
col sacrificio dell’itinerario a Dio, con la loro ricerca inesausta che è sete
assoluta e desiderio di parola (e di tutto ciò che il Verbo presuppone, in
senso giovanneo). E l’esplosione è un distillato carnale e orante in sequenza, uno scritto continuo, inesausto, dilagante e languente, malioso e
già sedotto, Sequenza orante, che monta, ma di fatto agglutina la voce
della Beata Angela da Foligno e quella di Campana in Lo Russo. Questa
Sequenza è un testo di incalzante e ruminata deriva letteraria e psicologica, inchiodato all’aberrazione del solipsismo eppure espanso, religiosamente comunicato; ed è qui, ora, posto quasi al centro, chiave di volta,
immediatamente prima di quel compiutissimo e concreto poemetto nel
poema che è Penelope. Monologo concreto di materia e pasta di lingua,
quello di Penelope sdegnata sposa ibernata, vedova in contumacia e
anzitempo, anzi vedova a tempo, fino al ritorno di Ulisse superbo, abbagliato e vagabondo, «lazzarone magnaloto» che da vent’anni va «a orecchi a falsirene», castone mariniano dalla «Falsirena la falsa incantatrice» dell’Adone (XVIII, 7). La parte più corposa del poemetto, allora, il
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Lamento di Penelope, dopo due decadi di nozze in absentia, diventa un
controimeneo, un canto antilirico e anticelebrativo pieno di risentimento:
«zitta zitta decompongo l’imeneo che t’accolse». Prende voce di livore,
Penelope, che nella letteratura antica è stata fedele e parca di parola. E
nel Poema di Lo Russo le onde lunghe del suo disincantato lamento si
fanno azione scenica, ribadiscono un’inclinazione alla teatralità della voce,
voce-corpo e voce-gesto, manifestata fin dai primi scritti. A partire, tra i
tanti, da quel testo screziato, con effetti ipermanieristi e iperbarocchi, e
insieme abissali fino alla fisiologia più elementare, vitale, che è Gli angoli della bocca (L’Alimentazione), in cui la già teatralizzata messa in
scena assorbiva – portava a testo –, ostentate, alcune didascalie:
«(LUCE!)», «(LUCI DELLA RIBALTA!)», «SIPARIO»; per proseguire poi con la trascrizione di un materiale nato nella pura oralità, destinato al palco, alla dizione e alla performance, com’è Musa a me stessa.
I libri che Rosaria Lo Russo ha scritto nel decennio dei Novanta sono
romanzi poetanti e autobiografici articolati in effettivi capitoli, o atti teatrali, o «melologhi» tessuti di voce e pathos. O canti di un unico poema.
Insieme delineano un percorso coerente e compiuto, narrativo di sé e
delle sue modalità compositive, nel quale si collocano l’urgenza, la prepotenza, la barthesiana «grana» della voce, e l’impellenza, l’invadenza del
corpo (anche se bisogna esser cauti, ormai, nel sottolineare il tema del
corpo nella poesia femminile, qui tuttavia occorre farlo, anche perché
agli albori di tanta, altra scrittura).
Nell’incedere epico-narrativo-eroico-ironico di Poema s’inscrive anche la Tradizione – con la discussione e rivisitazione cui si accennava –
e s’inscrive una dinamica della parola che assorbe dalle filastrocche alle
lingue dell’infanzia (memore di «pappo» e «dindi»), dal linguaggio comune a quello letterario, fondendo tutto in un bolo, in un nucleo rappreso, il
cui esito sarà la digestione, dunque la perfetta metabolizzazione (e si
torna al vitale nutrimento...), trasformazione in energia. E ancora, nello
sviluppo di Poema, perché di unico, globale romanzo di crescita si deve
anche parlare per questo libro sommativo, e di romanzo emblematico, punto
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d’arrivo e di cesura nella produzione di Rosaria Lo Russo, s’inseriscono
gesti dinamici tra loro differenti: dalla sempre accorta scaltrezza metrica,
alla sensibilità ritmica che è spesso forzata in piegature ironiche, dalle
onomatopee alle allitterazioni in parodie e camuffamenti, dagli echi epici
seri e ironizzati all’attenzione viva per la fisicità della voce e per quella
sensualmente coreutica e pittorica (si vedano certi Trittici). Fino allo
sparpagliamento di sé – «Son sparpagliata/ Mi crocifiggo», traduceva Lo
Russo nella Ballata della masturbatrice solitaria di Anne Sexton –, qui
sparpagliamento nel testo che è anche e sempre piacere, il piacere testuale
che Barthes pensava si dovesse trovare nella «scrittura ad alta voce» quella che, gutturale, palatale, labiale, se davvero è «in una prospettiva di godimento», si muove verso «il teatro delle emozioni», perché «ciò che cerca
sono gli incidenti pulsionali, è il linguaggio tappezzato di pelle, un testo in cui
si possa sentire tutta una stereofonia della carne profonda: l’articolazione
del corpo, della lingua, non quella del senso, del linguaggio».
Se di autobiografia si tratta, e scopertamente, va intesa in senso proprio: scrittura di sé e del Sé che si riconosce, si individua, in quanto è
scrittura dell’esperienza che il soggetto poetante – la «poetrice» – ha
potuto avere nella stretta offerta da mediazione dei sensi e poesia. E in
questo è scrittura narrativa, e poematica. In questo, inoltre, esperita nel
pieno attrito con Amore Dittatore, e in sua piena, rivolta fascinazione.
