Pianificare Aix en Provence
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Pianificare Aix en Provence
Storie in corso Workshop nazionale dottorandi in Storia contemporanea Napoli, 23-24 febbraio 2006 Una modernizzazione mancata? L’IRI e i “piani economici” (dal dopoguerra al “miracolo economico”) Ferruccio Ricciardi Università degli studi di Milano/Ehess Paris [email protected] La storiografia economica sull’Italia contemporanea ha attinto a piene mani a figure retoriche che potremmo ascrivere alla categoria dell’eccezionale. Ciò nell’intento di descrivere la traiettoria di un capitalismo considerato eclettico, vale a dire difficilmente assimilabile agli altri capitalismi del mondo occidentale. Si è soliti parlare di “approdo mancato”, di “slancio frenato”, di “compromesso straordinario”, di “nodi non sciolti”, ecc. L’idea di una “occasione mancata” si è via via imposta nelle analisi relative al modello italiano di sviluppo realizzatosi nel dopoguerra1. Di qui il ricorso a termini speculari come “miracolo” e “declino”, che disegnano efficacemente la parabola di una configurazione economico-istituzionale in fibrillazione permanente2. Se il periodo di crescita dei primi due decenni del dopoguerra ha rappresentato uno choc positivo, che oggi viene quasi esaltato, le difficoltà in cui versa ultimamente il nostro sistema economico hanno spinto gli storici e, più in generale, i commentatori e i ricercatori sociali verso una sorta di spirale della “retorica del declino”, quest’ultima caratterizzata da un pessimismo acuto, in particolare per quanto riguarda le prospettive future dell’apparato industriale nazionale3. I dibattiti così come le iniziative editoriali consacrate a questo tema (il declino dell’Italia industriale, ma non solo…)4 non hanno fatto che rafforzare l’interpretazione di un’evoluzione “malata” del nostro capitalismo, secondo cui i problemi strutturali non sarebbero stati affrontati e i rimedi sarebbero stati appena abbozzati. Così, i difetti di oggi rinvierebbero a una lunga teoria di riforme mancate, che a loro volta avrebbero le proprie radici in uno sforzo di modernizzazione mai portato a termine5. Si è così imposta la tesi di una specificità assoluta della modernizzazione italiana (e non solo in campo storiografico!), eludendo la questione del modello (economico, sociale, 1 Cfr. tra gli altri : F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Roma, Donzelli, 1997 ; F. Amatori, A. Colli, Impresa e industria in Italia dall’Unità a oggi, Venezia, Marsilio, 1999 ; P. Bianchi, La rincorsa frenata. L’industria italiana dall’unità nazionale all’unificazione europea, Bologna, Il Mulino, 2002. 2 G. Nardozzi, Miracolo e declino. L’Italia tra concorrenza e protezione, Roma-Bari, Laterza, 2004. 3 G. Berta, Declino o metamorfosi dell’industria italiana, in “Il Mulino”, n° 1, 2004, pp. 77-89. 4 L’esempio più fortunato dal punto di vista editoriale è senza dubbio L. Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Torino, Einaudi, 2003. 5 G. Toniolo, V. Visco (a cura di), Il declino economico dell’Italia, Milano, Bruno Mondadori, 2005. 1 politico, e via dicendo) che, per opposizione, dovrebbe aiutarci a mettere in evidenza i caratteri costitutivi di questa specificità. E’ certamente il paradosso più acuto che attiene a questo “paradigma eccezionalista”, il quale non si è affatto sforzato di indicare i termini di una comparazione del tutto auspicabile6. Soprattutto qualora si consideri il modo, a volte confuso, con cui gli storici italiani hanno utilizzato le nozioni di moderno, modernità e modernizzazione, mescolando per esempio la coscienza di un ritardo strutturale (in particolar modo dal punto di vista economico e tecnologico) rispetto agli altri paesi occidentali e il tentativo di interpretare ogni processo di cambiamento nell’ottica del giudizio di valore, adottando così un punto di vista politico e morale, e dunque essenzialmente normativo7. Questo tipo di contraddizioni, per esempio, le ritroviamo tutte nei dibattiti circa la natura (moderna o antimoderna?) del regime fascista, dibattiti che per lungo tempo hanno alimentato interpretazioni storiografiche divergenti8. E’ grazie agli studi internazionali sulle società europee del dopoguerra che l’alone di indeterminatezza attorno al concetto di modernizzazione è stato, almeno in parte, ridotto. E ciò è avvenuto focalizzando l’attenzione su tutta una serie di tematiche (dal ruolo degli Statinazione alle forme d’integrazione politico-economica a livello europeo, dall’impatto del piano Marshall sui sistemi socioeconomici dei paesi beneficiari alle forme di governance politica delle singole realtà nazionali) che la rottura della seconda guerra mondiale, e la conseguente riconfigurazione degli assetti politici ed economici, avevano fatto emergere9. Così, modernizzazione ha spesso e volentieri coinciso con americanizzazione (senza peraltro mettere in discussione, anzi, semmai rafforzandoli, alcuni caratteri giudicati fondativi della modernizzazione delle società occidentali: industrializzazione, democratizzazione, espansione dei consumi, ecc.)10. Un binomio declinato in diverse coppie concettuali, che hanno a loro volta rappresentato dei punti di partenza per nuove piste di ricerca. Basti pensare a temi come il rapporto Stato/mercati nella formazione di economie “miste”; il rapporto nazione/integrazione di fronte all’emergere dei regionalismi europei; il ruolo e i limiti della potenza egemonica, gli Stati Uniti, nella definizione dell’interdipendenza internazionale; il peso delle innovazioni (istituzionali, tecnologiche, culturali, ecc.) esportate dagli americani e le persistenze nazionali che ad esse si opponevano; le forme diverse di neocorporativismo e di conflitto sociale sviluppate in un contesto sociopolitico segnato, a vario titolo, dalle logiche della guerra fredda11. Il tema della modernizzazione ne racchiude almeno un altro, che del primo è un po’ speculare. Si tratta del ruolo delle élites dirigenti che del processo di modernizzazione furono, più o meno consapevolmente, parte in causa. Nelle pagine che seguono si intende affrontare questa problematica da un’angolatura particolare, esaminando cioè il ruolo e l’azione delle “élites non rappresentative”12, vale a dire delle tecnocrazie pubbliche13. Di coloro, in altre 6 Si veda a questo proposito le considerazioni di F. Romero, L’Europa come strumento di nation-building :storia e storici dell’Italia repubblicana, in “Passato e presente”, XIII, 1995, n. 36, pp. 19-32. 7 T. Mason, Moderno, modernità, modernizzazione : un montaggio, in “Movimento operaio e socialista”, X, 1987, n. 1-2, pp. 45-61. 8 A. De Bernardi, Una dittatura moderna. Il fascismo come problema storico, Milano, Bruno Mondadori, 2001. 9 Cfr. in generale gli studi che, a vario titolo, hanno trattato dell’impatto del piano Marshall in Europa. Per una riflessione in chiave di storia comparata si rinvia a C.S. Maier, I fondamenti politici del dopoguerra, in Storia d’Europa, Torino, Einaudi, 1993, vol. I, pp. 316-333. 10 A. Martinelli, La modernizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2004. Per una descrizione dei caratteri fondamentali veicolati dai processi di americanizzazione nel dopoguerra, ed essenzialmente legati all’esperienza riformista del New Deal, si veda O. Zunz, Perché il secolo americano?, Bologna, Il Mulino, 2000. 11 F. Romero, Il “mito” americano tra modellli di crescita economica e strategie politiche, in “Passato e presente”, IX, 1990, n. 33, pp. 22-33. 12 Per questa concettualizzazione si veda il numero monografico Les élites de la République sur la sellette, in “Esprit”, ottobre 1997, n. 236. 