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Ma io piangevo tutto il tempo
Rappresentazioni psichiche del trapianto d’organo
Laura Porta
Psicoterapeuta, psicoanalista, ALIpsi, Jonas Onlus, IRPA.
Via Indipendenza 76, Meda (Monza e Brianza).
E’ recentissima la notizia del primo trapianto in Italia da donatore samaritano, ovvero un donatore
vivente ha donato un proprio rene ad uno sconosciuto. Finora la donazione da vivente era avvenuta
solo tra consanguinei. Questa nuova conquista della medicina apre a riflessioni etiche sul diritto alla
salute e sulle implicazioni psicologiche implicite in un intervento delicato come il trapianto.
In relazione ai trapianti d’organo si generano diversi sintomi psicologici, sia nei donatori viventi
che nei riceventi: ho potuto osservare e studiare sul campo queste manifestazioni lavorando in
ospedale pubblico, conducendo delle psicoterapie individuali e di gruppo con persone in attesa di
trapianto e trapiantate.
Il trapianto è un'operazione al limite del paradosso biologico, un organismo trapiantato mette in atto
un processo espulsivo dell'organo ricevuto, riconosciuto dal sistema immunitario come estraneo,
che porterebbe alla morte se non venisse tamponato per tutto il resto della vita con farmaci
immunosoppressori. Il filosofo Jean-Luc Nancy, nel testo “L’intruso” da cui trae ispirazione questo
blog, scrivendo della propria esperienza autobiografica di trapiantato, dice: “Io ho due sistemi
immunitari, uno è il sistema immunitario del cuore, e l’altro del mio corpo, e sono in
combattimento tra loro”.
Il trapianto è un’esperienza che si colloca ai limiti della possibilità di rappresentazione. Se infatti il
corpo medicalizzato si presta ad essere non solo rappresentato, ma anche oggettivabile e misurabile,
il corpo vissuto, il corpo inconscio, non è mai così precisamente esplorabile, esso sfugge allo
sguardo dell’osservatore ma sfugge anche a chi vi risiede, chi vi abita. I soggetti che si sono
sottoposti ad un intervento di trapianto percepiscono questo scarto in maniera netta: lo scarto
incolmabile tra corpo vissuto e corpo medicalizzato, corpo percepito e corpo oggettivato. Un
esempio clinico molto frequente è quello dei pazienti che dicono di percepire il proprio nuovo
organo. Secondo la medicina questo è impossibile, perché esso non è innervato e la capsula
connettivale che lo circonda è rimasta su quello vecchio. Eppure esistono diversi forum di pazienti
trapiantati che affermano di avere questa percezione, contraria ad ogni logica medica. Non è
possibile concepire nessuna esplorazione del corpo vissuto, neppure nel caso ‘puro’ delle mani di un
individuo che si toccano fra loro.
Questi ‘nuovi corpi’ che la medicina costituisce salvando la vita ed offrendo possibilità di vita
nuove, impensabili fino a qualche decennio fa, a volte eccedono le proprie possibilità di
rappresentazione.
Con le parole di Nancy: “Io, chi io? E’ proprio questo il problema, io dunque ho ricevuto il cuore di
un altro 10 anni fa, me l’hanno trapiantato, il mio proprio cuore, è tutta qui la questione del
proprio, lo si è capito, o invece non è affatto questo e non c’è proprio niente da capire, nessun
mistero e nemmeno nessuna questione solo la semplice evidenza di un trapianto di organi come
preferiscono dire i medici. Il mio cuore dunque era fuori uso, per una ragione che non è stata mai
chiarita, per vivere allora era necessario ricevere il cuore di un altro, ma quale altro programma si
incontrava allora con il mio programma fisiologico? Meno di vent’anni prima non si facevano
trapianti, e soprattutto non si ricorreva alla ciclosporina che protegge dal rigetto dell’organo
trapiantato, tra vent’anni certamente vi saranno altri tipi di trapianti, con altri mezzi, una
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contingenza personale si incrocia così con una contingenza della storia della tecnica. Prima sarei
morto”. E ancora: “Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto tutti i segni
parvero vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi, senza riflettere certo, e perfino senza individuare
nessun atto nessun mutamento. Semplicemente la sensazione fisica di un vuoto, già aperto nel
petto, come una sorta di apnea in cui niente, assolutamente niente, neppure oggi, riuscirebbe a
districare per me l’organico, il simbolico, l’immaginario, né a separare il continuo dall’interrotto,
era come un unico soffio, ormai sospinto attraverso un’estranea caverna già impercettibilmente
schiumosa,1’unica impressione, di essere caduto in mare pur restando ancora sul ponte”.
