Cosa cambia per noi - Aspen Institute Italia

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Cosa cambia per noi - Aspen Institute Italia
Cosa cambia
per noi
Atlanticus
Bush e Kerry sono portatori di visioni
diverse dell’America e di come gli
Stati Uniti possano recitare il ruolo di
unica superpotenza mondiale. Ma la
realtà è che – chiunque venga eletto
presidente – la politica della futura
amministrazione partirà condizionata
da fattori che Washington non controlla. Fra questi, l’atteggiamento dell’Europa. Al di là del minimo comune
denominatore europeo e atlantico, l’Italia può fare affidamento (se lo vorrà) sulla continuità nel rapporto bilaterale con gli Stati Uniti, vinca l’uno o
l’altro candidato alla Casa Bianca.
Bush e Kerry sono entrambi in buona fede quando promettono
una politica estera diversa (l’uno dall’altro), ed è una novità in
America, dove la bipartisanship di fondo ha accompagnato le
relazioni internazionali di Washington da Pearl Harbor alla fine del XX secolo1.
Hanno quindi apparentemente ragione quanti, in Europa e in
Italia, si attendono politiche estere americane distinte a seconda che vi sia o meno un cambio di guardia alla Casa Bianca; il
“tifo” estero rispettivamente per Kerry o (in misura molto minore) per Bush è perfettamente comprensibile. Non vi è dubbio
che l’elezione dell’uno o dell’altro faccia differenza, e notevole, per l’America. Quanto la possa fare anche per il mondo è
più aleatorio. Dipenderà da quanto il futuro presidente sarà libero di prendere le iniziative e perseguire le politiche più consone alla propria visione e alle priorità enunciate in campagna
elettorale. In realtà, chiunque vinca sarà fortemente condizionato dalle circostanze, dalle crisi in atto o all’orizzonte, dai vincoli interni ed esterni e dalle risposte e reazioni degli europei
(“vecchi” e “nuovi”), degli altri principali partner e/o controparti e dei regimi ostili (Iran, Siria, Corea del Nord).
Sia il rieletto presidente Bush che il neopresidente Kerry esordirebbero con un’agenda già fitta di problemi e di scadenze,
con un dispositivo militare di superiorità indiscussa ma overstretched. Quattro anni fa,
quando Bush entrò alla Casa Bianca per il primo mandato, la situazione internazionale (e degli Stati Uniti) era completamente differente dall’attuale. Non c’era un Iraq
invaso, non una guerra al terrorismo in corso, non una Corea del Nord dichiaratamente nucleare, e così via. Nel gennaio 2005 è invece caratterizzata da un groviglio
di nodi, alcuni dei quali potrebbero venire al pettine molto rapidamente, entro mesi
piuttosto che anni; altrove fermentano situazioni difficili, dal Caucaso al Venezuela
petrolifero di Chavez, che in qualsiasi momento possono varcare la soglia della crisi.
Quali che siano le rispettive priorità, il futuro presidente dovrà adattarle, aggiustarle e talvolta rinviarle. Si troverà spesso a reagire o a continuare iniziative già intraprese (leggi Iraq, Afghanistan) piuttosto che a prenderne di nuove. Le piattaforme
elettorali dei due candidati forniscono un’indicazione parziale e molto approssimativa di quale potrà essere la loro politica estera effettiva; più illuminanti semmai sono
le rispettive personalità e i collaboratori o le idee cui fanno riferimento. Sia per Bush
che per Kerry si possono immaginare in teoria due scenari, con l’avvertenza che la
pratica se ne discosterà comunque. Anche perché uno dei fattori determinanti della
futura politica estera americana è un’incognita: la prossima “crisi inattesa”.
L’incognita iniziale. Il contesto attuale è particolarmente denso di crisi in corso (in
primis Iraq) o in agguato, ma ancora più dirompente per una nuova amministrazione
(quindi più per Kerry che per Bush2) è lo scenario di una crisi inattesa. Per definizione, può prodursi o meno. Vi sono tuttavia buoni motivi perché avvenga: il cambio
della guardia spinge i rivali a mettere alla prova la nuova gestione, dal canto suo più
vulnerabile a distrazioni. Quando avviene, lascia il segno.
I precedenti abbondano: la Baia dei Porci per Kennedy, l’invasione dell’Iraq per
Bush padre, Mogadiscio per Clinton, l’11 settembre per Bush figlio3. Non è tanto la
gravità della crisi che conta quanto l’impreparazione dell’amministrazione a gestirla.
È un contropiede. La risposta potrà anche essere una rivincita (guerra del Golfo) o un
recupero (Kennedy), ma in un primo momento l’effetto è negativo, spesso amplificato rispetto alla causa.
Il fallimento in Somalia, operazione iniziata dalla presidenza Bush, condizionò pesantemente Clinton e fece del nation building un anatema politico; si può arguire che ritardò il coinvolgimento americano nei Balcani di due anni, fino a che non divenne moralmente più che politicamente inevitabile: senza Mogadiscio, forse non vi sarebbe stata Srebrenica (e il genocidio del Ruanda avrebbe potuto prendere una piega diversa).
