Pane e pasta - Nutrition Foundation of Italy

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Pane e pasta - Nutrition Foundation of Italy
Ciclo di Conferenze
L’EVOLUZIONE TECNOLOGICA
NELLA PRODUZIONE DEGLI ALIMENTI
Impatto su qualità e sicurezza
Effetti sulla salute
Importanza di una corretta informazione
PANE E PASTA: QUALITA’ DEGLI INGREDIENTI E
TECNICHE DI PRODUZIONE AL SERVIZIO DELLA SALUTE
ABSTRACT DELL’INTERVENTO DI FURIO BRIGHENTI
Dipartimento di Scienze degli Alimenti, Università di Parma
----------------------------------------------------------------------------------I cereali rappresentano tuttora la prima fonte di energia e nutrienti nella dieta italiana. Declinando
questa realtà nei due principali prodotti di consumo, vale a dire pane e pasta, due sono i concetti ai
quali l’industria oggi pone la maggiore attenzione: il contenuto di sodio e il mantenimento della
frazione integrale.
Lo sforzo è diretto a esaltare le qualità nutrizionali dei prodotti offerti, riducendone le criticità. Sotto
il profilo nutrizionale, infatti, è ormai ampiamente dimostrato che il consumo regolare di prodotti a
base di cereali integrali è associato a una ridotta prevalenza di patologie cronico-degenerative, per la
loro capacità di influire positivamente, nel lungo periodo, su diversi fattori di rischio.
Un aspetto di assoluta rilevanza, trattando il tema dei cereali, è la possibilità di ridurne la risposta
glicemica post-prandiale. Tale fattore è stato considerato dall’EFSA (European Food Safety
Administration, l’Ente regolatorio europeo preposto alla sicurezza degli alimenti) un effetto
fisiologico benefico per la salute.
Il profilo attuale della pasta su questo aspetto è positivo: di per sé, la pasta stimola una risposta
glicemica meno accentuata rispetto ad altri cereali proprio perché la lavorazione del prodotto fa sì
che la digestione dell’amido sia meno rapida.
Nel caso del pane, tecnologie di panificazione che si basano su processi di lievitazione alternativi o
sull’impiego di cereali parzialmente integri possono migliorare l’elevata risposta glicemica che
presenta questo prodotto.
Un altro aspetto importante riguarda la possibilità di assicurare l’apporto di nutrienti e sostanze
bioattive normalmente presenti negli strati più esterni della cariosside in forma tale da mantenere
buone caratteristiche organolettiche ai prodotti integrali.
Tra le criticità prese in considerazione, va ricordato che i cereali, e in particolare il pane, sono oggi
in Italia il maggior contributore dell’apporto di sodio: non occorre ricordare che, per gli italiani, il
pane è un alimento base nei due pasti principali, oltre a entrare spesso anche nella composizione di
prime colazioni e merende.
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Le risposte a queste molteplici richieste non sono semplici e si affidano alla tecnologia alimentare,
che in Italia conosce un potenziale di ricerca e innovazione difficilmente raggiunto in altre realtà
nazionali.
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Quindi i traguardi attuali della ricerca industriale sono molti: alla riduzione progressiva di sodio e
alla diffusione dell’impiego di cereali in cui la frazione integrale sia sempre più presente si affianca
la definizione di qualità organolettiche che soddisfino il consumatore.
INTERVISTA A LIVIA AUGUSTIN
Clinical Nutrition and Risk factor Modification Centre, St. Michael’s Hospital, Toronto (CANADA)
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D.: Quali sono le evidenze cliniche positive che derivano dall’applicazione di questo parametro?
