Fik Meijer, Il mondo di Ben Hur. Lo spettacolo delle corse nell`antica

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Fik Meijer, Il mondo di Ben Hur. Lo spettacolo delle corse nell`antica
Fik Meijer, Il mondo di Ben Hur. Lo spettacolo delle corse nell’antica
Roma, Laterza (collana «Economica Laterza»), Roma-Bari 2009, pp.
XI-243, ill., € 9.50 ISBN 978-88-420-9166-0 (a cura di Vincenzo Blasi)
A prestar fede all’ormai famosissima espressione di
Giovenale, panem et circenses, appare chiaro che il
popolo romano, oltre alla distribuzione gratuita del
pane, avesse molto a cuore le corse dei carri. Nei
giorni di festa, circa 150.000 spettatori riempivano le
gradinate del Circo Massimo per assistere a questo
particolare evento, l’unico in grado di tenere assieme
tutti gli strati sociali della popolazione romana:
senatori, cavalieri, governanti delle province vi
assistevano infatti accanto ai semplici cittadini, agli
schiavi e ai liberti. Diversamente da quanto avveniva
al Colosseo, uomini e donne sedevano vicini.
L’imperatore si trovava faccia a faccia con il suo
popolo che poteva manifestare, con fischi o grida di
approvazione, il proprio giudizio su di lui e sul suo
operato.
Eppure, nonostante l’enorme successo delle corse dei carri, la quantità di scritti
monografici sull’argomento risulta molto esigua. Ad esso i manuali di storia dedicano
poco spazio e il più delle volte ne parlano in concomitanza con l’altro grande
intrattenimento spettacolare, i combattimenti dei gladiatori.
Dopo aver raccontato il turbinoso mondo dei gladiatori (Un giorno al Colosseo. Il
mondo dei gladiatori), con questo saggio – per la prima volta pubblicato nella collana
«Economica Laterza» – Meijer ci parla dunque delle corse dei carri, analizzandone
l’aspetto agonistico e le implicazioni sociali e politiche, ripercorrendo le diverse fasi
della loro storia: dalle origini probabilmente mediorientali all’inserimento nei giochi
olimpici in Grecia, dall’arrivo a Roma fino alla diffusione nelle province dell’impero e
in Oriente. Insieme ai combattimenti gladiatorii e alle partite di caccia, anche questi
spettacoli agonistici furono accolti ovunque con entusiasmo.
Con una narrazione garbata ma ricca di dettagli che la rendono avvincente, lo
storico immerge il lettore nel cuore pulsante della Roma antica e nella bolgia del Circo
Massimo, svelando segreti e curiosità di una passione che infiammava tutti
indistintamente. Proseguendo, l’azione si sposta a Costantinopoli, capitale dell’impero
d’Oriente, dove questi spettacoli circensi si diffusero tra il IV e il V secolo – anche se
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con caratteristiche diverse rispetto all’Occidente – e vissero un momento di gloria,
mentre a Roma si avviavano verso il declino.
Il libro inizia proprio con il racconto di un giorno a Costantinopoli. Anche nella
nuova capitale, l’Ippodromo non era solo uno spazio organizzato dove la gente si
riuniva per divertirsi e trascorrere il tempo libero, ma anche il luogo in cui le diverse
classi della popolazione manifestavano il proprio malcontento. Proprio lo stadio di
Costantinopoli, il 19 gennaio 532, diventò lo scenario di un vero e proprio bagno di
sangue. Su ordine dell’imperatore, vennero atrocemente uccise oltre trentamila persone.
L’episodio fu soltanto l’epilogo di una settimana durante la quale nei quartieri della città
era scoppiata – al grido “Nika!” dei sediziosi – una grande insurrezione che fu sul punto
di rovesciare l’imperatore. Per quasi cinque anni, Giustiniano aveva dovuto frenare lo
scontento dei sudditi provocato dal drastico aumento delle imposte e dal suo
atteggiamento ritenuto troppo filo aristocratico. La sommossa e i violenti tafferugli
presero le mosse dall’accesa rivalità tra le tifoserie delle due grandi squadre, i Verdi e
gli Azzurri. Di fronte a questi disordini, che mal celavano un profondo disagio politico,
Giustiniano sembrò impotente, in parte per la sua natura esitante, ma soprattutto perché
si era apertamente schierato con la fazione degli Azzurri.
La scelta del luogo non fu dunque casuale. Anche quel giorno, sulle tribune capaci
di ospitare ottantamila spettatori, gli abitanti di Costantinopoli assistevano col fiato
sospeso ai giri compiuti dalle quadrighe sulla lunga pista. L’imperatore, grazie
soprattutto al coraggio dell’energica Teodora, decise di intervenire con l’esercito per
domare definitivamente la rivolta.
Dopo l’episodio di Costantinopoli, si torna a raccontare di Roma. Nei cinque
secoli della repubblica, la popolarità delle corse dei carri aumentò sempre più. Gli
intensi programmi giornalieri prevedevano fino a ventiquattro corse quotidiane.