Più della crisi in sé, sono questo tipo di conseguenze che ne fanno un defining factor di una nuova presidenza. Prima e dopo non è più la stessa. Più specificamente (e
questo vale in parte anche per un’amministrazione rieletta) la crisi, non essendo fra
quelle “previste” e messe in conto, non trova una risposta già pronta. La presidenza,
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ancora all’esordio, è costretta a discostarsi dal programma e dalle priorità con cui era
partita, scopre nuovi nemici e nuovi amici, mette alla prova gli alleati, verifica rapporti già collaudati. E si domanda cosa fare nelle nuove circostanze. In pratica, è
quello che è avvenuto – drammaticamente – con l’11 settembre.
L’11 settembre è sperabilmente irripetibile. Ma il tratto comune delle crisi incognite
nel primo anno di presidenza è che danno un’impronta e una piega spesso decisiva
alla politica estera dell’amministrazione. L’effetto finale può anche essere positivo, di
una frustata salutare o di un campanello d’allarme.
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Bush 2: continuità unilateralista o internazionalismo prudente? Teoricamente il solco della politica estera del secondo mandato è tracciata dal primo. Quindi, continuità4. Ma a quale Bush fare riferimento per la continuità in politica estera
nel secondo mandato: a quello del marzo 2003 (intervento in Iraq senza curarsi del
Consiglio di Sicurezza) o a quello del giugno 2004 (risoluzione 1546 dello stesso
Consiglio, G8 di Sea Island, vertice NATO di Istanbul, trasferimento di sovranità al governo interinale iracheno sotto gli auspici – più o meno – dell’inviato speciale dell’ONU, Brahimi)?
L’uno o l’altro prospettano due approcci alle relazioni internazionali non antitetici,
ma profondamente diversi. Bush non ne rinnegherà mai alcuno (il riconoscere cambiamenti di rotta non fa parte del suo vocabolario), ma le scelte del prossimo Gabinetto (specie i posti chiave) diranno implicitamente in che direzione vuole andare.
Descriverle schematicamente è abbastanza semplice.
Prima ipotesi: conversione al (molto) relativo multilateralismo degli ultimi mesi. Come ha già fatto in Iraq, Bush è costretto, in generale, a prendere atto che “l’America,
da sola, non ce la fa” a gestire le crisi, specialmente nella fase post conflitto, come
del resto gli vanno ripetendo vari repubblicani doc, come i collaboratori del padre5.
Inoltre, con centomila e più uomini bloccati nel triangolo sunnita e dintorni manca-
no le forze militari per altre invasioni. La dottrina della guerra preventiva va messa
(temporaneamente?) in naftalina, fatta eccezione per eventuali campagne aeree e/o
interventi chirurgici. Fatta di necessità virtù, la seconda amministrazione Bush raddoppia gli sforzi nella controproliferazione (Iran, Corea del Nord) sia attraverso le
istituzioni multilaterali classiche (AIEA, Consiglio di Sicurezza), sia attraverso formule à la carte (Proliferation Security Initiative; terzetto franco-tedesco-britannico per
dialogare con Teheran; six-party talks con Pyongyang); comunque senza più agire
unilateralmente, se non di fronte a un’emergenza nazionale6. Questo implica più Nazioni Unite, ma anche più NATO, e più convintamente; più Powell (che in tale contesto potrebbe anche rimanere) e molto meno Rumsfeld (che con ogni probabilità lascerà, troppo corroso dagli insuccessi della pianificazione in Iraq e dall’onda lunga
di Abu Ghraib). A Washington, un sano conservatorismo internazionalista e realista
subentra così alle illusioni utopiche dei neoconservatori. Probabilità: 40%.
La seconda alternativa è che “la rielezione dimostri (a Bush) di aver avuto ragione”:
perché cambiare l’impostazione ideologica della politica estera? Negli ambienti lealisti che circondano il presidente, la risposta ovvia (perché non funziona) non è affatto pacifica. E soprattutto, quali sono le alternative? Per Bush il bilancio dello scorcio multilateralista degli ultimi mesi non è molto soddisfacente. La risoluzione 1546
non ha portato alcun beneficio in termini di truppe per l’Iraq; l’ONU non è nemmeno
riuscita ad arruolare una forza di protezione. Dalla NATO, Bush ha ottenuto solo l’impegno all’addestramento delle forze armate irachene, con continue difficoltà frapposte da Parigi e Berlino. Ancora peggio, gli europei non riescono a mettere in campo
gli uomini e i mezzi necessari in Afghanistan. Che conclusione trarne, ai fini di questo presidente, se non che l’approccio non funziona?
Giunto al secondo mandato, un presidente non ha più bisogno di fare concessioni o
compromessi. Può seguire i propri istinti e quelli di Bush sono inequivocabilmente
unilaterali. “Non negozio con me stesso” è la sua famosa definizione di come affron-
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tare interlocutori discordi, mentre offrire di incontrarli a metà strada è l’essenza del
multilateralismo.
Questo secondo Bush unilaterale non sarebbe identico al primo. Limitato dall’overstretching militare, (forse) reso più saggio dall’esperienza irachena che ha dimostrato la fallacia dell’utopia neoconservatrice pura, favorito dal ricambio di personale,
che gli permette di varare una squadra più pragmatica7, il presidente propenderà per
un unilateralismo più realistico e più prudente nell’intraprendere nuove avventure
(niente Siria, a meno di esserci tirato per i capelli da Assad, o da Sharon...). La “guerra al terrorismo” rimarrà la priorità numero uno e gli alleati e partner saranno misurati in base alla loro capacità e volontà di contribuirvi. Probabilità: 60%.