AUGUSTIN: Un IG basso è utile soprattutto per chi non riesce a metabolizzare bene i carboidrati
come per esempio le persone con diabete, o prediabete, le persone obese, le donne in gravidanza e in
generale le persone sedentarie. Se invece queste stesse persone consumano in prevalenza carboidrati
ad alto IG, gli zuccheri nel sangue aumentano eccessivamente e con questi anche i livelli di insulina,
il colesterolo, i fattori trombotici (quelli che aumentano il rischio di infarto/ictus), la pressione
arteriosa, l’infiammazione e lo stress ossidativo, tutti fattori di rischio per le complicazioni del diabete,
ma anche per cardiopatie e tumori.
Numerosi studi epidemiologici di tipo osservazionale hanno mostrato che una dieta a basso IG si
associa a una riduzione del rischio di sviluppare diabete, patologie cardiovascolari e alcuni tipi di
tumori (colon retto, mammella ed endometrio), rispetto ad una dieta ad alto IG. I benefici sono ancora
maggiori nelle persone sovrappeso/obese e in coloro che consumano anche alimenti ad alto contenuto
di fibra.
Anche gli studi clinici d’intervento, condotti dal 1981 a oggi, hanno dimostrato che la scelta di
alimenti a basso IG è utile nel paziente diabetico, in quanto riesce a migliorare il controllo della
glicemia, dimostrata da una riduzione del marcatore, chiamato emoglobina glicata (HbA1c), dello
0,5%, con miglioramenti quindi che si avvicinano a quelli ottenuti con i farmaci.
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D.: Che cos’è l’indice glicemico (IG) e perché è utile?
AUGUSTIN: Vorrei innanzitutto premettere che i carboidrati della dieta sono sotto attacco a livello
internazionale perche’ considerati la causa dell’obesita’ e delle malattie del nostro secolo un po’ come
lo sono statai i grassi in precedenza. In realta’ non tutti i carboidrati sono uguali ed in effetti ci sono
carboidrati qualitativamente superiori che hanno sempre fatto parte delle diete tradizionali dei vari
paesi inclusa la dieta Mediterranea. Allo scopo di valorizzare i carboidrati di qualita’ superiore
abbiamo creato un’associatione nel 2013 a Stresa che si chiama ICQC ovvero International
Carbohydrate Quality Consortium.
Qualitativamente superiori sono i carboidrati ricchi di fibra, quelli ricchi di vitamine e minerali e
quelli con indice glicemico basso. L’indice glicemico (IG) è un modo per classificare i cibi
contententi carboidrati, a seconda di quanto innalzano la glicemia postprandiale, cioè quanto
innalzano i livelli di zuccheri nel sangue dopo essere stati consumati. Questa classificazione quindi
non si basa sulla distinzione chimica del carboidrato (come succede quando si parla di caboidrati
semplici e complessi), bensì su una risposta fisiologica: appunto la glicemia postprandiale. L’IG è
basato su un valore standard, o comparatore: quindi tutti i cibi contenenti carboidrati possono essere
paragonati a questo standard. In questo modo si ha un metro di misurazione standardizzato, con il
vantaggio di poter paragonare gli IG dei vari alimenti. L’IG permette di differenziare i carboidrati a
veloce assorbimento, che causano picchi elevati di glicemia (alto IG>100), da quelli a lento
assorbimento, che producono picchi meno elevati di glicemia (basso IG <70).
Per esempio il pane bianco o integrale, il riso bianco o bruno, le patate, le banane mature, l’uva, la
frutta tropicale e molti dolciumi hanno un IG alto, mentre i legumi (ceci, lenticchie, fagioli, piselli
secchi), l’orzo, la pasta, il fruttosio, il lattosio, la frutta delle zone temperate (mirtilli, fragole, lamponi,
mele, arance), prugne secche e datteri hanno un IG basso, o medio basso.
Il concetto di IG e’ nato nel 1981 in Canada con David Jenkins e Thomas Wolever con l’intento di
aiutare le persone con diabete a gestire meglio la glicemia. Con l’introduzione dell’IG si è visto che
certi cibi, precendentemente proibiti ai diabetici, potevano invece essere reintrodotti nella loro dieta
mentre altri, che sembravano salutari in quanto considerati a base di carboidrati complessi, come per
esempio il pane, sono stati notevolmente ridotti nella loro dieta.
