Il tempo come indicibile attesa

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Il tempo come indicibile attesa
Il tempo come indicibile
attesa
di Paola Ricci Sindoni
«Il tempo è vicino».
Ap 22, 10.
«E tutto
deve essere così piano
come la lunga attesa».
P. Salinas
1. Il miracolo segreto o l’attesa breve
Perché attendere che il tempo si dia, quando smarriti e confusi ne
percepiamo, come ai tempi di Agostino, tutta la sua fragile, corrosiva distensione? Appagati dall’idolatrica comparsa dell’attimo presente, che pare raccogliere ed esaurire tutte le energie vitali, in che
modo ridire la fatica di un tempo che ama serbare in sé il suo indicibile segreto, caricandosi dell’attesa della sua futura pienezza?
In questo drammatico scenario è possibile leggere la provocazione mistica della Kabbalah 1, secondo cui l’uomo è stato creato
in mezzo al tempo «troppo tardi o troppo presto», in ritardo rispetto ad un dramma che gli è anteriore e di cui sente tragicamente l’urto; in anticipo sul finale di questo dramma, che gli impone il suo diretto intervento, quasi sempre esposto ad un inevitabile fallimento.
A questa dolente condizione rispondono, in modo opposto e
speculare, due scrittori del Novecento, Jorge Luis Borges e Franz
Kafka, assai vicini nell’angustia a ridire lo spessore problematico
del tempo, e assai diversi nel determinarne la struttura esistenziale, quella che ne costituisce il senso dell’attesa.
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La storia di Borges si svolge a Praga 2, dove lo scrittore Jaromir Hladik, arrestato dai tedeschi nel 1939 per aver studiato la mistica ebraica, vive i suoi ultimi dieci giorni in prigione, in attesa
dell’esecuzione capitale. Ciò che lo tormenta è l’impossibilità di
poter condurre a termine il suo lavoro – una tragedia in tre atti intitolata I nemici –: «Aveva già terminato il primo atto e qualche
scena del terzo; la natura metrica dell’opera gli permetteva di rivederla continuamente, di correggerne gli esametri, senza aver
sott’occhio il manoscritto. Pensò che mancavano ancora due atti,
e che tra brevissimo tempo sarebbe morto» 3.
La notte prima di essere ucciso – così continua il racconto –
Hladik rivolge a Dio una preghiera perché gli doni un altro anno
di vita per poter completare la sua tragedia. Ma il tempo scorre
inesorabile: alle 9 del mattino del 29 marzo 1939 il condannato
viene passato per le armi. Vale la pena rileggere integralmente la
parte finale del racconto.
«Il plotone si formò, s’inquadrò. Hladik, in piedi contro il muro della caserma, attese la scarica. Qualcuno temette che la parete restasse
macchiata di sangue; ordinarono allora al condannato di avanzare di
alcuni passi. Hladik, assurdamente, ricordò i vacillamenti preliminari ordinati dai fotografi. Una pesante goccia di pioggia gli sfiorò una
tempia e lentamente rotolò sulla sua guancia; il sergente vociferò il
comando finale.
L’universo fisico si fermò.
Le armi convergevano su Hladik, ma gli uomini che stavano per
ucciderlo restavano immobili. Il braccio del sergente eternizzava un
gesto inconcluso. Su un mattone del cortile un’ape proiettava un’ombra fissa. Il vento s’era arrestato come in un quadro. Hladik tentò un
grido, una sillaba, la torsione di una mano. Comprese che era paralizzato. Non il più tenue rumore gli giungeva dal mondo impedito.
Pensò sono all’inferno, sono morto. Pensò sono impazzito. Pensò il
tempo si è fermato. Poi rifletté che, in questo caso, anche il suo pensiero si sarebbe fermato. Volle metterlo alla prova: ripeté (senza muovere le labbra) la misteriosa quarta ecloga di Virgilio. Immaginò che
già i remoti soldati condividessero la sua angoscia; bramò di comunicare con loro. Si stupì di non sentire alcuna stanchezza, e neppure la
vertigine della sua lunga immobilità. Dopo un tempo indeterminato,
si addormentò. Quando si risvegliò, il mondo continuava immobile e
sordo. Durava sulla sua guancia la goccia d’acqua; nel cortile, l’ombra
dell’ape; il fumo della sigaretta che aveva fumato non finiva mai di disperdersi. Un altro “giorno” passò prima che Hladik comprendesse.
