1 B. Pascal PENSIERI « Geometria » e « Finezza » Sul Montaigne e

Transcript

1 B. Pascal PENSIERI « Geometria » e « Finezza » Sul Montaigne e
B. Pascal
PENSIERI
« Geometria » e « Finezza »
Sul Montaigne e sul Descartes
Le ragioni del cuore
La scommessa
Contro l’indifferenza e le obiezioni degli increduli
Abitudine e la pratica formale
Miseria e grandezza dell’uomo
L'uomo nell’universo
Le facoltà ingannatrici
Incostanza, debolezza e vanità dell’uomo
Le leggi e le istituzioni sociali
La distrazione
Segni della grandezza dell’uomo
Conclusione: la duplicità dell’uomo
Grandezza e umiltà di Gesù Cristo
« Geometria » e « Finezza »
1
Differenza tra lo spirito di geometria e lo spirito di finezza1. Nel primo i principi
sono tangibili, ma lontani del comune modo di pensare, sicché si fa fatica a volger
la mente verso di essi, per mancanza di abitudine; ma, per poco che la si volga a
essi, si scorgono pienamente; e solo una mente affatto guasta può ragionar male
sopra principi cosí tangibili che è quasi impossibile che sfuggano.
Nello spirito di finezza i principi sono, invece, nell'uso comune e dinanzi agli occhi
di tutti. Non occorre volgere il capo o farsi violenza: basta aver buona vista, ma
buona davvero, perché i principi sono cosí tenui e cosí numerosi che è quasi
impossibile che non ne sfugga qualcuno. Ora, basta ometterne uno per cadere in
errore: occorre, pertanto, una vista molto limpida per scorgerli tutti e una mente
retta per non ragionare stortamente sopra principi noti.
Tutti i geometri sarebbero, quindi, fini se avessero la vista buona, giacché non
ragionano falsamente sui principi che conoscono; e gli spiriti fini sarebbero
geometri se potessero piegare lo sguardo verso i principi, a loro non familiari, della
geometria.
Se, dunque, certi spiriti fini non sono geometri, è perché sono del tutto incapaci di
volgersi verso i principi della geometria; mentre la ragione per cui certi geometri
difettano di finezza è che non scorgono quel che sta dinanzi ai loro occhi e che,
essendo usi ai principi netti e tangibili della geometria, e a ragionare solo dopo
averli ben veduti e maneggiati, si perdono nelle cose in cui ci vuol finezza, nelle
quali i principi non si lascian trattare nella stessa maniera. Infatti, esse si scorgono
appena; si sentono più che non si vedano; è molto difficile farle sentire a chi non le
senta da sé: sono talmente tenui e in cosí gran numero che occorre un senso molto
perspicuo e molto delicato per sentirle e per giudicarne poi in modo retto e giusto
1
Mantengo la terminologia pascaliana, anche se italianamente non troppo corretta. In sostanza, esprit de
géométrie equivale al nostro « spirito matematico »; esprit de finesse, a « intuito, discrezione.
1
secondo tale sentimento, senza poterle il più delle volte dimostrare con ordine
rigoroso, come nella geometria, perché non se ne possiedono nella stessa maniera i
principi e volerlo fare sarebbe un'impresa senza fine. Bisogna cogliere la cosa di
primo acchito con un solo sguardo, e non per progresso di ragionamento, almeno
sino a un certo punto. E cosí è raro che i geometri siano spiriti fini e gli spiriti fini
geometri, perché i primi voglion trattare con metodo geometrico le cose che esigon
finezza, e cadono nel ridicolo volendo cominciare dalle definizioni e poi dai
principi: metodo fuor di luogo in questa specie di ragionamento. Non che la mente
non lo faccia, ma lo fa in modo tacito, naturalmente e senz'arte, perché
l'espressione di esse eccede le umane capacità e pochi ne possiedono il sentimento.
E gli spiriti fini, per contro, essendo usi a giudicare con una sola occhiata,
rimangon talmente stupiti quando si trovano di fronte a proposizioni per loro
incomprensibili, e alla cui intelligenza si accede solo attraverso definizioni e
principi sterilissimi, che essi non sono avvezzi a esaminare minutamente, che se ne
infastidiscono e se ne disgustano.
Ma gli spiriti falsi non sono mai né fini né geometrici.
I geometri che sono soltanto tali hanno, dunque, una mente retta, purché ogni cosa
venga loro spiegata bene, per mezzo di definizioni e di principi: altrimenti, sono
falsi e insopportabili, poiché non sanno ragionare rettamente se non sopra principi
ben chiariti.
E gli spiriti fini che sono soltanto tali non possono avere tanta pazienza da scendere
sino ai primi principi delle cose speculative e d'immaginazione, che non hanno mai
incontrate nelle civili conversazioni e che sono del tutto fuori dell'uso comune.
Sul Montaigne e sul Descartes
46
Prefazione della prima parte. Parlare di coloro che hanno trattato della conoscenza
di sé; delle divisioni di Charron2, che aduggiano e annoiano; del disordine di
Montaigne, e che egli aveva bensí avvertito la mancanza [d'un retto] metodo, che lo
evitava saltando di palo in frasca, che cercava di darsi arie.
Quant'è stolto il suo proposito di dipingere se stesso! E non di sfuggita, e contro le
sue massime, come capita a tutti di cadervi; ma conforme alle sue massime e
secondo un disegno originario e fondamentale. Perché il dir corbellerie per caso e
per debolezza è un male comune; ma quel che non si può sopportare è dirne di
deliberato proposito, e dirne come queste...
47
Quel che in Montaigne c'è di buono si acquista con difficoltà; quel che c'è di
cattivo (non parlo dei costumi) poteva esser corretto in un momento, solo che lo si
fosse avvertito che faceva troppe storie e parlava troppo di sé.
48
I difetti di Montaigne sono grandi. Parole lascive: roba che non val nulla, malgrado
Mlle de Gournay3. Credulo: « popolazioni senza occhi». Ignorante: « quadratura
2
Il trattato De la Sagesse di Pierre Charron (1542-1603), che nei primi capitoli tratta precisamente «
Della conoscenza di sé », è diviso in ben 117 capitoli, ognuno dei quali suddiviso a sua volta.
3
Marie Le Jars de Gournay, che curò l'edizione definitiva dei Saggi (1595). Nella prefazione, aveva
difeso i « discorsi franchi e speculativi sull'amore » del Montaigne.
2
del circolo, mondo piú grande ». Suoi sentimenti sull'omicidio volontario, sulla
morte4. Egli ispira noncuranza per la propria salvezza: « senza timore né
pentimento » Poiché il suo libro non era destinato a condurre alla religione, egli
non era obbligato a farlo, ma si è sempre obbligati a non distoglierne. Si possono
scusare i suoi sentimenti un po' liberi e voluttuosi in alcune occasioni, ma non si
possono scusare le sue opinioni affatto pagane sulla morte. Perché, se non si vuole
almeno cercar di morire cristianamente, bisogna rinunziare a ogni pietà. Ora, in
tutto il suo libro, egli non pensa se non a morire in modo fiacco e neghittoso.
49
Non in Montaigne, ma in me stesso, trovo tutto quel che vedo in lui5.
50
Non posso perdonare a Descartes. Avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia,
poter fare a meno di Dio; ma non ha potuto esimersi dal fargli dare un colpetto per
mettere in movimento il mondo: dopo di che, non sa che farsi di lui6.
Le ragioni del cuore
144
Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma anche con il cuore. In
quest'ultimo modo conosciamo i principi primi; e invano il ragionamento, che non
vi ha parte, cerca d'impugnarne la certezza. I pirroniani 7, che non mirano ad altro,
vi si adoperano inutilmente. Noi, pur essendo incapaci di darne giustificazione
razionale, sappiamo di non sognare; e quell'incapacità serve solo a dimostrare la
debolezza della nostra ragione, e non, come essi pretendono, l'incertezza di tutte le
nostre conoscenze. Infatti, la cognizione dei primi principi — come l'esistenza
dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri —, è altrettanto salda di
qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore
e dell'istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva.
(Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la
ragione poi dimostra che non ci sono due numeri quadrati l'uno dei quali sia doppio
dell'altro. I principi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza,
sebbene per differenti vie). Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione
domandi al cuore prove dei suoi primi principi, per darvi il proprio consenso,
quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le
proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle.
Questa impotenza deve, dunque, servire solamente a umiliare la ragione, che
vorrebbe tutto giudicare, e non a impugnare la nostra certezza, come se solo la
4
Di popolazioni mostruose, senza capo e con gli occhi e la bocca nel petto, Montaigne parla, sulle orme
di Erodoto e di Plinio, nei Saggi, II, XII; della quadratura del circolo, II, XIV; del mondo che potrebbe
esser più grande di quanto giudichiamo, II, XII; della morte volontaria, « la più bella », II, III; del pentimento, presentato come una forma di debolezza, III, II.
5
Conforme al concetto dello stesso Montaigne che « ciascuno reca in sé la forma intera dell'umana
condizione » (III,II).
6
In quanto cerca di spiegare il processo di formazione delle cose con leggi puramente naturali. — « Il
colpetto »: l'impulso iniziale dato da Dio alla materia.
7
Seguaci di Pirrone (365 ca.- 275 ca.) il più famoso degli scettici antichi. Pirrone cercava di dimostrare
che è possibile vivere una vita felice, anche senza pensare di possedere la verità e senza quei valori che
erano stati venerati in passato.
3
ragione fosse capace d'istruirci. Piacesse a Dio, che, all'opposto, non ne avessimo,
mai bisogno e conoscessimo ogni cosa per istinto e per sentimento! Ma la natura ci
ha ricusato un tal dono; essa, per contro, ci ha dato solo pochissime cognizioni di
questa specie; tutte le altre si possono acquistare solo per mezzo del ragionamento.
Ecco perché coloro ai quali Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono
ben fortunati e ben legittimamente persuasi. Ma a coloro che non l'hanno, noi
possiamo darla solo per mezzo del ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per
sentimento del cuore: senza di che la fede è puramente umana, e inutile per la
salvezza.
Abitudine e la pratica formale
156
... Perché non bisogna disconoscerlo: noi siamo automatismo altrettanto che spirito.
E da ciò viene che strumento di persuasione non è soltanto la dimostrazione.
Quanto poche son le cose dimostrate! Le prove convincono solamente l'intelletto.
L'abitudine genera le prove più efficaci e più credute: piega l'automa, il quale
trascina l'intelletto senza che questo se ne renda conto. Su quali dimostrazioni
riposa la nostra convinzione che domani tornerà a splendere il sole, o che un giorno
moriremo? Eppure, c'è cosa più fermamente creduta? Dunque, è l'abitudine a
persuadercene; ed è lei a fare tanti cristiani, a fare i Turchi, i pagani, i mestieri, i
soldati, ecc. (nei cristiani c'è in più che nei Turchi la fede ricevuta nel battesimo).
Bisogna, perciò, ricorrere a essa, quando l'intelletto abbia veduto dov'è la verità, al
fine di abbeverarci e di impregnarci di questa credenza, che in ogni momento ci
sfugge: perché averne sempre presenti le prove è troppo arduo. Bisogna acquisire
una credenza più agevole, quella dell'abitudine: che senza violenza, senz'arte, senza
argomentazioni, ci fa creder le cose e inclina verso questa credenza tutte le nostre
facoltà, di modo che la nostra anima ci cade naturalmente. Quando si crede soltanto
per convinzione razionale, ma l'automa tende a credere l'opposto, non basta.
Bisogna dunque che tutt'e due le parti di noi stessi credano: l'intelletto, per opera
delle ragioni, che basta aver conosciute una volta; e l'automa, per mezzo dell'abitudine, e impedendogli d'inclinare verso il contrario. « Inclina il mio cuore alla
testimonianza e non alla cupidigia.
La ragione agisce con lentezza, e con tanti concetti, sul fondamento di tanti
principi, da tener sempre presenti8, che a ogni passo si assopisce o si smarrisce,
perché non li ha mai presenti tutti. Non cosí il sentimento: agisce in un baleno, ed è
sempre pronto ad agire. Bisogna, dunque, mettere la nostra fede nel sentimento:
altrimenti, sarà sempre vacillante.
159
Le altre religioni, come quelle pagane, son più conformi al popolo, perché fatte di
esteriorità, ma non sono adatte alle persone intellettualmente dotate. A queste si
addirebbe di più una religione puramente intellettuale, la quale però non servirebbe
al popolo. Soltanto la religione cristiana si confà a tutti, perché è mista di esteriore
e di interiore. Essa eleva la gente del popolo all'interiorità e sottomette i superbi
all'esteriorità; e non è perfetta senza i due elementi, perché è necessario che il
popolo intenda lo spirito della lettera e che le persone istruite sottomettano lo
spirito alla lettera.
8
Qui, come in altri frammenti, la « ragione » è intesa essenzialmente come attività discorsiva e
raziocinativa, in opposizione all'immediatezza intuitiva del « cuore », dell'« istinto », del sentimento.
4
La scommessa
164
Infinito, nulla9. La nostra anima vien gettata nel corpo, dove trova numero, tempo,
dimensioni. Essa vi ragiona sopra, e chiama tutto ciò natura, necessità 10 , e non può
credere altro.
L'unità aggiunta all'infinito non lo accresce menomamente, non più che la misura
di un piede a una misura infinita11. Dinanzi all'infinito, il finito si annichila e
diventa un puro nulla. Cosí il nostro spirito davanti a Dio e la nostra giustizia
davanti alla giustizia divina.
Tra la nostra giustizia e quella di Dio non c'è una sproporzione cosí grande come
tra l'unità e l'infinito.
La giustizia di Dio dev'essere immensa come la sua misericordia. Ora, la giustizia
verso i reprobi è meno immensa e deve urtarci meno della misericordia verso gli
eletti12.
Noi sappiamo che esiste un infinito, e ne ignoriamo la natura. Dacché sappiamo
che è falso che i numeri siano finiti, è vero che c'è un infinito numerico. Ma non
sappiamo che cosa è: è falso che sia pari, è falso che sia dispari, perché, aggiungendovi l'unità, esso non cambia natura. Tuttavia, è un numero, e ogni numero è
pari o dispari (vero è che ciò s'intende di ogni numero finito). Perciò si può
benissimo conoscere che esiste un Dio senza sapere che cos'è.
Forse che non c'è una verità sostanziale, dacché vediamo tante cose che non sono la
stessa verità?
Noi conosciamo, dunque, l'esistenza e la natura del finito, perché siamo finiti ed
estesi come esso. Conosciamo l'esistenza] dell'infinito e ne ignoriamo la natura,
perché ha estensione come noi, ma non limiti come noi. Ma non conosciamo né
l’esistenza né la natura di Dio, perché è privo sia di estensione sia di limiti.
Tuttavia, grazie alla fede ne conosciamo l'esistenza e nello stato di gloria 13 ne
conosceremo la natura. Ora, ho già dimostrato14 che si può benissimo conoscere
l'esistenza di una cosa, senza conoscerne la natura.
Parliamo adesso secondo i lumi naturali.
Se c'è un Dio, è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né
limiti, non ha nessun rapporto con noi. Siamo, dunque, incapaci di conoscere che
9
In questo frammento è svolto il piú discusso argomento apologetico di Pascal.: quello del pari o della
scommessa. Va tenuto presente, da un lato, che esso intendeva avere una funzione pragmatica o
parenetica (quella di convincere l'interlocutore a « prender partito » e a prepararsi, con la disciplina
della « machine » e la « diminuzione delle passioni », a esaminare con animo ben disposto le prove
del cristianesimo); dall'altro, che esso era probabilmente destinato a una speciale categoria di persone,
« sospese tra l'incredulità e la fede » e persuase che la loro attitudine fosse la sola conforme a ragione.
Tutt'altro che nuovo è il motivo cui esso s'ispira, e che potremmo chiamare dell'« utilitas credendi ».
Ma nuovo ne è lo svolgimento, a cominciare dall'originale applicazione al problema del calcolo delle
probabilità, di cui Pascal fu, col Fermat, uno dei creatori. E pascaliano è il segreto pathos che lo
anima e che si fa palese nell'apostrofe finale.
10
Mentre si tratta d'un effetto dell'abitudine.
11
Conseguenza necessaria della definizione matematica dell'infinito.