Nella sua compiutezza Poema si propone come libro esemplare: alla
filiazione, al canone femminile, Rosaria è attentissima, e ama collocarsi
quale anello intermedio di una collana che vede crescere già nel presente, allungarsi, proseguire dopo di lei. E intanto, mentre storicizza, presenta il cerchio chiuso quanto fertile della sua prima produzione: prese le
mosse dall’attrazione per una voce in vertigine – «Questa lingua estrema/ questa lingua tirata alla radice/ strappata alle corde/ corde e radici/
in gola in petto/ radici cordiali/ corde radicali/ dalla vertigine muta affiorate», immagine forte in Vertigo (Vrusciamundo, 1994) un testo che dal
portato concettuale di Poema è fuori, ma non dal significato pulsante della
lingua –, passeggia poi per Sanfrediano, altrove definito, con trasparente
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enunciato di formazione/alimentazione, «cuore pinocchio di una città che
era prima di tutto e sopra a tutto/ latte di lingua, lingua di carne lessa
brodo della mente coltura di risata». E poi, dopo le corse con Aldo, ragazzina «occhialuta», attraversata la «vita infanta testarda», presi i panni di
«Rosi la pasionaria», diventata femmina e «fatta maschio/ soldata del
Signore/ carismatica martire»; e dopo aver adorato «la gaiezza che fa
tremare» e nel «grande letto» aver fatto delle sue «membra sottili languente sparpagliatura»; affrontata poi la dialettica intellettuale con lo
Dittatore amore (con la poetica e l’estetica dei Padri letterari, e con le
forme chiuse abilmente forzate), e ascoltato poi, «cronista del cuore», un
secco suono d’ossa quando «si ruppero le benevolenti tutt’e sei le rotule»;
e liquidato infine il ruolo della donna oggetto di poesia e assunto quello di
soggetto in quanto «fattrice» di poesia, allora si è imposto d’obbligo, conclusivo, al termine d’un viaggio saturo d’esperienza e di scrittura, l’abbandono dello specchio paterno con tutte le sue lusinghe, e in sua vece la
conseguente ricerca di un’immagine non riverberata, neppure in senso
reattivo, oppositivo. Vale a dire l’abbandono dell’autoseduzione letteraria, dell’erotismo poetico autoriflessivo, teso ad arco su di sé. Il percorso
così tracciato, inoltre, è perfezionato dall’aver conosciuto e dall’essersi
riconosciuta in certe opere poematiche femminili del secondo Novecento. E dall’averle manducate, foneticamente articolate, sillabate, interpretate in voce. Ora, a decennio ulteriore lasciato decantare e già dati alle
stampe due testi non solo nuovi ma differenti, Nel nosocomio e Crolli,
l’ultimo atto del romanzo autobiografico è, e non poteva che essere,
massime per i lettori, l’epica della storia (che della storia, poi, è anche un
po’ il sugo): la ricomposizione del libro-vita, libro-voce e libro-actio, in un
intero, in un tutto intero ricco di scene e quadri diversi, di frizioni esistenziali e letterarie, sovrabbondante, compiuto e coscientemente proiettato
al(la forma) Poema.
Cecilia Bello Minciacchi
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Sanfredianina
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Cos’io ricordo come fosse da lunga pezza
eppur son cento metri e due piani in altezza
e ci son tutta in mezzo
impantanata invischiata,
le mi’ sanfredianesche passeggiate
a membra scoordinate
quasi cotidie così per sdilinquirsi
e le gambe sgranchirsi,
fra pezzi di legno
pinocchi polverosi
merli indiani in vacanza
e falegnami bestemmianti
e – Maremma cane,
Maremma inzaccherata –
con quel cretino di Aldo al guinzaglio
scappellotti nocchini e via
a volo pedestre
con Aldo cane infedele
e porco cane
anche pedofilo pederasta,
che tutti salutavano come fosse un cristiano.
Cos’io ricordo come fosse ieri
perché a gran voce me la chiedi
l’esibizione di me bufina fantastichina,
in questa frotta di versi maldestri
che vanno pel verso
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di marciapiedi sconnessi
in cui con furia mi verso
quasi con esultanza
evitando le cacche
fra rialzi petrosi
e cretti d’acciottolato screpolato
(per inciampo di tacchi
di zeppe distratte,
mi bistratto
a mozzafiato
dopo una storta, ahi!
per fretta troppa).
Ma il mio dolce io
il corpo mio impesante
ad altrui predisposto
dolorante rimembra
in sua continua adolescenza
i visi e le parole
di me sanfredianina.
S’io fossi un poeta
canterei le ragazze
quelle garrule
furbe come gazze
e con le minigonne al culo
truccate con la Deborah o la Pupa
come farfalle col lucidalabbra
e col gelato,
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ma tu vedessi invece
com’è invecchiata di botto
la paralitichina con la permanente
di riccioli mummificati,
s’è spenta adesso
che aveva sempre gli occhi dipinti
di celeste forte come la veste
della Regina Angelorumme ora pro nobis
all’angolo di via San Giovanni
dove mi segno sempre
in quell’infernaccio rauco di falegnami
sudati e bestemmioni.
Com’è invecchiata
come immobile ti fissa
poverina, che le piaceva tanto Aldo
e gli sorrideva scimunita.
Ma quando Aldo corre come un baleno
sfiora gli inferi, sfiora il cielo
L’aria settembrina m’alluma il cervello
mi lucida le scarpe e mi sovvengo
che l’arlechinesca mia persona
stravagantemente sta male
d’adolescenza esorbitante.
Io dovevo essere alle medie
convinta d’essere immortale
la ragazzina si buttò di sotto
dalla finestra là
in via Santa Monaca
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dove stava l’Angelina
in Piazza del Carmine
lì, all’incrocio di tante Madonne
occhieggianti
– regali e vane –
col bambino
occhieggianti col bambino ben stretto
lì sulla ragazzina
ch’esorbitò distratta e stravolta
senza esitare l’esito
d’adolescenza sua maldestra
– me lo disse l’Angelina –
si faceva insieme le medie.