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Un intero anno aveva chiesto a Dio per terminare il suo lavoro:
un anno gli concedeva l’Onnipotente. Dio compiva per lui un miracolo segreto; l’ucciderebbe, all’ora fissata, il plotone tedesco, ma nella sua mente, tra l’ordine e l’esecuzione dell’ordine, trascorrerebbe
un anno. Dalla perplessità passò allo stupore, dallo stupore alla rassegnazione, dalla rassegnazione a un’improvvisa gratitudine.
Non disponeva d’altro documento che della memoria; il mandare a mente ogni esametro nuovo, gli impose un fortunato rigore, ignorato da coloro che arrischiano e dimenticano paragrafi provvisori e
sconclusionati. Non lavorò per la posterità e neppure per Dio, delle
cui preferenze letterarie poco sapeva. Minuzioso, immobile, segreto,
ordì nel tempo il suo alto labirinto invisibile. Rifece il terzo atto due
volte. Soppresse certi simboli troppo evidenti [...]. Nulla veniva ad
importunarlo e a distrarlo. Soppresse, abbreviò, ampliò; in nessun caso preferì la versione primitiva. Giunse ad amare il cortile, la caserma.
Terminò il suo dramma: non gli mancava di risolvere, ormai, che un
solo aggettivo. Lo trovò; la goccia d’acqua riprese a scivolare sulla sua
guancia. Gridò il principio di un grido, mosse il capo, la quadruplice
scarica lo fulminò.
Jaromir Hladik morì il 29 marzo alle nove e due minuti del mattino» 4.
Come è potuto accadere in simultanea il tempo breve dell’esecuzione (due minuti) e il tempo lungo (un anno) della composizione
dell’intero poema? Il senso del racconto sembra alludere ad un arresto dell’universo fisico («Le armi convergevano su Hladik, ma
gli uomini che stavano per ucciderlo restavano immobili»), che
non implica l’arresto del tempo, che anzi appare tanto qualitativamente condensato, quanto ricolmo di distensione cronologica (il
«miracolo» di un anno intero).
L’attesa della fine, insomma, raccoglie in sé segretamente (il
miracolo è segreto anche perché nessuno conoscerà il completamento della composizione) la condensazione del «tempo-ora», là
dove al tempo interno del condannato è concesso di separarsi dalla realtà esteriore del tempo fisico, quasi che, racchiuso in se stesso, possa proficuamente dilatarne l’attesa. In quei due minuti, che
separano l’ordine di aprire il fuoco e l’esecuzione finale della sentenza, la coscienza di Hladik riesce miracolosamente a compiere il
lavoro di un anno intero.
C’è molto di più in questo racconto che l’apoteosi del tempo
psichico, qualitativo, creativo, su quello fisico, quantitativo, ripetitivo. È la densità dell’attesa che viene qui rappresentata narrati-
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vamente, come tensione dinamica ad un «oltre», già raccolto nel
tempo-ora, in quell’ora presente, cioè, in cui convivono all’esterno il tragico rituale della condanna a morte, e, all’interno, l’incompiutezza di un’opera che preme per essere ultimata.
In questo ipotetico incrocio delle due differenti scansioni del
tempo, prende dimora l’attesa, che è sempre tensione ad altro che
non abita dentro il circuito finito dell’«ora», ma al contempo si
nutre del «già» dato, il cui spessore pare possedere in sé il germe
segreto del compimento.
È certo un miracolo segreto, come invita a considerarlo Borges, anche perché costitutivamente l’attesa preme in avanti, verso
l’indicibile altro da sé; forma presente del futuro può essere chiamata, perché poggia su di un lampo di tempo – l’ora – la cui intensità dinamica proietta fuori, lontano.
Il miracolo sta non soltanto nella possibilità di pre-vedere il
futuro, ma, nel caso dello scrittore condannato a morte, di trascinarlo indietro, dentro quel presente condensato, che riassume in
sé l’inevitabile tensione di quel tempo lungo che è il futuro imprevedibile.
È il tempo vicino di cui parla Giovanni (Ap 22, 10), è il tempo corto di Paolo (1 Cor 7, 29), il tempo che resta tra il «già» del
presente, già colmo di futuro, e il «non ancora» che attende di essere com-preso nella totalità dell’«oggi». Ciò che vale è il tempo di
«ora», quel presente che resta (Rm 11, 5) e che sembra costituire
nell’orizzonte neotestamentario la forma interna e la verità di tutto il tempo, la sua «segreta» unificazione. Paolo non ha dubbi ad
ammettere che, una volta accettata per fede la venuta e la resurrezione del Maestro nella «pienezza» del tempo, ciò che rimane –
dopo questo Evento – è un tempo breve, un tempo contratto, il
tempo che resta, insomma, come unico tempo reale. Ciò va inteso
non tanto perché l’attesa del ritorno del Signore fosse percepita
dalle prime comunità cristiane nella sua urgenza storica, successivamente delusa 5, ma perché – come sembra dire Paolo – dopo
Cristo tutto il tempo, totalmente condensato nel Messia, va raccolto totalmente nell’hodie, nel tempo che resta, più che proiettato in un incerto futuro escatologico 6.