Per gli europei e per la NATO il test di come regolarsi con la rieletta amministrazione
repubblicana sarà innanzitutto l’Afghanistan. Passi l’Iraq, dove è ormai chiaro che la
spaccatura non si rimargina, ma sull’Afghanistan non ci sono divergenze politiche
profonde. Può l’Alleanza dimostrare di essere ancora lo strumento d’elezione della solidarietà transatlantica? La partita si gioca a Kabul, a Kandahar e a Mazar-i-Sharif.
Più a lungo termine, gli europei dovranno decidere come regolarsi con la seconda
amministrazione Bush. Tedeschi e francesi, e le opinioni pubbliche continentali
(compresa quella britannica), hanno fatto apertamente il tifo per Kerry. A giugno,
Chirac e Schröder8 si sono limitati alle minime concessioni possibili per salvare le
apparenze di una ritrovata solidarietà euro-americana. Dopo novembre verrà il momento di scoprire le carte. Collaborazione o “contrappeso”? Il corso della seconda
amministrazione Bush – che non ha interesse ad antagonizzare l’Europa9, né “vecchia” né “nuova” (altro errore di Rumsfeld che il nuovo team eviterà di ripetere) –
dipenderà in buona parte dalle scelte dei governi europei e di Bruxelles, dove pure,
senza tanta pubblicità, il cambio della guardia da Prodi a Barroso contiene un mutamento profondo di atteggiamento.
Kerry 1: cosa promette e cosa otterrà. A poche settimane dal voto10, la politi-
ca estera del candidato democratico resta un’incognita. Ovvero, su tutte le questioni
spinose, a cominciare dall’Iraq, si limita a dire che “farebbe meglio di Bush”. Sul come riuscirci è sempre piuttosto vago. Un punto fermo, sia nella critica che nel farsi
propositivo, è il recupero di friends and allies e dell’immagine dell’America nel mondo. Kerry ne ha fatto un tema costante di campagna elettorale, toccando evidentemente qualche corda sensibile nel pubblico. L’antiamericanismo dilagante, non solo
in Europa11, ma in Asia, in America latina, per non parlare del mondo arabo, colpisce nel vivo dell’immaginario collettivo anche in una nazione che si ritiene al di sopra di tutte le altre. A nessuno piace non piacere.
Kerry ha nel contempo: a) accusato l’amministrazione Bush di aver gettato alle ortiche
oltre mezzo secolo di politica estera (bipartisan) ancorata saldamente alle istituzioni
multilaterali (l’ONU è una creazione americana, per non parlare delle istituzioni di
Bretton Woods) e poggiante su solide e durature alleanze, NATO in primo luogo, Giappone e Corea del Sud in Estremo Oriente; b) promesso di tornarvi. Musica per le orecchie dei governi e dei parlamenti a Berlino e a Seul. Senonché il senatore del Massachusetts ha anche promesso (agli elettori) che così facendo riuscirà a ottenere dai
friends and allies quello che oggi negano a Bush, cioè truppe per l’Iraq e per altre
eventuali crisi e appoggio politico per le iniziative di Washington. Il primo problema
che si porrà al neoeletto presidente Kerry sarà di darvi seguito, il che non dipenderà
dalla sua buona volontà, ma da quella di Chirac, Zapatero, e così via. E il nuovo presidente americano non avrà molto tempo per dimostrare di non aver parlato a vuoto.
Non vi è il minimo dubbio che Kerry intenda rilanciare immediatamente l’immagine
di un’America atlantica e multilateralista. Né che godrà di una luna di miele iniziale con quanti, in Europa e altrove, nasconderanno a malapena il sollievo per essersi
liberati di Bush. Vi sarà un marcato cambiamento di tono e di atmosfera, forse iniziative di visibilità del nuovo presidente a New York, dove le Nazioni Unite celebreranno il 60° anniversario, e nei confronti dei leader europei. Ma poi?
I due scenari che si possono tracciare per la politica estera di un’amministrazione democratica derivano dall’accettazione o rigetto che le aperture di Kerry troveranno in
Europa e altrove. Paradossalmente, più dalle risposte delle grandi capitali europee, di
Bruxelles, di Pechino, dagli equilibri in Consiglio di Sicurezza, che dalla stessa Washington, almeno nella prima fase (anno) del mandato. Kerry costringerà gli europei che
si sono opposti a Bush, Francia in prima fila, a venire allo scoperto: è stata un’opposizione tattica, contro l’unilateralismo della presente amministrazione, o è un’opposizione strutturale, in cui si esprime la volontà di imbrigliare l’hyperpuissance americana in una tela multipolare? E lo scopo ultimo dell’Unione Europea è di essere partner o “contrappeso” (e, magari in futuro, concorrente)?
Quanto sono disposti, i friends and allies, ad aiutare non il candidato Kerry, ma il presidente Kerry, che avrà bisogno non di parole, ma di fatti? Tenuto conto che, a differenza di Bush, non esiste un metro di paragone, ecco, in estrema sintesi, i due corsi
di politica estera che si aprono a una futura amministrazione democratica.