Tredici anni
tutta pura
ma la materna struttura
già ce l’ha, l’Angelina
che adesso s’è sposata
ci ha i figlioli, ne voleva tanti
me lo raccontò l’Angelina
mentre si faceva i compiti
che trovavano spruzzi di sangue
e grumi di cervello dappertutto,
ogni volta che ci passo
ancora dopo anni
ho paura di trovarli
e me l’allùcino
quel volo di ragazzina,
di triste monaca imbaverata dall’alto.
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E quando Aldo corre sfiora il cielo
sfiora gli inferi come un baleno
Oh grigiore di monaca
quando vo a Santo Spirito
con Aldo al guinzaglio
grufolante e zummolemmerda
serpente strisciante,
là dove stava
l’Angelina la Laura la Nicco la Sonia
che rideva sempre
fino a piangere col singulto
fino a farsi pipì addosso
come una bimba,
che piaceva ai maschi – diobòno –
perché rideva forte, con le fossette
ed era porcellona
rideva alle barzellette sporche
rideva sconcia rideva forte
– regale e vana –
esorbita dal ricordo
distratta e stravolta
con un piccolo angioma nell’occhio sinistro
per lo sforzo d’una vomitata,
per altro luminoso e furbetto
mandorlino
latte di fico sanfredianino.
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Oh s’io fossi un poeta
ti canterei grassoccia e villanella
Angelina,
che tuo padre era così mingherlino
pur avendoci il ristorante in Santo Spirito
che faceva le bisteccone bone.
Angelina Nicco Sonia Laura
si parlava sempre dei maschi e dell’imbrocco
io occhialuta
ero sempre innamorata
fino al deliquamento
e scimunita mi spingeste
al primo bacio
davanti al Chiardiluna estivo
du’ lingue in gola là
seduti sul motorino,
e col bicchierone di latte poi
tornare bambina.
Bambina bambina
Aldo vola verso casa
sfiora gli inferi sfiora il cielo
lo ingoia il buio
come un baleno.
E sotto casa
ci stava una vecchia pazza,
la vedova siciliana,
che gli era morta la bambina
e stava sempre alla finestra
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a lisciare la gatta siamese
e tutta notte urlava e si dimenava
e tutti avevano paura della strega
scarruffata,
ma io mi ci fermavo
mi chiamava
perchè comprassi cinquanta lire di gelato
per la siamese strabica,
e io glielo compravo.
Qualche volta una farfallina gialla
le svolazzava torno torno
alla finestrina del bugigattolo basso
antro di strega siculo sanfredianina
al livello della strada tutta polverosa
la farfallina gialla lucignòla,
e lei mi diceva
ch’era la bambina che tornava
gialla lucina
a salutar cotidie sua madre luciferina
ed era proprio così
svolazzava proprio lì,
e lei tutte le sere
apparecchiava per tre.
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*
(L’Angelina
O come tu se’ bona, Mazzantina
Quando tu ridi, alle code degl’occhi
Hai zampe di gallina, e tutta
Tu fremi, mmh, o bellafìa
Corpo di fragole in gelatina.
Come tu se’ belloccia, Mazzantina
Quando tu ridi tutta sgangherata
Fino a pisciarti e lacrimosa
In quegl’occhietti a mandorla, puttana.
Poi ti ripigli e mugolante
Imbragata ti tiri su le hollante
E rigridoli dal riso, Mazzantina
Bocca di fragole in gelatina.
O sovraesposta, in te solo s’è fisso
Un capillare rotto nell’occhio sinistro).
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Trittico testacaudato
detto de Lo Dittatore Amore
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I
Primavera - Pian de’ Giullari
In alcuni paradisi è permesso
accondiscendere ai piaceri vili
come godere di un fregio finto liberty, come una pergoletta ch’io vidi.
Ma non stopparmi, anima toscana,
al rigor viso della tua luna diurna;
non disarmare il canto pietrificando
piagenza, né mira al cielo dell’altra
metà del cielo che ti chiude le porte
del regno: venuta meno al pegno che
le schiuse. Abusa pure di me mia
lingua di velcro che raspa felina
il fondàco dove mi salvo catastando
bisogni in paradisi permissivi.
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II
Responsi
a F.
A suon di ah! di uh! di squilli ferventi di lanci di slanci di squilli
per vani conati intermittenti, di falsi destini destinatari e mittenti
à la manière di padri e figli madri e figlie minori e maggiori
minorate o maggiorate: tutte comunque perdenti nella durata fatìca dei
[mutamenti,
mi consiglia di darti un morso che spezzi
la concitata viltà che mi condanna alla chiesta,
perché risplenda alfine la doppia chiarezza
(limitando decisamente i danni, – sentenzia – )
del foco che mi affina onde rifulgo chiara e lucro fra le genti,
del foco che disprezza tutti questi vani impulsi veniali d’incertezza (in
lanci o slanci di squilli tinnanti in ah! e uh! a nulla propizi):
si smorza l’ambigua flebile fiamma mendace di rimorso e tenerezza.
Ed io risalgo alla ragione prima in me di tua assenza (di caramello in
[cruna di cunno),
di assenza insomma in te di te di un’interezza, ergo d’interenezza.
Stretto stretto è il vicolo buco di salvezza; t’incontro al buio, inoltro
malintesa carezza, ruga d’espressione, sordido di pienezza commosso
sgorga spurgando tiepido, se contempli se contempli, tiepido
un mare ottuso di sangue, un rombo muto ma verace di stizza che
[intrinseco
s’estrinseca e guizza: dell’addore d’un fiotto impepato di cozza
si rimpinzò verace adorazione.