La speranza che anima l’attesa del ritorno non rimanda perciò
alla fine del tempo, ma al tempo della fine, al tempo cioè che ora
prepara l’evento e lo custodisce con fiducia e pazienza 7. E se pur
dobbiamo restare immersi nel finito, nella pura precarietà del pre-
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sente, là dove occorre rimanere agostinianamente fissi in un tempo che di continuo trapassa nel non essere del futuro, non resta
che riaffidarsi alla speranza, a quell’originario kairòs, che fa il tempo pieno, non annullandone le contraddizioni, ma anticipando
nell’oggi una dimensione altra di Essere che già «è» 8.
La questione che interessa Paolo e che dà filosoficamente da
pensare, non è tanto quella di prefigurare la speranza in un futuro escatologico che punti al compimento del domani, quanto
quella di ricentrare nell’oggi l’evento messianico, come tempo di
quel presente condensato, tempo che resta e che – lo diceva già
Ticonio che ebbe tanta influenza su Agostino – costringe ogni
tempo a farsi ora messianica, non come fine cronologica del tempo, ma come esigenza di pienezza dell’oggi, come ciò che si pone
«a titolo di fine» 9.
2. La torre di Babele o l’attesa lunga
Ben differente appare l’intenzionalità filosofica che muove il racconto, Lo stemma cittadino, di Kafka 10. In esso trova una sorprendente interpretazione la storia biblica relativa alla costruzione della torre di Babele. Compresa in soli nove versetti – Genesi
11, 1-9 – la vicenda, detta altrimenti «la sfida a Dio», sottolinea
«la tracotanza, l’autoesaltazione di un potere terrestre impaziente
del giogo celeste e di ogni limite umano» 11. La Bibbia lascia intendere che la costruzione procedeva molto rapidamente, così rapidamente da allarmare Dio per questa concentrazione di forze in
una sola città. La distruzione dell’opera, con la conseguente confusione delle lingue, non è che la denuncia nei confronti della violenza totalitaria del potere omologante della tecnica, che pretende
di autocentrarsi sostituendosi all’Unico 12.
Kafka, al contrario, sovverte alla radice il mito biblico: anziché descrivere l’edificazione della torre, narra la storia della sua
non costruzione.
«Infatti si ragionava così: il punto essenziale di tutta l’impresa è l’idea
di costruire una torre che arrivi al cielo. Davanti a questa idea tutto il
resto è secondario. L’idea, una volta concepita nella sua grandezza,
non può più scomparire; finché ci saranno uomini ci sarà anche il desiderio di portare a termine la costruzione della torre. Non bisogna
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però aver preoccupazioni per l’avvenire, anzi, al contrario, il sapere
dell’umanità va aumentando, l’architettura ha fatto progressi e altri
ne farà, un lavoro per il quale oggi occorre un anno tra cento anni si
potrà fare in sei mesi e, oltre a tutto, in forma migliore e più resistente. Perché dunque affaticarci già oggi sino allo stremo delle forze? Siffatte considerazioni paralizzarono le energie e più che alla costruzione della torre si pensò a costruire i quartieri degli operai. Ogni nazione voleva il quartiere più bello, donde nacquero contese che finirono
persino col diventare conflitti sanguinosi. Questi non cessavano più e
i capi ne trassero un nuovo argomento per affermare che anche la
mancanza del necessario raccoglimento imponeva di costruire la torre molto adagio, o meglio ancora soltanto dopo la conclusione della
pace universale. Così passò il periodo della prima generazione, ma
nessuna delle successive fu diversa, soltanto l’abilità industriale andò
perfezionandosi e con essa la smania di menar le mani. Si aggiunga
che già la seconda o terza generazione vide quanto fosse assurda la
costruzione della torre celeste, ma troppi erano ormai i legami perché
si potesse abbandonare la città» 13.
Ciò che conta per Kafka non è solo individuare una causa immanente di autodistruzione, implicitamente connessa al progetto
di costruire la torre. La questione, insomma, non è quella relativa
al fatto che non si «deve» erigere la torre, ma proprio non si «può»,
a causa di un perturbamento che viene ad insinuarsi nella relazione con il tempo. Gli uomini di Babele, infatti, vivono e lavorano
sulla scia di un tempo disteso all’infinito, sempre uguale, senza fine, e che attende soltanto di essere di volta in volta riempito con il
lavoro. Per questo – come precisa Kafka – «non bisogna avere
preoccupazioni per l’avvenire»; anzi, l’idea ottimistica del progresso in ambito architettonico suggerisce piuttosto di lavorare con
molta lentezza, senza alcuna urgenza che preme e spinge al futuro,
tempo speciale di attesa, di speranza e di impazienza 14.