12
La condanna dei reprobi ha la propria giustificazione nel peccato di Adamo, che ha fatto dell'umanità,
secondo l'espressione agostiniana, una « massa damnationis »; mentre il fatto che (come Pascal scrive
altrove) « di due uomini egualmente colpevoli », Dio, per pura misericordia, « salvi l'uno anziché
l'altro, senza considerare menomamente le rispettive opere », è il mistero per eccellenza, quello che piú
trascende e « offende » la nostra ragione
13
Nel senso teologico del termine: la visione beatifica di Dio o, secondo la formula di san Tommaso, «
la perfetta fruizione di Dio ».
14
A proposito del numero infinito.
5
cos'è né se esista. Cosí stando le cose, chi oserà tentare di risolvere questo
problema? Non certo noi, che siamo incommensurabili con lui.
Chi biasimerà allora i cristiani di non poter dar ragione della loro credenza, essi che
professano una religione di cui non possono dar ragione? Esponendola al mondo,
dichiarano che è una stoltezza; e voi vi lamentate che non ne diano le prove! Se la
provassero, mancherebbero di parola: solo difettando di prove, non difettano di
criterio.
« Sta bene, ma, sebbene ciò serva a scusare coloro che la presentano come tale, e li
assolva dalla taccia di presentarla senza ragione, non scusa però coloro che la
accolgono ».
Esaminiamo allora questo punto, e diciamo: « Dio esiste o no? » Ma da qual parte
inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c'è di mezzo un caos
infinito All'estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa
o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né
sull'una né sull'altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate,
dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel nulla.
« No, ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto;
perché, sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso errore,
sono tutti e due in errore: l'unico partito giusto è di non scommettere punto ».
Si, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete
impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo
quel che v'interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose
da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza
e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose: l'errore e
l'infelicità. La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che
dall'altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma
la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate
in favore dell'esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate
tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli
esiste.
« Ammirevole! Si, bisogna scommettere, ma forse rischio troppo ».
Vediamo. Siccome c'è eguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da
guadagnare solamente due vite contro una, vi converrebbe già scommettere. Ma, se
ce ne fossero da guadagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità
di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non rischiare la
vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c'è eguale probabilità di
vincere e di perdere. Ma qui c'è un'eternità di vita e di beatitudine. Stando così le
cose, quand'anche ci fosse un'infinità di casi, di cui uno solo in vostro favore,
avreste pur sempre ragione di scommettere uno per avere due; e agireste senza
criterio, se, essendo obbligato a giocare, rifiutaste di arrischiare una vita contro tre
in un giuoco in cui, su un'infinità di probabilità, ce ne fosse per voi una sola,
quando ci fosse da guadagnare un'infinità di vita infinitamente beata. Ma qui c'è
effettivamente un'infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità
di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate è
qualcosa di finito. Questo tronca ogni incertezza: dovunque ci sia l'infinito, e non ci
sia un'infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c'è da esitare:
bisogna dar tutto. E così, quando si è obbligati a giocare, bisogna rinunziare alla
ragione per salvare la propria vita piuttosto che rischiarla per il guadagno infinito,
che è altrettanto pronto a venire quanto la perdita del nulla.
Invero, a nulla serve dire che è incerto se si vincerà, mentre è certo che si arrischia;
e che l'infinita distanza tra la certezza di quanto si rischia e l'incertezza di quanto si
potrà guadagnare eguaglia il bene finito, che si rischia sicuramente, all'infinito, che
è incerto, Non è così: ogni giocatore arrischia in modo certo per un guadagno
incerto; e nondimeno rischia certamente il finito per un guadagno incerto del finito,
6
senza con ciò peccare contro la ragione. Non c'è una distanza infinita tra la certezza
di quanto si rischia e l'incertezza della vincita: ciò è falso. C'è, per vero, una
distanza infinita tra la certezza di guadagnare e la certezza di perdere. Ma
l'incertezza di vincere è sempre proporzionata alla certezza di quanto si rischia,
conforme alla proporzione delle probabilità di vincita e di perdita. Di qui consegue
che, quando ci siano eguali probabilità da una parte e dall'altra, la partita si gioca
alla pari, e la certezza di quanto si rischia è eguale all'incertezza del guadagno:
tutt'altro, quindi, che esserne infinitamente distante! E, quando c'è da arrischiare il
finito in un giuoco in cui ci siano eguali probabilità di vincita e di perdita e ci sia da
guadagnare l'infinito, la nostra proposizione ha una validità infinita. Ciò è dimostrativo; e, se gli uomini son capaci di qualche verità, questa ne è una.
« Lo riconosco, lo ammetto. Ma non c'è mezzo di vedere il di sotto del giuoco? »
Si, certamente, la Scrittura e il resto.
« Sta bene. Ma io ho le mani legate, e la mia bocca è muta; sono forzato a
scommettere, e non sono libero; non mi si dà requie, e sono fatto in modo da non
poter credere. Che volete, dunque, che faccia? »
È vero. Ma riconoscete almeno che la vostra impotenza di credere proviene dalle
vostre passioni, dacché la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere.
Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l'aumento delle prove di Dio, bensí
mediante la diminuzione delle vostre passioni. Voi volete andare alla fede, e non ne
conoscete il cammino; volete guarire dall'incredulità, e ne chiedete il rimedio:
imparate da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il
loro bene: sono persone che conoscono il cammino che vorreste seguire e che son
guarite da un male di cui vorreste guarire. Seguite il metodo con cui hanno
cominciato: facendo cioè ogni cosa come se credessero, prendendo l'acqua
benedetta, facendo dire messe, ecc. In maniera del tutto naturale, ciò vi farà credere
e vi impecorirà .
“Ma è proprio quel che temo”
E perché? che cosa avete da perdere? Ma, per dimostrarvi che ciò conduce alla
fede, sappiate che ciò diminuirà le vostre passioni, che sono i vostri grandi ostacoli.
Fine di questo discorso. Ora, qual male vi capiterà prendendo questo partito? Sarete
fedele, onesto, umile, riconoscente, benefico, amico sincero, veritiero. A dir vero,
non vivrete piú nei piaceri pestiferi, nella vanagloria, nelle delizie; ma non avrete
altri piaceri? Vi dico che in questa vita ci guadagnerete; e che, a ogni nuovo passo
che farete in questa via, scorgerete tanta certezza di guadagno e tanto nulla in
quanto rischiate, che alla fine vi renderete conto di avere scommesso per una cosa
certa, infinita, per la quale non avete dato nulla.
« Oh! codesto discorso mi conquista, mi esalta, eccetera ».
Se esso vi piace, e vi sembra valido, sappiate che è fatto da uno che si è messo in
ginocchio prima e dopo, per pregare quell'Essere infinito e senza parti, al quale
sottomette tutto il proprio essere, affinché sottometta a sé anche il vostro, per il
vostro bene e per la sua gloria; e che, quindi, la sua forza si accorda con questa
umiliazione.
Contro l’indifferenza e le obiezioni degli increduli
180
... Imparino almeno a conoscere qual è la religione che combattono, prima di
combatterla. Se questa religione si vantasse di avere una conoscenza chiara di Dio,
e di possederla scopertamente e senza veli, sarebbe un combatterla il dire che nel
mondo nulla si vede che lo mostri con tanta evidenza. Ma poiché essa afferma, al
contrario, che gli uomini vivono nelle tenebre e nella lontananza di Dio, ch'egli si è
7
nascosto alla loro conoscenza e che, anzi, è questo il nome che dà a sé nelle
Scritture: « Deus absconditus »; e, poiché, infine, essa si adopera con egual
impegno a stabilire queste due cose: aver Dio impresso segni sensibili nella Chiesa
per farsi conoscere da quanti lo cerchino sinceramente e averli, nondimeno,
ricoperti in modo da esser scorto soltanto da coloro che lo cerchino con tutto il
cuore; qual vantaggio possono trarre costoro, che si gloriano della loro indifferenza
per la ricerca della verità, quando gridano che non c'è nulla che gliela mostri?
Invero, l'oscurità in cui si trovano, e di cui si fan forti contro la Chiesa, non fa se
non confermare una delle due cose ch'essa insegna, senza punto intaccare l'altra; e,
quindi, nonché infirmarne la dottrina, serve ad avvalorarla.
Per combatterla davvero, bisognerebbe che costoro gridassero di aver compiuto
ogni sforzo per cercarne la verità in ogni dove, anche in quello che la Chiesa offre
a chi voglia conoscerla; ma senza nessun esito. Se parlassero cosí, impugnerebbero
veramente una delle sue pretensioni. Ma spero di riuscir qui a dimostrare che non
c'è persona ragionevole che possa esprimersi in tale guisa. Oso dire, anzi, che
nessuno ha mai parlato cosí.
È abbastanza noto come si conducono coloro che si trovano in tale condizione.
Credono di aver compiuto grandi sforzi per istruirsi, quando hanno speso qualche
ora a leggere qualche libro della Bibbia o interrogato intorno alle verità della fede
qualche ecclesiastico: dopo di che si vantano di aver cercato senza frutto nei libri e
tra gli uomini. Ma, in verità, debbo ripeter loro quel che ho già detto più volte: una
tal negligenza è intollerabile. Non si tratta qui dell'interesse trascurabile di un
estraneo, perché sia lecito condursi cosí; ma di noi stessi e del nostro tutto.
L'immortalità dell'anima è cosa che c'interessa talmente, che ci riguarda cosí
profondamente, che bisogna aver smarrito ogni sentimento per trascurare di
venirne in chiaro. Tutte le nostre azioni e i nostri pensieri debbono prendere un
corso talmente diverso, a seconda che ci sia o no da sperare in beni eterni, che è
impossibile fare un sol passo con criterio e giudizio senza regolarlo mirando a quel
punto, che deve costituire il nostro oggetto supremo.
Il nostro primo interesse e il nostro primo dovere è, quindi, d'istruirci su quel
punto, dal quale dipende tutta la nostra condotta. Ecco perché, tra coloro che non
ne sono convinti, faccio una grandissima differenza tra quelli che si studiano con
tutte le forze di venirne a capo e quelli che vivono senza darsene cura e senza
pensarci.
Posso aver soltanto compassione per coloro che gemono sinceramente nel dubbio,
che lo considerano come la più grave delle sventure e che, nulla lasciando
d'intentato per liberarsene, fanno di questa ricerca la loro prima e più seria occupazione.
Ma considero in maniera ben diversa coloro che passano tutta la vita senza mai
pensare al supremo termine di essa e che, sol perché non trovano in sé i lumi che
possono istruirli, non si danno cura di cercarne altrove e di esaminare se tale
opinione sia di quelle che il volgo accoglie con semplicità credula oppure di quelle
che, sebbene per sé oscure, si fondano nondimeno su ragioni salde e incrollabili.
Questa negligenza, in un problema in cui sono impegnati loro stessi, la loro
eternità, il loro tutto, suscita in me, più che pietà, irritazione, mi fa stupire, mi
sgomenta: è per me qualcosa di mostruoso. E non parlo cosí per pio zelo di
devozione spirituale. Penso, al contrario, che si dovrebbe avere un tal sentimento
per un principio d'interesse umano e per un interesse personale. Basta, per questo,
vedere quel che scorgono anche le menti meno illuminate.
Non occorre un'anima molto elevata per comprendere che quaggiù non ci sono
soddisfazioni veraci e durature; che tutti i nostri piaceri son vani e i nostri mali
senza numero; e che, infine, la morte, la quale incombe di continuo sopra di noi, ci
metterà senza fallo entro breve volger di anni nell'orribile necessità di essere in
eterno o annichilati o infelici.
8
Non c'è nulla di più reale e di più terribile. Faccian pure gli spavaldi quanto
vogliamo: è questo il termine che attende la più bella vita del mondo. Si rifletta su
ciò e si dica poi se non è indubbio che, in questa vita, non c'è bene se non nella
speranza di un'altra vita; e che si è felici solo in quanto ci si avvicina ad essa; e che,
come per coloro che sono pienamente certi dell'eternità non ci saranno più mali,
cosí non ci potrà essere felicità per coloro che non ne hanno nessun barlume.
È, dunque, sicuramente un gran male essere in tale dubbio; ma, quando lo si sia, è
almeno un dovere assoluto cercare di uscirne. Perciò, chi dubita e non cerca è, a un
tempo, sommamente sventurato e sommamente ingiusto. Se poi è, per giunta,
tranquillo e soddisfatto, lo professa, e se ne gloria e, anzi, trae dal proprio stato
motivo di gioia e di vanità, non trovo parole per qualificare un essere cosí
stravagante.
Donde mai si posson trarre simili sentimenti? Qual motivo di gioia può esserci nel
non aspettarsi più se non miserie senza speranza? Qual argomento di vanità nel
trovarsi sommersi in oscurità impenetrabili? e com'è possibile che un simile modo
di ragionare trovi ricetto in un uomo ragionevole?
« Non so chi mi abbia messo al mondo, né che cosa sia il mondo, né che cosa io
stesso. Sono in un'ignoranza spaventosa di tutto. Non so che cosa siano il mio
corpo, i miei sensi, la mia anima e questa stessa parte di me che pensa quel che
dico, che medita sopra di tutto e sopra se stessa, e non conosce sé meglio del resto.
Vedo quegli spaventosi spazi dell'universo, che mi rinchiudono'; e mi trovo
confinato in un angolo di quest'immensa distesa, senza sapere perché sono
collocato qui piuttosto che altrove, né perché questo po' di tempo che mi è dato da
vivere mi sia assegnato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta
l'eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Da ogni parte vedo
soltanto infiniti, che mi assorbono come un atomo e come un'ombra che dura un
istante, e scompare poi per sempre. Tutto quel che so è che debbo presto morire;
ma quel che ignoro di più è, appunto, questa stessa morte, che non posso evitare.
« Come non so di dove vengo, cosí non so dove vado; so soltanto che, uscendo da
questo mondo, cadrò per sempre o nel nulla o in potere di un Dio sdegnato, senza
però conoscere quale di queste due condizioni mi toccherà in sorte per l'eternità.
Ecco il mio stato, pieno di debolezza e d'incertezza. Da tutto questo concludo che
debbo passare i giorni della mia vita senza darmi pensiero d'indagare quel che
accadrà di me.
Forse potrei trovare qualche chiarimento ai miei dubbi, ma non voglio darmene la
briga, né muovere un passo per cercarlo: anzi, trattando con disprezzo quanti si
travagliano in questa ricerca, voglio affrontare senza previdenza e senza timore un
cosí grande evento, e lasciarmi condurre mollemente alla morte, nell'incertezza
dell'eternità della mia futura condizione ». (Qualunque certezza essi abbiano, è un
motivo di disperazione piuttosto che di vanità) .
Chi vorrebbe come amico uno che discorresse in siffatto modo? chi lo sceglierebbe
tra tanti per metterlo a parte delle cose sue? chi ricorrerebbe a lui nelle afflizioni? e,
insomma, a qual uso della vita si potrebbe destinarlo?
In verità, è gloria per la religione avere come nemici gente cosí insensata; la loro
opposizione, anziché riuscirle pericolosa, serve al contrario a convalidarne le
verità. Perché la fede cristiana insegna in sostanza questi soli due principi: la
corruzione della natura umana e l'opera redentrice di Gesti Cristo. Ora, io sostengo
che se costoro non servono a provare, con la santità dei loro costumi, la verità della
redenzione, valgono però mirabilmente a provare, con sentimenti tanto snaturati, la
corruttela della natura.
Nulla è tanto importante per l'uomo quanto il suo proprio stato; nulla cosí terribile
come l'eternità. Perciò, non è cosa naturale che ci siano uomini cosi indifferenti alla
perdita dell'esser loro e al pericolo di un'eternità di miserie. Nelle altre faccende si
comportano in tutt'altro modo: han timore anche delle cose pili futili, le prevedono,
9
le sentono. E quel medesimo uomo che passa tanti giorni e tante notti pieno di
rabbia e di disperazione per la perdita di una carica o per qualche offesa
immaginaria al suo onore è poi lo stesso che, pur sapendo di dover perdere con la
morte ogni cosa, non ne prova nessuna inquietudine o turbamento. È mostruoso
vedere nel medesimo cuore tanta sensibilità per cose da nulla e una cosí singolare
indifferenza per quelle che più importano. È un incantamento incomprensibile, e un
torpore soprannaturale: segno di una forza onnipossente, che ne è la causa.