Da una parte c’è un non volerne sapere dei pazienti di ciò che avviene nell’avventuroso percorso del
proprio corpo, meglio che il corpo torni a fare silenzio, nella misura in cui la salute è percepita
come ‘la vita nel silenzio degli organi’ (R. Leriche, 1937), meglio aderire alla proposta medicotecnica di una semplice faccenda di naturale cambio di pezzi. Da un'altra, soprattutto quando essi si
trovano in prossimità dell’intervento, c’è un proliferare di immagini e di significanti che si
impongono alla loro mente producendo angoscia, essi offrono un corredo simbolico a un
trattamento del corpo ai limiti del dicibile.
Da questi racconti emerge come, quando le cose vanno bene, gli organi trapiantati divengono
oggetti pulsionali, in quanto tali investiti libidicamente: come oggetti pulsionali essi possono essere
integrati nell’immagine narcisistica del corpo a partire da una loro iniziale estraneità. L’immagine
del corpo e i nuovi organi cercano una via, nell’inconscio, per riannodare insieme senso, vissuto e
fantasmi. Questo è il lavoro in più, lo sforzo supplementare che occorre fare da parte di questi
pazienti: un reinvestimento libidico e narcisistico sul proprio corpo che si presenta in frammenti, in
pezzi staccati fra loro.
Così Mina, che non ha mai avuto figli, dice che il suo nuovo rene lo ‘porta in grembo come il suo
bambino’, un maschio per la precisione, come il sesso dell’anonimo donatore, di cui è riuscita a
carpire l’identità dai discorsi dei medici in corsia.
Luna porta al gruppo un romanzo che l’aveva sostenuta durante l’intervento di trapianto e ce ne
legge un passaggio: “Il seme nuovo è fiducioso, si radica nel profondo. Occorre fargli posto”. Lei,
nel periodo dell’intervento, pensava a far posto al nuovo organo che avrebbe ricevuto. Oggi
rileggendo questo passaggio si rende conto che si trattava di una fantasia di fecondazione.
Anche Francesco dice che durante il primo periodo si sentiva ‘incinto’, percepiva l’organo ricevuto
come una ‘piccola sfera’ che gli ricordava l’immagine del cuore di suo figlio che batteva ancora nel
ventre di sua madre, era tinto di un dolore lieve, assolutamente presente.
Questi sono esempi e casi di trapianti ben riusciti, ben metabolizzati psichicamente. Quando le cose
vanno male, invece, gli organi trapiantati prendono forme e vite proprie, assumono tratti inquietanti
e persecutori, si perpetuano come corpi estranei.
C’è la problematica della sopravvivenza legata alla morte di qualcun altro, di qui gli scatenamenti
deliranti che a volte si presentano in pazienti, presumibilmente psicotici, in cui l’organo ricevuto
-‘oggetto cattivo’ assume vita propria e il soggetto si sente abitato dall’estraneo, perciò per esempio
sente la voce femminile di colei che ha donato l’organo che parla in lui. Oppure i sensi di colpa, nel
versante più nevrotico, per il fatto di sopravvivere a discapito della morte altrui.
A volte la questione centrale non è il trapianto in sé, bensì gestire la colpa di essere stato scelto.
Ho riflettuto sulla situazione del sopravvissuto di un campo di concentramento che, seguendo il
pensiero di Agamben, non può smettere di formularsi una domanda senza riposta: “Perché io?