Primo scenario. L’approccio di Kerry funziona, l’America torna a un multilateralismo
perseguito da posizioni di forza, che ricorda più la diplomazia “muscolare” di Holbrooke e Albright che non quella negoziatoria di Christopher (al Qaeda e Kim Il Sung
non consentono né distrazioni né temporeggiamenti), con l’Europa si ristabilisce un
rapporto di fiducia (che ora è incrinato – e viceversa) fondato sulla percezione di “essere sulla stessa barca” e che le divergenze sono tattiche (e superabili), non strategiche. È un rinnovato atlantismo, fondato sulla realtà degli interessi e minacce comuni più che sulla retorica dei valori condivisi.
In campo democratico, ci si rende conto del divario fra le promesse di Kerry e l’ef-
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fettiva disponibilità degli europei ad andargli incontro. I segnali dalle capitali chiave, Parigi e Berlino, non sono molto incoraggianti, specie sull’Iraq, specie sull’eventuale burden sharing militare12. Idem per un accresciuto ruolo della NATO, in Iraq e in
Afghanistan: può fare di più in modo incrementale (come potrebbe fare per un rieletto
Bush), ma difficilmente si avrà un salto di qualità e di quantità.
Speculativamente, il banco di prova e la migliore opportunità per una ritrovata unità
d’intenti e d’azione fra Europa e Stati Uniti è la questione nucleare iraniana. L’Iran è
con ogni probabilità il prossimo grosso show-down. Washington non può accettare un
Iran nucleare13. Se europei e americani maturano un approccio congiunto e coerente,
che riesca – partendo dalle pressioni diplomatiche fino a giungere all’estremo di contemplare (ove tutto il resto, vale a dire AIEA, Consiglio di Sicurezza, sanzioni economiche, fallisca) l’intervento militare (quanto più possibile chirurgico) – nell’ardua
impresa di fermare il programma atomico iraniano14, allora verrebbero gettate le basi di una nuova “grande intesa” transatlantica. Su questo terreno, a differenza di
Bush, Kerry ha la credibilità per mettere tutte le carte sul tavolo degli europei15. Disinnescando insieme la principale minaccia al regime di non proliferazione, Stati Uniti ed Europa dimostrerebbero che l’Alleanza c’è ancora e che funziona.
Secondo scenario. Kerry è accolto con belle parole e col tappeto rosso, ma a parte i
complimenti non ottiene molto di più di Bush. Gli USA e gli altri paesi della forza multinazionale rimangono soli in Iraq; le pressioni su Teheran e Pyongyang prendono
tempo e i due regimi continuano ad avanzare sulla strada dell’atomica; in Afghanistan, l’ISAF rimane sotto i livelli minimi necessari per sostenere efficacemente l’eletto governo Karzai in tutto il paese; i veti incrociati alle Nazioni Unite impediscono
un efficace intervento in Sudan e il Darfur diventa teatro di un continuato genocidio.
Cosa rimane da fare per Kerry? Da candidato non ha offerto una strategia alternativa. Tutte le speranze di “far meglio di Bush” sono legate all’internazionalizzazione
delle responsabilità e al maggior burden sharing con gli alleati. L’America ha naturalmente i mezzi e le capacità per andare avanti in relativo isolamento. Respinta, farà da sola quello che può fare (che è sempre molto) e cercherà gli alleati ad hoc a seconda delle necessità. Non sarebbe esattamente un confluire nell’unilateralismo arrogante del primo Bush e dei neoconservatori, quanto un multilateralismo tradito, e
pertanto più pericoloso e instabile16.
Ancora più insidiose sarebbero le conseguenze dell’atlantismo tradito. Fra l’altro,
stanti le varie pendenze del contenzioso economico-commerciale transatlantico (gestite piuttosto bene dall’amministrazione Bush), le controversie all’orizzonte e le pulsioni protezionistiche in campo democratico, le ferite di un dissenso politico esacerberebbero i rapporti con l’UE in un campo fondamentale per le rispettive economie e
per l’economia mondiale. Gli effetti sarebbero devastanti, e su scala mondiale.
Se neppure il filoeuropeo e francofono Kerry riesce a riannodare le fila del rapporto
Europa-Stati Uniti, alla fine non rimarrebbe che stilare l’atto di morte dell’atlantismo
come lo conosciamo. Sopravvivrebbero le istituzioni, la NATO rimarrebbe utile per l’interoperabilità militare, per la stabilità in Europa, per il dialogo con la Russia. Ma lo
spirito atlantico, che ha animato due generazioni politiche su entrambe le sponde, che
ha tenuto nella guerra fredda e che ha dimostrato una residua vitalità nella transizione post sovietica e post jugoslava degli anni Novanta, sarebbe giunto al capolinea.
L’Europa starà a guardare? Fino all’election day non può fare altro. Gli istinti di
simpatia sono inevitabili, ma i tentativi di aiutare l’un candidato o l’altro sono futili,
se non controproducenti17.
Tuttavia, se le quattro ipotesi sopra delineate vanno ritenute fondate (ben sapendo
che sono schemi astratti e che il reale ha un’irresistibile tendenza a non conformarsi
al razionale), le prospettive della futura politica americana (specie) nei confronti dell’Europa dipendono anche... dall’Europa. It takes two to tango.