2 parole, che, rivendicando la neutralità dell’expertise tecnica, si ponevano a cavallo tra potere politico e potere economico14, operando in quelle istituzioni pubbliche che, meglio di altre, consentivano l’esercizio di una cultura tecnico-scientifica specializzata (in Italia gli enti parastatali e le imprese pubbliche). Fare la storia dei “tecnici”, in questo senso, significa tentare di ricostruire il profilo delle classi dirigenti alla luce dei meriti effettivi delle loro capacità riformatrici, rivalutando il ruolo del “sapere” (delle “competenze”, mutuando il linguaggio di questi esperti) nel processo di formazione della nazione15. Quale fu, dunque, l’azione di questi tecnici nell’orientare i processi di riforma che interi settori della società italiana (dall’economia all’amministrazione pubblica) reclamavano all’indomani della fine del secondo conflitto mondiale? In che misura essi riuscirono a vestire i panni di soggetti non più passivi della mediazione politica, assumendo così un ruolo “positivo” all’interno della classe dirigente italiana? Come si combinarono le culture e le prassi amministrative ereditate dal periodo precedente la guerra con il nuovo dato politico internazionale (l’egemonia statunitense, la guerra fredda, le spinte verso l’integrazione europea, ecc.) emerso dopo il 1945? Quali furono i meccanismi di legittimazione a cui questi tecnici fecero ricorso per affermare la propria visione sui problemi che via via erano chiamati a risolvere? Sono tutti interrogativi che rinviano alla questione tutta gramsciana della “funzione dirigente”, ovvero della direzione politica del paese, che emerge nella sua centralità anche qualora ci si occupi di affari apparentemente “neutri”. Tali interrogativi saranno qui proiettati su un materiale storico peraltro limitato, che riguarda esclusivamente l’attività dei tecnici dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), il grande conglomerato pubblico nato durante il fascismo per sanare gli effetti disastrosi della crisi finanziaria degli anni trenta sul sistema creditizio e industriale nostrani, e divenuto poi attore economico-industriale di primo piano nonché think tank al servizio delle politiche industriali del paese. In particolare, l’attenzione sarà indirizzata ai tentativi effettuati da questi tenici, nel periodo compreso tra il primo dopoguerra e le soglie del “miracolo economico”, di elaborare e mettere a punto delle politiche di sviluppo attraverso lo strumento del piano economico. Uno strumento di razionalizzazione dell’intervento pubblico la cui matrice newdealistica, tra le tante possibili, pone il “modello americano” come uno degli orizzonti di comparazione a cui far riferimento. 1. Tra guerra e dopoguerra: i piani di ricostruzione economica e il “paradigma della scarsità” Dai piani autarchici ai “piani di orientamento” dell’IRI A partire dalla seconda metà degli anni trenta, in Italia lo sforzo di mobilitazione di alcuni settori strategici si concretizzò nell’elaborazione di diverse decine di piani economici articolati per singolo settore. Lungi dal voler raggiungere l’obiettivo dell’autosufficienza, il progetto autarchico del regime fascista mirava piuttosto a garantire il coordinamento 13 In questa sede si utilizzerà in maniera indifferenziata i termini “tecnico”, “tecnocrate”, “manager”, “esperto” per fare riferimento a coloro che, a diverso titolo, operavano in seno all’IRI con funzioni dirigenziali o di expertise tecnica. 14 Cfr. per esempio V. Dubois, E. Dulong (a cura di), La question technocratique. De l’invention d’une figure aux transformations de l’action publique, Strasburgo, Presses universitaires de Strasbourg, 1999. 15 Cfr. M. Salvati, Gli Enti pubblici nel contesto dell’Italia fascista. Appunti su storiografia e nuovi indirizzi di ricerca, in “Le carte e la storia”, 2002, n. 2, pp. 28-41. 3 intersettoriale delle iniziative, e ciò al fine di focalizzare l’attenzione su una gamma ristretta di attività (attività minerarie, metallurgia, estrazione e trattamento dei combustibili, energia elettrica, prodotti chimici, ecc.). I beni di consumo e i beni d’investimento ad alto valore aggiunto, così come la politica del commercio estero e quella del credito, non rientravano nelle preoccupazioni dei pianificatori del regime16. Il sistema corporativo costituiva la struttura organizzativa “naturale” nella quale questi piani economici dovevano essere prodotti, quanto meno per il fatto che l’articolazione in settori su cui esso si fondava (attraverso la rete dei vari consigli di corporazione) avrebbe favorito la raccolta e l’elaborazione dei dati. Ma questi piani rimasero quasi sempre dei documenti isolati che non davano luogo ad alcuna programmazione a livello nazionale. Soprattutto, essi non avevano carattere coercitivo, fornivano delle indicazioni (ovvero delle approssimazioni) su come orientare la produzione a seconda del comparto considerato, e le imprese chiamate a rispettare queste indicazioni lo facevano solamente a seguito di pressioni “informali”, in genere di tipo politico o associativo17, oppure per via di un’ampia, collaterale produzione legislativa (in tema di controlli sugli scambi commerciali con l’estero, di controllo dei prezzi, di adozione di misure fiscali o doganali favorevoli alle imprese). In questo modo, l’influenza delle istituzioni corporative appariva ridimensionata. I piani autarchici venivano infatti redatti in seguito a aspre negoziazioni con le varie associazioni padronali, che tendevano a trasferire il momento della discussione negli uffici decentralizzati delle corporazioni (dove il loro peso era maggiore), della burocrazia ministeriale o del partito fascista18. Come ben dimostra l’episodio dell’approvazione della legge per l’autorizzazione all’apertura di nuovi siti industriali nel 1933, che di fatto divenne il pretesto per negoziare le modalità di ingresso nei vari segmenti del mercato manifatturiero, la pianificazione autarchica veniva utilizzata dai gruppi industriali più potenti come mezzo per mantenersi al di fuori del gioco della concorrrenza. Così, l’organizzazione degli interessi che esprimeva si avvicinava piuttosto al modello dello State-corporatism, in cui la convergenza su alcune decisioni era funzione della salvaguardia di interessi di gruppi ben precisi19, lontana cioè modello di corporativismo centralizzatore sotto l’egida delle autorità statali, come invece voleva far credere la propaganda fascista. Questa tradizione dei “piani di orientamento”, inaugurata con i piani autarchici per la riallocazione selettiva delle risorse per le industrie di base sul finire degli anni trenta, proseguì a cavallo della guerra grazie allo sforzo dei tecnici dell’IRI, che si fecero carico della redazione di diversi piani finalizzati alla gestione della scarsità sotto la pressione dell’emergenza bellica. Si trattava, in genere, di studi e relazioni dedicati alle previsioni circa la situazione economica italiana all’indomani del conflitto, e alle modalità con cui l’IRI avrebbe dovuto contribuire alla ripresa delle attività produttive. Essi si caratterizzavano per gli accenti estremamente prudenti circa la misure da intraprendere per favorire la ripresa: il finanziamento della ricostruzione, per esempio, doveva poggiarsi sulle “scorte liquide”, ovvero sulla ricostituzione delle riserve, sul risparmio, sull’autofinanziamento. Di qui la propensione a una tipologia di provvedimenti capaci di contenere l’inflazione e l’espansione 16 Tutte le informazioni di cui si rende conto qui di seguito, dove non meglio specificato, sono state ricavate da R. Petri, Storia economica d’Italia. Dalla Grande guerra al miracolo economico (1918-1963), Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 125 ss. 17 Ad eccezione delle imprese pubbliche, la cui adesione ai piani autarchici s’inquadrava nello sforzo di ricondure alcune attività produttive giudicate strategiche nell’ambito di una politica industriale comune in vista della preparazione della guerra. 