Bisogna che nella natura umana ci sia un singolare stravolgimento per gloriarsi di
essere in una condizione, nella quale sembra incredibile che una sola persona possa
rimanere. Pure, l'esperienza me ne fa vedere un cosí gran numero che ci sarebbe da
restarne stupefatti, se non sapessimo che la maggior parte di costoro ostentano di
esser tali, ma, in realtà, non sono tali. Son gente che ha sentito dire che il colmo
dell'eleganza sta nel fare cosí il ribelle. Chiaman ciò « avere scosso il giogo », e si
studiano di fare altrettanto. Ma non sarebbe difficile far intender loro come
s'ingannino cercando di cattivarsi la stima con mezzi simili. Non è quella la via per
ottenerla, nemmeno tra le persone di mondo, che giudicano rettamente le cose e
sanno che la sola via di riuscirci è di mostrarsi onesti, leali, discreti e capaci di
render utili servigi agli amici: perché gli uomini amano naturalmente solo quello
che può tornar loro utile. Ora, qual vantaggio ci può essere per noi nel sentir dire da
un uomo che ha scosso il giogo, che non crede che ci sia un Dio che veglia sulle
sue azioni, che si considera l'unico arbitro della propria condotta e che non pensa di
doverne render conto ad altri che a sé? Pensa forse di averci condotti in tal modo ad
aver ormai molta fiducia in lui e ad aspettarci da lui consolazioni, consigli e aiuto
in tutte le occorrenze della vita? Stima forse di rallegrarci dicendo che sa per certo
che l'anima nostra è solo un po' di fumo o di vento, e dicendolo, per giunta, in tono
fiero e soddisfatto? È una cosa, codesta, da dirsi allegramente? o non piuttosto con
tristezza, come la piú triste cosa del mondo?
Se ci pensassero seriamente, vedrebbero che si appongono cosí male, in maniera
cosí contraria al buon senso, cosí opposta alla elettezza sociale, cosí lontana per
ogni rispetto da quella distinzione cui ambiscono, che essi sarebbero capaci di
correggere, piuttosto che di corrompere, coloro che avessero qualche inclinazione
di seguirli. Invitateli, infatti, a render conto dei loro sentimenti e delle ragioni che
hanno di dubitar della religione; vi diranno cose tanto futili e volgari da convincervi del contrario. È quanto diceva loro un giorno, molto a proposito, un tale: «
Se continuerete a discorrere cosí, finirete in verità col convertirmi ». E aveva
ragione: perché chi non proverebbe orrore di nutrire sentimenti condivisi da persone cosí spregevoli?
Coloro, pertanto, che si limitano a fingere quei sentimenti farebbero malissimo a
violentare la loro natura per apparire i piú impertinenti tra gli uomini Se, nel loro
intimo, si dolgono di non possedere maggiori lumi, non lo nascondano: una tal
confessione nulla avrà di vergognoso. La sola vergogna è di non provarne punta.
Non c'è nulla che denoti una grave debolezza mentale come il non capire qual è
l'infelicità di un uomo senza Dio; non c'è nulla che indichi una mala disposizione
del cuore come il non desiderare che le promesse eterne sian vere; nulla è vile
come fare il bravo contro Dio. Lascino, dunque, siffatte empietà a coloro che sono
tanto perversi da esserne realmente capaci: se non possono essere cristiani, siano,
almeno persone per bene; e riconoscano una buona volta che ci sono soltanto due
categorie di persone degne di esser chiamate ragionevoli quelle che servon Dio
con tutto il cuore, perché lo conoscono; e quelle che lo cercano con tutto il cuore,
perché non lo conoscono
Quanto poi a coloro che vivono senza conoscerlo e senza cercarlo, essi si giudicano
da sé tanto poco degni delle loro proprie cure che non possono esserlo di quelle
degli altri; e ci vuole tutta la carità della religione da essi disprezzata per non
disprezzarli sino ad abbandonarli alla loro insania. Ma, poiché la nostra religione
10
c'impone di considerarli sempre, finché vivono, come capaci di ricevere la grazia
che può illuminarli, e di credere che potrebbero essere, tra breve, colmi di tanta
fede quanta non ne abbiamo noi, mentre noi, per contro, potremmo cadere
nell'accecamento in cui sono, dobbiamo fare per loro quel che vorremmo fosse
fatto per noi se ci trovassimo al loro posto, e ammonirli ad aver pietà di loro stessi
e a fare almeno qualche passo per tentar se non trovino qualche lume. Dedichino a
questa lettura qualcuna delle ore che impiegano tosi futilmente in altri modi: anche
se l’imprenderanno con avversione, ci troveranno forse qualche cosa e, in ogni
caso, non ci perderanno un granché.
Coloro, poi, che vi attenderanno con sincerità perfetta e con verace desiderio di
conoscere la verità, ne saranno, spero, soddisfatti e resteranno convinti delle prove
di una religione tanto divina: prove che ho raccolte qui press'a poco in
quest'ordine...
181
Prima di addentrarmi nelle prove della religione cristiana, stimo necessario far
presente l'ingiustizia degli uomini che vivono nell'indifferenza di cercare la verità
di una cosa per loro cosí importante e che li concerne cosí da vicino.
Di tutti i loro traviamenti questo è senza dubbio quello che più prova la loro
stoltezza e accecamento e quello in cui è più facile confonderli con le più
elementari riflessioni del senso comune e con i sentimenti della natura. È, infatti,
incontestabile che il tempo di questa vita è solo un attimo, mentre la condizione
della morte è eterna, qualunque ne possa esser la natura, e che, quindi, tutte le
nostre azioni e i nostri pensieri debbono prendere vie talmente diverse secondo la
condizione di tale eternità che è impossibile fare un sol passo con buon senso e con
criterio se non lo si regoli in rapporto a quel punto, che deve essere il nostro fine
ultimo.
Non c'è nulla di più evidente: e, di conseguenza, secondo i principi della ragione, la
condotta degli uomini è affatto irragionevole, se essi non prendono un'altra via. Si
giudichi, dunque, su questo punto, di coloro che vivono senza pensare a
quell'ultimo termine della vita, che si abbandonano senza riflessione e senza
inquietudine alle loro inclinazioni e ai loro piaceri e che, come se potessero
annientare l'eternità distogliendo da essa il loro pensiero, pensano soltanto a viver
felici unicamente in questo attimo.
E tuttavia tale eternità esiste; e la morte, che deve segnarne l'inizio e che li
minaccia in ogni ora, deve metterli infallibilmente entro breve termine nell'orribile
necessità di essere eternamente annientati o infelici, senza che sappiano quale di
queste due eternità sia preparata loro per sempre.
Ecco un dubbio di capitale importanza. Essi corrono il pericolo di soffrire
un'eternità di miserie; eppure, come se non ne mettesse conto, trascurano di
esaminare se si tratti di una di quelle opinioni che il popolo accoglie con facilità
troppo credula o una di quelle che, essendo intrinsecamente oscure, possiedono un
fondamento solidissimo, sebbene nascosto. E cosí essi non sanno se la cosa sia vera
o falsa né se le prove siano valide o deboli. Le hanno dinanzi agli occhi, ma si
rifiutano di guardarle; e, in quest'ignoranza, scelgono il partito di fare tutto quanto
occorre per precipitare in quell'infelicità, nel caso che ci sia, di aspettare di farne
l'esperienza nel momento della morte, di starsene nel frattempo contenti del loro
stato, di proclamarlo e, infine, di vantarsene. È mai possibile pensare seriamente
all'importanza di questo problema senza sentire orrore di una condotta cosí
stravagante?
Quel riposo in siffatta ignoranza è una cosa mostruosa e di cui bisogna far sentire
la stravaganza e la stoltezza a coloro che in essa trascorrono la loro vita,
rendendogliela evidente, per confonderli con la visione della loro follia. Ecco,
11
infatti, come ragionano gli uomini quando scelgono di vivere in simile condizione,
d'ignorare cioè quel che sono e di non cercare nessun lume: « Non so », dicono...15.
217
Ecco quel che vedo e che mi turba. Mi guardo intorno da ogni parte, e non scorgo
dappertutto se non oscurità. La natura non mi presenta nulla che non sia, motivo di
dubbio e d'inquietudine. Se non scorgessi nessun segno d'una Divinità, mi
risolverei per la negativa; se vedessi dappertutto i vestigi di un Creatore, riposerei
in pace nella fede. Ma, vedendo troppo per negare e troppo poco per affermare con
certezza, mi trovo in uno stato compassionevole, e in cui ho invocato cento volte
che, se la natura è retta da un Dio, ce lo mostri senza equivoco e, se i segni che di
lui ci mostra sono fallaci, li sopprima del tutto: che ci dica, insomma, tutto o nulla,
affinché io veda qual partito debbo seguire. Invece, nella condizione in cui mi
trovo, ignorando quel che sono e quel che debbo fare, non conosco né la mia
condizione né il mio dovere. Il mio cuore tende tutt'intero a conoscere dove sia il
vero bene, per seguirlo; nulla mi sarebbe troppo oneroso per l'eternità.
Provo invidia di coloro che vedo vivere nella fede con tanta negligenza, e che
fanno cosí cattivo uso di un dono di cui mi sembra che farei un uso molto diverso.
Miseria e grandezza dell’uomo
L'uomo nell’universo
223
Sproporzione dell'uomo16. [Ecco dove ci conducono le conoscenze naturali. Se esse
non sono vere, non c'è verità nell'uomo; e se sono tali, egli ci troverà un grande
motivo di umiliazione, perché sarà costretto ad abbassarsi in una guisa o nell'altra.
E, poiché non può vivere senza credere in esse, vorrei che, prima di addentrarsi in
piú profonde indagini della natura, egli la considerasse una volta seriamente e a
proprio agio, che osservasse anche se stesso e che, conoscendo quale proporzione
c'è...]
L'uomo contempli, dunque, la natura tutt'intera nella sua alta e piena maestà,
allontanando lo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano17. Miri quella
15
Vedi il discorso del libertino nel frammento precedente
Come già quella del Montaigne la scepsi di Pascal si volge anzitutto contro quel concetto della
posizione centrale e privilegiata dell'uomo nella natura e della perfetta proporzionalità tra il
microcosmo e il macrocosmo, tra l'uomo e l'universo, che era uno dei temi prediletti della filosofia
dell'Umanesimo e della Rinascita. Ma insieme con esso tende a investire e demolire quell'ideale di una
scienza assoluta e compiuta della natura, capace di coglierne le cause prime e i supremi principi, che
stava alla base delle cosmologie del Rinascimento come della fisica cartesiana.
Pascal accoglie bensí dalla tradizione umanistica il concetto della posizione intermedia dell'uomo nella
gerarchia degli esseri, come accoglie dalle nuove dottrine cosmologiche il concetto dell'infinità
dell'universo. Ma per trarre dall'uno e dall'altro la conclusione che quella « considerazione della
natura » da cui i filosofi del Rinascimento traevano argomento per celebrare l'eccellenza dell'uomo e
la sua eminente dignità di « sovrano giudice del mondo » si risolve, invece, per lui in un grave « motivo
di umiliazione », poiché riesce solo a mettere in evidenza la sua irrimediabile finitezza, così nell'ordine
dell'essere come in quello del conoscere, e, quindi, la vanità della sua aspirazione ad adeguarsi, con
la sua mente, all'infinità del reale, quale si manifesta nella duplice e opposta forma dell'infinitamente
grande e dell'infinitamente piccolo.
17
Cfr. Montaigne, Saggi, I, XXVI: « Chi si rappresenta come in un quadro questa grande immagine della
16
12
luce sfolgorante, collocata come una lampada eterna a illuminare l'universo; la terra
gli apparisca come un punto in confronto dell'immenso giro che quell'astro
descrive, e lo riempia di stupore il fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un
tratto minutissimo in confronto di quello descritto dagli astri roteanti nel
firmamento. E se, a questo punto, la nostra vista si arresterà, l'immaginazione vada
oltre: si stancherà di concepire prima che la natura di offrirle materia. Tutto questo
mondo visibile è solo un punto impercettibile nell'ampio seno della natura.
Nessun'idea vi si approssima. Possiamo pur gonfiare le nostre concezioni di là
dagli spazi immaginabili: in confronto della realtà delle cose, partoriamo solo
atomi. È una sfera infinita, il cui centro è in ogni dove e la circonferenza in nessun
luogo. Infine, è il maggior segno sensibile dell'onnipotenza di Dio che la nostra immaginazione si perda in quel pensiero.
L'uomo, ritornato a sé, consideri quel che è in confronto a quel che esiste. Si veda
come sperduto in questo remoto angolo della natura; e da quest'angusta prigione
dove si trova, intendo dire l'universo, impari e stimare al giusto valore la terra, i
reami, le città e se stesso. Che cos'è un uomo nell'infinito?
Ma per presentargli un altro prodigio altrettanto meraviglioso, cerchi, tra quel che
conosce, le cose piú minute. Un acaro18 gli offra, nella piccolezza del suo corpo,
parti incomparabilmente pii piccole: zampe con giunture, vene in queste zampe,
sangue in queste vene, umori in queste zampe, gocce in questi umori, vapori in
queste gocce; e, suddividendo ancora queste ultime cose, esaurisca le sue forze in
tali concezioni, sicché l'ultimo oggetto cui possa pervenire sia per ora quello del
nostro ragionamento. Egli crederà forse che sia questa l'estrema minuzia della
natura. Voglio mostrargli là dentro un nuovo abisso. Voglio raffigurargli non solo
l'universo visibile, ma l'immensità naturale che si può concepire nell'ambito di
quello scorcio di atomo. Ci scorga un'infinità di universi, ciascuno dei quali avente
il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo
visibile; e, in quella terra, animali e, infine, altri acari, nei quali ritroverà quel che
ha scoperto nei primi. E, trovando via via negli altri le stesse cose, senza posa e
senza fine, si perda in tali meraviglie, che fanno stupire con la loro piccolezza
come le altre con la loro immensità. Invero, chi non sarà preso da stupore al
pensiero che il nostro corpo, — che dianzi non era percepibile nell'universo, che a
sua volta era impercettibile in seno al Tutto, — sia ora un colosso, un mondo, anzi
un tutto rispetto al nulla, al quale non si può mai pervenire?
Chi si considererà in questa maniera sentirà sgomento di se stesso e, vedendosi
sospeso, nella massa datagli dalla natura, tra i due abissi dell'infinito e del nulla,
tremerà alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutando la propria curiosità in
ammirazione, sarà disposto a contemplarle in silenzio più che a indagarle con
presunzione.
Perché, insomma, che cos'è l'uomo nella natura? Un nulla rispetto all'infinito, un
tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano
dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio
restano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile: egualmente
incapace d'intendere il nulla donde è tratto e l'infinito che lo inghiotte.
Che farà, dunque, se non scorgere qualche apparenza della zona mediana delle
cose, in un'eterna disperazione di conoscerne il principio e il termine? Tutte le cose
nostra madre natura nella pienezza della sua maestà; [...] chi si rispecchia là dentro, e non se stesso
soltanto, ma tutto un regno [...], quello solo giudica le cose secondo la loro esatta grandezza. Questo
grande mondo [...] è lo specchio nel quale dobbiamo guardarci per conoscerci in modo sicuro ».
18
L'acaro passava in quel tempo per il più piccolo degli animali visibili a occhio nudo. — Dopo aver
considerato l'uomo in relazione con l'infinitamente grande, Pascal passa ora a considerarlo in relazione
con l'infinitamente piccolo
13
sono uscite dal nulla, e vanno sino all'infinito. Chi seguirà quei meravigliosi processi? Solo l'autore di quelle meraviglie le comprende19; nessun altro lo può.
Per non aver considerato questi due infiniti, gli uomini si son volti temerariamente
all'indagine della natura, come se avessero qualche proporzione con essa. È strano
che abbian voluto scoprire i principi delle cose, e giungere da questi sino a
conoscere tutto20, con una presunzione infinita come il loro oggetto: perché è certo
che non si può concepire un tal disegno senza una presunzione o una capacità
infinite, come la natura.
Quando si è istruiti, si comprende che, avendo la natura impresso in tutte le cose la
propria immagine e quella del suo creatore, esse partecipano quasi tutte della sua
duplice infinità. Cosí, vediamo che tutte le scienze non conoscono termine
nell'estensione delle loro ricerche: perché chi può mettere in dubbio, per esempio,
che la geometria non comprenda un numero infinito di proposizioni? Le scienze
sono infinite altresì nella moltitudine e nella sottigliezza dei loro principi: perché
chi non vede che quelli che vengono proposti per ultimi non si reggon da sé, ma ne
presuppongono altri, i quali, presupponendone a loro volta altri ancora, non ne
ammettono nessuno che sia l'ultimo? Ma noi ci comportiamo con i principi che la
ragione conosce per ultimi come con le cose materiali: dove chiamiamo punto
indivisibile quello di là dal quale i nostri sensi non percepiscono piú nulla, sebbene
sia divisibile all'infinito, e per sua natura.