Dappertutto – in Nord Africa, Spagna, Portogallo, Gallia e Medioriente – furono
costruiti stadi per accogliere aurighi e cavalli provenienti da tutte le regioni dell’impero.
Ma nessuno reggeva al confronto con il Circo Massimo. Costruito nella valle fra il
Palatino e l’Aventino, aveva una struttura enorme e imponente, con tribune altissime e
gradinate, su tre piani, in grado di contenere decine di migliaia spettatori. A partire dal
V secolo a.C. e per tutto il periodo imperiale, il suo assetto venne costantemente
ampliato e abbellito.
Del resto i circenses erano i ludi sportivi che il popolo prediligeva. Per assistervi
non si pagava il biglietto. Dopo una grandiosa processione che culminava con i sacrifici
agli dei, cominciavano le corse dei carri (curriculum bigarum o quadrigarum); il
circuito era tagliato da una spina – il muro divisorio della pista – dalle magnifiche
decorazioni, delimitata all’estremità da due colonnine (metae). La gara consisteva in
sette giri di pista in senso antiorario; l’abilità stava nel prendere le curve più strette
possibile per guadagnare terreno. I cocchi erano leggerissimi e ci voleva una grande
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perizia da parte dell’auriga per non rovesciarli. Le cadute rovinose erano un grande
attrazione per gli spettatori che accompagnavano con grida e acclamazioni i loro
beniamini. Per di più tutto era ammesso per ostacolare l’avversario e spingerlo a
fracassarsi contro le murate.
Con una cronaca leggera e coinvolgente, Meijer ci fa conoscere da vicino il
protagonista delle corse, l’auriga; ci porta a passeggio all’interno delle attrezzate
scuderie (factiones) della capitale, dove i corridori si allenavano e venivano addestrati i
cavalli; fino a farci sedere sugli spalti colmi di spettatori che, rigorosamente divisi in
tifoserie (anch’esse chiamate factiones), facevano sentire ai propri beniamini, proprio
come avviene nei moderni stadi di calcio, le urla e i cori di incitamento oppure i violenti
insulti. Sulle gradinate si formavano veri e propri gruppi organizzati. Legati alle
principali scuderie della capitale, prendevano il nome dal colore della squadra e del
vestito dell’auriga: i Verdi (factio prasina), gli Azzurri (factio veneta), i Bianchi (factio
albata), i Rossi (factio russata).
Tutti gli spettatori si lasciavano contagiare dall’atmosfera e dalla competizione
all’interno del circo, compresi l’élite e gli intellettuali che, proprio per questo, ne
parlavano assai di rado: probabilmente molti di loro sentivano un certo imbarazzo nel
manifestare apertamente la passione e l’attrazione smisurate verso un intrattenimento
popolare che, secondo l’etica diffusa, bisognava disdegnare. Scrittori come Seneca,
Plinio il Giovane e Tacito disprezzavano infatti le corse dei carri poiché a loro dire
suscitavano pericolose tensioni e istinti primordiali.
Nonostante provenissero da una bassa estrazione sociale e, tranne poche
eccezioni, venissero quasi tutti considerati individui abietti, gli aurighi erano
letteralmente idolatrati dal pubblico. E poteva persino succedere che anche i senatori
non resistessero al richiamo dell’ippodromo e si misurassero in gara con schiavi e
liberti. La gente infatti si identificava con gli aurighi più di quanto non succedesse con i
gladiatori: questi ultimi potevano combattere “solo” dieci-quindici volte all’anno e
spesso morivano molto giovani in un duello all’ultimo sangue. Invece, la carriera di un
auriga poteva essere molto lunga e redditizia. Diocle, un cocchiere del II secolo d.C.
originario della Lusitania, che correva per la squadra dei Rossi, in ventiquattro anni di
attività vinse tremila volte con la biga, accumulando un capitale astronomico di
trentacinque milioni di sesterzi. A Costantinopoli un auriga di talento poteva perfino
migliorare la propria posizione ed acquistare prestigio. Il leggendario Porfirio gareggiò
per molti anni in età avanzata, prima per la scuderia dei Verdi poi per quella degli
Azzurri. Nel 544, all’età di sessant’anni, tornò in pista e vinse. Sul trono c’era ancora
Giustiniano. Erano passati esattamente dodici anni dalla rivolta di Nika e dal
temporaneo divieto delle corse.
L’ultimo capitolo del libro è dedicato a Ben Hur, il pluripremiato film del 1959
diretto da William Wyler. In una delle scene madri è riproposta una corsa dei carri.
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Grazie alla popolarità della pellicola e alla regolarità con cui viene trasmessa in
televisione, sempre più persone hanno potuto conoscere queste competizioni. La gara è
ambientata in una provincia orientale dell’impero, a Gerusalemme, nel I secolo d.C. La
soluzione proposta, a metà fra la variante greca e quella romana, appare spettacolare, ma
è inutile chiedersi se si tratti di una ricostruzione fedele. L’importante è che, anche
davanti alla finzione cinematografica, gli spettatori continuino a guardare col fiato
sospeso.
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