18 Il processo di « cartellizzazione concordata » all’interno del comparto chimico fu, a questo riguardo, emblematico. 19 G. Sapelli, Lo Stato italiano come « imprenditore politico », in « Storia contemporanea, 1990, n. 2, pp. 250296. 4 della domanda che lo sforzo di ricostruzione avrebbe con tutta probabilità alimentato20. Analogamente, in un altro documento interno, si indicavano alcuni parametri fondamentali a partire dai quali si sarebbe dovuto calibrare gli interventi di pianificazione: mantenere una struttura equilibrata della bilancia dei pagamenti, garantire la stabilità monetaria, contenere i consumi interni e stimolare le esportazioni, ecc.21 Se l’aspirazione alla pianificazione economica in taluni ambienti fascisti assumeva toni a volte rivoluzionari (ben incarnati da figure come Ugo Spirito o Paolo Fortunati)22, alla fine la realtà appariva ben diversa. Non solo le corporazioni, che in teoria avrebbero dovuto essere l’arma principale al servizio del progetto di una “economia programmatica”, vennero svuotate per via delle pressioni incrociate dei vari interessi che esse accoglievano al loro interno (industriali privati, proprietari terrieri, lavoratori, ecc.)23; ma la capacità progettuale nel definire gli sviluppi futuri dell’economia italiana rimase appannaggio dei tecnici legati alle forme dell’intervento pubblico di origine liberale, a partire proprio dall’IRI. Questi elaborarono sì dei “piani”, che però i vincoli dell’economia della scarsità, tipica degli effetti del conflitto, contribuirono a foggiare secondo le logiche operative fin lì adottate dallo Statoimprenditore di Beneduce e Menichella (selezione degli investimenti strategici e razionalizzazione delle attività produttive, sistema di gestioni separate dal bilancio dello Stato, responsabilità dei manager, ecc.)24. I “piani di primo aiuto” per far fronte alla penuria del dopoguerra Fu Pasquale Saraceno a riconoscere l’importanza della guerra (e del sistema economico ad essa sotteso) come esperienza fondamentale nel legittimare tutta una serie di principi di politica economica che vennero poi ripresi, e riattualizzati, all’indomani del conflitto25. Le condizioni vincolanti legate alla guerra (la scarsità delle risorse, l’inflazione, la disoccupazione, ecc.) erano parte integrante della sua riflessione e, soprattutto, dell’azione da egli condotta in qualità di esperto al servizio di varie tecnostrutture statali. Di qui la sua prudenza nella redazione dei primi piani d’importazione e di distribuzione di prodotti industriali e di materie prime tra il 1944 e il 1946. Si trattava, inizialmente, di un tentativo di pianificazione degli approvvigionamenti per l’industria e l’agricoltura del centro-sud che 20 Acs (Archivio centrale dello stato), Iri (Istituto per la ricostruzione industriale), Serie nera, b. 83, Prime note sulla situazione economica dell’Italia nell’immediato dopoguerra, 30 agosto 1944. 21 Acs, Iri, Serie nera, b. 81, Appunti e relazioni varie 1943-1945, Appunto per un piano di ricostruzione economica dell’Italia, 8 agosto 1944, ampiamente citato e commentato in R. Petri, Dalla Ricostruzione al miracolo economico, in G. Sabbatucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, 5, La Repubblica 1943-1963, Roma-Bari, Laterza, 1997, pp. 339 ss. Da notare che questi due documenti furono redatti nello stesso mese (agosto 1944) rispettivamente dall’Ufficio studi dell’IRI Milano, ovvero dall’appendice dell’istituto che in quel momento operava sotto l’egida della Repubblica di Salò, e dai tecnici dell’IRI di Roma, che invece cominciavano a collaborare con le istituzioni militari degli Alleati anglo-americani. Più in generale, sulla produzione di « piani di ricostruzione economica » all’IRI nel periodo a cavallo tra guerra e dopoguerra si rinvia a F. Ricciardi, Il “management” del “governo della scarsità”. L’IRI e i piani di ricostruzione economica (19431947), in “Studi storici”, 2005, n. 1, pp. 127-154. 22 Il primo, come è noto, filosofo, “fascista di sinistra”, tra i principali ideatori del progetto corporativista ; il secondo, esperto statistico, sostenitore di un “piano generale” avente come scopo ultimo l’auto-governo dell’economia. Cfr. rispettivamente S. Lanaro, Appunti sul fascismo di sinistra. La dottrina corporativa di Ugo Spirito, in “Belfagor”, XXVI, 1971, pp. 577-599 ; G. Melis (a cura di), Fascismo e pianificazione : il convegno sul piano economico (1942-43), Roma, Fondazione Ugo Spirto, 1997. 23 S. Cassese, Corporazioni e intervento pubblico nell’economia, in A. Aquarone, M. Vernassa (a cura di), Il regime fascista, Bologna, Il Mulino, 1974, pp. 325-356. 24 Cfr. C. Spagnolo, Tecnici e politici in Italia. Riflessioni sulla storia dello Stato imprenditore dagli anni trenta agli anni cinquanta, Milano, Ciriec-Angeli, 1992. 25 P. Saraceno, Intervista sulla Ricostruzione 1943-53, a cura di P. Villari, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 121. 5 sfruttava i crediti in divisa estera messi a disposizione dagli Alleati anglo-americani, una volta liberata Roma nel luglio del 194426. Altri piani della stessa fattura furono elaborati in seguito, al fine di rivedere le prime stime sulle necessità dei materiali necessari in vista della riunificazione politica e amministrativa del paese. In particolare, 2 piani supplementari furono redatti nei mesi immediatamente seguenti con la collaborazione degli esperti economici dell’amministrazione militare alleata e della Commissione Centrale Economica (CCE) del Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia (CNLAI) (rispettivamente il “piano di transizione 1945” e il “piano di ripresa per il 1946”)27. Questi studi miravano a fornire alle autorità governative un piano ragionato delle misure necessarie a gestire la situazione di scarsità durante i primi mesi del dopoguerra. Ufficialmente, non rivendicavano lo status di veri e propri piani economici nazionali, poiché mantenevano il carattere di semplici “giustificativi” delle richieste di aiuto rivolte alle autorità americane installate sul territorio italiano28. Ciò non di meno, dietro la lista di materie e prodotti di vario genere, è possibile cogliere alcuni elementi che rimandano a una certa visione della politica economica. Per esempio: lo sfruttamento massimo della capacità produttiva nazionale allora disponibile, e ciò per ragioni a un tempo tecniche (promuovere la produzione di beni strumentali, considerati più adatti alla configurazione produttiva italiana uscita dal conflitto) e politico-sociali (riassorbire l’eccesso di manodopera) ; l’esportazione di prodotti industriali allo scopo di disporre di una maggior quantità di divise straniere e così comprimere i costi legati all’importazione di materie prime; la sostituzione, dove possibile, dei prodotti industriali importati con prodotti “autoctoni”; l’inserimento dell’Italia in un sistema di “economia aperta” dove le interdipendenze di carattere commerciale dovevano favorire gli effetti di complementarietà (economica e politica) del processo di ricostruzione su scala europea29. L’Italia, in una tale prospettiva, avrebbe dovuto assicurare un contributo importante per via del fatto che disponeva di un potenziale industriale non completamente sfruttato, di una manodopera abbondante e a costo relativamente basso, e di un livello di sviluppo tecnico giudicato “discreto” in particolare nel settore meccanico. Queste caratteristiche, secondo Saraceno e gli altri esperti dell’IRI, sarebbero state valorizzate dagli aiuti economici e tecnici legati al piano Marshall che proprio in quegli anni stava per essere avviato30. Insomma, al di là dell’attendibilità delle cifre quantificate in questi documenti, cifre che erano provvisorie e approssimative secondo l’opinione degli stessi redattori, questi piani offrivano delle indicazioni circa i principali assi attorno ai quali si intendeva fondare la ricostruzione del paese. Essi furono forgiati in un clima di emergenza pregno di quello che potremmo definire il “paradigma della scarsità”, ovvero di un quadro cognitivo largamente influenzato dalle condizioni materiali (e pure psicologiche) estremamente difficili del primo dopoguerra. Si spiegano in questo senso la particolare attenzione indirizzata alla ricostituzione 26 Comitato Interministeriale per la Ricostruzione (CIR), Piano di primo aiuto all’economia italiana (31 gennaio 1945), Roma, Istituto poligrafico dello stato, 1945. 