Di questi due infiniti delle scienze quello di grandezza è assai piú manifesto: onde
pochi furono coloro che pretesero di conoscere ogni cosa. « Parlerò di tutto »,
diceva Democrito.
Molto meno manifesto è quello di piccolezza. I filosofi hanno creduto molto più
facile arrivare a conoscerlo, ma tutti senza riuscirci. Donde quei titoli, tanto
comuni, I principi delle cose, I principi della filosofia21, e simili, altrettanto fastosi
nella realtà, sebbene meno nell'apparenza, di quell'altro, che è un pugno negli
occhi: De omniscibili22.
Ci stimiamo naturalmente molto più capaci di giungere al centro delle cose che di\
abbracciarne la circonferenza. L'estensione visibile del mondo ci sorpassa in modo
manifesto; ma, essendo noi a sorpassare le cose piccole, ci crediamo meglio capaci
di dominarle. Eppure, per arrivare al nulla ci vuole tanta capacità quanta per
giungere a comprendere il tutto: in entrambi i casi dev'essere infinita; e a me pare
che chi avesse conosciuto i principi ultimi delle cose, potrebbe giungere parimenti
a conoscere l'infinito. L'una cosa dipende dall'altra, e l'una conduce all'altra. I due
estremi si raggiungono e si toccano a forza d'allontanarsi, e si ritrovano in Dio, e in
Dio solamente.
Impariamo, dunque, a conoscere le nostre capacità. Siamo qualche cosa e non
siamo tutto. Quel tanto di essere che possediamo c'inibisce la conoscenza dei primi
principi, che derivano dal nulla, e la pochezza del nostro essere ci preclude la vista
dell'infinito.
Il nostro intelletto tiene nell'ordine delle cose intelligibili lo stesso posto che il
nostro corpo nell'immensità della natura. Limitati, come siamo, in ogni campo,
questa condizione intermedia tra due estremi si riscontra in tutte le nostre facoltà. I
nostri sensi non percepiscono nulla di estremo: troppo rumore ci assorda, troppa
luce abbaglia; l'eccessiva distanza e l'eccessiva prossimità impediscono la vista;
troppa lunghezza e troppa brevità rendono oscuro il discorso; troppa verità
19
Che solo Dio possa avere scienza piena e assoluta delle cose, in quanto ne è l'autore, era concetto
comune alla filosofia cristiana.
20
Come il Descartes.
21
Probabile allusione ai Principia philosophiae (1644) del Descartes
22
Titolo di una delle novecento « tesi » che Giovanni Pico della Mirandola si proponeva di sostenere a
Roma nel 1486 (e la cui discussione pubblica fu vietata da papa Innocenzo VIII).
14
c'intontisce (conosco taluni che non riescono a capire che zero meno quattro resta
zero); i primi principi son per noi troppo evidenti; troppo piacere c'incomoda, le
troppo frequenti consonanze spiacciono nella musica; e troppi benefici ci irritano,
giacché vogliamo avere di che ripagarli a dovizia: « I benefici son graditi finché si
pensa di poterli ricambiare; se oltrepassano il giusto limite, provocano odio
anziché gratitudine 23 ».
Noi non sentiamo né l'estremo caldo né l'estremo freddo. Le qualità eccessive ci
sono nemiche, e non vengon da noi sentite: non le percepiamo più, le soffriamo.
L'esser troppo giovani o troppo vecchi è d'impaccio alla nostra intelligenza. Troppa
o troppo poca istruzione, egualmente. In breve, è come se le cose estreme per noi
non esistessero, e noi rispetto a loro non esistiamo: esse sfuggono a noi, noi a loro.
Tale la nostra effettiva condizione. Essa ci rende incapaci sia di conoscere con
piena certezza come di ignorare in maniera assoluta. Noi voghiamo in un vasto
mare, sospinti da un estremo all'altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al
quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci
si sottrae, scorre via e fugge in un'eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo
stato che ci è naturale e che, tuttavia, è piú contrario alle nostre inclinazioni. Noi
bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un'ultima base sicura per
edificarci una torre che s'innalzi all'infinito; ma ogni nostro fondamento
scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi.
Non cerchiamo, dunque, né sicurezza, né stabilità. La nostra ragione è sempre
delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti
che lo racchiudono e lo fuggono.
Quando avremo compreso ciò, credo che ce ne staremo tranquilli, ognuno nella
condizione in cui la natura lo ha messo. Poiché lo stato mediano toccatoci in sorte
rimane sempre distante dagli estremi, che importa avere un po' piú di conoscenza
delle cose? Chi ne ha di piú, le guarderà un po' piú dall'alto, ma resterà pur sempre
infinitamente lontano dal termine: cosí come la durata della nostra vita resta
infinitamente lontana dall'eternità, anche se si prolunghi di dieci anni.
Davanti a quegli infiniti, tutti i finiti sono eguali; e non vedo perché dobbiamo
fermare l'immaginazione sull'uno piuttosto che sull'altro. Il semplice confronto che
facciamo tra noi e il finito ci riesce penoso.
Se l'uomo cominciasse con lo studiare se stesso, capirebbe quant'è incapace di
spingersi oltre. Come potrebbe una parte conoscere il tutto? Forse esso aspirerà a
conoscere almeno le parti con cui ha qualche proporzione. Ma le parti del mondo
sono tutte in tale rapporto e connessione reciproca che credo impossibile conoscere
l'una senza l'altra e senza il tutto.
L'uomo, per esempio, è in rapporto con tutto quello che conosce: ha bisogno di
spazio che lo contenga, di tempo per durare, di moto per vivere, di elementi che lo
compongono, di calore, di alimenti per nutrirsi, di aria per respirare; vede la luce,
sente i corpi: ogni cosa, insomma, è collegata a lui. Per conoscere l'uomo, è
necessario, pertanto, sapere perché abbia bisogno di aria per vivere; e, per
conoscere l'aria, per qual aspetto abbia quel rapporto con la vita dell'uomo; e cosí
via. La fiamma non sussiste senza l'aria; quindi, per conoscere l'una, bisogna
conoscere l'altra.
Dunque, essendo tutte le cose causate e causanti, adiuvate e adiuvanti, mediate e
immediate, ed essendo tutte collegate le une alle altre con un vincolo naturale e
impercettibile che unisce le più lontane e le più diverse, stimo impossibile conoscere le singole parti senza conoscere il tutto, come conoscere il tutto senza
conoscere le singole parti.
23
Tacito , Annal., IV, VIII; cit. da Montaigne
15
[L'eternità delle cose in se stessa o in Dio deve anch'essa fare stupire la nostra
breve durata. E l'immutabilità fissa e costante della natura, paragonata al continuo
cambiamento che caratterizza il nostro essere, deve produrre lo stesso effetto].
Quel che suggella la nostra impotenza a conoscere le cose è che esse sono semplici,
mentre noi siamo composti di due nature opposte e di genere diverso: ossia, di
anima e di corpo. È impossibile, infatti, che quella parte in noi che ragiona non sia
di essenza spirituale; e chi pretendesse che siamo soltanto corpo, ci inibirebbe
ancor di piú la conoscenza delle cose, poiché nulla è altrettanto inconcepibile
dell'ipotesi che la materia conosca se stessa. Non ci è dato d'intendere in qual modo
essa potrebbe conoscersi.
E cosí, se [siamo] soltanto materiali, non possiamo conoscere nulla di nulla; e se
siamo composti di spirito e di materia, non possiamo conoscere perfettamente le
cose semplici, spirituali o corporee che siano.
Tale la ragione per cui quasi tutti i filosofi confondono i concetti delle cose e
parlano delle cose materiali spiritualmente e di quelle spirituali materialmente.
Cosí, non si peritano di dire che i corpi tendono al basso, che aspirano al loro
centro, che ripugnano alla loro propria distruzione, che temono il vuoto, che la
materia ha inclinazioni, simpatie, antipatie: tutte affezioni proprie soltanto degli
esseri spirituali. E, parlando di questi, li considerano come situati in un dato luogo
e attribuiscono loro il movimento da un luogo a un altro: proprietà che
appartengono solamente ai corpi.
Invece di accogliere le idee di queste cose nella loro purezza, le tingiamo delle
nostre qualità e impregniamo del nostro essere composto tutte le cose semplici che
ci è dato di conoscere.
Chi non crederebbe, vedendoci attribuire a tutte le cose spirituali e corporeità, che
una tal mescolanza ci sia perfettamente comprensibile? Eppure, è la cosa che
comprendiamo meno di tutte24. L'uomo è a se stesso il piú prodigioso oggetto della
natura, perché non può intendere che cosa sia la corporeità e ancor meno che cosa
sia lo spirito, e meno di tutte come un corpo possa essere unito a uno spirito. È la
piú ardua delle difficoltà e, nondimeno, è il suo proprio essere: « Il modo come lo
spirito è unito al corpo riesce incomprensibile agli uomini, eppure è l'uomo » 25.
Infine, per completare la dimostrazione della nostra debolezza, conchiuderò con
queste due considerazioni...26
Le facoltà ingannatrici
1 – I sensi, le passioni, la memoria
227
Bisogna cominciare di qui il capitolo sulle facoltà ingannatrici.
L'uomo è solo un soggetto pieno di errore, naturale e insanabile senza la grazia.
Nulla gli mostra la verità, tutto lo inganna. Dei due principi di verità, i sensi e la
ragione, non solo ciascuno manca per sé di veridicità, ma tutt'e due s'ingannano
reciprocamente. I sensi ingannano la ragione con false apparenze, e lo stesso
inganno e lo stesso inganno che tendono alla ragione lo patiscono a loro volta da
lei: la ragione si prende così la rivincita. Le passioni turbano i sensi e ne falsano le
percezioni. Essi fanno a gara nel mentirsi e ingannarsi a vicenda
24
Era la maggior difficoltà della filosofia cartesiana
Agostino, cit. da Montaigne
26
Il frammento è rimasto incompiuto.
25
16
Ma, oltre agli errori in cui si cade per accidente e per mancanza d'intesa [tra queste]
facoltà eterogenee...
228
C'è una differenza universale ed essenziale tra le azioni della volontà e tutte le
altre.
La volontà è uno dei principali organi della credenza: non perché generi la
credenza, ma perché le cose sono vere o false a seconda del lato da cui vengon
considerate. La volontà, compiacendosi di un aspetto piuttosto che di un altro,
distoglie l'intelletto dal considerare le qualità di quelli che non le aggradano; e cosí.
l'intelletto, procedendo di conserva con la volontà, si ferma a considerare l'aspetto
che piace a essa, e finisce col giudicare delle cose soltanto da quel che ne vede.
2 – L’immaginazione
235
Immaginazione. E quella parte predominante nell'uomo, quella maestra di errore e
di falsità, tanto piú insidiosa in quanto non sempre è tale: giacché sarebbe regola
infallibile di verità, se fosse regola infallibile di menzogna. Ma, pur essendo il più
delle volte fallace, non dà nessun indizio della sua qualità, giacché segna col
medesimo carattere il vero e il falso.
Non parlo dei pazzi, parlo dei piú savi: tra questi l'immaginazione esercita
maggiormente la sua forza persuasiva. La ragione può ben gridare: non può
assegnare il giusto valore alle cose.
Quella superba, potenza, nemica della ragione, che si compiace di controllarla e di
dominarla, per mostrare quanto grande sia il suo potere in ogni cosa, ha costituito
nell'uomo come una seconda natura. Ha i suoi felici e i suoi infelici, i suoi sani e i
suoi malati, i suoi ricchi e i suoi poveri; fa credere, dubitare, negare la ragione;
sospende i sensi e li fa agire; ha i suoi pazzi e i suoi savi; e nulla c'indispettisce
come vedere che colma i suoi ospiti di una soddisfazione ben più piena e intera di
quella procurata dalla ragione. Coloro che s'immaginano di essere grandi uomini
provano un compiacimento di sé molto diverso da quello che posson
ragionevolmente nutrire le persone di senno. Guardan gli altri dall'alto in basso;
discutono con ardire e sicurezza (gli altri, invece, con timore e sfiducia); e questa
loro franchezza li avvantaggia spesso nell'opinione degli ascoltatori: tanto grande è
il favore di cui i savi immaginari godono presso giudici della stessa risma.
L'immaginazione non può render savi gli stolti, ma li rende felici, a dispetto della
ragione, la quale non può rendere i suoi amici se non miseri. L'una li copre di
gloria, l'altra di vergogna.
Chi dispensa la reputazione? chi, se non l'immaginativa, procura rispetto e
venerazione alle persone, alle opere, alle leggi, ai grandi? Quanto sono insufficienti
tutte le ricchezze della terra senza il suo consenso!
Chi di noi non direbbe che quel magistrato, la cui veneranda canizie ispira
reverenza a un intero popolo, si conduca sempre con una ragione pura ed elevata e
giudichi le cose secondo la loro natura, senz'arrestarsi a quelle apparenze vane che
colpiscono soltanto l'immaginazione delle teste deboli? Guardatelo recarsi alla
predica, tutto pieno di zelo devoto, avvalorando la solidità della sua ragione con
l'ardore della sua carità. Eccolo pronto ad ascoltare, con rispetto esemplare.
Compare il predicatore: se la natura gli ha dato una voce roca o una fisonomia
bizzarra, se il suo barbiere lo ha rasato male, se per di più si è casualmente
17
imbrattato, per quanto grandi verità esso dica, scommetto che il nostro senatore non
tarderà a perdere la propria gravità.
E il più gran filosofo del mondo, mettetelo sopra un'asse anche più larga del
necessario: se sotto c'è un precipizio, ancorché la ragione lo convinca che non c'è
pericolo, si lascerà vincere dall'immaginazione. Molti non potrebbero pensarci
senza impallidire e sudar freddo.
Non intendo riferire tutti i suoi effetti.
Chi non sa che la vista d'un gatto, d'un topo, lo scricchiolio di un pezzo di carbone,
ecc., bastano a far uscire fuori dei gangheri la ragione? Il tono della voce mette
soggezione anche ai più savi e muta l'efficacia d'un discorso o d'un poema.
L'affetto o l'avversione fanno cambiare aspetto alla giustizia. Un avvocato, pagato
bene prima, come stima più giusta la causa che difende! e il suo gestire ardito,
come lo fa apparire migliore ai giudici, ingannati da quell'apparenza! Bella ragione
la nostra, che un fiato di vento muove, e in tutti i sensi!...
Potrei ricordare quasi tutte le azioni degli uomini, i quali si muovono quasi
solamente sotto la sua spinta. Infatti, la ragione è stata obbligata a cedere, e la più
saggia prende come suoi principi quelli che l'immaginazione ha temerariamente
introdotti in ogni dove.
[Chi volesse seguire soltanto la ragione sarebbe pazzo. Bisogna attenersi
all'opinione della maggioranza. Bisogna, dacché a essa così è piaciuto, lavorare
tutto il giorno per beni riconosciuti immaginari e, dopo che il sonno ci ha ristorati
delle fatiche della nostra ragione, levarsi immediatamente di soprassalto per correr
dietro a chimere e sottostare alle impressioni di questa regina del mondo. Ecco uno
dei principi di errore, ma non è il solo].
' [L'uomo ha avuto ragione di congiungere insieme queste due potenze, sebbene, in
quest'accordo, l'immaginazione prevalga di gran lunga, perché, nel loro contrasto,
essa predomina ancor di più. Mai la ragione non sormonta interamente
l'immaginazione, mentre l'opposto è comunissimo].
I nostri magistrati hanno ben compreso questo mistero. Le loro toghe rosse, gli
ermellini in cui si avvolgono come tanti gatti impellicciati, i palazzi dove rendon
giustizia, i fiordalisi27, tutto quell'augusto apparato è più che necessario. E se i medici non avessero sottane e mule28, e i dottori berrette a quattro spicchi e vesti
quattro volte più larghe del bisogno, non riuscirebbero a gabbar la gente, incapace
di resistere a quella pompa così autentica. Se i magistrati conoscessero la vera
giustizia e i medici l'arte di guarire, non saprebbero che farsi di berrette a quattro
spicchi: la maestà della loro scienza sarebbe abbastanza rispettabile per se stessa.
Ma, possedendo soltanto scienze immaginarie, son costretti a ricorrere a quegli
artifici vani per colpire l'immaginazione, con cui han da fare; e così si attirano,
infatti, il rispetto. Solo gli uomini di guerra non si camuffano in tale guisa, perché il
loro agire è, di fatto, più sostanziale: essi s'impongono con la forza, gli altri col
cipiglio.