Con Bush rieletto le opzioni europee saranno più limitate, ma è chiaro che la direzione che la Casa Bianca prenderà fra i due estremi, unilateralismo ravvivato o multilateralismo condizionale, più che da una prevenzione ideologica sarà dettata da un calcolo pragmatico di convenienza: cosa vi sia da perdere e da guadagnare nel rapporto
con la NATO, con l’UE e con le Nazioni Unite. È un quesito cui Washington non può rispondere da sola; l’input deve venire d’oltre Atlantico, specie da Parigi, Berlino e Bruxelles. In caso di vittoria democratica, la risposta europea può addirittura fare la differenza fra la riconquista della solidarietà atlantica e la deriva reciproca verso una
frattura d’intenti e dispersione di energie e risorse dalle imprevedibili conseguenze.
C’è chi, in Europa, si augura (a mezza voce) che la fine dell’atlantismo segni il decollo dell’europeismo, affrancato dalla tutela americana. Che, per essere unita, l’Europa debba differenziarsi dagli Stati Uniti (se non contrastarli). Può darsi, ma per ora
non è stato certo così.
La prospettiva opposta è che la spaccatura fra le due sponde dell’Atlantico si ripercuota
in un’Europa allargata, frantumando in concorrenze (se non rivalità) nazionali la spinta unitaria di mezzo secolo. Lungi dal consolidare la coesione europeistica le tensioni
con gli Stati Uniti dividono gli europei: così è stato nel 2003. L’accordo sul Trattato costituzionale conforta (illude?) gli euro-ottimisti, ma il fuoco cova sotto le ceneri.
Da parte americana, la miopia di puntare sulla “disaggregazione” dell’Europa rischia
di coltivare divisioni che inevitabilmente producono instabilità in un continente dove vi sono ancora almeno tre processi di assestamento in corso: Balcani; area ex sovietica (Ucraina, Bielorussia, più conflitti “congelati” della Moldova e del Caucaso);
la risorgente Russia di Putin. La storia non insegna mai niente?
Da parte europea, il disegno grandioso di un’Europa unita che faccia da contraltare
e “ridimensioni” la superpotenza americana ha un richiamo potente, ma è una Gran-
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de Illusione. Per un motivo molto semplice: una grossa fetta di Stati, governi e opinioni pubbliche europee, non ci stanno. E naturalmente gli americani lo contrasterebbero (e hanno mezzi e influenza per farlo): perché mai non dovrebbero opporsi a
un progetto che va dichiaratamente contro i loro interessi?
Il time out pre-elettorale è l’occasione buona per riflettere a mente fredda sugli errori degli ultimi due anni e sulla piega disastrosa cui potrebbero condurre. Con la
nuova amministrazione verrà il momento di porvi rimedio o di subirne definitivamente le conseguenze.
Il secondo Bush non sarà necessariamente uguale al primo. Con Kerry i giochi sono
aperti, purché gli europei non si attendano un presidente “europeo”. Per diverso che
sia (e lo è) l’uomo Kerry, la politica estera del presidente Kerry sarà sempre più vicina a quella del predecessore che non a quella favorita da qualsiasi leader europeo
(continentale e non).
Sta parimenti agli europei decidere dove vogliono andare: se con l’America o per la
propria autonoma strada. Troppo spesso l’Europa cede alla facile tentazione di criticare Washington quando fa troppo (Iraq, Kosovo) e quando fa troppo poco (Sudan, Liberia, Bosnia pre 1995). Damned if you do, damned if you don’t.
La partnership atlantica comporta un prezzo che al momento non tutti gli alleati stanno pagando. Dopo il voto di novembre, chiunque vinca, gli europei dovranno decidere se vogliono fornire o meno il loro contributo e a quanto ammonta. E se farlo in blocco, come UE e come partner nella NATO, oppure singolarmente e divisi, come sta avvenendo adesso. Dovranno decidere se, al di là delle dichiarazioni, la loro percezione
delle minacce (terrorismo, proliferazione) e delle sfide globali (HIV/AIDS, lotta alla povertà, narcotraffico, diritti umani) coincida, e quanto coincida, con quella americana.
Quanto consenta di lavorare insieme. Quanto accettino lo status quo (per esempio, nel
Grande Medio Oriente) oppure convengano sulla necessità di trasformarlo. Scelte difficili, ma andranno fatte se l’Europa vuole contare nel rapporto con l’amministrazione
americana e vuole influire anziché subire la politica estera del nuovo presidente.
E l’Italia? Paradossalmente (ma è un paradosso solo apparente), le scelte dell’Italia
sono più semplici e relativamente lineari. L’attuale rapporto privilegiato bilaterale
Washington-Roma viene spesso identificato con quello, pure eccellente, Bush-Berlusconi. E non vi è dubbio che, dato lo stile del 43° presidente americano, l’empatia
personale abbia un grosso peso nel dialogo (o non dialogo) che Bush intrattiene con
i principali leader mondiali.
Tuttavia il vero asset dell’Italia a Washington non si chiama Silvio Berlusconi: si chiama Nassirya, ISAF e Enduring Freedom. Kerry, in cerca di aiuto dagli alleati europei,
ne avrà altrettanto bisogno quanto Bush. Egli non potrà certo permettersi di perdere
gli italiani, per correre dietro a un fantomatico aiuto francese in Iraq. Fattore perso-
nale a parte (superabile), anche con un presidente diverso, Roma parte con una rendita di posizione.