27 Pubblicato a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro: Piano di massima per le importazioni industriali dell’anno 1946, a cura del Ministero dell’industria e del commercio, Milan, ottobre 1945 e Piano di massima per le importazioni e le esportazioni industriali dell’anno finanziario 1946-1947, a cura del Ministero dell’industria e del commercio, Milano, giugno 1946. 28 P. Saraceno, Intervista sulla Ricostruzione cit., p. 119. 29 As Iri (Archivio storico Iri, presso Fondazione IRI, Roma), Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio Tecnico Centrale (IRI Roma), b. ID/608, f. 3, Ministero della ricostruzione, Nota di presentazione ai documenti e tabella riassuntiva provvisoria delle quantità e dei valori previsti nel piano di importazione per il 1946, Roma, 14 settembre 1945. 30 Centro Studi e Piani Tecnico-economici, L’economia italiana e l’economia europea di fronte al « Piano Marshall », Roma, 15 luglio 1947, pp. 9 ss. 6 del capitale tecnico “domestico” nella quasi completa assenza di risorse naturali interne e, più in generale, gli accenti quasi autarchici che caratterizzavano il linguaggio di questi piani. Pasquale Saraceno e il planismo di ispirazione cattolica Nel 1948 l’OECE, l’Organizazione Europea per la Cooperazione Economica incaricata del coordinamento e della distribuzione degli aiuti del piano Marshall, invitò i paesi che intendevano beneficiare di tali aiuti a definire gli obiettivi di politica economica, e i criteri secondo i quali i trasferimenti monetari dovevano avvenire, attraverso l’elaborazione di un piano economico. Nella situazione assai critica che caratterizzava l’amministrazione ministeriale italiana all’uscita del conflitto, non stupisce che fosse ancora il gruppo di esperti operante in seno all’IRI ad accollarsi tale compito. Essi, a partire dall’economista Pasquale Saraceno, responsabile del’Ufficio studi dell’ente pubblico, potevano infatti vantare una certa tradizione di expertise in materia di eleborazione delle politiche economiche e industriali a livello nazionale, e soprattutto disponevano dei mezzi tecnici e intellettuali indispensabili alla raccolta e al trattamento pertinente delle informazioni richieste. La figura di Saraceno è, ovviamente, cruciale per comprendere la storia del planismo economico in Italia, quanto meno per la frequenza con cui lo ritroviamo negli episodi qui esaminati. Egli partecipò infatti alla maggior parte delle iniziative che tentarono di rendere possibile l’adozione delle politiche di piano. Alla guida della Segreteria tecnica del Ministero dell’industria, operante presso il uffici dell’IRI di Roma, tra il 1944 e il 1945 Saraceno redasse i “piani di primo aiuto”; in seguito fece parte della commissione istituita dagli Alleati che, dopo l’aprile 1945, salì a Milano per aggiornare i dati raccolti, integrandoli con quelli dell’Italia del nord. Fu in particolare membro della sotto-commissione industriale per le regioni settentrionali (emanazione della CCE del CLNAI) che collaborò alla redazione dei piani successivi, almeno fino al 1947. Bisogna poi ricordare uno studio supplementare, sempre del 1947 e ufficialmente edito dal Centro di studi e piani tecnico-economici dell’IRI, che egli stesso presiedeva, studio che sarà in seguito utilizzato per l’elaborazione del “piano di lungo termine” destinato all’OECE nel 1948. A queste prime esperienze, bisogna poi aggiungere il suo impegno presso l’associazione di studi economici SVIMEZ durante tutti gli anni cinquanta e oltre, in particolare in occasione della redazione dello “schema Vanoni”, e il suo contributo presso la Commissione nazionale per la programmazione economica tra il 1961 e il 1964, durante la stagione dei governi di centro-sinistra31. Alcuni elementi chiarificatori delle idee di Saraceno attorno alla questione del planismo economico sono a questo punto indispensabili. La pianificazione, secondo l’economista cattolico, altro non era che “l’organizzazione delle risorse disponibili nel quadro istituzionale dato”, vale a dire uno strumento di orientamento delle attività industriali sia pubbliche sia private, finalizzata al soddisfacimento di tutta una gamma di obiettivi prestabiliti. Si trattava di una visione affatto neutra, che mirava anzi a coniugare la tradizione dell’interventismo liberale con l’opzione della “terza via” sollecitata dal movimento dei giovani laureati dell’Università cattolica di Milano, all’interno del quale Saraceno ebbe un ruolo di primo piano. Questi ultimi, a partire dall’analisi delle varie esperienze di regolamentazione dell’economia intervenute (o quantomeno dibattute) nel corso degli anni trenta (dal corporativismo fascista al New Deal, dal planismo francese alle varie forme di keynesismo), individuarono nelle politiche di intervento pubblico il prerequisito di tutte le 31 M. Cavazza Rossi, Stato e giustizia sociale nell’esperienza di Pasquale Saraceno, “Società e storia”, XV, 1992, n° 57, pp. 570-575. 7 proposte riformatrici in materia economica32. La riflessione di Saraceno tentava altresì di conciliare le teorie di sviluppo delle regioni meno avanzate alle istanze di giustizia sociale derivanti dalla dottrina sociale della chiesa, e di cui il gruppo di intellettuali ed economisti riuniti a Camaldoli (animati, tra gli altri, dallo stesso Saraceno) si era fatto portatore sul finire della guerra33. L’IRI, in una tale prospettiva, doveva recuperare l’interpretazione “sociale” del suo ruolo, secondo quanto indicato all’indomani della trasformazione dell’ente pubblico in organismo permanente, nel 1937, dal “maestro” di Saraceno, Sergio Paronetto,34. Intellettuale cattolico assai critico nei confronti delle patologie del capitalismo occidentale (di cui la crisi degli anni trenta ne era un esempio clamoroso), Paronetto era attento a tutte le forme di organizzazione economica e della produzione alternative ai modelli liberale e socialista, in linea con la valorizzazione dell’esperienza del corporativismo che alcuni economisti cattolici avevano sostenuto tra le due guerre35. Di qui il suo interesse verso la formula dell’azionariato di Stato o, più genericamente, della socializzazione delle imprese, quest’ultima intesa come “l’eliminazione del capitale privato nei settori strategici”. Benché egli cercasse di integrare nelle sue proposte elementi tipici del modello liberale di gestione delle imprese pubbliche (economicità della gestione corrente, condizioni di lavoro simili a quelle applicate nelle imprese private, ricorso al mercato finanziario attraverso lo strumento obbligazionario, ecc.), lo strumento del piano gli appariva come una via obbligata al fine di dare coerenza alla politica industriale nazionale36. Un orientamento condiviso da altri dirigenti dell’IRI quali Giovanni Malvezzi, direttore generale durante la fase assai tribolata compresa tra il 1943, allorché l’IRI si trovava