Per lo stesso motivo i nostri re non sono ricorsi a simili travestimenti. Per apparir
tali, non si mascherano con abiti fuor dell'ordinario, ma si fanno scortare da
guardie, da alabardieri. Quelle truppe armate che hanno mani e forza soltanto per
loro, quei trombettieri, quei tamburi che li precedono, e quelle legioni che li
attorniano, fan tremare i cuori più saldi. Non hanno solamente l'abito, hanno la
forza. Bisognerebbe esser dotati di una ragione molto scaltrita per considerare un
uomo come gli altri il Gran Signore, circondato, nel suo superbo serraglio, da
quarantamila giannizzeri.
Ci basta semplicemente vedere un avvocato in sottana e col tocco in testa per farci
un'opinione favorevole della sua capacita.
27
28
Nei Parlamenti o Corti sovrane i seggi erano ornati di fiordalisi.
si tratta delle mule che usavano cavalcare i medici
18
L'immaginazione dispone di ogni cosa: crea la bellezza, la giustizia, la felicita, che
in questo mondo è tutto. ...
Ecco press'a poco gli effetti di questa facoltà ingannatrice, che sembra ci sia stata
data proprio per indurci in un errore necessario. Noi ne abbiamo altri principi29.
Le antiche impressioni non sono soltanto esse capaci di trarci in inganno; le
seduzioni della novità hanno lo stesso potere. Di qui hanno origine tutte le dispute
degli uomini, che si rimproverano o di seguire le false impressioni dell'infanzia o di
correre temerariamente dietro le nuove. Chi tiene il giusto mezzo? Si faccia avanti,
e lo provi. Non c'è principio, per naturale che possa essere, anche se acquisito dopo
l'infanzia, che non si possa far passare per una falsa impressione sia dell'istruzione
sia dei sensi.
« Per il fatto — dicono — che avete creduto sin dall'infanzia che un cofano fosse
vuoto, quando non ci vedevate dentro nulla, avete creduto possibile il vuoto. Si
tratta di un'illusione dei vostri sensi, rafforzata dall'abitudine, che la scienza deve
correggere ». E gli altri dicono: « Perché vi hanno detto nella Scuola che il vuoto
non esiste, si è corrotto il vostro senso comune, che lo comprendeva con tanta
chiarezza prima di quella cattiva impressione, che bisogna correggere ricorrendo
alla vostra natura primitiva »30. Chi ha, dunque, ingannato: i sensi o l'istruzione?
C'è in noi un'altra fonte di errore: le malattie. Esse ci guastano il giudizio e il
discernimento; e, se le grandi lo alterano in modo sensibile, non dubito che le
piccole non lo alterino in proporzione.
Il nostro proprio interesse è un altro meraviglioso strumento per cavarci
piacevolmente gli occhi. All'uomo più equo del mondo non è permesso di esser
giudice nella propria causa: ne conosco di quelli che, per non cadere in tale amor
proprio, sono stati per converso i più ingiusti del mondo; il mezzo sicuro di perdere
una causa giustissima era di fargliela raccomandare dai loro parenti prossimi.
La giustizia e la verità sono due punte talmente sottili che i nostri strumenti son
troppo ottusi per arrivarci con esattezza. Se ci arrivano, ne smussano la punta, e
appoggiano tutt'intorno, più sul falso che sul vero.
[L'uomo, dunque, è costruito in maniera. talmente felice che non possiede nessun
principio valido del vero e molti eccellenti del falso. Vediamo adesso come... Ma la
più spassevole causa di errori è la guerra che c'è tra i sensi e la ragione].
3 - L'abitudine.
243
L'abitudine è la nostra natura. Chi si assuefà alla fede crede a quanto essa insegna,
e non può più non aver paura dell'inferno e non crede in altra cosa. Chi si avvezza a
credere che il re sia terribile..., ecc. Chi dubiterà, allora, che la nostra mente,
essendo abituata a vedere numero spazio movimento, non creda ad essi, e a essi
soltanto?
244
Che cosa sono i nostri principi naturali se non i nostri principi abituali e, nei
fanciulli, quelli ereditati dalle abitudini dei loro padri, come l'istinto della caccia
negli animali?
.
29
Ossia: oltre all'immaginazione, ci sono in noi altri principi o fonti di errore.
P. si ricorda qui delle sue giovanili ricerche e polemiche sul vuoto. La prima tesi da lui ricordata era
comune agli scolastici e al Descartes; la seconda era la sua: l'osservazione dei fenomeni ci conduce ad
ammettere la possibilità del vuoto.
30
19
Una differente consuetudine ci darà altri principi naturali, come l'esperienza
insegna; e se ce ne sono che non possono esser cancellati dall'abitudine, ci sono
anche principi abituali contrari alla natura, che né la natura né una seconda consuetudine riescono a cancellare. Dipende dalla disposizione.
248
La cosa più í importante per tutta la vita è la scelta di un mestiere; eppure, dipende
dal caso. A farci muratori, soldati, conciatetti è la consuetudine. « è un ottimo
conciatetti », si dice; e, parlando dei soldati: « Sono proprio pazzi ». Altri, al
contrario: « Di grande, c'è solo la guerra; gli altri uomini son tutti dei miserabili ».
A furia di sentir sin dall'infanzia lodare un mestiere e disprezzare gli altri, si fa la
propria scelta; perché si ama naturalmente la verità e si odia la stoltezza; quelle
parole ci colpiscono: si pecca solo nell'applicazione. La potenza della consuetudine
è tale che di coloro che la natura ha fatto solamente uomini, si fanno poi tutte le
diverse condizioni: ci sono, infatti, paesi interi di muratori, di soldati, ecc. La
natura non è certo così uniforme. È, dunque, tutto effetto della consuetudine, la
quale violenta la natura. Pure, qualche volta questa riprende il sopravvento e
trattiene l'uomo nelle sue inclinazioni native, nonostante qualsiasi consuetudine,
buona o cattiva che sia.
4 - L'amore di sé.
253
Amor proprio31. La natura dell'amore di sé e di questo « io » umano è di amare
soltanto se stesso e di considerare soltanto se stesso. Ma come farà? Non può certo
impedire che l'oggetto del suo amore non sia pieno di difetti e di miserie: vuol esser
grande, e si vede meschino; vuol essere felice, e si vede miserabile; vuol essere
perfetto, e si vede pieno di imperfezioni; vuol essere oggetto dell'amore e della
stima degli uomini, e vede che i suoi difetti meritano solamente la loro avversione
e il loro disprezzo. Questa difficoltà genera in lui la più ingiusta e criminosa
passione che si possa immaginare: perché egli concepisce un odio mortale contro la
verità che lo riprende e lo convince dei suoi difetti. Vorrebbe annientarla, e, non
potendo distruggerla in lei stessa, la distrugge, per quanto gli è possibile, nella
propria conoscenza e in quella degli altri: mette, cioè, ogni sua cura nel celare i
propri difetti a se stesso e agli altri, e non tollera né che gli vengano mostrati né che
sian veduti.
Senza dubbio, esser pieni di difetti è un male, ma è un male ancora più grande
esserne pieni e non volerlo riconoscere, perché ciò significa aggiungervi quelli di
un'illusione volontaria. Non vogliamo che gli altri ci ingannino; non stimiamo
giusto che pretendano di esser stimati da noi più che non meritino: dunque, non è
giusto neppure che li inganniamo e che pretendiamo di esserne stimati più di
quanto meritiamo.
Cosi, quand'essi scoprono in noi soltanto imperfezioni e vizi che abbiamo
veramente, è evidente che non ci usano nessun torto, perché non ne son essi la
causa; anzi, ci rendono un servigio, poiché ci aiutano a liberarci da un male:
l'ignoranza di quei difetti. Non dobbiamo irritarci che li conoscano, e ci
31
Per intendere questo frammento nel suo pieno significato, importa ricordare che la teologia agostinianogiansenistica — per la quale il peccato di Adamo sarebbe consistito essenzialmente nel volgersi dell'uomo
da Dio a se stesso, nella pretesa di non appartenere più se non a se stesso — riconduceva all'« amor sui »
ogni sentimento e inclinazione dell'uomo.
20
disprezzino: è giusto che ci conoscano quali siamo e che ci disprezzino, se siam
degni di disprezzo.
Tali i sentimenti che nascerebbero da un cuore pieno di equità e di giustizia. Che
diremo, dunque, del nostro, scorgendovi un'inclinazione affatto opposta? Non è
forse vero, infatti, che odiamo la verità e coloro che ce la dicono, e che ci fa piacere
che si ingannino in nostro favore, e che vogliamo esser creduti diversi da quel che
realmente siamo?
Eccone una prova che mi fa orrore. La religione cattolica non ci fa obbligo di
rivelare i nostri peccati a chicchessia, senza distinzione; tollera che li teniamo
nascosti a tutti gli uomini, fuorché a uno: al quale ci ordina di scoprire il fondo del
nostro cuore e dimostrarci quali veramente siamo. È , questo, il solo uomo che ci
prescrive di disingannare; ed essa gli impone una cosi inviolabile segretezza che
tale conoscenza è in lui come se non ci fosse. Che altro si può immaginare di più
caritatevole e di più mite? Eppure, tale è la corruzione dell'uomo che questa legge
gli pare ancor troppo dura; ed è questa una delle principali cause della ribellione di
gran parte d'Europa alla Chiesa.
Quanto dev'essere ingiusto e irragionevole il cuore dell'uomo, se giudica un male
esser obbligato a fare con uno solo ciò che, in certo modo, sarebbe giusto che
facesse con tutti! È giusto, infatti, che li inganniamo?
Ci sono diversi gradi in quest'avversione per la verità, ma essa si ritrova, in qualche
grado, in tutti, perché è inseparabile dall'amore di sé. È questa falsa delicatezza a
obbligare chi si trova nella necessità di riprendere gli altri a cercare mille giri di
parole e attenuazioni per non urtarli. Deve sminuire i nostri difetti, far le viste di
scusarli, mescolare ai rimproveri lodi e proteste di affetto e di stima. Ciò
nonostante, all'amor proprio la medicina riesce pur sempre amara: esso ne prende
meno che può, e sempre con ripugnanza, e spesso anche con segreto dispetto
contro chi gliela porge.
Ne consegue che, se qualcuno ha un certo interesse a esser ben voluto da noi, si
guarda bene dal renderci un servigio che sa quanto ci riesca sgradito e ci tratta
come vogliamo esser trattati: noi odiamo la verità, ed esso ce la nasconde;
vogliamo esser lusingati, e ci lusinga; ci piace esser ingannati, e c'inganna.
Ecco perché ogni grado di fortuna che ci elevi tra gli uomini ci allontana sempre
piú dalla verità, giacché cresce sempre piú il timore di recar offesa a colui il cui
affetto è piú utile e l'avversione piú pericolosa.
Un principe potrà essere la favola di tutta Europa, ed egli solo non saperne nulla.
Non ne stupisco: il dire la verità torna utile a colui al quale vien detta, ma dannoso
a chi la dice, perché esso si fa prendere in odio. Ora, coloro che vivono con i
principi antepongono il loro interesse a quello del principe che servono; e cosí, si
guardan bene dal rendergli un servigio con il rischio di nuocere a se stessi.
Tale disgrazia è certamente piú grande e frequente nelle condizioni piú elevate, ma
non ne vanno immuni quelle inferiori, perché c'è sempre qualche interesse a farsi
ben volere dagli uomini. Cosí la vita umana non è se non perpetua illusione: non si
fa che adularsi e ingannarsi a vicenda. Nessuno parla di noi davanti a noi come ne
parla in nostra assenza. L'unione tra gli uomini è fondata soltanto su questo
inganno reciproco; e poche amicizie sussisterebbero, se ciascuno sapesse quel che
il suo amico dice di lui quando non è presente, sebbene allora ne parli con sincerità
e senza passione.
L'uomo non è, dunque, se non dissimulazione, menzogna e ipocrisia, e in sé e verso
gli altri. Non vuole che gli si dica la verità, evita di dirla agli altri; e tutte queste
inclinazioni, così lontane dalla giustizia e dalla ragione, hanno una radice naturale
nel suo cuore.
21
254
Ognuno è a se stesso un tutto, perché, lui morto, tutto è morto per lui.
Per questo ognuno crede di esser tutto a tutti. Non bisogna giudicare della natura
secondo noi, ma secondo lei.
255
Quale pervertimento di giudizio, per cui non c'è nessuno che non si metta sopra
tutto il resto dell'umanità, e non anteponga il proprio bene e la conservazione della
propria felicità e della propria vita a quella di tutto il resto dell'umanità!
257
Tutti gli uomini si odiano per natura l'un l'altro. Si è cercato, meglio che s'è potuto,
di far servire la concupiscenza al bene comune. Ma è soltanto finzione, e una falsa
immagine della carità: perché, in fondo, è sempre odio.
258
L'« io »32 va odiato: voi, Mitton, lo mascherate, ma non per questo lo sopprimete33;
dunque, siete tuttora odioso. — Nient'affatto, perché comportandoci, come
facciamo, cortesemente con tutti, non c'è più ragione di odiarci. — Si, se nell'« io »
si odiassero soltanto i fastidi che ce ne vengono. Ma, siccome io lo odio perché è
ingiusto, perché si fa il centro di tutto, lo odierò sempre.
In breve, l'« io » ha due particolarità: è ingiusto in sé, in quanto si fa il centro di
tutto; è incomodo agli altri, in quanto li vuol asservire: perché ogni « io » è il
nemico e vorrebbe essere il tiranno di tutti gli altri. Voi ne togliete via l'incomodità,
non l'ingiustizia. E così non lo rendete amabile a chi ne odia la ingiustizia, ma
solamente a coloro che in esso non trovan più il loro nemico. E così, rimanete
ingiusto e potete piacere soltanto agli ingiusti.
261
Siamo così presuntuosi che vorremmo esser conosciuti da tutti, persino da coloro
che verranno quando non ci saremo più; e siamo tanto vanitosi che la stima di
cinque o sei persone che ci stanno d'intorno ci rende lieti e ci appaga.
262
Nelle città dove ci accade di passare, non c'importa di esser stimati, ma se ci
dobbiamo restare un po' di tempo, ce ne dia mo pensiero. Quanto tempo? un tempo
proporzionato alla nostra durata misera e vana.
263
La vanità ha così profonde radici nel cuore dell'uomo che un soldato, un servo di
milizie, un cuoco, un facchino, si vanta e pretende di avere i suoi ammiratori; e gli
stessi filosofi ne vogliono. E coloro che scrivono contro la vanagloria aspirano al
32
L'« amor sui ».
Damien Mitton, uomo di mondo e « bel esprit », accolto anche a Corte, che Pascal. aveva conosciuto nel
cosiddetto periodo « mondano » della sua vita: tipo di libertino pessimista e scettico, indifferente o poco
sensibile al problema religioso.
33
22
vanto di aver scritto bene; e coloro che li leggono, al vanto di averli letti; e io, che
scrivo questo, nutro forse lo stesso desiderio; e coloro che mi leggeranno,
forsanche.
268
Noi non ci accontentiamo della vita che è in noi e nel nostro proprio essere:
vogliamo vivere inoltre nel concetto degli altri di una vita immaginaria, e a tal
intento ci sforziamo di « parere ». Lavoriamo senza posa ad abbellire e conservare
il nostro essere immaginario, e trascuriamo quello vero. E, se possediamo la
tranquillità o la generosità o la fedeltà, ci diam premura di farlo sapere, allo scopo
di far inerire tali virtù all'altro nostro essere, disposti persino a staccarle da noi pur
di congiungerle ad esso; a consentire volentieri di esser codardi pur di acquistare
fama di valorosi. Gran segno della nullità del nostro essere proprio, questo, di non
esser soddisfatti dell'uno senza l'altro e di scambiare spesso l'uno per l'altro! Invero,
chi non fosse disposto a morire per salvare l'onore, sarebbe infamato.
Incostanza, debolezza e vanità dell’uomo
273.
Incostanza. Nei nostri rapporti con gli uomini, crediamo di aver da fare con organi
comuni. Sono, è vero, organi, ma bizzarri, mutevoli, variabili, le cui canne non si
susseguono con gradazione regolare. Chi sa suonare solamente gli organi comuni, non
riesce a cavarne nessun accordo. Bisogna sapere dove sono i [tasti34].
277
Fastidio che si prova quando bisogna lasciare le occupazioni cui si è attaccati. Un uomo
vive contento nella propria famiglia: basta che veda una donna che gli piaccia o che
giochi cinque o sei giorni con piacere, ed eccolo infelice se fa ritorno alla prima
occupazione. Nulla di piú comune.