Nella stagione babelica manca dunque la tensione: «perché
affaticarsi già oggi sino allo stremo delle forze?»; basta lasciare
che il tempo – come si dice – faccia il suo corso, corso interminabile, senza fine, «già oggi» uguale a domani. «Così passò il periodo della prima generazione, ma nessuna delle successive fu diversa». L’inesorabile scorrere del tempo sembra nullificare la densità
anticipatrice dell’attesa: nulla avviene perché «niente di nuovo accade sotto il sole», come scetticamente ricorda il Qoèlet.
Dentro questo scenario il futuro kafkiano, indefinitivamente
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spostato in avanti, si incarica di sopportare la rassegnazione dell’oggi («troppi erano ormai i legami perché si potesse abbandonare la città») e di predisporre questo flusso vuoto all’attesa, eventuale, dell’apocalisse, unico «tempo» possibile, nutrito della distruzione di tutti i tempi. Alla Babele biblica, come quella di Praga, in cui Kafka è nato e vissuto e a cui allude il racconto, non rimane che la prigionia di un tempo immobile, incapace com’è di
vivere l’attesa come novità del futuro, tale da riempire di densità
tutto il tempo umano. Non rimane perciò che l’esposizione alla
violenza apocalittico-distruttiva. «Tutte le leggende e i canti – termina il racconto alludendo a Praga – formatisi in questa città sono pervasi dall’attesa di un giorno promesso in cui la città sarà
spianata da un pugno gigantesco con cinque colpi in rapida successione. Perciò nello stemma della città figura un pugno» 15.
A differenza di Hladik, che vive l’attesa condensata in pochi
attimi, gli unici capaci di donare un senso a tutta una vita, il cittadino babelico sopporta il peso del suo presente sfibrato, impotente a contenere in sé il carico del futuro. È il tempo avvenire, infatti, che dispone all’attesa; è ad esso che l’«ebreo» Kafka 16 guarda,
disincantato e scettico, memore – se mai – del tono apocalittico,
presente, in parte, nel messianismo ebraico 17.
Quest’ultimo, assai variegato nelle sue molteplici rappresentazioni storiche, appare più propenso, almeno nel filone del rabbinismo postesilico, a privilegiare l’attesa come «sogno del compimento» 18 del tempo, il cui eschaton si nutre di futuro; è il «non
ancora» che preme sul «già», se così si può dire, capovolgendo le
coordinate messianiche presenti nel Nuovo Testamento. Quasi a
dire che in questo scenario l’attesa si fa dicibile, perché la Parola
prima ed ultima è stata «già» pronunciata. Diversamente dall’ebraismo, dove il tempo dell’attesa è consegnato, per dirla con Lévinas 19, ad un dire che non è mai componibile nell’assunzione del
detto.
3. L’attesa rituale nel tempo della natura
È di sicuro interesse analizzare la primitiva concezione del tempo
ebraico, leggendola in parallelo con differenti visioni, cronologicamente vicine, che si svilupparono all’interno dei grandi sistemi
religiosi mesopotamici, sumeri ed egiziani.
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Il racconto babilonese del diluvio, ad esempio, o la supremazia delle forze cosmiche sugli uomini, che negli abitanti della Mesopotamia veniva sperimentata come modalità mitica di vivere le
alterne vicende della natura, a cui in definitiva l’uomo poteva opporre solo la riconquista di un flusso temporale organizzato secondo i ritmi propri delle fondazioni delle dinastie o delle città, si
differenziava profondamente dalla percezione del tempo vissuta,
ad esempio, dai vicini abitanti dell’Egitto 20.
Avvezzi alla regolarità del clima e alla permanente fertilità del
suolo attraversato dal Nilo, gli egiziani venivano così a disporsi
verso un’attesa del tempo che finiva con il coincidere con il flusso
dei doni della natura e con i desideri degli agricoltori. Tuttavia
«malgrado le loro divergenze, le concezioni antiche hanno un modo comune di affrontare cultualmente il tempo. Esse immaginano
e introducono nella vita religiosa tempi rituali, la cui esistenza manifesta, nello stesso tempo, l’angoscia dell’uomo davanti alla natura e la pacificazione degli elementi contrari che si affrontano nel
tempo» 21.