Una rendita, fra l’altro, costruita non ieri, ma nell’arco di dieci anni con una continuità bipartisan (il diniego della stessa da parte di governo e opposizione italiana è
altrettanto bipartisan) di politica estera e d’impegno politico-militare: Bosnia, Albania, Kosovo, Timor Est, Afghanistan, Iraq. L’Italia si è conquistata credibilità: dato
storico e politico che non sfuggirà a qualunque futura amministrazione.
La vittoria dell’uno o dell’altro candidato, e i quattro scenari ipotizzati sopra, comportano d’altra parte conseguenze anche per l’Italia. Roma non può non risentire del
clima generale dei rapporti transatlantici. Il timore che, con Kerry presidente, l’Italia faccia le spese di un rapprochement americano con Parigi e Berlino, ad esempio
sulla vexata quæstio dell’allargamento del Consiglio di Sicurezza, non è campato per
aria, ma non è neppure una profezia destinata da avverarsi18.
Lo status dell’Italia in una Washington democratica dipenderà da come Roma giocherà le sue carte (non trascurabili) con la nuova amministrazione. Sarà forse una
partita più difficile che non con una seconda amministrazione Bush, ma l’Italia parte ugualmente in vantaggio su molti altri “alleati”, atlantici e non.
L’attuale fase di rinazionalizzazione delle politiche estere delle maggiori capitali europee, acceleratasi dopo l’11 settembre, impermeabile al Trattato costituzionale e,
probabilmente, alle incipienti figure istituzionali (ministro degli Esteri, Servizio diplomatico europeo), comporta per Roma i consueti rischi di esclusione o di marginalizzazione. Comporta, a monte, la necessità di un più incisivo apprezzamento e di una
chiara visione degli interessi nazionali, sia pure all’interno delle cerchie regionali e
internazionali cui l’Italia appartiene. Parlare di interessi “nazionali” non significa
evocarli in conflitto con i più ampi interessi europei e atlantici del paese. Al contrario, tradizionalmente, obiettivo precipuo per l’Italia è sempre stato di evitare che la
dimensione atlantico/mediterranea collida con quella continentale19.
Resta il fatto che il riferimento a Comunità (oggi Unione) europea e Alleanza atlantica, che ha soccorso cinquanta e più governi italiani del dopoguerra, non basta più.
Le Nazioni Unite, sempre più spesso invocate per difetto d’altra ispirazione, sono la
somma e il compromesso – ove raggiungibile – delle individualità (e delle rivalità)
di oltre 190 Stati.
Nell’acrobatico contesto mondiale di questo inizio secolo, il rapporto bilaterale e atlantico con Washington è per l’Italia una risorsa preziosa e un ancoraggio stabile. E
rimarrà tale – se Roma lo vorrà (Zapatero insegna cosa “non fare” e, soprattutto, “come non farla”) – sia con Bush o che con Kerry.
Ne vale la pena? Gli italiani si domandano cosa abbia ottenuto l’Italia di Berlusconi dall’aver legato così strettamente le proprie sorti all’America di Bush, specie in
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Iraq20. È giusto chiederselo, anche se sembra spesso che chi si pone l’interrogativo
conosca già la risposta. Chi ritiene che la scelta di seguire gli americani in Iraq sia
stata un errore è già convinto che il bilancio sia negativo – comunque – e viceversa.
Per pregiudicare il meno possibile le conclusioni, la questione va scomposta.
Primo, è troppo presto per tracciare un bilancio. Iraq, Afghanistan, guerra (che gli
italiani preferiscono chiamere “lotta”) al terrorismo sono processi in corso.
Secondo, non è “l’America di Bush”; è, in buona misura, l’America tout court. Con Kerry
potrà cambiare la politica estera, non cambieranno gli interessi nazionali americani.
Infine, prima dell’utilaristico “cosa abbiamo guadagnato da Bush” (reminiscente di pagine poco felici della storia nazionale), gli italiani potrebbero domandarsi “perchè siamo stati (e siamo) con Bush”. Scartate come troppo ingenue le risposte “alla Blair” (la
tesi del primo ministro inglese, malgrado il clamoroso buco nell’acqua delle armi di distruzione di massa, è che era ed è la cosa giusta da fare: quando c’è un cancro va estirpato e dopo l’operazione bisogna continuare la cura e non abbandonare il paziente), rimane la fedeltà all’alleanza in quanto tale. È un argomento realistico e politicamente valido. Gli amici si vedono nel momento del bisogno e l’America “aveva bisogno” dell’Italia. A buon rendere... (o meglio, era il nostro turno di rendere qualcosa dopo i sacrifici
americani per l’Europa: tre guerre, due calde e una fredda nello spazio di settant’anni).
L’Italia lo ha pagato sul lato dell’Europa? Sì, se l’Europa è la Francia, la Germania,
il Belgio; no, se l’Europa è la Polonia, l’Olanda, la Gran Bretagna (la Spagna è a puntate). Di fronte alla prima grave crisi del XXI secolo “l’Europa” si è rivelata un coacervo di politiche e reazioni nazionali. Da una parte Berlino, Parigi (e Mosca); dall’altra Washington, Londra, Copenaghen, inizialmente Madrid. L’Italia non aveva
un’alternativa “europea”.
La rinazionalizzazione delle politiche estere è avvenuta prima dell’Iraq. È scattata
dopo l’11 settembre (il che significa che era nell’aria prima). Roma si è trovata improvvisamente a combattere contro l’eterna sindrome dell’esclusione21 dai gruppi ristretti e, trattandosi di riunioni fra europei, senza poter far affidamento sulla sponda
americana22. Per l’Italia questo oggi è un problema latente23.