278
Quando stiamo bene, ci domandiamo con meraviglia come faremmo se fossimo malati;
quando poi lo siamo, ci pieghiamo di buona voglia a prender le medicine: il male ci
persuade a farlo. Non abbiamo piú le passioni e il desiderio di passeggiate e di svaghi
che la salute suscitava in noi e che sono incompatibili con le necessità della malattia. La
natura c'ispira allora passioni e desideri conformi al nostro nuovo stato . Non la natura,
dunque, ma i timori che ci procuriamo noi stessi son quelli che ci turbano, perché
aggiungono allo stato in cui ci troviamo le passioni di quello in cui ancora non siamo.
E poiché la natura ci rende infelici in qualunque stato, i nostri desideri ci raffigurano
uno stato felice, perché aggiungono allo stato nel quale ci troviamo i piaceri di quello in
cui non siamo; mentre, quand'anche ci riuscisse di ottenerli, non per questo saremmo
felici, perché avremmo altri desideri, conformi a quel nuovo stato.
Conviene ricondurre al particolare questa proposizione generale.
34
Già Descartes aveva paragonato, nel suo Traité de l'bomme, il meccanismo dei nostri « umori » a
quello degli organi. Ma la metafora pascaliana deriva probabilmente da Montaigne (Saggi, II, I): « Come
si vede dal giovine Catone: chi ne abbia toccato un tasto, li ha toccati tutti »
23
279
Noi siamo cosí disgraziati che possiamo provar piacere di una cosa solo a patto di
dolerci se va male: ciò che può accadere di mille cose, e accade di continuo. Chi trovasse
il segreto di rallegrarsi del bene senza affliggersi del male opposto, avrebbe risolto la
difficoltà; ma è come voler trovare il moto perpetuo.
280
Lo spirito di questo sovrano giudice del mondo non è cosí indipendente da non poter esser
turbato dal primo rumore che si faccia intorno a lui. Per ostacolare i suoi pensieri non
occorre il rombo d'un cannone: basta il cigolio d'una banderuola o di una carrucola. Non
dovete stupire se in questo momento non ragiona bene: una mosca gli ronza intorno
all'orecchio, e ciò è sufficiente a renderlo incapace di una saggia decisione. Se volete che
possa trovare la verità, scacciate via quell'insetto, che tiene in scacco la sua ragione e
turba quel possente intelletto, che governa le città e i reami. Bell'iddio, costui! O
ridicolosissimo eroe!
281
Potenza delle mosche: vincono battaglie impediscono al nostro spirito di esplicare la sua
attività, mangiano il nostro corpo.
282
Il caso dà i pensieri e il caso li toglie: non c'è nessun'arte né per conservare né per
acquisire.
Pensiero sfuggitomi: lo volevo scrivere; scrivo, invece, che mi è sfuggito.
283
Ogni tanto, mentre sto scrivendo il mio pensiero, esso mi sfugge. Ma ciò mi fa
ricordare la mia debolezza, che dimentico in ogni momento; e ciò m'istruisce altrettanto
del pensiero che mi è uscito di mente, perché io miro solo a conoscere la mia nullità.
284
Il tacco della scarpa. « Oh, com'è tornito bene! che abile operaio! com'è coraggioso quel
soldato! »: ecco l'origine delle nostre vocazioni e della scelta di un mestiere. « Come
beve, il tale! e come beve poco il talaltro! »: ecco quel che produce le persone sobrie e i
beoni, i soldati, i codardi, ecc.
290
Cromwell stava per devastare tutta la cristianità: la famiglia reale era perduta e la sua
potente per sempre, se un granellino di sabbia non gli si fosse ficcato nell'uretere. La
stessa Roma stava per tremare sotto di lui; ma, cacciatasi lí quella pietruzza, egli
morì35, la sua famiglia cadde, tutto tornò in pace e il re36 fu rimesso sul trono.
35
36
Non d'un calcolo alla vescica, ma d'una febbre maligna, nel settembre 1658.
Carlo II Stuart (fu restaurato nel maggio 166o).
24
291
Lo sternuto assorbe tutte le funzioni dell'anima, al pari dell'atto carnale37, ma non se ne
traggono le stesse conseguenze contro la grandezza dell'uomo, perché avviene suo
malgrado. E, anche quando esso se lo procura, lo fa pur sempre suo malgrado, non in vista
della cosa, bensí di un altro fine; e, quindi, non è un segno della debolezza dell'uomo e
del suo asservimento a quell'atto.
Non è vergognoso per l'uomo soccombere sotto il dolore, mentre gli è vergognoso
soccombere sotto il piacere. Ciò non deriva dal fatto che il dolore ci viene da fuori,
mentre il piacere lo cerchiamo noi: si può, infatti, cercare il dolore e soccombervi di
deliberato proposito, senza che ciò denoti bassezza. Perché allora per la ragione è
motivo di vanto soccombere sotto lo sforzo del dolore e vergognoso soccombere sotto
quello del piacere? Perché a tentarci e attirarci non è il dolore: siam noi a sceglierlo
volontariamente e a volere che domini su di noi, sicché restiamo padroni della cosa, e in
questo caso l'uomo soccombe a se stesso; mentre, nel piacere, l'uomo soccombe a questo.
Ora, solo la padronanza e l'imperio costituiscono la gloria, e la servitù la vergogna.
292
[Quell'uomo cosí afflitto per la morte della moglie e del suo unico figlio, che è
angustiato per quell'importante processo, perché mai in questo momento non è più triste, e
ci appare cosí libero da tutti quei pensieri penosi e inquietanti? Non c'è da stupirne:
gli hanno appena passato la palla e deve rimandarla al suo compagno di giuoco, o è tutto
intento ad afferrarla appena cada dal tetto38 per segnare cosí un punto in suo favore.
Come volete che pensi alle proprie faccende, avendo quest'altra che lo assorbe? Ecco una
cura degna di assorbire quella grande anima e di toglierle dalla mente ogni altro
pensiero! Quell'uomo, nato per conoscere l'universo, per giudicare di tutte le cose, per
reggere un intero Stato, eccolo occupato e tutto assorbito dalla cura di prendere una
lepre. E se non si abbassa a ciò e vuol vivere in una perpetua tensione spirituale, sarà ancor
più stolto, perché vorrà elevarsi sopra la condizione umana, mentre non è in definitiva se
non un uomo: ossia., un essere capace di poco e di molto, di tutto e di niente, non angelo
né bruto, ma uomo].
295
[Tre ospiti39 ] . Chi avesse goduto dell'amicizia del re d'Inghilterra, del re di Polonia e
della regina di Svezia avrebbe mai pensato di potersi trovare nel mondo senza rifugio
ed asilo? Macrobio40: degli innocenti uccisi da Erode.
298
Gli uomini sono cosí necessariamente pazzi che il non esser pazzo equivarrebbe a esser
soggetto a un altro genere di pazzia.
37
Cfr. Montaigne, Saggi, III,V: « Il sonno offusca e sopprime le facoltà della nostra anima; l'atto carnale
le assorbe e dissipa nel medesimo modo; ed è certamente un segno non solo della nostra corruzione
originale, ma anche della nostra vanità e deformità »
38
Nel giuoco della pallacorda, l'apposito recinto aveva, dalla parte opposta alla rete, una galleria
sormontata da una piccola tettoia di legno: col nome di « tetto » s'indicava anche la parte di sotto, su cui
poteva andare a sbattere la palla.
39
Invece Carlo I d'Inghilterra fu decapitato, nel 1649; Cristina di Svezia abdicò, nel 1654; e il re Casimiro
di Polonia fu (temporaneamente) spodestato, nel 1656
40
Scrittore latino della prima metà del secolo V, autore tra l'altro di un « simposio », I Saturnali, ricco di
notizie sui più svariati argomenti.
25
Le leggi e le istituzioni sociali
301
... Su che cosa fonderà l'uomo l'economia41 del mondo che pretende di governare?
Sul capriccio del singolo? Quale confusione! Sulla giustizia? La ignora.
Se la conoscesse, l'uomo non avrebbe certo stabilita questa massima, la piú
generale tra quante han corso tra gli uomini. ognuno si attenga alle costumanze del
proprio paese. Lo splendore della vera equità avrebbe conquistato tutti i popoli, e i
legislatori non avrebbero preso come modello, invece di quella giustizia
immutabile, le fantasie e i capricci dei Persiani e dei Tedeschi. La vedremmo
radicata in tutti gli Stati del mondo e in tutti i tempi, mentre, per converso, nulla si
vede di giusto o d'ingiusto che non muti qualità col mutar di clima. Tre gradi di
latitudine sovvertono tutta la giurisprudenza; un meridiano decide della verità; nel
giro di pochi anni le leggi fondamentali cambiano; il diritto ha le sue epoche;
l'entrata di Saturno nel Leone segna l'origine di questo o quel crimine. Singolare
giustizia, che ha come confine un fiume! Verità di qua dei Pirenei, errore di là42.
Essi43 affermano che la giustizia non consiste in queste costumanze, bensí in leggi
naturali, riconosciute in ogni paese. E, certo, lo sosterrebbero ostinatamente, se, tra
le leggi umane che la temerità del caso ha disseminate, ce ne fosse almeno una di
universale; ma il buffo è che il capriccio degli uomini si è cosí ben diversificato
che non ce n'è nessuna.
Il furto, l'incesto, l'uccisione dei figli o dei padri, tutto ha trovato posto tra le azioni
virtuose. Si può dar cosa più spassevole di questa: che un uomo abbia il diritto di
ammazzarmi solo perché abita sull'altra riva del fiume e il suo sovrano è in lite con
il mio, sebbene io non lo sia con lui?
Ci sono, senza dubbio, leggi naturali, ma questa bella ragione corrotta ha corrotto
ogni cosa: « In forza dei senatoconsulti e dei plebisciti si commettono crimini » «
Un tempo soffrivamo dei nostri vizi, oggi delle nostre leggi »44 .
Da questa confusione consegue che l'uno afferma che essenza della giustizia è
l'autorità del legislatore; un altro il beneplacito di chi comanda; un altro ancora, le
costumanze vigenti (ed è l'opinione più sicura): nulla, seconda la pura ragione, è
per sé giusto; tutto muta col tempo. La consuetudine fonda tutta quanta l'equità, per
la sola ragione che è seguita: questo è il fondamento mistico della sua autorità. Chi
la riconduce alla sua origine, la annichila. Nulla di più fallace delle leggi che
pretendono di correggere le colpe: chi obbedisce loro perché le crede giuste,
obbedisce alla giustizia che egli si immagina, non all'essenza della legge: essa è
tutta raccolta in se medesima; è legge, e nient'altro. Chi voglia esaminarne il
fondamento, scoprirà che esso è talmente debole e futile che, se non è avvezzo a
contemplare i prodigi dell'umana immaginazione, stupirà che il tempo abbia potuto
procurargli tanto lustro e rispetto. L'arte di far la fronda, di sovvertire gli Stati, sta
nello scuotere le consuetudini vigenti, scandagliandole sin nella loro fonte, per
mostrare che mancano di autorità e di giustizia. Bisogna (si dice) risalire alle leggi
fondamentali e primitive dello Stato, abolite da ingiuste consuetudini un giuoco
sicuro per mandare in rovina ogni cosa: pesato su quella bilancia, nulla sarà giusto.
41
L'ordinamento civile e sociale.
Il concetto della relatività e contraddittorietà delle leggi e dei costumi risaliva ai sofisti; ed era stato
ripreso nell'ultimo secolo, in Francia, da Montaigne, di cui Pascal accoglie anche — oltreché per
sollecitudine della pace civile, per ossequio all'ordine di Dio — la lezione di conservatorismo sociale,
fatta sua, del resto, anche dal Descartes nella sua « morale provvisoria ».
43
In particolare, gli Stoici: che sostenevano che « il giusto è Per natura, e non per convenzione » e che
esistono leggi naturali.
44
Seneca, Epistole, XVC; Tacito., Annali, III, XXV).
42
26
Tuttavia, il popolo presta volentieri orecchio a discorsi di tal genere: esso scuote il
giogo, appena se ne avvede; e i grandi ne approfittano per la sua rovina e per quella
di quei curiosi indagatori delle costumanze tradizionali. Ecco perché il più savio
dei legislatori45 diceva che, per il bene degli uomini, bisogna spesso ingannarli; e
un altro, buon politico: « Poiché esso ignora la verità che libera è bene che sia
ingannato»46. Bisogna che il popolo non si avveda della verità dell'usurpazione: è
stata compiuta in passato senza ragione, è diventata ragionevole. Bisogna che sia
considerata autentica, eterna, e ne resti celata l'origine, se non si voglia che abbia
presto fine.
335
Che cos'è l'« io »47?
Se un uomo si fa alla finestra per guardare i passanti e io passo di là, posso dire che
si è affacciato per vedermi? No, perché non pensava a me in particolare. Ma chi
ama una persona per la sua bellezza, ama lei? No, perché il vaiolo, che distrugge la
bellezza senza uccidere la persona, farà si che esso non l'amerà più.
E se mi si ama per il mio ingegno o per la mia memoria, si ama veramente me? No,
perché posso perdere quelle doti senza perdere me stesso. Dov'è, dunque, questo «
io » se non è né nel corpo né nell'anima? E come si può amare il corpo o l'anima se
non per quelle doti, che tuttavia non costituiscono 4",‘ l'« io », perché sono
periture? Si può forse amare l'anima di una persona in astratto, indipendentemente
dalle sue qualità? No, è impossibile, e sarebbe ingiusto. Dunque, non si ama mai
una persona, ma soltanto certe qualità.
Non si rida più, allora, di coloro che si fanno onorare per certe cariche e certi uffici,
perché non si ama nessuno se non per qualità d'accatto.
La distrazione48
348
Distrazione. Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria,
l'ignoranza, hanno risolto, per viver felici, di non pensarci.
349
Condizione dell'uomo: incostanza, noia, inquietudine.
350
La nostra natura è nel movimento; il riposo assoluto è la morte.
45
Platone
Citazione da Montaigne
47
Qui l'« io » è visto dal di fuori, nei suoi rapporti con altre individualità.
48
Il testo ha « divertissement », nel senso etimologico del termine (dal latino devertere, volgere
altrove). — La « distrazione », l'oblio di sé e della propria condizione, tale il vero fine cui tendono, pur
senza averne consapevolezza, gli uomini nella loro multiforme attività. E nient'altro che « distrazioni »
— mezzi con i quali cercano di evadere da sé e di sottrarsi al sentimento oscuro, ma non perciò meno
angoscioso, della loro « miseria » — sono tutte le loro occupazioni: il giuoco e le civili conversazioni, la
caccia e la guerra, gli alti uffici e la ricerca della gloria, le arti e le scienze, in cui non si cercano mai le
cose, bensì « la ricerca delle cose ». — È uno dei temi piú importanti, e piú schiettamente «
esistenzialistici », del pensiero pascaliano.
46
27
351
Nonostante tutte queste miserie, l'uomo vuol essere felice, e vuole soltanto esser felice,
e non può non voler esser tale. Ma come fare? per riuscirci, dovrebbe rendersi immortale;
siccome non lo può, ha risolto di astenersi dal pensare alla morte.
352
Noia. Nulla è cosí insopportabile all'uomo come essere in un pieno riposo, senza
passioni, senza faccende, senza svaghi, senza occupazione. Egli sente allora la sua
nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo
vuoto. E subito sorgeranno dal fondo della sua anima il tedio, l'umor nero, la tristezza,
il cruccio, il dispetto, la disperazione.
353
Senza esaminare le varie occupazioni particolari, basta comprenderle tutte sotto il concetto
di distrazione.
354
Distrazione. Quando mi son messo, talvolta, a considerare le varie agitazioni degli
uomini e i pericoli e le pene cui si espongono, nella Corte, in guerra, e donde
nascono tante liti, passioni, imprese audaci e spesso sconsiderate, ecc., ho scoperto
che tutta l'infelicità degli uomini deriva da una sola causa: dal non saper restarsene
tranquilli, in una camera. Un uomo che possieda tanto da vivere, se sapesse
starsene con piacere a casa propria, non se ne allontanerebbe per andare sul mare o
all'assedio di una piazzaforte. Si compera a cosí caro prezzo un grado nell'esercito
soltanto perché riuscirebbe insopportabile non muoversi dalla città; e si cercano le
conversazioni e lo svago dei giuochi soltanto perché non si può rimanere a casa
propria con piacere.
Ma, quando ho meditato la cosa piú a fondo, e, dopo aver trovato la causa di tutti i
nostri mali, ne ho voluto scoprire le ragioni, mi sono reso conto che ce n'è una
realissima: l'infelicità naturale della nostra condizione debole e mortale, e talmente
misera che nulla ci può consolare, allorché ci riflettiamo con attenzione.