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La fiamma di nuovo secante ti depone fra le mani il pomo della discordia:
non è propizio perseverare delimitando un possesso tanto grande.
Allora risalto figura nobile fra intrepidi bovi che si spremono a freddo
(la mia carrozza strappata all’indietro – sciagura! – : il tremendo
tremante rinculo ma di nulla mi curo che non ti sia prezioso e propizio)
con lingua e capelli mozzati e naso e orecchie mozze vado monca
al cospetto del saggio che giudice ricuce espettorando le nozze:
Ritìrati prima di cadere in disonore, rintuzza ignobili voglie,
vedi che ricetta d’elemosina non trattiene il viandante!
La fretta muta di cani che ti scortica la pelle e ti fa a brani
sovvertirà gli ordinamenti celestiali del creare in tutte balle e
nella generazione che ricetta ti annienta soffolcendo
muda di siero in dolca di ricotta calda, soffocherà il tuo cuore
con fummo giallo pungente, il lezzo d’orina del niente che mente,
soffocherà gli esuli indizi di altri tramonti, gli esili schiocchi
di pollice e indice uniti per sempre (tra morti, s’intende,
blandi intrecci di dita raggelate da danni a terzi a quarti, blandizie tumulate
in quarti di vitella da latte),
soffocherà tumulti fra denti ridenti in nota di cuor di cicogna:
e quest’ennesima inutile rampogna soffocherà sospesa fra le braccia
[vizze
di una svaccata di salute che a generare ti sospende per le spicce,
[galoppando forte,
e scaloppa. In quel porcavacca soffocherai beato di rinuncia.
Rinuncio anch’io per te, se vuoi, ma dimmi, chiedo:
una volta tanto anche tu rinuncerai ad avermi scolta, mea culpa?
Rinuncerai a me scoliotica scoliasta, matrice di non sai se scoli o scòlii,
pedofila inveterata, castratura pederasta, casta Giocasta?
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Nella beata rinuncia a te per la ricettatrice che ti ricatta e t’arresta,
chi perde chi chi prende che a chi va chi dà accoglienza, appartenenza?
Ma a me, ma a me cosa cazzo mi resta?
Irrigidisci, ti prego, l’osso sacro.
E spegni quella luce
che mi ottenebra la vista.
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III
Chiusi
Drappeggiata e acefala incombe
bianca l’arcana pietra come nera l’arcigna
sagoma d’Amiata ammutolisce di torba
le nubi che d’intorno l’ostacolano.
Annotta sull’amata il sarcofago manto
che stende pietoso un indefesso: allotta?
che allampa nella lotta continua che ci divide:
testa e busto, testo e contesto
trapunta di stelle versus pezzato di mucca.
Allotta? balbetto. Allotta? chiesi e chiedo,
balba e mesta, Aracne e Atena.
(Diramano sottopelle come urticanti sfoghi d’acne
le lacrime dell’amata piantonate nel petto.
Picchiettano in me tosche come schegge d’amianto).
Liscio come cefalo il canopo etrusco
s’imbottisce di visceri neri come l’asprigna
susina di Montepulciano che stucca s’appiccica
in viva pietra fetida o pacata in morto bùcchero,
nero l’Amiata urna incenerito soverchia
la strapotente rocca di Ghino di Tacco
o quel che fu ricetto all’invitto eresiarca di Arcidosso:
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così l’anima pesa sul corpo come un coperchio.
Mute nubi trascorrono sorvolando ignare
il manto che su di me stende pietoso Morte,
l’unico mio figlio maschio.
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IV
Rama Chandra al Parterre
(O Lotte, o solita lolita Lotte...)
Sto qui nel salvifico kitsch della festa, mi senti?
E luminaria nell’odore arcano di luci di pesci
Ti aspetto come lei lui o come Pavese aspettava la danseuse
Con aria intimorita suspicando l’odore incenso
Di sessopesce. E’ la festa della luce e mi contento
Pare l’India – ti penso – mio celibe inganno,
Mio fallato portofranco, affusolato pianto
Nel burro chiarificato, come di cera ti penso.
Non mi ci raccapezzo. Inerte assisto
A questa divertente cerimonia pagana:
Rama Chandra, Re Rama, oggi rincasa
La moglie sua che gli fu gli fu rubata
(Sempre accesi terzomondi i lumini di Natale)
O anche: quando Krishnabimbo rubò il burro
Mamma Yaso per punirlo lo legò ad un mortaio
(Hanno acceso gli stoppini che chiarificano il buio)
Ma non riuscì non ci riuscì a legarlo: la corda è troppo
Corta. L’olezzo di pesce è forse un rosso paravento
Come un guizzo dell’aria come ogni breve cenno
Di un tuo prossimo inguaribile spegnimento
O scernimento o svenimento, mah. Il sopore
Del giovane Werther sotto la doccia allunga una saponetta
Al patchouli all’umida giovinetta
Ch’ell’è embolo dell’assoluta totale inincidenza
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Ormai dell’età schietta della più pura
Più pura purezza. Invece loro sembrano tutti
Usciti da Bollywood! O rumorosa luce! L’eresia
Nell’induismo proprio non esiste. Fra loro solo
Si sospetta: le voci si alterano, ma nell’alterco
Che tu metta sull’altare la dea Kali, Kali la bella
O le foto di Bill Gates con occhiali e frangetta
A Kristokrishna tutto gli piace gli piace tutto
Purchè odori d’incenso e di pesce di spezie
Odori di rossetto e di denti di burro di cera
Di pelle, di questa dolce scura pelle bruna:
Sto circospetta: «l’eresia nell’induismo non esiste»,
Sorride Rama Chandra Hare Rasa Rama Rama ninna oh
Da di là arriva l’odore di burro fritto affogato nel riso.