Che fare di fronte a un’Europa che non esiste come politica estera24 e a capitali europee che si chiudono a riccio? mantenere il rapporto privilegiato con gli USA non sarà il toccasana per tutti i mali, ma almeno copre le spalle geopolitiche dell’Italia.
Non si può continuare a guardare all’età dell’oro dell’integrazione europea (paesi
fondatori, comunità a Sei o a Nove/Dieci, contesto di guerra fredda) come metro di
misura del peso e del ruolo dell’Italia in Europa. È quanto meno dubbio che senza il
cordone ombelicale atlantico l’Italia “conterebbe di più” o sarebbe più ascoltata a
Parigi o Bruxelles. A parte le belle parole delle cancellerie e la popolarità nelle opinioni pubbliche, cosa ha guadagnato in Europa la Spagna di Zapatero rispetto a quella di Aznar? O è avvenuto il contrario?
È vero che sul piano strettamente utilitaristico dei “ritorni” il governo Berlusconi non
ha ancora incassato molto dall’amicizia speciale con Washington. Ma se la relazione
bilaterale privilegiata si vuole valutare anche alla stregua di un investimento in affari internazionali, allora è ancora presto per tracciare bilanci. In settori come l’industria della difesa, la cooperazione scientifica e l’alta tecnologia, i ritorni si misurano
nel medio-lungo periodo, non nell’arco di due-tre anni.
Certo, scarseggiano i contratti e le forniture per la ricostruzione dell’Iraq. Ma scarseggia anche la ricostruzione dell’Iraq e, per saggio riflesso, l’entusiasmo delle ditte
italiane per la Mesopotamia. Non sono in molti gli operatori a volerci andare... a meno di chiamarsi Bechtel o Halliburton.
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È stata l’attuale Presidenza a dare intenzionalmente un segnale di rottura col predecessore. Fin dal’inizio, George W. Bush ha voluto caratterizzare la propria politica estera come “diversa da quella di Clinton”. Anything but Clinton è stato lo slogan, non tanto del dipartimento di Stato, ma della Casa Bianca
e del Pentagono. L’11 settembre lo ha rafforzato. In Europa sono stati notati Kyoto, il Tribunale penale
internazionale ecc., ma il caso più significativo è stato il cambiamento radicale nell’approcio alla crisi
israelo-palestinese dove Washington (con notevole aiuto da parte di Arafat) ha abbandonato il ruolo di
honest broker per quello di avvocato difensore di Israele (e di Sharon).
Al contrario, Clinton nel 1992 aveva sottolineato fortemente la continuità in politica estera. Il precedente più assimilabile di rottura col passato è rappresentato dalla presidenza Reagan nel 1980, ma si
trattò più di una differenza (non trascurabile e tutt’altro che priva di effetti, in America e nel mondo) di
tono e di visione più che non di sostanza. I pilastri (come la NATO) rimasero immutati, per certi versi rafforzati. D’altro canto alcuni aspetti della politica reaganiana (come il forte aumento delle spese militari) non fecero che continuare e adattare iniziative già avviate dall’ultimo Carter.
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Ma anche una seconda amministrazione repubblicana si presenterà con importanti cambiamenti di
personale, specie nel foreign policy team, che comprende tradizionalmente segretario di Stato, segretario della Difesa, National Security Advisor, nonchè direttore della CIA.
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Analoga sorte non ha risparmiato molti governi italiani: Albania per Prodi, Ocalan per D’Alema, Genova per Berlusconi.
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Almeno di partenza. La realtà è che in otto anni i presidenti si trasformano (o si adattano alle trasformazioni della scena internazionale): basti pensare a Reagan che esordì con l’Impero del Male e finì il
secondo mandato passeggiando sulla Piazza Rossa con Gorbaciov. E, di nuovo, non solo in America: pochi ricordano che, prima dell’attuale politica di “contrappeso” agli USA, Chirac iniziò con l’obiettivo di
far rientrare la Francia nella struttura militare della NATO.
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Scowcroft, Baker; Lugar e Hagel in Senato; all’interno dell’amministrazione Powell e Armitage forse
non lo dicono, ma certamente lo pensano.
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Che la sicurezza nazionale non possa essere “delegata” a nessuna istanza multilaterale è un assioma
bipartitico della politica estera americana (ci si può domandare se solo degli Stati Uniti). Kerry lo ha
esplicitamente confermato. In caso di clear and present danger Washington, sotto qualsiasi presidente,
non attenderebbe le deliberazioni del Consiglio di Sicurezza, ma agirebbe autonomamente per la protezione dei propri interessi vitali.
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Sarà la vera cartina di tornasole delle intenzioni di Bush. La probabile uscita di scena di Rumsfeld,
Powell (e Armitage), Ashcroft segnerebbe la fine di quella che i critici chiamano un’amministrazione
“disfunzionale”: disciplinata sì, ma profondamente divisa. Una permanenza di Wolfowitz starebbe a indicare che la posizione neoconservatrice mantiene una forte influenza.
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Nei confronti del quale, si invertono i ruoli. Adesso sarà Washington che può puntare sulla sua sconfitta da opera dei cristiano-sociali.