Qualunque condizione ci si immagini, se radunano insieme tutti i beni che ci
posson toccare, quella di re è sicuramente la piú bella del mondo. E, tuttavia,
figuriamoci un re, provveduto di tutte le soddisfazioni che possano gradirgli, ma
che sia privo di distrazioni e abbia agio di meditare e riflettere su quello che è: la
sua languida felicità non basterà a sorreggerlo; esso non potrà far a meno di
pensare ai pericoli che lo minacciano, alle possibili ribellioni e, in ogni caso, alle
malattie e alla morte, cui non può sfuggire: dimodoché, se resta senza quel che si
chiama « distrazione », eccolo infelice e piú assai dell'ultimo dei suoi sudditi che
giochi e si diverta.
[L'unico bene degli uomini sta, dunque, nell'essere distolti dal pensare alla loro
condizione o da un'occupazione o da qualche passione piacevole e nuova che li
assorba, o dal giuoco, dalla caccia, da qualche spettacolo attraente: insomma, da
quel che si chiama « distrazione »].
È questa la ragione per cui il giuoco, la conversazione delle donne, la guerra, gli
alti uffici son tanto ricercati. Non che in essi si trovi realmente la felicità, né che si
creda che la vera beatitudine stia nel denaro che si può vincere al giuoco o nella
lepre di cui si va a caccia: non li vorremmo, se ci fossero offerti in dono. Noi non
cerchiamo un tal possesso, molle e placido, e che ci lascia pensare all'infelicità
28
della nostra condizione, e neppure i pericoli della guerra o i fastidi degli impieghi;
ma il trambusto che ci distoglie da quel pensiero e ci distrae.
Ragion per cui si preferisce la caccia alla preda.
Ecco perché agli uomini piace tanto il chiasso e il trambusto; e la prigione è una
pena cosí orribile e il piacere della solitudine riesce incomprensibile; e, infine,
perché quel che rende particolarmente avventurata la condizione di re è che tutti si
studiano senza posa di distrarli e di procurar loro ogni sorta di piaceri. Il re è
attorniato da persone che pensano soltanto a distrarlo e a impedirgli di pensare a lui
stesso: giacché, per quanto re, se ci pensa, è infelice.
Ecco tutto quel che gli uomini hanno saputo inventare per viver felici. E coloro
che, in proposito, si atteggiano a filosofi e giudicano poco ragionevole passare tutta
la giornata a correr dietro a una lepre che non si vorrebbe aver comperata non
conoscono la nostra natura. Quella lepre non ci preserverebbe dal pensiero della
morte e delle nostre miserie, ma la caccia, che ce ne distrae, sí.
Il consiglio dato a Pirro di prendersi subito quel riposo che si riprometteva di
conseguire attraverso tanti travagli, andava contro serie difficoltà.
[Dire a un uomo che se ne stia tranquillo è dirgli di vivere felice: consigliargli una
condizione in tutto felice e che egli possa considerare a suo agio, senza scorgervi
nessun motivo di afflizione. Non è, dunque, capir la natura.
E cosí gli uomini, che sentono naturalmente la loro condizione, nulla evitano come
il riposo; e fanno qualunque cosa per vivere nell'agitazione. Non che non abbiano
un istinto che fa loro conoscere come la vera beatitudine... La vanità, il piacere di
mettersi in mostra.
Perciò la maniera usuale di biasimarli è sbagliata. La loro colpa non è di cercare il
tumulto, se lo cercassero solo come uno svago; bensí di cercarlo come se il
possesso delle cose da loro cercate li dovesse rendere veramente felici. E in questo
si ha ragione di accusare di vanità la loro ricerca: dimodoché, su questo punto, sia
coloro che biasimano sia coloro che son biasimati mostrano di non intendere la
vera natura dell'uomo].
E cosí, quando si obietta loro che il possesso di quel che cercano con tanto ardore
non servirebbe a soddisfarli, se essi rispondessero, come dovrebbero fare se ci
pensassero bene, che cercano solamente un'occupazione violenta e tumultuosa che
li distorni dal pensare a loro stessi e che per questo si propongono un oggetto
attraente che li alletti e li seduca con ardore, lascerebbero gli avversari senza
possibilità di replica. Ma non rispondono cosí perché non conoscono se stessi. Non
sanno che cercano non già la preda, ma la caccia.
[La danza: bisogna pur pensare dove si metteranno i piedi. — Il gentiluomo crede
sinceramente che la caccia sia un grande piacere, un piacere da re; ma il suo
battitore non è dello stesso avviso].
Essi s'immaginano che, se ottenessero un certo ufficio, poi si riposerebbero con
piacere, e non si rendon conto della natura insaziabile della loro cupidigia. Credono
sinceramente di cercare il riposo, e cercano soltanto l'agitazione.
C'è in loro un istinto segreto che li porta a cercare fuori di sé la distrazione e
l'occupazione: istinto derivante dal sentimento delle loro continue miserie. E c'è in
loro un altro istinto segreto, che è un residuo della grandezza della nostra prima
natura49, che fa loro conoscere che la felicità vera si trova nel riposo, e non nel
trambusto. E da questi due istinti opposti si genera in loro un proposito confuso,
che si nasconde alla loro vista nel fondo della loro anima, che li spinge a cercare il
riposo attraverso l'agitazione e a figurarsi sempre di poter conseguire
l'appagamento di cui son privi, se, superati alcuni ostacoli, potranno aprirsi cosí la
via al riposo.
49
Quella originaria, non ancora guasta dal peccato originale.
29
Cosí scorre via tutta la vita. Si cerca il riposo combattendo certe difficoltà; e,
superate che siano, il riposo diventa insopportabile, perché si pensa o alle miserie
presenti oppure a quelle che ci minacciano. E, quand'anche ci si vedesse abbastanza
al riparo da ogni parte, la noia, di sua privata autorità, non tralascerebbe di uscire al
profondo del cuore, dove ha radici naturali, e di riempire col suo veleno il nostro
spirito.
Cosí, l'uomo è tanto disgraziato che si annoierebbe anche senza nessun motivo di
tedio, per la sua stessa conformazione naturale; ed è talmente vano che, pur
essendo pieno di mille cause essenziali di noia, la minima cosa, come un biliardo o
una palla da spingere, basta a svagarlo.
Ma — direte — quale scopo si propone in tutto questo? Quello di vantarsi domani
con gli amici di aver giocato meglio di un altro. Analogamente, altri sudano nel
loro scrittoio per mostrare ai dotti di aver saputo risolvere un problema di algebra
rimasto sino ad oggi insoluto; e molti altri si espongono ai piú gravi pericoli per poi
vantarsi (scioccamente, a mio avviso) di aver espugnato una piazzaforte; e altri,
infine, si ammazzano dalla fatica per osservare tutte queste cose, non già per trarne
una lezione di saggezza, ma solamente per far vedere che le sanno. E questi sono i
piú stolti della banda, perché sono tali con cognizione di causa, mentre è
presumibile che gli altri non sarebbero piú tali se avessero siffatta conoscenza.
C'è chi passa la vita senza annoiarsi, giocando ogni giorno un po' di denaro.
Donategli ogni mattina la somma che può guadagnare ogni giorno, a patto che non
giochi piú: lo renderete infelice. Si obietterà forse che costui cerca non il guadagno,
ma il passatempo. Fatelo allora giocare per niente: non ci prenderà gusto e si
annoierà. Dunque, non cerca solo il passatempo: uno svago fiacco e senza passione
lo annoierà. Bisogna che ci pigli gusto e frodi se stesso, immaginando che sarebbe
felice di vincer quel che non vorrebbe gli fosse donato a patto di non giocar piú, in
modo che possa foggiarsi un motivo di passione su cui riversare i suoi desideri, i
suoi timori, la sua collera, come i fanciulli che si spaventano nel vedere la faccia
che hanno impiastricciata.
Come mai quell'uomo, che ha perduto da pochi mesi il suo unico figlio e che,
oppresso da liti e da processi, era stamane tanto angustiato, ora non ci pensa più?
Non stupirtene: è tutto intento a vedere di dove passerà il cinghiale che i suoi cani
inseguono con tanto ardore da sei ore. Non occorre altro. L'uomo, per quanto sia
pieno di tristezza, se appena si riesca ad attirarlo in qualche divertimento, sarà
subito felice, finché esso duri; e, per quanto fortunato sia, se non è distratto e assorbito da qualche passione o da qualche passatempo, che impedisca alla noia di
diffondersi nel suo animo, non tarderà a essere scontento e infelice. Senza la
distrazione, non c'è gioia; con la distrazione, non c'è tristezza. La fortuna delle
persone di alta condizione sta, appunto, nell'aver intorno una quantità di gente che
le distrae, e nel poter rimanere in questo stato.
Badate. Che cosa significa esser sovrintendente, cancelliere, primo presidente, se
non trovarsi in una condizione che permette di aver intorno, sin dal mattino, un
gran numero di persone accorrenti da ogni dove perché non resti loro nemmeno
un'ora in tutta la giornata in cui possano pensare a loro stessi? E quand'esci cadono
in disgrazia, e devono ritirarsi nelle loro case di campagna, dove pur non mancano
né di beni di fortuna né di domestici per assisterli nei loro bisogni, si sentono
tuttavia miseri e soli, perché nessuno impedisce loro di pensare a loro stessi.
358
Si addossa agli uomini, sin dall'infanzia, la cura del loro onore, dei loro beni, dei
loro amici, e financo dei beni e dell'onore degli amici'. Si sovraccaricano di lavoro,
dello studio delle lingue e di occupazioni; e si fa loro credere che non potranno
esser felici se salute, onore, averi loro e dei loro amici non saranno in buono stato e
30
che, se venisse a mancare una sola di tali cose, sarebbero infelici. E cosí, si affidan
loro incarichi e incombenze che li fan penare da mattina a sera. — Bella maniera
(direte) di renderli felici! Che cosa si potrebbe fare di piú, per renderli infelici? —
Come? che cosa si potrebbe fare? Basterebbe liberarli da tutte quelle cure: allora
vedrebbero se stessi, penserebbero a quel che sono, si domanderebbero donde
vengono, dove vanno. Perciò, non si può mai occuparli e distrarli abbastanza. Ed
ecco perché, dopo averli sovraccaricati di tante faccende, appena hanno un
momento di respiro, si consiglia loro d'impiegarlo a divertirsi, a giocare e ad assorbirsi sempre per intero in qualche occupazione.
Com'è vuoto, il cuore dell'uomo, e pieno di lordure!
359
Distrazione. La dignità regale non è forse di per sé cosí grande per se stessa da
render felice chi la possieda con la sola visione di quel che è? Bisognerà distrarlo
da quel pensiero, come la gente comune? Vedo bene che, per render felice un
uomo, basta distrarlo dalle sue miserie domestiche e riempire tutti i suoi pensieri
della sollecitudine di ballar bene. Ma accadrà il medesimo con un re, e sarà egli piú
felice attaccandosi a quei frivoli divertimenti anziché allo spettacolo della sua
grandezza? E qual oggetto piú soddisfacente si potrebbe dare alla sua mente? Non
sarebbe far torto alla sua gioia occupare il suo animo a cercare di adattare i suoi
passi al ritmo d'una musica o di mettere a segno una palla, invece di lasciarlo
godere tranquillo la contemplazione della gloria maestosa che lo circonda? Se ne
faccia la prova: si lasci un re completamente solo, senza nessuna soddisfazione dei
sensi, senza nessuna occupazione della mente, senza compagnia, libero di pensare a
sé a suo agio; e si vedrà che un re privo di distrazioni è un uomo pieno di miserie.
Cosí si evita con cura un tal caso, ed esso ha sempre intorno a sé un gran numero di
persone che badano a far seguire agli affari di Stato gli svaghi e che predispongono
piaceri e giuochi per riempire tutto il tempo in cui resterebbe altrimenti in ozio,
dimodoché non resti mai un vuoto. Ossia, i re son circondati da persone che si
prendono una cura singolare di evitare che restino soli e in condizione di pensare a
loro stessi, ben sapendo che, se ci pensassero, sarebbero infelici, nonostante che
siano re.
In tutto questo discorso, parlo dei re cristiani non in quanto cristiani, ma solo in
quanto re.
360
Piace la lotta, non la vittoria. Piace vedere i combattimenti degli animali, non il
vincitore che infierisce sul vinto: che cosa si voleva vedere, infatti, se non l'esito
della lotta? Eppure, quand'esso giunge, si è già sazi. Cosí nel giuoco, cosí nella ricerca della verità. Piace, nelle dispute, seguire il contrasto delle opinioni; ma
contemplare la verità trovata, nient'affatto! Per farla osservare con diletto, bisogna
mostrarla in atto di nascere dalla disputa. Del pari, si gode di osservare l'urto di due
passioni opposte; ma, quando una ha il sopravvento, non c'è piú se non brutalità.
Noi non cerchiamo mai le cose, ma la ricerca delle cose. Cosí, a teatro, le scene
tutte contentezza senza un po' di timore non valgono nulla, né le estreme sciagure
senza speranza, né gli amori brutali, né le aspre severità.
361
Distrazione. La morte è piú agevole da sopportare senza pensarci, che il pensiero
della morte senza pericolo.
31
362
Noi non ci atteniamo mai al presente. Anticipiamo l'avvenire come troppo lento a
giungere, quasi per affrettarne il corso; oppure ci ricordiamo il passato, per
fermarlo come troppo fugace: cosí imprudenti che vaghiamo nei tempi che non son
nostri e non pensiamo al solo che realmente ci appartiene; e talmente vani che
pensiamo a quelli che non sono e fuggiamo sconsideratamente il solo che esiste.
Gli è che il presente, d'ordinario, ci ferisce. Lo nascondiamo alla nostra vista
perché ci affligge; e, se ci diletta, ci duole di vederlo fuggire. Tentiamo di
sorreggerlo con l'avvenire e pensiamo a predisporre le cose che non sono in nostro
potere in vista di un tempo al quale non siamo per nulla certi di arrivare.
Ciascuno esamini i propri pensieri: li troverà sempre occupati del passato e
dell'avvenire. Non pensiamo quasi mai al presente; o, se ci pensiamo, è solo per
prenderne lume al fine di predisporre l'avvenire. Il presente non è mai il nostro
fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; solo l'avvenire è il nostro fine.
Cosí, non viviamo mai, ma speriamo di vivere e, preparandoci sempre ad esser
felici, è inevitabile che non siamo mai tali.
365
Distrazione. Se l'uomo fosse felice, sarebbe tanto più tale quanto meno avesse
distrazioni, cosí come i santi e Dio. — Si, ma non è forse esser felici poter essere
rallegrati dalla distrazione? — No: perché la distrazione viene da altra fonte e
dall'esterno; e, quindi, esso è dipendente e, di conseguenza, soggetto a esser turbato
da mille accidenti, che rendono inevitabili le afflizioni.
366
Miseria. La sola cosa che ci consoli delle nostre miserie è la distrazione; tuttavia, è
la più grande di tutte, perché essa soprattutto c'impedisce di pensare a noi stessi e fa
che ci perdiamo insensibilmente. Senza di lei, saremmo nella noia; e questa ci
spingerebbe a cercare un mezzo più sicuro per uscirne. Mentre la distrazione ci
svaga, e ci fa giungere alla morte senza che ce ne avvediamo.
367
Noi corriamo spensierati verso il precipizio, dopo esserci messi dinanzi agli occhi
qualcosa che c'impedisca di vederlo.
Segni della grandezza dell’uomo
368
Nonostante la vista di tutte le nostre miserie, che ci premono, che ci stringono alla
gola, abbiamo un istinto, che non possiamo reprimere, che ci eleva.
370
La grandezza dell'uomo. La grandezza dell'uomo è cosí evidente che s'inferisce
dalla sua stessa miseria. Invero, ciò che negli animali è natura, nell'uomo lo
chiamiamo miseria: riconoscendo cosí che, essendo oggi la sua natura simile a
quella degli animali, è decaduto da una natura migliore, che era un tempo la sua.
32
Infatti, chi si sente infelice di non esser re, se non un re spodestato? Forse che
Paolo Emilio era considerato infelice, perché non era più console? Al contrario,
tutti lo stimavano fortunato di esserlo stato, perché la sua condizione non era di
esserlo sempre. Invece, si giudicava infelicissimo Perseo50 di non essere più re,
giacché la sua condizione era di esserlo sempre: tanto che pareva strano che
sopportasse ancora la vita.