Dunque cos’è che ancora c’impaura nella stretta
Fra maschio e femmina, chi è che chiede ancora
Cosa ci aspetta? «Non è possibile legare dio
In alcun modo – ecco – materiale». Bruciano sull’altare
Fra frutte abborracciando sacri stami e stoppie, spaccano
Cocchi, s’incrociano fumi d’incenso in eccesso: piangono
Lacrime di coccodrillo sul latte versato sacrificando
Al battito di tuoi candidi e rubri piedi (: o te che plori
Mi vedi?) O tu che forte e fiori, forte e fiori.
150
V
Primo di primavera fiorentina
«File di cipressi in morte
e germogli incappucciati
e il vagito innaturale
dei rumori dalle strade.
Caste tende si sollevano
sopra bui interni rifratti:
sono otto mesi oggi
che sfogliamo al contrattacco.
Sapremmo quanto smodata
punga reclami ogni ramo
quando linfatico urla
e geme per perfumarsi.
Oh il tuo vanesio richiamo
e la mia scuffia trinata
– che rosa sfiora una guancia – ,
schiaffato lì ci mortàla».
(L’uccello femmina e il maschio
in gabbia così cantava)
151
Postfazione
Poetrice
Sotto il titolo Poema 1990-2000 Rosaria Lo Russo raccoglie e
ripropone, riorganizzandoli, quei testi che compongono il suo progetto più
ambizioso e complesso, quel “romanzo allegorico in versi sfacciatamente
autobiografico”1 iniziato con la composizione di Comedia (Bompiani,
Milano 1998) e conclusosi con l’uscita de Lo Dittatore Amore –
Melologhi (Effigie, Milano 2004). Tale macrotesto non sarà da intendersi come volume di collected poems (legittima pratica editoriale
accorpante opere esaurite o introvabili) bensì come la realizzazione definitiva di un progetto coltivato per un intero decennio in cui le varie
aggregazioni testuali sono organi pulsanti di un unico corpus allo stesso
tempo poetico e (auto)biologico, organismo solo apparentemente ridotto
a “morto orale”, in realtà pronto a resuscitare qualora il lettore decidesse
di immettervi il proprio afflato vocale: solo in questo modo sarà possibile
“coglierne pienamente la drammaticità, verificarne la necessità”2 e inquadrarlo anche come opera metaletteraria avente per oggetto il suo
stesso formarsi e le relative conseguenze. Onde avvicinarci a questo
corpus (da intendersi sia come opera che come operazione) sarà necessario fornire alcuni dati biografici essenziali circa la formazione dell’autrice ed illustrare le peculiarità intramediali del suo lavoro.
Nata a Firenze nel 1964, Rosaria Lo Russo si laurea in Lettere Moderne discutendo una tesi in Storia dello Spettacolo dal titolo La protagonista
1. Lo Russo, Rosaria, Postille e glossario in corpo minore in Ead. Lo Dittatore Amore.
Melologhi, Effigie, Milano 2004.
2. Pagliarani, Elio, Prefazione in Lo Russo, Rosaria, Comedia, Bompiani, Milano
1998.
203
di Pirandello. Miti, personaggi e ruoli. Dal 1986 si specializza come
lettrice-performer di testi poetici propri e altrui; si tratta di una attività
che non si limita alla mera dizione pubblica di un testo, bensì presuppone
un accurato studio filologico e una precisa disamina delle componenti
ritmiche e prosodiche in rapporto alle proprie doti vocali: un calibrare la
voce attenendosi al testo considerato innanzitutto come partitura fonica
generatrice di significati complementari che solo la dinamica di flusso
espiratorio e vibrazione di corde vocali è in grado di mettere in luce. Tale
attività di esegesi orale (svolta negli ultimi vent’anni all’interno di master
universitari, programmi televisivi e radiofonici, convegni, performance e
spettacoli in Italia e all’estero) è da considerarsi parte integrante e inter/
agente della sua opera. Non è un caso infatti che Lo Russo definisca sé
stessa “poetrice”, neologismo che al suo interno racchiude e fonde i ruoli
di “poeta” e “attrice” e allo stesso tempo conia un’alternativa creativa
ad una definizione come “poetessa”, avvertita come limitante e subordinata alla figura del “poeta-maschio” da molte autrici italiane già negli
anni della contestazione femminista.
Quando Sequenza orante3, primo (ma solo all’interno della cronologia editoriale) pannello di Poema vede la luce è il 1995 e Lo Russo ha già
al suo attivo due raccolte4; l’anno seguente una scelta da questi due testi
(sigillati dalla poesia Sanfredianina) verrà pubblicata nel Quinto quaderno italiano5 di Poesia contemporanea a cura di Franco Buffoni,
corredata da una nota critica di Antonello Satta Centanin, all’epoca
non ancora Aldo Nove. Il percorso di ricerca intellettuale ha portato Lo
Russo a confrontarsi con la traduzione della statunitense Anne Sexton,
un impegno che, al di là della fortuna editoriale, inaugura una serie di
3. Lo Russo, Rosaria, Sequenza orante implorazione derelizione derelizione implorazione, Gazebo, Firenze 1995, poi in Comedia, cit., col titolo Sequenza orante.
4. Ead., L’estro, Cesati, Firenze 1987; Ead. Vrusciamundo, I Quaderni del Battello
Ebbro, Porretta 1994.
5. Ead., Sanfredianina, in Poesia contemporanea. Quinto quaderno italiano, Crocetti,
Milano 1996.
204
riflessioni saggistiche intorno all’identità della donna-scrittrice in relazione al concetto poietico (poetico ed etico) di Padre e a quello di Tradizione
Letteraria (da lei identificata come “patriarchista” – crasi fra
“petrarchismo” e “patriarcato”).