spezzato in due tronconi, uno al nord e un altro al centro-sud per gli effetti del dopo 8 settembre, e la vigilia dell’approvazione del nuovo statuto nel 1948 (con una pausa tra settmbre 1944 e primavera 1946). Malvezzi, cattolico di formazione, antifascista con simpatie per il socialismo riformista, stretto collaboratore di Paronetto, frequentatore dei circoli di cattolici democratici che proprio Paronetto organizzava nei primi anni quaranta37, si fece portatore di un progetto di riforma dell’IRI che, mescolando dirigismo economico ed echi dell’esperienza corporativista, puntava a rafforzare ed estendere le prerogative dell’ente pubblico. Prerogative che andavano dall’attività di raccolta ed elaborazione dati per conto del governo all’assunzione di funzioni tradizionalmente appannaggio del Ministero dell’industria (in particolare l’autorizzazione per l’apertura di nuovi impianti, la ripartizione di materie prime, l’assegnazione di commesse industriali riguardanti l’amministrazione pubblica, la concessione di licenze per l’importazione e l’esportazione di prodotti vari, ecc.). Scopo ultimo era quello di “formulare direttive e di adottare provvedimenti secondo piani armonicamente elaborati e particolarmente disciplinati”38. Piani la cui realizzazione doveva essere perseguita sulla base del principio della “collegialità trasversale”, vale a dire istituzionalizzando la partecipazione alle principali decisioni in campo economico di rappresentanti dell’industria 32 Si veda M. Parigi, P. Barucci, Cultura e programmi economico-sociali nel movimento cattolico, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980, Casale Monferrato, Masietti, 1981, vol. I/1, pp. 237 ss ; A. Gigliobianco, Pasquale Saraceno e la “via italiana” all’intervento pubblico , in “Rivista di storia economica”, XII, 1995, n. 2, pp. 253-263. 33 M. Cavazza Rossi, Stato e giustizia sociale cit. 34 Acs, Iri, Serie Nera, b. 24, S. Paronetto, Note sull’attività e compiti dell’IRI nel momento attuale in rapporto alla sua struttura e alla sua organizzazione, gennaio 1937. 35 Si veda per esempio F. Vito, L’essenza dell’economia corporativa, in Economia corporativa. Contributi dell’Istituto di scienze economiche. Pubblicazioni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, Vita e Pensiero, 1935, pp. 1-79. 36 Acs, Iri, Serie Nera, b. 25, Il problema della socializzazione e l’IRI, firmato da S. Paronetto, febbraio1945. 37 Per le informazioni biografiche si veda A. Zussini, Giovanni Malvezzi dal meridionalismo al vertice dell’Iri, in “Archivi e imprese”, luglio-dicembre 1996, n. 14, pp. 331-371. 38 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Gestioni commissariali, b. SD/1387, fasc. 5, Note per una nuova organizzazione dell’Istituto per la ricostruzione industriale, 1947, pp. 3-4. 8 sia pubblica sia privata39. Così facendo, l’IRI avrebbe agito come “un grande, unico organo coordinatore e assieme gestore delle più salienti attività nazionali”, il quale, ereditando l’opera dei comitati industriali nati durante il periodo della Repubblica sociale, si sarebbe dovuto trasformare in una sorta di “dicastero della pianificazione”40. Questo progetto non ebbe seguito, anche per via dei numerosi ostacoli che Malvezzi si trovò a fronteggiare in un periodo caratterizzato da una scarsa chiarezza, in sede politicoistituzionale, su cosa fare dell’IRI. Alla fine, come è noto, fu l’opzione della continuità, sostenuta, tra gli altri, da Donato Menichella, a prevalere, vale a dire l’idea di salvaguardare l’autonomia dell’ente pubblico (attraverso la formula della holding finanziaria e il mantenimento della gestione privatistica delle sue attività)41, scongiurando così l’ipotesi di trasformarlo in strumento al servizio delle politiche di piano, che via via scomparirono pure dall’agenda del dibattito politico42. Il “piano di lungo termine” per l’OECE e la tradizione neomercantilista Se l’episodio del progetto di Malvezzi appare marginale nell’economia degli eventi relativi alla (mancata) riforma dell’IRI nel primo dopoguerra, esso è tuttavia interessante perché mostra che l’omogeneità culturale delle tecnocrazie pubbliche non era poi veramente tale. Vi erano diversi orientamenti, diverse correnti di pensiero che tentavano di tradurre sul piano operativo elementi a volte difficilmente conciliabili (liberalismo vs. corporativismo, nazionalismo economico vs. planismo cattolico, keynesismo vs. neomercantilismo, ecc.). Rendere conto delle modalità con cui questi elementi si combinarono (o non si combinarono affatto) può aiutare a comprendere le successive scelte adottate in campo industriale. A partire da quel “piano di lungo termine” redatto da Pasquale Saraceno e dai suoi collaboratori dell’IRI su richiesta dell’OECE nel 194843, che, dietro il pretesto di definire la strategia di gestione dei fondi americani del piano Marshall, costituì un’opportunità per dare coerenza alla politica economica italiana attraverso l’adozione di un “piano” più vincolante rispetto alle “liste” di beni e prodotti necessari alla ripresa economica stilate negli anni immediatamente precedenti. Tuttavia il documento frutto dell’expertise dei tecnici dell’IRI non si discostava granché, dal punto di vista operativo, dai piani precedenti di matrice autarchica (rimanendo preminente il carattere orientativo, senza che ciò implicasse un reale coinvolgimento degli attori collettivi del mondo della produzione), e soprattutto reiterava le scelte di fondo propugnate dalle élites tecnocratiche nei decenni precedenti: rafforzamento dell’apparato 39 Ibid. p. 5. Acs, Iri, Serie Nera, b. 81, Caratteristiche dell’azione dell’IRI, s.d. [1945-47], pp. 93 ss. 41 G. La Bella, L’Iri nel dopoguerra, Roma, Edizioni Studium, 1983, pp. 219-224. Rispondendo, nel febbraio del 1947, al consigliere dell’IRI Oscar Sinigaglia circa la possibilità che fosse il governo a indicare i settori in cui l’ente pubblico avrebbe dovuto intervenire in via prioritaria, Menichella rispose esprimendo tutto il suo scetticismo verso qualsiasi ipotesi di economia regolata da meccanismi dirigistici : “Pretendere di fare un piano nazionale per ogni settore è un sogno […]”. Cfr. As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Gestioni commissariali, Ufficio di presidenza : verbali. Sedute e documentazione relativa, b. Cassaforte 4, fasc. 14, Appunti dell’Ufficio di presidenza, 28 febbraio 1947, p. 5. 42 Cfr. S. Bartolozzi Batignani, La programmazione, in G. Mori (a cura di), La cultura economica nel periodo della ricostruzione, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 103-137. 