Mircea Eliade ha del resto in modo eccellente mostrato come,
mediante la ripetizione del rito, il tempo dell’attesa assumesse un
valore pieno e solidale con i tempi precedenti e con quelli seguenti
consacrati allo stesso rito: una sola durata ierofanica scorre attraverso tutti i tempi dedicati alla stessa funzione 22. Non veniva sospeso il tempo profano, ma introdotto al suo interno qualcosa di assolutamente nuovo, il rituale appunto, che lo riempiva di significato e di valore, aprendolo alla comprensione e all’accettazione del
mito. Basti pensare, ad esempio, alla liturgia del nuovo anno in Mesopotamia, al rituale della successione regale in Egitto, alle funzioni
del lutto a Tammuz in Fenicia o a Canaan, per comprendere come
questi rituali manifestassero in modo sorprendente il ruolo svolto
dall’attesa del tempo nella mentalità dell’antico Oriente.
In definitiva – precisa al riguardo Neher –, quando è racchiuso nel rito, il tempo guadagna significato; «è moltiplicato da una
serie di risonanze mitiche in cui la vita umana trova un accrescimento, doloroso talvolta, ma sempre prezioso. Il tempo rituale è
un tempo assunto» 23. A differenza di un’altra concezione, rivelatasi negli orientamenti ciclici del tempo 24 e diffusa soprattutto
nello spirito indiano, volto a rinunciare al tempo, a considerare
trascurabile, inessenziale l’attesa, per viverla come estraneità
atemporale.
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In essi il tempo non è sentito come una qualità inerente al
mondo, ma solo come un accidente particolare della condizione
umana. La natura, invece, sfugge al tempo, è spaziale, cosicché
l’antitesi non è posta tra due differenti tempi che si affrontano, ma
fra un «uomo-tempo» e una «natura-spazio» 25.
Già gli studiosi delle antiche religioni orientali hanno messo
in rilievo come progressivamente i grandi eventi dei popoli primitivi hanno sempre più marcato la distinzione e la dialettica del
tempo e dello spazio. In modo emblematico è la filosofia greca
che, anche sotto l’influenza del vicino Oriente, sembra aver sintetizzato questa tendenza con maggiore consapevolezza speculativa:
contrapposto al mondo-cosmo, universo ordinato e immutabile,
c’è un tempo che, in senso proprio e forte, non possiede una sua
specifica realtà. Per i Pitagorici è ripetizione, identità; per Platone
è «immagine» dell’eternità; per Aristotele moto circolare e uniforme. «Ne risulta che la vita e l’esistenza, cioè il tempo dell’uomo, la
sua unicità e la sua storia non sono fonti di conoscenza» 26, per cui
è possibile conoscere l’uomo solo attraverso vie mediate – quali la
filosofia e la scienza – che furono entrambe, almeno all’inizio,
geometriche. Aristotele non fa che codificare ciò che, da Eraclito
in poi, tutti i filosofi greci avevano percepito confusamente: rispetto all’immutabile, il mutevole è una diminuzione. Accettare e
attendere il tempo è un venir meno» 27. La storia altro non è che
l’inevitabile scorrere degli avvenimenti, schiacciati dal ritmo ossessivo di una temporalità che, pur ripetendosi, rimane sostanzialmente estranea al destino del singolo.
Non è un caso infatti che i Greci affidassero la storia ora all’indagine filosofica, ora alla retorica. «Fare la storia significava
per essi sia ricreare un fatto del passato, sia esporlo in forma letteraria; non era “creare” della storia. I greci avevano certo una storia, ma non fondavano nulla su di essa» 28.
La comprensione di un tempo storico mal si accordava con la
nozione dell’«eterno ritorno», e ciò avrebbe comportato, soprattutto in analoghe concezioni del tempo ciclico (si pensi al pensiero indù), delle gravi conseguenze sul piano del comportamento
etico. Se il ciclo temporale è colto come «dolore» e trasmigrazione di miserie e di sofferenze, non esiste salvezza che nella liberazione dal flusso fatale del tempo, attraverso un atteggiamento di
«indifferenza» generale, che finiva per mortificare ogni attesa e
speranza nel futuro.
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4. Ciò che tarda avverrà
Sono gli ebrei gli autentici «costruttori del tempo», come icasticamente precisa Heschel 29, a differenza dei costruttori dello spazio
che sono stati gli Egiziani e i Greci, dei costruttori dello Stato e
dell’Impero quali furono i Romani, dei costruttori del cielo quali
furono i cristiani. Definizioni suggestive e sostanzialmente corrette, ma – come avverte Neher 30 – non prive di paradossalità, se non
si tiene conto dell’ineliminabile punto di partenza storico che giustifica l’esistenza stessa del popolo di Israele. Quello rappresentato dal racconto biblico di Genesi, il solo orizzonte capace di concepire il tempo e la sua attesa nella loro portata universale, e di
rappresentare un’autentica sfida alle leggi della sociologia e ai parametri delle attuali scienze religiose 31.