Figlia incestuosa di solo padre
Se la ricerca del padre è intrapresa della figlia novecentesca, se il
punto di vista filiale è quello delle poetesse, l’atto stesso della
scrittura si configura come ricerca della propria identità poetante
tramite la ricostruzione dell’identità del padre, figura contraffatta
in metafore strabordanti, in un gioco di seduzione reciproca per
continui travestimenti e metamorfosi, sublimi o turpi, che conduce a morte quando l’amplesso proibito implica la fusione, anzi la
confusione, fra le due identità, fino alla perdita, alla sparizione di
entrambe nella vorticosità delle metafore.6
In Poema – e, in particolare, nel poemetto tripartito Gli angoli della
bocca (L’alimentazione) – la ricerca di un’identità poetante femminile
si struttura secondo un processo costitutivo di identificazione col Poema
di Dante7, padre (appunto) della tradizione letteraria italiana. Si tratta di
un rapporto allegorico solo apparentemente comico: in realtà esso mima,
camuffa e parodizza la tragica condizione della donna all’interno della
tradizione letteraria italiana: musa-oggetto del Poeta Maschio Patriarchista
fin dalle origini, incorporea musa-morta ovviamente angelicata e cristofora,
sembra non aver mai goduto di un pieno diritto di parola. La Figlia
6. Ead., Figlia di solo Padre. Note in margine ad una traduzione in “Semicerchio.
Rivista di poesia comparata”, 1994, XI, 1-2.
7. Per l’analisi dei riferimenti danteschi si rimanda a: Lo Russo, Rosaria,
Comèdia&Comedìa (Anonimo Fiorentino) in Rizzante, Massimo, Gubert, Carla (a cura
di), La scoperta della poesia, Metauro Edizioni, Pesaro 2008, p. 61-92.
205
Novecentesca descriverà la ricerca della propria identità poetante rivendicando per prima cosa una corporalità individuale e autonoma, viva e
sessualizzata, in vista (si spera) di un rapporto paritario. Gli angoli è il
racconto allegorico in presa diretta della traumatica nascita e complicata
infanzia di questa protagonista, eroina ironica-ma-non-troppo che cerca
di “prendere la parola” all’interno della Tradizione e con essa instaurare
un rapporto dialogico paritario.
La voce “uscita viva dal guaio della nascita”, per esistere, ha bisogno
di assimilare i tratti di un altro individuo (testuale) e di modellarsi su di
essi: le fago/citazioni (variazioni e centonizzazioni) dantesche saranno
quindi alimento da divorare (cioè incorporare nella propria scrittura),
metabolizzare (vale a dire risemantizzare) per poi essere espulse in forma di nuovo ordito fonico-poetico (“LE PAROLE SONO UN MOTO CHE VA//
DALL’INTERNO// VERSO L’ESTERNO”). Si sviluppa così un’allegoria protratta
fino alle sue estreme conseguenze: in assenza di una Madre (vale a dire
una realtà autoriale femminile con cui identificarsi) la voce non può che
incarnarsi (farsi corpo) tramite partenogenesi (cioè una riproduzione in
assenza di fecondazione). Non potendo metaforicamente suggere nutrimento dal seno materno poiché inesistente, questa neonata protagonista
letteraria instaura per sopravvivere un “rapporto orale con il Padre”8: è il
“momento dell’incaglio”, “malinteso, malefatta” dove “la mente (…)
s’indementa” schiacciata dall’ombra dell’incesto. In questa chiave va
letto un testo come Bocchino: non tanto un termine volgare per designare la fellatio quanto un ammiccante diminutivo volto a sottolineare che
“è lavoro di una piccola bocca”9, cioè di una scrittura vocale “infante”
poiché priva di consolidate basi storiche. Il titolo iperconnotativo sintetizza la prassi compositiva dell’intera compagine: la bocca come ingresso
del cibo e sede di emissione ed articolazione vocale è il palcoscenico su
8. Comèdia & Comedìa cit. p. 81.
9. Ibid.
206
cui si svolge il dramma dell’adolescenza corporale della ProtagonistaFiglia, una ricerca di identità che si scontra inevitabilmente con l’alimento, inteso sia come pietanza, sia come esperienza, sia come linguaggio
genitoriale (o, più ampiamente, come linguaggio del mondo preesistente,
tradizione letteraria inclusa). A tal proposito sarà opportuno citare ciò
che ebbe a dire in proposito Marco Berisso presentando in anteprima per
la rivista il rosso e il nero alcuni estratti de Gli angoli:
L’alimentazione, la crescita, sono tutti momenti psichici e fisiologici attraverso i quali il corpo originario, la materia, a partire dall’embrione, muta senza fine la propria identità (…) Il cibo che
ingeriamo ha un nome e un cognome, una tradizione storica e
culturale, è una figura parentale che ci condiziona e snerva con il
suo prepotere. Assimilando (“rendendo simile”, proprio etimologicamente) il cibo, insomma, perdiamo la nostra figura per assumerne altre, ci falsifichiamo in altrui forma.10
Colei che falsifica “sé in altrui forma” è “Mirra scellerata, che divenne/ al padre fuor del dritto amore amica”11: un’amante del Padre che
tuttavia sconta la dannazione eterna non per peccato di lussuria quanto
per fraudolenta falsificazione di sé. La falsificazione intesa come alterazione e imitazione è stilema costitutivo del poemetto e di Poema tutto,
nonché “presa di posizione performativa: comica, teatrale”12 e difatti la
partitura testuale de Gli angoli ingloba didascalie, annotazioni sceniche
di modulazione vocale (“moderare con quiete”, “pispigliando”), di illuminazione significante (“spia rossa”, “LUCE!”), di ironica condizione
sensoriale (“VAMPATA!”, “CALDANA!”). Siamo “sull’infame boccascena/ della vita infanta testarda” su cui la Protagonista “balza en travesti” onde