43 Cfr. P. Saraceno, Elementi per un piano economico 1949-1952, Roma, Centro studi e piani tecnico-economici, 1948, che di fatto costituisce la base a partire dalla quale verrà redatto il documento ufficiale consegnato agli esperti dell’Oece. 40 9 industriale di base sostanzialmente attraverso l’intervento pubblico44, compressione dei consumi e impulso alle esportazioni, riequilibrio della bilancia dei pagamenti. L’obiettivo sostanziale consisteva nell’indirizzare gli investimenti verso la produzione di energia e di beni di investimento, e ciò al fine di aumentare la produttività delle imprese coinvolte, riacquistare competitività sul piano delle esportazioni (soprattutto nel settore meccanico) e così contribuire al riassetto della bilancia dei pagamenti45. Benché la redazione del “piano” fosse avvenuta all’interno di uno dei luoghi concepiti per favorire la promozione di politiche coordinate di pianificazione economica, vale a dire il Centro studi e piani tecnico-economici dell’IRI fortemente voluto da Malvezzi46, gli accenti neomercantilisti del documento in questione – la risoluzione del problema della sovrappopolazione, per esempio, era affidata alla combinazione di emigrazione, investimenti esteri e importazione di materie prime grazie alla stabilità delle correnti commerciali47 -, erano ben lungi dall’accogliere le istanze di dirigismo economico promosse dalle frange della tecnocrazia italiana proprio da Malvezzi incarnata, di fatto minoritarie. E men che meno erano disposte a promuovere le ricette keynesiane di sostegno alla domanda che in quel periodo, sotto l’impulso degli americani, si stavano diffondendo anche in Europa. Di contro, fu la visione neomercantilista dello sviluppo ad avere la meglio, la quale traeva fondamento dal privilegio accordato ai meccanismi dell’offerta rispetto a quelli della domanda al fine di incentivare il risparmio e lo sviluppo tecnico in un regime di scarsità. Ciò attraverso la selettività degli investimenti in funzione di obiettivi generali (recupero della competitività, autonomia produttiva, allocazione guidata delle risorse, equilibrio della moneta e della bilancia dei pagamenti) che sottendevano la presenza di una strategia coerente e di lungo periodo. Una visione che abbracciava i principi del nazionalismo economico risalenti al banchiere centrale Bonaldo Stringher e, più tardi, a Francesco Saverio Nitti48, Ora, qualche nota in più merita la nozione di neomercantilismo rispetto alla tradizione della tecnocrazia italiana. Ispirandosi alle idee del protezionista liberale Friedrich List, l’indirizzo neomercantilista in Italia non si esprimeva attraverso una compiuta elaborazione teorica, a differenza delle correnti neoclassiche e keynesiane che, soprattutto nel dopoguerra, dominavano il dibattito accademico. Il neomercantilismo trovò così una sponda nell’elaborazione istituzionale di alcuni importanti tecnocrati, Nitti in primis, che fondavano la propria ricetta economica su una politica di risparmio, di accumulazione e sviluppo tecnologico per un regime di risorse naturali scarse49. Il carattere pragmatico delle soluzioni che esso proponeva, a differenza delle correnti ortodosse della teoria economica, faceva sì che 44 Gli investimenti più importanti, infatti, ricadevano , o direttamente, o tramite azioni consorziali con i gruppi privati più importanti, sull’industria di Stato, che avrebbe poi maggiormente beneficiato degli aiuti ERP (basti pensare alla FINSIDER e alla sua alleanza strategica con la FIAT) 45 Per una discussione sul contenuto del “piano di lungo termine” si veda V. Zamagni, Una scommessa sul futuro: l’industria italiana nella ricostruzione (1946-1952), in di E. Di Nolfo, R.H. Rainero e B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1945-50), Milano, Marzorati, 1988, pp. 484 ss. 46 Istituito nel 1947 a seguito di una convenzione tra l’IRI e il Consiglio nazionale delle ricerche con funzioni di consulenza tecnico-scientifica al servizio del Comitato interministeriale per la ricostruzione. Cfr. As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Gestioni commissariali, b. SD/1387, fasc. 5, Note per una nuova organizzazione dell’Istituto cit., p. 3. A questo proposito si rinvia a F. Ricciardi, Il “management” del “governo della scarsità” cit., pp. 140 ss. 47 Acs, Presidenza del consiglio dei ministri (Pcm), Comitato interministeriale per la ricostruzione (Cir), b. 58, Memoriale italiano sul programma a lungo termine, 30 settembre 1948. 48 Cfr. F. Bonelli (a cura di), La Banca d’Italia dal 1894 al 1913. Momenti della formazione di una banca centrale, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 58-61. Più in generale, sulle origini del nazionalismo economico in Italia si veda F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 12-20; L. Michelini (a cura di), Liberalismo, nazionalismo, fascismo: stato e mercato, corporativismo e liberismo nel pensiero economico del nazionalismo italiano, 1900-1923, Milano, M&B Publishing, 1999. 49 R. Petri, Storia economica d’Italia cit., pp. 291-296. 10 potesse trovare accoglienza presso orientamenti politici diversi (dai liberali ai fascisti, dai socialisti ai democristiani), tenendo insieme personaggi diversi come Einaudi, Menichella, Saraceno. Tuttavia, come si è fin qui cercato di dimostrare, esistevano delle correnti alternative, anche all’interno di un’istituzione come l’IRI che, dal periodo autarchico in poi, fece del “paradigma della scarsità” la chiave della sua politica industriale (in termini di selettività strategica degli investimenti)50. Queste correnti poggiavano sulla medesima coscienza dei vincoli che il regime di scarsità postbellico imponeva allo sviluppo italiano, ma prospettavano soluzioni differenti quali la pianificazione delle risorse sotto l’egida delle tecnostrutture dello Stato che, altrove, all’estero, poteva contare su un’intesa politica più ampia tra i partiti così come tra i vari gruppi di interesse, dal sindacato alle associazioni padronali51. In un tale contesto, il tentativo di Saraceno di conciliare la tradizione liberale di interventismo pubblico nell’economia con l’ideale di “economia sociale” dei giovani laureati cattolici, non trovò sbocchi concreti. Soprattutto venne a mancare quella saldatura tra le esperienze di dirigismo economico del primo dopoguerra, promosse in particolare dal Ministero dell’industria, retto in una prima fase, fino al 1947, da esponenti del riformismo di colore politico diverso quali Morandi, Gronchi e Tremelloni52, e le attribuzioni del “nuovo” IRI, che dopo un periodo di incertezza istituzionale venne ricondotto al ruolo di holding finanziaria. Di qui i toni estremamente prudenti caratterizzanti il “piano di lungo termine”, soprattutto nella definizione di obiettivi quali la crescita dei consumi e la lotta alla disoccupazione (il cui raggiungimento sarà, di fatto, rimandato). Tale prudenza sarà di lì a poco aspramente rimproverata dai sostenitori delle ricette keynesiane per lo sviluppo economico. Tab. 1. Quadro sinottico dei piani per la ricostruzione economica, 1944-48 Denominazione Piano di primo aiuto Periodo 1944 Redattori Min. industria/IRI Piano di transizione del 1945 Piano di ripresa economica per il 1946 Piano di lungo termine (o Piano Saraceno) 1945-46 1946 CCE+Saraceno CCE+Saraceno 1948 IRI/Saraceno Obiettivi Quantificazione dei bisogni di materie prime e prodotti industriali per la ripresa economica dell’Italia del centro-sud Ibidem, per l’Italia unita Ibidem, in vista della riattivazione dell’insieme del comparto industriale Definizione dei criteri di utilizzo dei fondi ERP nel quadro di una politica economica pertinente Fonti : infra 50 Si veda per esempio la “campagna” di ristrutturazioni industriali avviata dall’IRI negli anni trenta. Cfr. G. Piluso, “Deflazionare le imprese”. Politica industriale, razionalizzazione della produzione e corporate governance all’Iri negli anni Trenta , in “Imprese e storia”, luglio-dicembre 2002, n. 26, pp. 265-285. 51 L’esperienza francese è, in questo senso, significativa. Cfr. R.F. Kuisel, Capitalism and the State in modern France. Renovation and economic management in the twentieth century, Cambridge (Mass.), Cambridge University Press, 1981 ; B. Cazès, P. Mioche (a cura di), Modernisation ou décadence. Contribution à l’histoire du Plan Monnet et de la planification en France, Aix-en-Provence, Publications de l’Université de Provence, 1990. 