In letteratura sono molti i lavori in cui si dimostra che il rischio di cardiopatie non aumenta, ma può
addirittura diminuire, consumando carboidrati a lento assorbimento, vale a dire a basso IG.
Nei soggetti con pre-diabete, o insulino-resistenza, oppure obesi, un’alimentazione che contenga
prevalentemente cibi a basso IG riduce il rischio di malattie metaboliche (diabete, sindrome
metabolica) e cardiovascolari (ipertensione, cardiopatia ischemica, eventi cardiovascolari e ictus,
fatali e non).
Infine va citato lo studio clinico condotto su più di mille persone con disturbi del metabolismo
glicemico, ma non ancora diabetici, nel quale l’IG della dieta è stato ridotto in modo artificiale
utilizzando l’acarbosio. Si tratta di una molecola di zucchero modificato, considerata come un
farmaco, che va a inibire l’attivita’ degli enzimi responsabili della prima parte della digestione dei
carboidrati. L’acarbosio è stato somministrato a metà dei partecipanti, mentre l’altra metà ha ricevuto
un placebo. Dopo 3 anni, nel gruppo che aveva assunto l’acarbosio rispetto al gruppo placebo sono
stati registrati il 49% in meno di malattie cardiovascolari, il 34% in meno di diagnosi d’ipertensione
ed il 36% in meno di diagnosi di diabete. Questo studio evidenzia quindi i benefici di una dieta con
carboidrati a lento rilascio e quindi a basso IG.
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D.: Come si può conoscere l’IG degli alimenti e come si puo’ ridurlo?
AUGUSTIN: Per conoscere l’IG dei cibi si deve far riferimento alle tabelle di IG che sono state
redatte dal gruppo australiano di Jennie Brand-Miller a Sydney. In Australia, Nuova Zelanda e Sud
Africa gli alimenti venduti nei supermercati possono riportare un marchio che segnala il loro basso
IG, determinato in laboratori certificati: un aiuto per il consumatore nella scelta dei carboidrati.
Tale iniziativa è ora in discussione anche in Canada, al Ministero della Sanità, in collaborazione con
la Canadian Diabetic Association (CDA). Se il dibattito avrà buon fine, anche in Canada i
consumatori potranno trovare il marchio “basso IG” sui prodotti alimentari in commercio.
In Europa forse si potrà fare un passo simile in futuro. Al momento l’EFSA, come ci ha ricordato il
Prof. Brighenti, ha già approvato un claim sulla glicemia postrprandiale. Il problema è che la risposta
glicemica può variare in ognuno di noi. Affermare che un certo prodotto induce una glicemia
postprandiale più bassa non è sufficiente, perché ci si chiederebbe correttamente rispetto a quale
valore di riferimento è inferiore. L’IG invece è un riferimento accertato: ci dice che il tale prodotto
stimola la glicemia meno o più del pane bianco o del glucosio.
Per ridurre l’IG ci sono procedimenti tecnologici applicabili a livello industriale, ma anche metodi
semplici e applicabili a livello domestico. Pasta e riso e altri carboidrati, se cotti al dente, hanno un
IG più contenuto.
Le patate, che di per sé hanno un alto IG, una volta cotte e raffreddate, se condite con aceto, vedono
diminuire il proprio IG.
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D.: Pane e pasta. Qual è il loro IG?
AUGUSTIN: Pane e pasta sono le fonti di carboidrati principali della dieta Mediterranea e sono molto
simili in termini di composizione in quanto entrambi a base di farina di frumento. Ma i nutrizionisti
da tempo ci dicono che producono effetti fisiologici diversi l'uno dall'altro. Questi effetti hanno a che
fare con il loro IG. Il pane bianco ha un IG di 100, quindi alto, mentre la pasta al dente di 60 quindi
basso.