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Oltre che in Afghanistan, Washington ha bisogno degli europei per confrontare l’Iran sulla proliferazione nucleare (vedi di seguito) e su altri teatri, come il Darfur, dove non può agire da sola; Bush ha già
manifestato esplicitamente l’importanza che la candidatura di Ankara all’UE non subisca ulteriori rinvii
(altro tema bipartisan: da Kerry ci sono da attendersi forse un approccio più sottile, ma altrettante pressioni pro turche; l’aggancio della Turchia all’Unione è nell’ottica americana un passaggio strategico nel-
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la geopolitica regionale (Caucaso, Mar Nero, Asia centrale e, soprattutto, “Grande Medio Oriente”) e nel
contenimento del fondamentalismo islamico).
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Salvo colpi di scena in Iraq o altrove che costringano Kerry a prendere posizioni più nette, in campo
democratico non si prevedono “piani” o nuove strategie internazionali.
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Eloquente il sondaggio annuale delle opinioni pubbliche europee e americane condotto dal German
Marshall Fund, che quest’anno comprende anche dati per la Turchia – dove si scopre con certa sorpresa che l’impopolarità americana tocca punte elevate non di meno da quelle registrate nei paesi UE. Basta pensare ai frequenti fischi che hanno accolto gli atleti americani (e le loro vittorie) alle Olimpiadi
Atene: la superpotenza sportiva non gode di maggiore popolarità di quella militare (né fa nulla per guadagnarsela....).
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Qualcosa di più Kerry potrebbe dare (contratti per la ricostruzione e ottenere in altri campi, ad esempio sulla remissione del debito, ma ai fini della visibilità per il pubblico americano contano i boots on
the ground.
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Anche perché, se non lo si previene (con le buone o con le cattive), interverrebbero gli israeliani (con
le cattive) con conseguenze regionali imprevedibili. Il recente caso Franklin, funzionario del Pentagono sotto investigazioni dell’FBI per supposto spionaggio a favore di Israele, proprio per aver fornito intelligence sull’Iran, conferma che l’incubo strategico israeliano è una Teheran nucleare. Del resto gli
israeliani lo dicono apertamente.
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Che, fra l’altro, gode di ampio consenso interno anche fra gli oppositori al regime teocratico. Agli iraniani, in genere, piace l’idea di diventare “potenza atomica” (visto che lo sono Pakistan, India e Israele, perché non noi?)
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A questo punto, l’interrogativo è se anche tutte le principali capitali europee condividano la conclusione americana (e israeliana) che pur di evitare un Iran nucleare bisogna “fare di tutto”, compreso l’intervento militare, sia pure ricorrendovi solo come ultima ratio.
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Precedenti assimilabili possono essere ricercati: nella presidenza Carter afflitta da una serie di insuccessi (invasione sovietica dell’Afghanistan, caduta dello Shah e crisi degli ostaggi in Iraq) che ne determinarono una sorta di chiusura in sé stessa e, in definitiva, l’aver aperto la via alla “rivoluzione reaganiana”; nei primi due-tre anni di Clinton (Somalia, rottura con gli europei sulla Bosnia fino all’inversione di rotta del settembre 1995).
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Basta pensare all’opposto, ossia a un presidente americano che “si schieri” in un’elezione europea. In
qualsiasi elettorato la reazione prevalente non può che essere d’insofferenza nazionale all’ingerenza
esterna.
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È discutibile, e da verificare, che una futura amministrazione democratica sia disposta a pagare a Berlino il prezzo dell’appoggio per un seggio permanente in Consiglio di Sicurezza. In che circostanze e a
che condizioni? E, oltre Berlino, Tokyo, New Delhi, Brasilia e Pretoria?
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Valga per tutti Marco Rimanelli, Italy between Europe and the Mediterranean. Diplomacy and naval
strategy from unification to NATO, 1800s-2000, Peter Lang, New York 1977.
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La questione è trattata diffusamente da Enzo Finardi, Quello che possiamo chiedere a Bush, pubblicato su Limes, 2/2004 (L’Impero Senza Impero).
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Vedi, per esempio, in Richard J. Samuels, Machiavelli’s children, leaders & their legacies in Italy & in
Japan, Cornell University Press, 2003, che traccia la linea diretta fra il complesso di essere “l’ultima delle grandi potenze”, l’obiettivo di “entrare nel concerto europeo” e la conquista dell’ingresso nel G8.
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Decisiva per l’ingresso nel Gruppo di Contatto sulla ex Jugoslavia nel 1996, ma non senza aver prima
patito la bruciante esclusione da Dayton nell’autunno del 1995.
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Riunioni “a tre” in Europa, terzetto franco-tedesco-britannico sul negoziato nucleare con Teheran, incontro Putin-Chirac-Schröder del 30-31 agosto scorsi... Per non menzionare l’appoggio di Londra e Parigi al seggio permanente della Germania in Consiglio di Sicurezza. Su quest’ultimo tema, gli americani sono contrari a nuovi seggi permanenti il che li rende obiettivamente alleati dell’Italia.
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Prova ne sia l’impossibilità di far decollare il seggio europeo in Consiglio di Sicurezza ONU, malgrado
i ripetuti tentativi italiani e di altri partner comunitari e il favore con cui verrebbe accolto dagli Stati
Uniti e dai gruppi regionali del Terzo Mondo, ai quali ultimi spianerebbe la strada per una presenza istituzionale in Consiglio.