10. Berisso, Marco, Nutrice, in “il rosso e il nero”, 1998 , VII, 13.
11. Cfr. Inf. XXX 39-41.
12. Comèdia & Comedìa cit. p. 62.
207
con-fondersi col Padre. Ma Gli angoli è anche, come la stessa autrice
ha suggerito, “un testo sull’insorgere dell’anoressia”13, patologia da intendersi come mancanza di appetito in senso lato. Il “buco allo stomaco”
si apre infatti in un “onfalo-encefalo”, nel “luogo carnale da cui fuoriesce
il poetare”14: “piatto” (usato sia come sostantivo che come aggettivo) è
“l’eccitazione sessual-alimentare data dal Padre/Madre tramite la Voce
(...), in assenza della quale l’onfalo-encefalo rimarrebbe anoressicamente
piatto, morente, in presenza della quale il ‘piatto’ diventa recipiente di
Cibo Orale Informativo”15. La “costrizione della mente” (che diventa
però “coscrizione”, arruolamento più militante che militare) è la condizione mortifera dell’anoressia (nervosa e verbale) da cui staccarsi mediante ipertrofia linguistica: la scrittura fago/cita i versi danteschi per restituire a luoghi ed episodi autobiografici spesso traumatici “il sapor della
pietade acerba”16, una pietade a cui attribuire il valore nutritivo di una
pietanza. Ecco dunque la componente autobiografica che si mescola (si
con-fonde) nel poemetto: si pensi a Piano sequenza di cucina toscana
con ben tetragona donna dove torna un personaggio come “la Graziella”
(nella realtà biografica, tata dell’autrice Lo Russo) il cui “soffritto” viene
chiamato in causa già nella protasi Vegetativa I, insieme a “l’odore del
mio bel Sanfrediano”; in entrambi i casi si tratta di aromi paterni, emblemi di una Firenze intesa come Patria del Padre. Con piglio comico-realistico, Piano sequenza ritrae questa “donna-cubo (…) con l’Unità e
Famiglia Cristiana sottobraccio” che “spolvera gli aggeggini della vita
infanta bastarda”, prendendo “a gabbo”17 (alla leggera) il “primo mestruo il primo estro” della Protagonista. Il dramma del menarca sessualpoematico precipita in uno slapstick, col suo fraseggiare barocco mima
13. Nutrice cit. p. 92.
14. Comèdia & Comedìa cit. p. 79.
15. Ibid.
16. Pur. XXX, 81.
17. Inf. XXII, 7.
208
una gag di torte in faccia accendendosi di cromatismi significanti (“sangue”, pappa col pomodoro, “vino rosso” contro “cenere”, “farina lattea”). In Recita di fine anno al Rondò di Bacco la spinta autobiografica vira verso la transpersonalizzazione del soggetto: narrando la sua prima esperienza attoriale (il Rondò di Bacco è un teatro fiorentino sito
nell’ala laterale destra di Palazzo Pitti), la Protagonista sigilla il “rito di
iniziazione al linguaggio del Padre”18, rendendo definitivamente “teatro”
la propria “gola d’inferno”; l’intero processo viene esplicitato tramite la
desemantizzazione del dantesco “cocco e biacca”19: in origine cromatismi
impiegati nella descrizione della valletta dei principi e qui riferiti al “tentennante testoncino” della Protagonista.
In una nota di poetica del febbraio 1998 Lo Russo aveva dichiarato:
All’origine della mia lingua poetica c’è (…) l’abbuffata indigesta
delle lingue genitoriali, dove l’accento dell’infanzia casca sulla
commistione dei due lessici-inflessioni familiari toscano e
calabrese, voci narranti da cui prende abbrivio il poemare mediante rievocazione, reinvenzione, falsificazione, simulazione e contraffazione20.
Se nella prima parte de Gli angoli il processo di ricerca avviene
operando sul Padre Dante inteso come cibo linguistico, nella seconda
l’ormai costituitasi Protagonista Femminile metabolizzerà nel suo poemare
“l’altra origine”, quella che le deriva dall’identità paterna biografica
calabrese. Trattasi sempre di messa in scena testuale-allegorica dove il
grado di performatività non è da cercarsi nella resa fonica autoriale bensì
nella capacità mimetica e trasformista dell’io-scrivente approdato, tramite il processo mitobiografico fin qui esposto, allo status di Personaggio.