I cibi ad alto IG sono assorbiti più velocemente, stimolando un rapido picco di glicemia post-prandiale
che, a sua volta, provoca un rilascio immediato e maggiore di insulina dal pancreas, se il pancreas
funziona bene quindi nei soggetti sani senza diabete. Reazioni che, ripetute nel tempo, logorano
l’equilibrio del metabolismo glucidico, aumentando il rischio di diabete di tipo 2.
Livelli elevati di glicemia e di insulina, come già accennato, vanno anche ad aumentare
l’infiammazione, lo stress ossidativo e i fattori della crescita, che pare siano i fattori che legano un
alto IG ai tumori. I nostri studi con l’Istituto Tumori di Aviano e l’Istituto Mario Negri di Milano
sono stati i primi a dimostrare l’associazione tra alto IG e rischio di tumori. Anche studiando solo
pane e pasta abbiamo trovato che l’associazione con il tumore di mammella e colon retto risulta
marcata con il pane, ma non con la pasta.
Accompagnare il pasto con fibra viscosa (quella per esempio dei legumi o delle melanzane) puo’
ridurre l’IG, mentre la fibra non viscosa, cosiddetta insolubile, contenuta per esempio nel riso grezzo,
o in altri cereali, non riduce l’IG, anche se apporta altri nutrienti fondamentali, quali vitamine e
minerali: quindi la scelta migliore è consumare cereali integrali e legumi.
I grassi inoltre possono ridurre l’IG del pasto totale, ma vanno ovviamente evitati gli eccessi.
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Riguardo alla frutta, è opportuno scegliere frutti di regioni temperate, anziché tropicali; se si
consumano le banane, preferirle verdi perché a basso IG, mentre quelle mature hanno un IG alto.
I cereali per la prima colazione invece hanno quasi tutti IG alti: sono da preferire quelli con elevato
apporto di fibra totale che contribuisce al benessere intestinale.
Aggiungere della fibra viscosa ai cereali per la prima colazione, quale fibra d’avena o semi di lino
tritati (non interi) puo’ aiutare a ridurre l’IG, oltre che a dare un apporto di vitamine e grassi
polinsaturi ottimi per mantenere in salute il sistema cardiovascolare.
INTERVISTA AD ANTONIO BOSSI
UOC Malattie Endocrine e Centro Regionale per il Diabete Mellito – Ospedale di Treviglio (BG)
----------------------------------------------------------------------------------D.: Quale ruolo hanno i carboidrati nell’alimentazione del paziente diabetico, sia di tipo 1, sia di
tipo 2?
R.: Lo stesso ruolo che rivestono nell’alimentazione della persona senza diabete. Sono i fornitori di
energia principali, necessari per far funzionare i muscoli, sia volontari, sia involontari (come il cuore)
e per dare carburante di lungo corso al cervello. La quota necessaria è quindi la stessa, pari al 50-55%
delle calorie totali assunte nella giornata, componendo in modo equilibrato i pasti. Ecco perché pasta
e pane non devono mancare e le restrizioni rispetto ad alcuni carboidrati semplici e a rapido
assorbimento, come per es. gli zuccheri del latte e di gran parte della frutta non sono più stringenti,
purché si sappia come inserirli in modo bilanciato nella composizione dei pasti della giornata.
D.: Quali sono le indicazioni per orientare la scelta dei carboidrati da parte di un soggetto diabetico
di tipo 1?
R.: La scelta dei carboidrati da parte del diabetico di tipo 1 non deve essere necessariamente limitata,
a patto che si tenga conto del conteggio dei carboidrati (da considerare nell’ambito della quota
alimentare assunta): prima di ogni pasto si valuta la quota di carboidrati presente, la si rapporta
all’insulina necessaria per evitare al soggetto picchi glicemici o ipoglicemia e la si personalizza
ulteriormente, grazie a un fattore di sensibilità calcolato su base individuale.
D.: E per quanto riguarda il diabetico di tipo 2?