È con la Parola che JHWH spezza l’eternità tramite la creazione del tempo, cosicché parola di Dio e nascita del tempo formano
un unicum indissolubile. Insieme al mondo, è creata la storia, la storia degli eventi che hanno condotto «di generazione in generazione» (Gn 5, 1-32) da Adamo a Caino, sino a Mosè e alla rivelazione
dell’alleanza nel Sinai, la trama dell’incontro fra Dio e l’uomo.
L’Essere che crea e dà la vita non è mai relegato all’interno
dello spazio mitico del sacro, nella fissa rigidità degli oggetti o dei
simboli, ma colto come potenza attiva, mobile, come presenza imprevedibile, che sfida ed attende l’uomo per una relazione che lo
fonda e lo radica nel suo orizzonte storico. «Di conseguenza il
tempo non è l’immagine mobile di una eternità immobile, bensì il
prodotto dell’eternità in azione, ossia dell’eternità in movimento.
In realtà il Dio della Bibbia è il Dio del pathos, dell’interessamento, e il tempo non è l’immagine mobile dell’eternità, ma l’eternità
in movimento» 42.
Lungi dal rappresentare uno iatus con il tempo, come avviene –
almeno in alcune tendenze teologiche – nella religione cristiana 33,
l’eternità è la dimensione del tempo ininterrotto, del tempo divenuto attesa, collegamento, «catena», non soltanto relazione che
passa sopra il flusso dei secoli sulle generazioni e sui grandi eventi
del passato, ma «attesa» che significa «fusione, coesistenza, prolungamento» della propria vita con il tempo reale, che è il tempo assoluto. È l’esigenza di coprire, per così dire, quel «bisogno di sincronismo» 34, di equilibrio cioè fra la frammentaria esperienza della vita e il bisogno della sua unità nel tempo, fra la sete del sapere e il no-
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minalismo della cultura, fra l’attesa del vero e la sua pienezza, fra
l’amore della verità e il dubbio della filosofia, fra il dono dell’amore e l’angoscia dell’esistere, fra la nostalgia del poeta e l’evasione
dell’artista. Tutte manifestazioni di quell’ansia metafisica dell’esistente, che possiede lo spazio, distrugge la terra, manipola le cose,
ma non riesce a bloccare il tempo, a fissarlo dentro le sue strutture,
nonostante i tentativi di Agostino o di Bergson di comporlo all’interno di un orizzonte speculativo.
«Il tempo è qualcosa che non potrà mai diventare un idolo; è
una realtà che noi affrontiamo, ma non possediamo. Le cose dello spazio le possediamo; i momenti del tempo li condividiamo» 35,
così che tramite l’ingresso del tempo si è come chiamati a mettere
in causa il nostro stesso destino ontologico e storico.
Grazie al rapporto con il tempo, la storia cessa di essere – come per i greci – una relazione con i tempi passati, una collezione
di aneddoti suscettibili di interesse e di interpretazione, per diventare storia unica e irripetibile, feconda, sovrabbondante di
senso. L’attesa, insomma, lega il tempo non più costituito da momenti frammentati e distaccati, destinati a perdersi nella notte del
passato. Attendere il tempo significa provocare e animare la storia, che ha certamente il suo collegamento con il passato (inteso
come alleanza e contratto), ed anche con il presente (colto come
impegno e tensione), ma anche con il futuro av-venire, che deve
venire cioè, come orientamento escatologico e vissuto messianico.
«Considerate il tempo dell’esistenza: nel presente c’è l’angoscia, la
coscienza del non possesso; nel passato e nell’avvenire c’è il destino e il mistero. Ma nel tempo biblico l’esistenza è una catena. È
un momento del destino, ma si esprime come volontà, è un momento di angoscia ma si esprime come realizzazione, è un punto
del mistero, ma è anche rivelazione» 36.
Come dire che il tempo biblico è simultaneità, dove il presente è a sua volta passato e avvenire, dove non c’è solo il momento
che fugge via e che non è più afferrabile, ma dove esso diventa attesa, prolungamento, radicamento, memoria, coesistenza.