18. Comèdia & Comedìa cit. p. 86.
19. Pur. VII, 73.
20. Lo Russo, Rosaria, Prendere la lingua per la gola in “il rosso e il nero”, VII, 13.
209
Col Trittico del tempopieno degli addii la Protagonista si dedica
“all’abbandono delle abitudini”98. Intonando un ultimo “pianto straziato”99, dice addio “al Bello che fu-fui, che vidi, che godetti letterariamente”100. In Solo e penoso spostamenti trasloco “svanisce la perdùra”,
cioè il “tempo di durata della perdita di Lui-Me”101 mentre ne I piatti
della bilancia la “voce in maschera/ che permutava sé in figuranti
pennose” stila un rendiconto definitivo dell’esperienza poematica, quasi
chiamando sul palco testuale tutte le sue incarnazioni per un inchino finale. Poema si è aperto con la passeggiata di Sanfredianina e con L’adorazione dei Magi (La sfilata), una “parata storica (…) che esordisce in
piazza della Signoria e termina in piazza Pitti”102, trova la sua conclusione ideale, mimando quel movimento di passi che caratterizza le terzine
del Poema dantesco. È il giorno dell’epifania, a Firenze gli sbandieratori
in costume rinascimentale omaggiano il “creatore neonato” e alla Protagonista “la disimmetria tremenda/ Del graziosissimo volto della figurante
bimba” provoca “un’ondata di nausea”: la disparità storico-social-letteraria fra i sessi non potrebbe esserle più palese. “Quello che mi fa più
male è di non avermi conosciuto di persona”, nota tragicamente fra sé e
Sé, fra il suo essere sia persona/Personaggio Figlia Novecentesca, sia
autrice/Poetrice che ha destrutturato il mito posticcio della Musa Morta
della Tradizione Patriarchista. Nel paradosso c’è un attimo di commosso
e improvviso riconoscimento: “allora io esisto – incredibile– pare che
esisto nel mentre/ Vengo a mancare”, “esisto apposta per lasciarti finalmente/ Lasciarmi lì morta di tenerezza”, “nel quartiere immenso della
mente”. Su questo estremo riconoscimento in punto di morte dei “primi
nomi di persona” (non più nomi di Protagonista o femminile Personaggio
98. Ibid.
99. Ibid.
100. Ibid.
101. Ibid.
102. Ivi, p. 77.
236
bensì topografia mentale: “Passera”, “miranda”, “Toscanella”) Poema
si chiude con la luce che “avvampa”, “vergognosa”, su una nuova “alba”.
Post-it post-mortem
Addio, ecco, alla Musa Poetessa Suicida del suo Sé: c’è da piangere sul suo latte versato che ha nutrito Padri e Grandi Fratelli,
senza ingrassarsi, mostrandosi in figure mistiche, erotiche, ma
senza biologia in movimento e mutamento. Dopo ci scriviamo su
un bell’Epitaffio e muoriamo finalmente alla Musa Morta. Accettando l’onere che tutto dopo taccia, dopo di aver tentato una
Rifondazione Femminista dell’immagine femminile, dopo averla
ascoltata e non solo parlata, vivendola come persona, di persona.
Ahi! Lo Dittatore Amore! Più dittatore che dictator.103
Una volta conclusosi, Poema giace e tace. Chi non smette di parlare è la
sua Protagonista. Nata morta come Musa del Padre e morta adesso
anche come Musa di Sé Stessa, continua a parlare da sotto la lapide su
cui campeggia il proprio Epitaffio. Si direbbe che non abbia fine la sua
sfacciataggine: impudente e impenitente, chiassosa, vistosa ed eccessiva
lo è sempre stata per tutta la durata di Poema e, vista la missione che si
era proposta di compiere, possiamo dire adesso che queste caratteristiche siano state le sue armi vincenti, nonostante tutto. Sfacciata? Sì, poiché “senza faccia”, nonostante si sia prodotta nell’amplificazione delle
sue molteplici sfaccettature. Ma è proprio la “Musa Poetessa Suicida del
suo Sé” a compilare l’Epitaffio? Oppure è la persona-autrice che smette di con/fondersi col suo dettato-dittatore a parlare? Può darsi che qui la
Protagonista sia già scesa dal palco della sua bocca, si sia tolta i costumi
di scena e sia tornata ad essere Rosaria Lo Russo? Ce la immaginiamo
103. Ivi, p. 75.
237
nel suo camerino-studiolo, mentre riflette sulle sue sudate carte
poematiche, mentre le asciuga dalle lacrime piante durante il melodramma melologico. Dopotutto si è arresa a “chi sbatte contro l’insopportabile
ingenuità” del suo “teatro”. È la “contemplazione dell’immagine” di sé
che ha come conseguenza “dedizione ed arresto”: consegnandoci il suo
Poema Lo Russo consegna sé stessa ad un inevitabile silenzio poetico;
passeranno anni prima che la “scrittura corrente” torni a sgorgare dalla
sua penna e quando ciò accadrà (con l’uscita di un’anticipazione di Crolli104) ci ritroveremo davanti a una voce profondamente mutata che inaugura un altro tempo di ricerca abbandonando temi e poemi del passato,
come a prenderne le distanze. E Poema? È stato soltanto una masturbazione “allo specchio del Padre”? Un esercizio di autoerotismo solipsistico?
Un morboso autocompiacimento? Lo Russo ha manipolato il linguaggio
genitale della lingua italiana (il Poema dantesco), l’ha portato alla bocca
facendolo suo, nutrendosene e nutrendo il lettore con un fiotto sillabico,
ipnotico e biologico altamente carnale e femminile, generando sensi e
significati plurimi.
No, non si è trattato affatto di masturbazione, piuttosto di un inno di lode
laico e perturbante (e tanto eroicomico quanto necessario) rivolto alla
maestà di ciò che per secoli è stato il tabù per eccellenza della letteratura
italiana, la “glucùpikra prìapa pàprika fìca”.
Marco Simonelli
Firenze, novembre 2012
104. Lo Russo, Rosaria, Crolli, Battello Stampatore, Trieste 2006; poi confluito in
Ead, Crolli, Le Lettere, Firenze 2012.
238
Sommario
Prefazione. L’epica della storia, l’epica della voce,
di Cecilia Bello Minciacchi
5
Sanfredianina
11
Tre variazioni sulla nascita
21
Gli angoli della bocca (L’Alimentazione)
27
Musa a me stessa
79
Sequenza orante
103
Penelope
115
Trittico figurativo
129
Trittico testacaudato detto de Lo Dittatore Amore
141
Epicedi
153
Triduo pasquale
161
Trittico fabuloso
175
Trittico del tempopieno degli addii
187
Epitaffio
193
Sonettesssa
197
Nota
201
Postfazione, di Marco Simonelli
203
239