R.: In questo paziente l’attenzione maggiore deve essere riservata alla quota calorica globale e al
controllo dell’assunzione di grassi saturi, soprattutto se il soggetto è sovrappeso/obeso. Molti
chiedono come mai non siano utilizzate in Italia le cosiddette “liste di scambio” dei carboidrati. La
risposta è semplice: l’alimentazione-tipo italiana si affida spesso alla combinazione di alimenti diversi
in un’unica ricetta, in cui pane e pasta sono la base (pizza, o pasta condita con verdure, o con verdure
e carne/pesce/formaggi) a fare piatto unico. Il piatto unico, se viene composto mantenendo alta
l’attenzione alla quota calorica complessiva, è piuttosto equilibrato nella composizione, oltre a
rallentare l’assorbimento dei carboidrati presenti, aiutando il controllo dell’andamento
glicemico/insulinemico post-prandiale.
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D.: Una domanda da consumatore: che ruolo hanno i carboidrati a lento assorbimento, ovvero
pane e pasta integrali (intese come farine in cui la quota integrale è del 50% o più)
nell’alimentazione della persona con diabete?
R.: Anche nel soggetto portatore di diabete la scelta di pane o pasta integrali (che hanno Indici
Glicemici inferiori rispetto agli analoghi “normali”) permettono di ridurre i picchi di glicemia postprandiale, contribuendo a diminuire la “variabilità glicemica” (in questo caso, la differenza tra il
valore della glicemia prima di mangiare e l’andamento della glicemia stessa dopo il pasto). Viene
favorito il raggiungimento di un più precoce senso di sazietà, con effetti benefici anche sul successivo
transito intestinale, se è garantito l’adeguato apporto di acqua giornaliero.
INTERVISTA A PIETRO DE ALBERTIS
Regulatory Affairs, Barilla, Parma
----------------------------------------------------------------------------------D.: Quali sono i compiti dell’industria produttrice di pane e pasta?
De Albertis: Vediamo i principali. Da un lato l’industria deve impegnarsi nel monitorare i trend
nutrizionali e, supportata dal mondo scientifico, identificare le azioni prioritarie di miglioramento dei
suoi prodotti, dall’altro deve fornire alimenti che garantiscano elevate qualità organolettiche (nel caso
del pane comparabili a quelle della quotidiana produzione artigiana) garantendo che queste qualità si
mantengano per tempi più lunghi in totale sicurezza. Tutto ciò, ovviamente, dando la giusta rilevanza
ai temi ambientali.
D.: Qual è oggi l’ambito della ricerca che più sta impegnando l’industria di pane e pasta?
De Albertis: Sicuramente la produzione di alimenti integrali. E questo per più motivi: nei cereali
integrali sono presenti quote di fibre e micro elementi nobili (vitamine e minerali) che nella
lavorazione della materia prima sono in gran parte classificate come sotto-prodotti e destinate
all’alimentazione animale. È noto (ed è stato ribadito anche nelle relazioni precedenti) che i cereali
integrali svolgono più azioni positive, a breve e a lungo termine, sul metabolismo degli zuccheri e
dei grassi. D’altro canto i prodotti con cereali totalmente integrali sono, nell’Europa del Sud (a
differenza del Nord), fortemente penalizzati dal retaggio bellico e post-bellico, in cui il concetto di
“integrale” era associato a quello di indigenza e scarsità di risorse. Va detto anche che pane e pasta
prodotti con farine totalmente integrali non rispondono in toto ai criteri di gusto e di facilità di impiego
in cucina richiesti nelle nostre aree. Sicuramente l’industria del pane e della pasta ha le risorse
tecnologiche per offrire prodotti che meglio coniughino benessere e gusto; i primi esempi cominciano
a raggiungere il mercato, ma i margini di miglioramento ci sono e sono ampi.
D.: Si può quindi parlare di “nuova frontiera” dell’alimento integrale?