Perché a me?”. Le domande hanno un doppio enigma: “Perché sono stato preso?” e “Perché sono
stato liberato?”. In modo analogo, il trapiantato si domanda: “Perché io?” (perché la malattia
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proprio a me?) , “Perché a me?” (perché sono stato scelto per il trapianto?). Ovviamente è la
seconda domanda quella che ci interessa di più. Il trapiantato colloca il paziente come un vivo tra
due morti: un morto che gli dona l’organo e un altro morto (ipotetico, fantasmatico) che è la persona
che poteva occupare il suo posto nell’ordine della scelta.
Dice Roberto, un paziente seguito per anni, che ha avuto un trapianto di cuore, in un incontro prima
del trapianto (tra parentesi c’è la traduzione dal dialetto muiesano all’italiano)
“Paura? Cavolo se gò (ho) paura....sembra che la ciapo (prendo) in rider ma invece non xè (non è)
cussì, perché non xè che te va a nozze, no?...perciò la paura ghe xè...la paura xè anche umana,
no?...poi mi me son sempre fatto vedere dei altri come coraggioso anche se poi in realtà mi gavevo
(avevo) sempre paura per certi versi...solo che non lo fazevo (facevo) veder perchè se no...iera una
difesa, disemo (diciamo) perchè se me ti dimostro che gò paura ti te prevali su de mi, no?...ma non
xè tanto la paura de dir vado in sala operatoria, me salvo o no me salverò ...anderà ben o anderà
mal...perchè le alternative xè due: o va ben o va mal...se va mal in quel caso là te son spaccià
perché no i te pol (non ti possono) rimettere il tuo cuor, per dir...La paura che digo mi, forse xè un
altra...la xè piu interiore...gò come una responsabilità ...perché xè come se mi ritrovassi addosso
qualcosa che non xè mio, che me xè sta dà...penso che questo sia la base di tutto...la chiave...il fatto
che mi ricevo un cuor di un altra persona e quella persona la xè morta...mi non xè che son
colpevole, non mi sento in colpa di questo, bisogna specificar...posso sentirmi in colpa se in futuro
non dovessi comportarmi ben...verso quella persona che podeva riceverlo e la xè morta...perché
per darmelo ami, un poderà morir e penso che la chiave sia proprio questa.”
“Posso sentirmi in colpa verso quella persona che poteva riceverlo al posto mio ed è morta”, questa
è una questione. Il tormento dei sopravvissuti di ogni genere. Cioè dove la vittima diventa
immaginariamente carnefice.
Per altri ancora, il processo di malattia che li ha portati alla distruzione di un organo vitale coincide
con un meccanismo autodistruttivo che si evidenzia anche sul piano inconscio, con una spinta alla
morte a cui sarebbe impossibile rimediare solo attraverso la sostituzione di un organo-pezzo di
ricambio. In questo caso la ‘guarigione’, intesa in termini di riannodamento alla vita e movimento a
nuovo desiderio, cioè in termini di rinvigorimento di Eros, dovrebbe avvenire prima del trapianto.
Pena il fallimento del trapianto stesso.
Perché, si sa, non esistono “Lazzari” resuscitati dalla chirurgia, esistono possibilità di vita nuove e
diverse, a volte inedite, ma che debbono sempre e comunque scontrarsi con nuovi e spesso
sconosciuti limiti, fatiche e sofferenze prima impensabili, paure e fantasmi prima assopiti nella
rimozione. Si tratta di scegliere il male minore, ma non solo, di decidere di cosa fare di quel
pezzetto di vita in più che viene regalato, non senza prezzo. Il trapianto, in fondo, è come rimandare
la morte, differirla più in là nel tempo, ma questo a volte implica sottolinearla e confrontarsi con
essa, con le angosce che ne derivano.
Particolari le dinamiche emerse tra donatore vivente e ricevente quando questi sono dei familiari.
Chi riceve si sente in obbligo a restituire, e al di là dei valori che si mettono in gioco, ricevere
obbliga a dare.
Ci si presentano quindi tre questioni fondamentali:
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Se gli organi non sono né devono essere una merce, bisogna tentare di conoscere quale tipo
di relazione affettiva “produce” una donazione, sia questa potenziale o effettiva.
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In quale modo ci si potrà sdebitare o saldare il proprio debito, dopo aver ricevuto un rene o
una parte del fegato da qualcuno che è stato disposto a cederlo, non perché gli avanzasse, ma
perché ha accettato volontariamente di produrre una mancanza concreta nel suo corpo?