52 Si fa in particolare riferimento all’attività del Consiglio industriale alta Italia, il quale, istituito subito dopo la Liberazione, subentrò al governo alleato nella gestione del piano per il controllo delle fabbriche e la vendita dei prodotti industriali nell’Italia settentrionale, e ai comitati industriali ereditati dall’esperienza dirigista della Repubblica sociale per pianificare la produzione industriale a seconda dei rami produttivi. Si trattava, in particolare, del tentativo di creare all’interno del Ministero dell’industria una “nuova tecnocrazia” sfruttando gli istituti vincolistici ereditati dalla Repubblica sociale e un nuovo personale proveniente in larga parte dal mondo aziendale. Su questi temi cfr. L. Ganapini, I pianificatori liberisti, in M. Flores et al. (a cura di), Gli anni della Costituente. Strategie dei governi e delle classi sociali, Milano, Feltrinelli, 1983, pp. 77-127; G. Maione, Tecnocrati e mercanti. L’industria italiana tra dirigismo e concorrenza internazionale (1945-1950), Milano, Sugarco, 1986. 11 12 2. Gli anni cinquanta: i piani nazionali di sviluppo e il “paradigma della crescita” Piano Marshall e svolta produttivistica Negli anni della Ricostruzione, le modalità di utilizzo degli aiuti americani legati al piano Marshall furono oggetto di aspre polemiche, non solo in ambito politico. L’OECE esigeva dai paesi intenzionati a beneficiare di tali aiuti il varo di piani nazionali capaci di indicare gli obiettivi generali di politica economica e i criteri secondo cui i trasferimenti dagli Stati Uniti avrebbero dovuto essere impiegati. Come si è visto in precendenza, il “piano di lungo termine” redatto da Saraceno nel 1948 a un tale scopo solo in parte soddisfaceva le richieste dell’organizzazione economica europea (in particolare per quanto concerneva il riequilibrio della bilancia dei pagamenti), mentre altre (come la pianificazione degli investimenti produttivi) venivano completamente trascurate. Di qui le critiche formulate da quella frangia di esperti e tecnici americani che operavano presso l’Economic Cooperation Administration (ECA) di Roma. Questi, incaricati di seguire la “corretta” gestione dei fondi statunitensi, non esitarono a dare un giudizio negativo sulla base delle loro convinzioni esplicitamente keynesiane. Il famoso Country Study, il documento redatto nel 1949 dall’agenzia americana che metteva alla berlina l’uso dei fondi di contropartita al fine di ridurre il deficit corrente del bilancio statale, era un po’ la summa delle critiche che i funzionari vicini all’amministrazione Truman indirizzavano in quegli anni alla politica economica italiana53. In seguito, le pressioni americane sui governi centristi, nel quadro di una strategia di integrazione internazionale che faceva perno sullo strumento della produttività piuttosto che sulla costruzione del multilateralismo economico promosso dagli accordi di Bretton Woods, cominciarono ad avere qualche effetto54. La svolta produttivistica nella gestione degli aiuti del piano Marshall, di cui la “campagna per la produttività” era uno degli effetti più vistosi (benché incidesse essenzialmente a livello microeconomico)55, contribuì infatti a scuotere gli equilibri di governo, facendo riemergere nel dibattito politico le tematiche dello sviluppo del Mezzogiorno, dell’ammodernamento dell’apparato industriale e di maggiori investimenti pubblici. La “terza fase” dei governi degasperiani, caratterizzata da tutta una serie di riforme e iniziative in campo economico e sociale (riforma agraria, riforma fiscale, piano FINSIDER, ecc.), non fu unicamente il frutto dello scontro politico interno alla maggioranza governativa, ma dipese anche dal peso del cosiddetto “vincolo esterno”, che concretamente si configurò nella minaccia americana di ritorsioni sui fondi ERP già stanziati56. Risultato emblematico di questo rinnovato impegno dei dirigenti nazionali nei confronti dei temi dello sviluppo fu l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, tecnostruttura dalla natura ambigua, a metà strada tra il modello newdealistico della Tennessee Valley Authority e la tradizione dell’interventismo nittiano57. Resta da capire, a questo punto, in che misura la svolta 53 C. Esposito, Il Piano Marshall. Sconfitte e successi dell’amministrazione Truman in Italia, in “Studi storici”, 37, 1996, n. 1, pp. 69-91 ; C. Spagnolo, La polemica sul “Country Study”. Il fondo lire e la dimensione internazionale del Piano Marshall, in “Studi storici”, 37, 1996, n. 1, pp. 93-143. 54 P.P. D’Attorre, Il Piano Marshall : politica, economia, relazioni internazionali nella ricostruzione italiana, in E. Di Nolfo, R.H. Rainero, B. Vigezzi (a cura di), L’Italia e la politica di potenza in Europa (1945-50), Milano, Marzorati, 1990, pp. 497-545. 55 L. Segreto, Americanizzare o modernizzare l’economia ? Progetti americani e risposte italiane negli anni Cinquanta e Sessanta, in “Passato e Presente”, XIV, 1996, n. 37, pp. 55-83. 56 C. Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta. Il piano Marshall in Italia (1947-1952), Roma, Carocci, 2001, in particolare il capitolo 6. 57 C. Spagnolo, L’integrazione europea e le origini della Cassa per il Mezzogiorno, in S. Pons (a cura di), Novecento italiano. Studi in ricordo di Franco De Felice, Roma, Carocci, 2000, pp. 257-282. 13 produttivistica, e il keynesismo ad esso correlato, avesse fatto breccia nelle tecnocrazie pubbliche così come cominciava a farlo in alcuni ambienti politico-sindacali vicini alla DC58. L’expertise economica al servizio dello sviluppo: il “piano Vanoni” Tra il 1953 e il 1954 un gruppo di studiosi, consulenti ed esperti economici riuniti dalla SVIMEZ sotto la direzione di Pasquale Saraceno, predispose lo “Schema decennale di sviluppo dell’occupazione e del reddito 1955-64”, meglio noto come “Schema Vanoni”, dal nome dell’allora ministro del bilancio, tra i principali sostenitori dell’iniziativa. Al lavoro di riflessione che portò alla stesura del “piano” parteciparono, a vario titolo, diversi intellettuali ed economisti, italiani e non, in generale accomunati dalla convinzione della necessità di intraprendere una svolta “sviluppista” nella politica economica nazionale: oltre a Saraceno e ai suoi più stretti collaboratori dell’Ufficio studi dell’IRI, furono della partita esponenti del mondo cattolico come Nino Novacco, cattolici eterodossi vicini al Partito comunista come Giorgio Ceriani Sebregondi e Claudio Napoleoni, “olivettiani” della prima ora come l’ingegner Gino Martinoli, economisti di fama internazionale, esponenti dell’allora emergente scuola dell’economia dello sviluppo, quali Hollis B. Chenery, Jan Tinbergen e Paul N. Rosenstein-Rodan59. Il risultato fu un documento che combinava elementi di laburismo cattolico con la teoria economica post-keynesiana60. Lo “schema” rappresentava un tentativo di configurare un nuovo modello di intervento pubblico nel sistema economico italiano e mirava al perseguimento di obiettivi macroeconomici (il pieno impiego, la riduzione del gap socioeconomico tra Nord e Sud, il riequilibrio della bilancia dei pagamenti) attraverso strumenti di programmazione degli investimenti giudicati strategici61. Esso, per raggiungere l’ambizioso obiettivo della creazione di 4 milioni di posti di lavoro, puntava sull’effetto moltiplicativo del reddito nazionale per via della realizzazione di investimenti mirati, capaci cioè di creare delle “economie esterne” a loro volta utilizzabili dall’apparato produttivo nel suo insieme62. Si trattava, in altri termini, di stimolare adeguatamente quei settori considerati “propulsivi” per lo sviluppo dell’economia italiana, e ciò attraverso un imponente programma di investimenti infrastrutturali destinati essenzialmente all’agricoltura, alle imprese di “utilità pubblica” (energia, ferrovie, telefonia, acquedotti), ai lavori pubblici (lavori idrogelogici, strade, scuole, ospedali, porti, aeroporti, ecc.), alla costruzione di alloggi63. 