De Albertis: Sì. L’industria ha i mezzi tecnici e può contare sui volumi di materia prima necessari per
poter fare ricerca su come separare le varie frazioni della crusca in modo da ottenere quella più ricca
di vitamine (niacina, tiamina), minerali (fosforo, magnesio, ferro, zinco), antiossidanti (acido
ferulico) e fibre, più facile da lavorare e che dia prodotti gustosi. Tutto ciò si può trovare nello strato
aleuronico dei chicchi, che è lo strato cruscale più interno e vicino all’endosperma, ottenuto con
tecniche di estrazione peculiari, che è possibile mettere a punto e utilizzare nei mulini industriali su
grandi volumi e non in impianti artigianali.
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D.: Si tratta quindi di un’evoluzione in senso migliorativo dei prodotti che già troviamo sugli
scaffali. Si può a questo punto ipotizzare una richiesta di claim salutistico all’EFSA (Ente
regolatorio europeo per la sicurezza alimentare)?
R.: Per l’industria di pane e pasta il traguardo sarebbe davvero quello di aprire un nuovo mondo di
alimenti funzionali, ottenendo appunto un claim EFSA. Vorrei ricordare che, per le vitamine e i
minerali contenute nello strato aleuronico, i claim già ci sono da tempo. È compito dell’industria
sfruttare al meglio le proprietà del chicco, coniugando gusto, digeribilità e salute. Vorrei concludere
ricordando che questa evoluzione del concetto di “integrale” e della sua applicazione è in atto in tutto
il mondo.
INTERVISTA A LUIGI CRISTIANO LAURENZA
Segretario generale dell’Unione delle Organizzazioni dei Produttori di Pasta dell’UE
----------------------------------------------------------------------------------D.: Il comparto Pasta continua a essere portabandiera del Made in Italy nel mondo?
R.: Certamente. L’Italia mantiene saldamente la leadership per la capacità produttiva installata, la
qualità della produzione e l’export. Si pensi che un piatto di pasta ogni 4 nel mondo è italiano (25%).
In Europa il dato sale a 3 piatti su 4, ben il 75%. Il 55% di tutta la produzione nazionale viene esportato.
E non ne beneficiano solo i grandi marchi, ma anche i piccoli e medi produttori.
D: Come si comportano gli italiani con questo loro piatto nazionale?
R.: Molto bene direi. Ogni italiano consuma oltre 25 kg di pasta all’anno e, come hanno sottolineato
tutti i relatori prima di me, con ragione. Il profilo nutrizionale della pasta di qualità, qual è la nostra,
è indiscutibile e il suo inserimento, in quanto fornitore di carboidrati a lenta digestione, nei profili
nutrizionali approvati a livello nazionale e internazionale ne è la prova.
D.: E guardando oltre i nostri confini?
R.: Il successo della pasta made in Italy viene dalla sua versatilità in cucina, che ben si presta ad
essere adattata ai gusti e agli ingredienti locali, ma anche dal riconoscimento delle sue ottime qualità
nutrizionali, a fronte di un costo contenuto. Per questo è molto apprezzato sia nei Paesi Terzi, dove
spesso emerge la necessità di “Nutrire il Pianeta” coniugando frugalità e apporto nutrizionale, ma
anche nelle aree di eccesso alimentare, dove l’inserimento della pasta associata a verdure, legumi,
carne, diventa un ottimo “piatto unico”, in grado di soddisfare il gusto e assicurare buona salute
metabolica, grazie proprio alle sue caratteristiche.
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D.: Pasta in EXPO. Che cosa c’è in programma?
R.: Dopo la pubblicazione del Documento di Consenso Scientifico, annunciato oggi alla Conferenza
NFI-Università di Milano-UNAMSI, ottobre vedrà la celebrazione del WORLD Pasta DAY in sede
EXPO, dove il Documento sarà presentato ufficialmente a sancire, con la certezza dei dati di ricerca
e clinici, l’apporto fondamentale che la pasta di qualità Made in Italy dà all’”Energia per la vita”.