È impossibile restituire un organo ricevuto, dunque: che cosa offre colui che dona un organo
e che cosa si aspetta in cambio?
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Come produrre qualcosa dell’ordine dello scambio con il donatore morto? Se il fatto di
donare produce vincolo, il dono può essere pensato forse come un’eredità?
“Noi siamo sorelle di rene” dice una paziente, in riferimento ad un’altra donna, con la quale si
divide l’eredità dei reni cadaverici di uno stesso uomo.
Si rende necessario costruire un’impalcatura simbolica (morto-padre), che permetta di sopportare il
peso del reale dell’organo ricevuto, queste pazienti si inventano così un immaginario vincolo
fraterno, che alleggerisce l’angoscia che provoca l’aver ricevuto un organo.
Il fatto di ricevere un organo ha un impatto soggettivo che risveglia numerose fantasie: una di
queste è quella della gravidanza, specialmente in quanto il rene e il fegato si impiantano nella
regione addominale: questa rappresentazione può essere intollerabile per alcune persone, ad
esempio di sesso maschile; ciò provoca a volte il rigetto psicologico, in qualche caso accompagnato
da deliri di trasmutazione sessuale.
Un’altra fantasia è l’adozione: “Io lo sento come un figlio che è arrivato per prendersi cura di me” ,
un’altra è quella dell’assassinio: “Io sto benissimo con il mio trapianto, ma il morto non deve
pensare lo stesso”, “Io sto bene perché qualcuno è morto, non voglio sapere chi è, cerco di non
pensare a questo”.
Quando l’organo proviene da un donatore vivo, che ha una relazione di stretta parentela con il
soggetto, può verificarsi l’emergenza di fantasie incestuose precedentemente rimosse: “Mia madre
e i miei fratelli si sono offerti di donarmi un rene, ma io non ho voluto, se mia moglie risulta
compatibile bene, altrimenti preferisco l’organo prelevato da cadavere”.
Un altro caso: “Prima mi ha donato un organo mia madre, ho passato un anno terribile, mi hanno
detto che il rene stava bene, che la compatibilità era alta ma io piangevo tutto il tempo, non lo so,
non lo sopportavo più, non facevo altro che piangere e pensavo di morire, alla fine me l’hanno
tolto e adesso ne ho un altro, prelevato da cadavere, mi sembra che fosse un vecchietto, quasi non
ho avuto nessun problema con il vecchietto”.
L’aspettativa di una vita migliore e di una malattia diversa e meno debilitante provocano un
ventaglio di effetti, a volte contraddittori: il malato inizia ad essere una persona “quasi sana”, con
delle potenzialità di vita ancora da conoscere, recupera la sua indipendenza, modifica le sue
abitudini precedenti, a volte cambia in parte la sua fisionomia ed inizia a manifestare dei desideri
che fino a prima si consideravano perduti per sempre.
Nel caso del trapianto da donatore vivo, molte volte osserviamo situazioni di estremo controllo da
parte di chi ha donato l’organo, un tipo di vigilanza persecutoria, in relazione a come il ricevente si
prende cura dell’organo: “Io ringrazio molto mia madre per avermi donato il rene, gliel’ho detto,
ma non la sopporto più.
Altre volte l’organo donato sembra che non appartenga a nessun corpo. “Il rene è di mia mamma”
dice una paziente trapiantata da molti anni. Ovviamente non appartiene più alla madre, ma
paradossalmente non appartiene nemmeno a chi l’ha ricevuto, che non riesce ad appropriarsene
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simbolicamente.
Quale desiderio si soddisfa con il trapianto o con la donazione, cosiddetta ‘samaritana’? è un
desiderio che provoca vergogna e ritiro depressivo (Thanatos) o un desiderio di vita (Eros),
responsabile delle sue conseguenze? La posta in gioco sta nell’aiutare questi soggetti a recuperare
un desiderio che fa vivere, accompagnandoli nell’elaborazione dei sensi di colpa e delle derive
depressive, assumersene la responsabilità.
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