Se si vuole acquisire l’intelligenza dell’attesa, bisogna imparare
a comprendere «che il tempo non esiste in funzione dello spazio,
ma al contrario è lo spazio che esiste in funzione del tempo» 37, e
che dunque è richiesto «di convertire le cose dello spazio in momenti del tempo», contando i giorni «in termini di atti e di eventi,
anziché di luoghi e di cose» 38.
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Esistere – precisa Heschel – non significa essere heideggerianamente nel mondo senza attesa, «buttati lì passivamente. Esistere significa assistere assieme al mondo allo svolgersi del tempo, significa essere testimoni della creazione del mondo» 39, perché è il
tempo a qualificare ontologicamente e a permettere all’uomo di
collocarsi in simultaneità di fronte alla presenza del Dio della storia, attraverso i modi dell’attesa, dell’anticipazione e del ricordo.
In tale prospettiva si capisce perché la Bibbia permette al pensatore ebreo di recuperare un inedito orizzonte di senso attraverso un metodo che non è né ermeneutica, né esegesi, né speculazione, ma attesa, attesa di Dio che «parla» a singoli individui, e
che si manifesta in un rapporto immediato con il suo popolo e i
suoi profeti 40. Per questo si deve attendere, nel senso che qualcosa debba darsi e compiersi, solo se l’uomo, ricordando le gesta di
Dio per lui, si muove con lui verso il compimento dei giorni, del
giorno universale, in cui Dio sarà Uno (Zc 14, 9).
L’attesa si rende in tal senso indicibile, perché esposta al carico della memoria e, al contempo, alla fatica di un futuro ancora
imprevedibile. L’attesa la si deve vivere e solo raccontare, come
sosteneva il filosofo medievale Jehudah ha Levi 41, recuperando
nella memoria le tracce del Dio che messianicamente continua a
venire, anche se tarda. Solo la memoria rappresenta l’appiglio sicuro dell’attesa, perché questa non divenga un’attitudine vuota e
dispersiva della vita, là dove il ricordare non è un fissare la rievocazione di un evento passato, ma un imperativo etico presente
lungo le pagine del Deuteronomio e dei profeti: «Ricorda i vecchi
giorni, considera gli anni delle passate stagioni» (Dt 32, 7); «Ricorda queste cose, Giacobbe, perché tu, o Israele, sei il mio servo.
Io ti ho creato in modo che tu fossi il mio servo, o Israele, non dimenticarmi mai» (Is 44, 21); «Ricorda quello che ti ha fatto Amalek» (Dt 25, 17). È la catena della trasmissione del ricordo degli
eventi che non solo custodisce l’evento, ma lo riattiva in forma potenziata, lo restituisce ad una nuova vita al momento della sua rimessa nel circolo della narrazione 42.
Come dire che l’avvento di JHWH, la cui manifestazione è
«già» presente nella storia del popolo eletto, va attesa, perché il
tempo venga totalmente redento, così che il Messia giunga dentro
le pieghe sconnesse della storia. La tradizione secolare di Israele è
il segnale potente che l’attesa messianica, vera ossatura spirituale
dell’ebraismo, resta indicibile non tanto perché molteplici e in
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parte contraddittorie sono state nel tempo le illusorie speranze
storiche, ma perché «ciò che tarda avverrà» 43 secondo il linguaggio nascosto di Colui il cui Nome, nel giorno universale, sarà Uno.
Come recita il versetto di Zaccaria: «E il Signore sarà re di tutta la
terra. In quel giorno il Signore sarà Uno e il suo nome sarà Uno»
(Zc 14, 9).
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NOTE
1 Cfr.
al riguardo G. Scholem, Zur Kabbalah und ihrer Symbolik, trad. it. La kabbala e il suo simbolismo, trad. it. Einaudi, Torino 1980.
2 J. L. Borges, Il miracolo segreto, in Finzioni, trad. it. a cura di F. Lucentini, Einaudi, Torino 1978, pp. 133-140.
3 Ibid., p. 133.
4 Ibid., pp. 138-140.
5 Cfr. V. Melchiorre, Sulla speranza, Morcelliana, Brescia 2000, pp. 78-82.
6 E. Biser, Introduzione al cristianesimo, trad. it. a cura di L. Asciutto, Borla, Roma 2000, pp. 439-465.
7 «Intenzionando il futuro, la speranza è fiducia e contemporaneamente pazienza»:
P. L. Landsberg, Il silenzio infedele. Saggio sull’esperienza della morte, Vita e Pensiero,
Milano 1995, p. 43.
8 Su questo tema mi permetto di rinviare al mio: Tempo ebraico e tempo cristiano
nell’orizzonte biblico, in Tempo sacro e tempo profano. Visione laica e visione cristiana del
tempo e della storia, a cura di L. De Salvo e A. Sindoni, Rubbettino, Soveria Mannelli
2002, pp. 269-280.