Chi si stima disgraziato per aver soltanto una bocca? e chi invece non si giudicherà
disgraziato di non avere se non un occhio solo? A nessuno forse è mai passato per
la mente di affliggersi di non aver tre occhi; ma chi ne è del tutto privo è
inconsolabile51.
372
La grandezza dell'uomo sta in questo: che esso ha coscienza della propria miseria.
Una pianta non si conosce miserabile.
Conoscere di esser miserabile è, quindi, un segno di miseria, ma, in pari tempo, un
segno di grandezza52.
375
Posso benissimo concepire l'uomo senza mani, senza piedi e magari senza testa
(perché solo l'esperienza m'insegna che la testa è piú necessaria dei piedi), ma non
senza pensiero sarebbe una pietra o un bruto53.
376
Nel pensiero sta la grandezza dell'uomo.
377
L'uomo è solo una canna, la piú fragile della natura; ma una canna che pensa. Non
occorre che l'universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d'acqua
bastano a ucciderlo. Ma, quand'anche l'universo lo schiacciasse, l'uomo sarebbe pur
sempre piú nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e la superiorità che
l'universo ha su di lui; mentre l'universo non ne sa nulla54.
Tutta la nostra dignità sta, dunque, nel pensiero. In esso dobbiam cercare la ragione
per elevarci, e non nello spazio e nella durata, che non potremmo riempire.
Lavoriamo, quindi, a ben pensare: ecco il principio della morale
50
L'ultimo re di Macedonia (279-168), sconfitto e fatto prigioniero da Lucio Emilio Paolo.
Per dirla in termini scolastici, nel primo caso si tratta di una semplice « negazione », dell'assenza cioè
di qualcosa che non ci è dovuto; nel secondo, d'una « privazione », della mancanza di qualcosa che
dovremmo possedere. Nel medesimo senso, quel « negli animali è natura, nell'uomo lo chiamiamo
miseria »: appunto perché è « privazione », disvalore.
52
Perché significa che l'uomo riconosce di non essere quale dovrebbe essere (e aspira ad essere). E,
quindi, che tale miseria non gli è congenita ed essenziale, ma è « miseria di re spodestato ».
53
Concetto cartesiano: « potevo fingere di non aver nessun corpo », Cartesio, Meditazioni metafisiche, I
e II.
54
Dunque, se, come essere naturale, l'uomo, — nonché occupare, una posizione centrale e privilegiata, —
è solo un'infinitesima parte del tutto, un punto sommerso nel gran mare dell'essere, in quanto « pensiero »
o coscienza, appartiene a un ordine di realtà infinitamente superiore a quello della natura (Motivo
cartesiano, ma transvalutato da un sentimento tutto pascaliano del contrasto tra la finitezza naturale
dell'uomo e la sua superiore dignità morale, in cui già si presente Kant e che permette a Pascal di
riconquistare, su un altro piano, il principio della centralità dell'uomo, che rischiava di andare smarrito
nella nuova concezione dell'infinità spaziale).
51
33
378
Canna pensante. Non nello spazio devo cercare la mia dignità, ma nell'uso ben
regolato del mio pensiero. Non avrei nessuna superiorità, se possedessi delle terre:
per lo spazio, l'universo mi comprende e m'inghiotte come un punto; con il
pensiero, lo comprendo55.
380
Grandezza dell'uomo. Cosí elevato è il nostro concetto dell'anima umana che non
possiamo tollerare di esserne disprezzati, e di non godere la stima di un'anima.
Tutta la felicità degli uomini consiste in questa stima.
381
La più gran bassezza dell'uomo è la ricerca della gloria; ma è altresí il più gran
segno della sua eccellenza: ché, per quanti beni esso possegga, per quanta salute e
agi sostanziali, se non gode la stima degli altri uomini, non è soddisfatto. Esso tiene
in tal pregio la ragione umana che, per quanti titoli di superiorità abbia sulla terra,
se non è onorevolmente allogato in modo onorifico anche in essa, non è contento.
È, per lui, il più bel posto del mondo: nulla può far si che cessi di desiderarlo; ed è
questa la più indelebile caratteristica del suo cuore.
Quelli stessi che più disprezzano gli uomini, e li eguagliano ai bruti, voglion
tuttavia esserne ammirati e creduti, contraddicendo con questo sentimento loro
stessi; la loro natura, piú forte di tutto, li convince della grandezza dell'uomo con
maggior forza di quei che la ragione non li persuada della loro bassezza.
Conclusione: la duplicità dell’uomo
385
L'uomo non sa qual grado attribuirsi. È evidentemente smarrito, e caduto dal suo
vero luogo senza poterlo ritrovare; e lo cerca in ogni dove con inquietudine e senza
esito fra tenebre impenetrabili.
386
La duplicità dell'uomo è cosí evidente che certuni 56 han pensato che ci siano in lui
due anime. Un soggetto semplice sembrava loro incapace di tali e cosí improvvise
mutazioni: da una smisurata presunzione a un orribile abbattimento di cuore.
387
Desideriamo la verità, e non troviamo in noi se non incertezza.
Cerchiamo la felicità, e non troviamo se non miseria e morte.
Siamo capaci di non aspirare alla verità e alla felicità, e siamo incapaci di certezza
e di felicità. Tale aspirazione ci è lasciata sia per punirci sia per farci sentire di
dove siamo caduti.
55
Pascal contrappone qui il senso proprio e il senso figurato di « comprendere ». Materialmente, il mio
essere è una parte dell'universo; ma idealmente il mio pensiero è coestensivo all'universo
56
Ad esempio, i manichei, tanto combattuti da sant'Agostino.
34
388
Guerra intestina nell'uomo tra la ragione e le passioni. Se avesse soltanto la ragione
senza le passioni...
Se avesse soltanto le passioni senza la ragione...
Ma, poiché ha l'una e le altre, non può stare senza guerra, non potendo aver pace
con l'una se non è in guerra con le altre; e cosí è sempre diviso e in conflitto con se
medesimo.
390
La natura dell'uomo si può considerare in due maniere: o secondo il suo fine, e
allora esso è grande e incomparabile, o secondo la generalità dei casi, come si
giudica della natura del cavallo e del cane, secondo la considerazione piú comune
°, scorgendovi l'attitudine alla corsa « et animum arcendi »57, e allora l'uomo è
abietto e vile. Ecco le due vie che conducono a giudicare in modo differente di lui e
che fanno tanto disputare i filosofi.
L'uno nega, infatti, il presupposto dell'altro, e dice: « Non è nato per quel fine,
perché tutte le sue azioni vi ripugnano »; mentre l'altro dice: « Allorché esso
compie quelle basse azioni, si allontana dal suo fine ».
394
Descrizione dell'uomo: dipendenza, desiderio d'indipendenza, bisogno.
396
Contraddizione. Orgoglio, che fa da contrappeso a tutte le sue miserie. Esso58 o
nasconde le proprie miserie o, se le lascia scorgere, si fa vanto di conoscerle59.
399
Contraddizioni. Dopo aver mostrato la bassezza e la grandezza dell'uomo. E ora
l'uomo si stimi al suo giusto valore. Ami se stesso, perché ha in sé una natura
capace di bene; ma non ami, per questo, le proprie bassezze. Si disprezzi, perché
tale capacità è vuota; ma non disprezzi perciò questa capacità naturale. Si odii, si
ami: ha in sé la capacità di conoscere la verità e di essere felice, ma non possiede
nessuna verità che sia certa o soddisfacente.
Vorrei, dunque, condurre l'uomo a desiderare di trovarne e a esser pronto e libero
dalle passioni per seguirla dovunque la troverà, ben sapendo quanto la sua
conoscenza sia oscurata dalle passioni. Vorrei altresí che odiasse in sé la
concupiscenza cui è asservito60, affinché essa non lo accechi quando farà la sua
scelta, né lo trattenga quando avrà scelto.
57
« La tendenza ad allontanare », ossia l'aggressività, caratteristica dei cani da guardia
L’uomo
59
Ancora una volta, in fondo alle piú diverse attitudini dell'animo umano, P., conforme alla teologia
agostiniano-giansenistica, addita 1'« orgoglio », frutto ed espressione dell'« amor sui », « initium omnis
peccati » (Ecclessiaste., X, 15)
60
Effetto e retaggio del peccato di Adamo, la concupiscenza — forma di depravazione della volontà — è,
per la teologia agostiniano-giansenistica, il maggior ostacolo al retto conoscere come al retto operare.
58
35
400
È pericoloso mostrar troppo all'uomo quant'è simile ai bruti senza mostrargli
insieme la sua grandezza. Egualmente pericoloso è fargli troppo vedere la sua
grandezza, senza mostrargli la sua bassezza. Piú pericoloso ancora, lasciargli
ignorare l'una e l'altra. Giova assai, invece, mettergli sotto gli occhi sia l'una sia
l'altra.
È bene che l'uomo non si creda eguale né agli angeli né ai bruti, e che non ignori né
l'una cosa né l'altra, ma che le conosca entrambe.
401
Biasimo egualmente e coloro che prendono il partito di lodare l'uomo e coloro che
si danno a biasimarlo e coloro che lo consigliano di distrarsi; e posso approvare
soltanto coloro che cercano gemendo.
403
Se esso si esalta, lo deprimo; se si abbassa, lo esalto, e sempre lo contraddico,
finché non comprenda che è un mostro incomprensibile61.
Grandezza e umiltà di Gesù Cristo
795
La distanza infinita che intercede tra i corpi e gli spiriti adombra la distanza
infinitamente più infinita tra gli spiriti e la carità, perché questa è soprannaturale.
Tutto lo splendore delle grandezze terrene non ha nessun lustro per coloro che sono
impegnati nelle ricerche intellettuali.
La grandezza degli uomini di pensiero è invisibile ai re, ai ricchi, ai condottieri di
eserciti, a tutti i grandi della carne.
La grandezza della saggezza, che non è nulla se non viene da Dio, è invisibile alle
persone carnali e agli uomini di pensiero. Sono tre ordini di genere diverso.
I grandi geni hanno il loro impero, il loro splendore, le loro vittorie, il loro lustro, e
non hanno nessun bisogno delle grandezze carnali, che non li riguardano affatto.
Son veduti non dagli occhi, ma dalle menti: e ciò basta loro.
I santi hanno il loro impero, il loro splendore, le loro vittorie, il loro lustro, e non
hanno nessun bisogno delle grandezze carnali o intellettuali, che non aggiungono
né tolgono loro nulla. Sono veduti da Dio e dagli angeli, non dai corpi né dalle
menti curiose: a loro basta Dio.
Archimede, anche senza lustro mondano, sarebbe venerato egualmente. Non dette
battaglie per gli occhi, ma donò a tutte le menti le sue invenzioni. Oh, come
sfolgorò alle menti!
Gesù Cristo, senza ricchezze e senza nessuna manifestazione esteriore di scienza,
sta nel proprio ordine di santità. Non fece invenzioni, non regnò; ma fu umile,
paziente, santo, santo a Dio, terribile ai demoni, senza peccato. Oh! come venne in
61
È qui indicato il procedimento dialettico cui s'informa la prima parte dell'Apologia: non dar mai tregua
all'interlocutore, non permettere che si arresti ad alcuna convinzione, ma distrugger via via le sue
successive posizioni ideali per mezzo di un « rovesciamento continuo dal pro al contro », affinché,
essendo « senza stabilità e senza riposo », abbia alla fine a riconoscere e confessare la sua impotenza a
conoscere se stesso e ad adeguare le sue forze alle sue aspirazioni
36
gran pompa e in prodigiosa magnificenza agli occhi del cuore, che vedono la
saggezza!
Ad Archimede sarebbe stato inutile fare il principe nei suoi libri di geometria,
sebbene fosse tale.
Nostro Signore Gesti Cristo sarebbe stato inutile, per splendere nel suo regno di
santità, venire da re; ma egli venne con lo splendore del suo ordine.
È ridicolo scandalizzarsi della bassezza di Gesti Cristo, come se tale bassezza fosse
del medesimo ordine della grandezza che venne a rivelare. Si consideri tale
grandezza nella sua vita, nella sua passione, nella sua oscurità, nella sua morte,
nell'elezione dei suoi, nel loro abbandono, nella sua segreta resurrezione e nel
rimanente: la si vedrà cosí grande che non ci sarà più da scandalizzarsi per una
bassezza che non c'è.
Ma certuni sanno ammirare soltanto le grandezze carnali, come se non ce ne
fossero di spirituali; e altri ammirano solo quelle intellettuali, come se nell'ordine
della saggezza non ce ne fossero di infinitamente più elevate.
Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i suoi reami non valgono il minimo
tra gli spiriti, perché questo conosce tutto ciò e se stesso; e i corpi, nulla.
Tutti i corpi insieme e tutti gli spiriti insieme e tutte le loro produzioni non valgono
il menomo moto di carità. Questo è di un ordine infinitamente piú elevato.
Da tutti i corpi presi insieme non si potrebbe far scaturire un piccolo pensiero: è
impossibile, e di un altro ordine. Da tutti i corpi e da tutti gli spiriti non si potrebbe
trarre un sol moto di vera carità: ciò è impossibile, di un altro ordine,
soprannaturale62.
804
La follia della croce. Questa religione, - cosi grande per miracoli, santi, puri,
irreprensibili; sapienti e grandi testimoni; martiri; re (David) stabiliti; Isaia,
principe del sangue; -così grande per scienza - dopo aver fatto mostra di tutti i suoi
miracoli e di tutta la propria saggezza, ripudia tutto questo, e proclama di non
possedere né saggezza né segni, ma la croce e la follia.
Invero, gli stessi che, con tale saggezza e con tali segni, si son meritata la vostra
fiducia e vi hanno provato la loro qualità, vi dichiarano che nulla di tutto ciò può
rinnovarci e renderci capaci di conoscere e di amare Dio, tranne la virtú della follia
della croce, senza saggezza né segni: non mai i segni senza questa virtú.
Cosí, se si guarda alla sua causa effettiva, la nostra religione è folle; savia, se si
considera la saggezza che a essa prepara.
819
I miracoli. Avendo esaminato per qual motivo ci siano tanti falsi miracoli, false
rivelazioni, sortilegi, ecc., mi è parso che la vera causa sia che ce ne sono di veri.
Infatti, non sarebbe possibile che ci fossero tanti falsi miracoli se non ce ne fossero
di veri, né tante false rivelazioni se non ce ne fossero di vere, né tante false
religioni se non ce ne fosse una vera. Poiché, se non ci fosse mai stato nulla di tutto
questo, è quasi impossibile che gli uomini se lo siano immaginato, e ancor più
impossibile che altri ci abbian creduto. Ma, siccome grandissime cose al mondo ci
sono state effettivamente, e sono quindi state credute da grandi uomini,
62
Destinato a confutare l'obiezioni contro la divinità di Gesti tratte dall'oscurità della sua condizione, il
frammento si amplia in una concezione dei tre gradi od ordini gerarchici del reale che è stata giudicata da
alcuni critici come « la vera chiave di volta » della filosofia pascaliana. Se ne posson trovare gli
addentellati nella lettera del 1654 alla regina Cristina di Svezia, in cui l'impero degli « spiriti » vien posto
sopra quello dei re e dei grandi.
37
quest'impressione è stata la causa per cui quasi tutti son divenuti proclivi a credere
anche quelle false.
Pertanto, anziché concludere che non ci sono veri miracoli, dacché ce ne sono tanti
falsi, bisogna dire, al contrario, che ci sono veri miracoli perché ce ne sono tanti di
falsi; e che tanti di falsi ci sono soltanto per questa ragione: che ce ne sono di veri;
e che parimenti ci son tante false religioni solo perché ce n'è una vera.
A ciò si obietta che i selvaggi hanno una religione. L’'hanno perché hanno udito
parlare della vera, come risulta dalle tradizioni della croce di sant'Andrea, del
diluvio, della circoncisione, ecc63. Ciò deriva dal fatto che lo spirito umano,
trovandosi inclinato verso quel lato dalla verità, diventa perciò stesso capace di
tutte le falsità ...
da: B. Pascal, Pensieri
Il testo è scaricabile da questo sito:
http://bachecaebookgratis.blogspot.it/2010/09/blaise-pascal-pensieriebook.html#.VXN3TzJH5kg
63
Pascal si richiama qui a Montaigne: che aveva detto che tra le popolazioni delle Indie occidentali se ne
eran trovate che credevano nel diluvio universale, che praticavano la circoncisione o che si servivano
della croce di sant'Andrea (una croce in forma di X, come quella su cui sarebbe stato martirizzato
l'apostolo) per « difendersi dalle visioni notturne ».
38