9 Ticonio, The Book of Rules, ed. By W.S. Babcock, Scholar Press, Atlanta 1989,
pp. 110 e ss.
10 F. Kafka, Lo stemma cittadino, in Racconti, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1990, pp. 431-432.
11 Importanti osservazioni in S. Levi Della Torre, Zone di turbolenza. Intrecci, somiglianze, conflitti, Feltrinelli, Milano 2003.
12
Ibid., pp. 27-34.
13 F. Kafka, Lo stemma cittadino, cit., p. 432. Su questa tematica cfr. S. Moses, La
storia e il suo angelo. Rosenzweig, Benjamin, Scholem, Anabasi, Milano 1993, pp. 13-32.
14 Sul nesso attesa-speranza cfr. C. M. Martini, Una riflessione, in Figli di Crono, a
cura di E. Sindoni e C. Sinigaglia, Cortina Raffaello, Milano 2001, pp. 137-149.
15 F. Kafka, Lo stemma cittadino, cit., p. 432. Nello stemma della città di Praga campeggia infatti un pugno.
16 Cfr. al riguardo: AA.VV., Kafka und das Judentum, hrsg. v. K. E. Grözinger-S.
Moses-H. D. Zimmermann, Athenäum, Frankfurt a. M. 1987, pp. 35-70.
17
Cfr. G. Scholem, Per la comprensione dell’idea messianica nell’ebraismo, in
IDEM, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Marietti, Genova 1986, pp. 105-147.
18 L’espressione è di Franz Rosenzweig, cfr. F. Rosenzweig, Der Stern der Erlösung,
trad. it. La stella della redenzione, trad. it. a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 285-319.
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Paola Ricci Sindoni
19
E. Lévinas, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, trad. it. Altrimenti che essere
o al di là dell’essenza, trad. it. a cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1983, pp. 8-11.
20
Cfr. A. Neher, L’essence du prophètisme, trad. it. L’essenza del profetismo, a cura
di R. Fabris, Marietti, Casale Monferrato 1884, pp. 52-64.
21
Ibid., p. 54.
22
M. Eliade, Mytes, rèves et mystères, trad. it. Miti, sogni e misteri, a cura di G.
Cantoni, Milano 1986, pp. 156-165.
23 A. Neher, L’essenza del profetismo, cit., p. 64.
24 Ibid., pp. 64-67; 204 e ss.
25 Ibid., p. 65. Questo tema è particolarmente caro a A.J. Heschel, The Sabbath. Its
Meaning for Modern Man, trad. it. Il sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Rusconi, Milano 1972.
26 A. Neher, L’essenza del profetismo, cit., p. 66.
27 Ibid., p. 205.
28 Ibid., p. 66. Analoghe osservazioni in un intellettuale cristiano: J. Guitton, Les
temps et l’eternitè chez Plotin et saint Augustin, Paris 1933, pp. 356-357.
29 A. J. Heschel, The Insecurity of Freedom. Essays in applied Religion, Schocken
Book, New York 1965. Su questo tema mi permetto di rinviare al mio: Heschel. Dio è
pathos, Il Messaggero, Padova 2002, pp. 91-106.
30
A. Neher, Vision du temps et de l’histoire dans la culture juive, in Les cultures et
le temps, UNESCO, Paris 1975, p. 171.
31 Cfr. M. Perani, La concezione ebraica del tempo: appunti per una storia del problema, in Rivista biblica, 4/1978, pp. 414 e ss.
32 A. J. Heschel, The Prophets, trad. it. Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 1981,
pp. 145-146.
33 Cfr. F.H. Brabant, Time and Eternity in Christian Thought, London 1937, pp. 6-43.
34 A. Neher, L’existence juive. Solitude et affrontements, Paris 1962, p. 18.
35 A. J. Heschel, Il Sabato, cit., p. 143.
36 A. Neher, L’existence juive, cit., p. 18.
37 A. J. Heschel, Il Sabato, cit., p. 150.
38 Ibid., pp. 150-151.
39 Ibid., p. 158.
40 A. Neher, L’existence juive, cit., p. 19.
41 Yehudah Ha-Lewi, Kuzari (1140), trad. it. Il re dei Khazari, a cura di E. Piattelli,
Einaudi, Torino 1960, p. 208.
42
H. Yerushalmi, Zakhor, trad. it. Zakhor. Storia ebraica e memoria ebraica, Parma
1983, pp. 22-23.
43 Cfr. al riguardo P. De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, Qiqajon, Bose 1992.