58 In particolare in occasione del convegno nazionale della DC a Napoli nel 1954. V. Vitale, L’attività della SVIMEZ dal 1946 al 1991, in “Rivista economica del Mezzogiorno”, XIV, 2000, n. 2, pp. 587 ss. ; P. Baffi, Via Nazionale e gli economisti stranieri, 1944-53, in “Rivista di storia economica”, II, 1985, n. 1, pp. 1-44 ; N. Novacco, Politiche per lo sviluppo. Alcuni ricordi sugli anni ’50 tra cronaca e storia, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 69. 60 Sotto il profilo strettamente tecnico, le novità correlate al “piano Vanoni” risiedevano nell’utilizzazione di parametri macroeconomici derivanti dalla teoria keynesiana (il reddito, il risparmio, gli investimeni, i consumi, le esportazioni, ecc.), facendo parallelamente un ampio uso degli strumenti della statistica. Cfr. V. Zamagni, M. Sanfilippo, Introduzione, in Id. (a cura di), Nuovo meridionalismo e intervento straordinario. La Svimez dal 1946 al 1950, Bologna, Il Mulino, 1988, pp. 30-34. 61 Si veda Acs, Mic (Ministero dell’industria e del commercio), Gabinetto, Segreteria Campilli, b. 4, f. 1, Piano decennale di sviluppo economico (schema Vanoni), 1954. . 62 Le radici di questa strategia si trovano in un lavoro collettivo a cui parteciparono Saraceno e i suoi più stretti collaboratori all’IRI, in particolare Ajmone Marsan e Franco Pilloton, e nel quale si definirono i termini di un ampio programma di lavori pubblici tenendo conto degli effetti positivi del « moltiplicatore keynesiano », ovvero dell’impatto espansivo degli investimenti pubblici sui redditi e sui consumi nazionali. Cfr. SVIMEZ, Gli effetti economici di un programma di investimento nel Mezzogiorno, Roma, Svimez, 1951. 63 La somma degli investimenti lordi previsti dal « piano » per i dieci anni successivi era di 35.000 miliardi di lire, pari cioé a più di tre volte il reddito nazionale del 1954. Cfr. E. Vanoni, La politica economica degli anni degasperiani. Scritti e discorsi politici et economici, scritti raccolti e commentati da P. Barucci, Firenze, Le Monnier, 1977, pp. 343-344. L’articolazione degli investimenti emerge chiaramente dalla tabella sottostante : 59 14 Il “piano Vanoni” è stato visto come un episodio precursore delle politiche di pianificazione inaugurate dai governi di centro-sinistra nei primi anni sessanta64. Tuttavia, ad un esame più approfondito esso rivela diversi punti in comune con le politiche economiche centriste. La stabilità monetaria, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, il raffreddamento della dinamica dei salari e dei consumi… erano tutti elementi attribuibili, senza troppe forzature, alla strategia messa in campo nei primi anni cinquanta dal ministro del tesoro Pella e dal governatore della banca centrale Menichella65. Lo stesso Saraceno non ebbe difficoltà a sottolineare le divergenze (ideali e operative) tra le iniziative pianificatrici del 1954 e del 196366. D’altra parte, le misure prescritte all’epoca dall’OECE al fine di favorire il processo di integrazione economica dei paesi europei si fondavano su una filosofia di rigore condivisa indistintamente da tutti i partners continentali, come dimostrarono le reazioni positive di questi alla presentazione del “piano” a Parigi nel gennaio 1955. I ministri economici europei sembrarono infatti apprezzare maggiormente la battaglia condotta dal governo italiano al deficit della bilancia dei pagamenti, che si accompagnava a una politica di segno liberista in materia di scambi commerciali, piuttosto che al programma di spese destinato agli “investimenti produttivi” prospettato dal “piano”67. Se a tutto ciò aggiungiamo l’atteggiamento eccessivamente prudente di Vanoni, il quale, schiacciato dal gioco delle correnti democristiane (allora dominato dall’ala neo-centrista di Fanfani), non esitò a definire lo “schema” semplicemente come un esercizio teorico, astratto (al punto che il primo atto di pianificazione, secondo l’economista cattolico, altro non era che la redazione del bilancio dello Stato!)68, abbiamo la misura delle condizioni, estremamente difficili, di applicazione del programma elaborato dagli esperti della SVIMEZ. Non è un caso che, dalla sua presentazione ufficiale in occasione del congresso della Democrazia cristiana a Napoli nel giugno 1954, esso restò praticamente lettera morta. Ciò nonostante che la sua filosofia fosse presentata all’opinione pubblica come la fonte primaria della politica governativa in materia economica, Investimeni netti previsti dal « piano Vanoni » (miliardi di lire correnti), 1955-64 Anni Settori Industria e Alloggi Totale propulsivi* servizi 1954 630 460 410 1.500 1955 670 500 420 1.590 1956 740 550 440 1.730 1957 840 610 460 1.910 1958 940 690 480 2.110 1959 1.040 780 500 2.320 1960 1.140 880 520 2.540 1961 1.220 980 540 2.740 1962 1.290 1.080 560 2.930 1963 1.350 1.200 580 3.130 1964 1.407 1.330 600 3.337 1955-64 10.637 8.600 5.100 24.337 Fonte : L. Vandone, Il modello di sviluppo economico italiano cit., p. 216, tab. 32. * Senza gli investimenti destinati agli alloggi. 64 Si veda per esempio P. Barucci, Ricostruzione, pianificazione, Mezzogiorno. La politica economica in Italia dal 1943 al 1955, Bologna, Il Mulino, 1978. 65 B. Bottiglieri, La politica economica dell’Italia centrista cit., pp. 254 ss. 66 P. Saraceno, Esperienze di programmazione : 1933-1963, in G. Orlando (a cura di), Programmazione economica e programmazione della spesa, Napoli, Cooperativa editrice economia e commercio, 1976, pp. 181200. 67 Acs, Mic, Gabinetto, Segreteria Campilli, b. 4, f. 1, Piano decennale di sviluppo economico. Interventi in seguito al discorso di S.E. Ezio Vanoni dinanzi al Consiglio dei Ministri dell’OECE, 14 gennaio 1955. 68 E. Vanoni, La politica economica degli anni degasperiani cit., p. 356. 15 e nonostante la panoplia di commissioni create appositamene dalla burocrazia italiana e internazionale allo scopo di renderlo operativo69. Compromesso sociale (mancato) e neocorporativismo politico Si trattò, dunque, dell’ennesima occasione mancata per dare un impulso coerente alle politiche di sviluppo del paese? Se di occasione mancata si deve parlare, essa riguardava anzitutto la possibilità, lasciata quasi subito cadere, di utilizzare il “piano Vanoni” come strumento di negoziazione tra le varie parti sociali degli obiettivi da perseguire congiuntamente nel medio-lungo termine; come spazio, in altri termini, capace di costruire le condizioni idonee alla definizione di un compromesso sociale istituzionalizzato fra i vari attori del mondo del lavoro e della produzione. Una pratica di dialogo sociale che altrove, per esempio in Francia, aveva individuato proprio nell’istituto del piano economico (e nelle sue tecnostrutture) lo strumento per comporre interessi a volte divergenti70. In questo senso, la pianificazione assumeva una funzione socializzatrice, che mirava essenzialmente alla definizione di criteri a partire dai quali i differenti attori sociali orientavano le proprie scelte, nonché alla riduzione del grado di incompatibilità dei progetti di cui essi si facevano portatori71. In Italia, invece, a nulla valse l’entusiasmo con cui il “piano Vanoni” venne accolto da attori come la CISL, la quale vedeva in esso l’opportunità di far partecipare in maniera sistematica i lavoratori ai processi decisionali che li riguardavano, in linea con l’approccio istituzionalista alle relazioni industriali che contraddistingueva la sua strategia sindacale72. Giovanni Gronchi, esponente di primo piano della sinistra sindacalista all’interno della DC, fu il primo a indicare che il punto debole del “piano” stava proprio nel fatto che esso non prevedeva alcun ruolo attivo per i sindacati e le associazioni padronali73. Ciò d’altra parte, sottolineavano i detrattori, era in linea con il fatto che il “piano” non indicava alcun strumento capace di vincolare, quanto meno orientandoli in un senso piuttosto che nell’altro, gli investimenti privati, in particolare quelli di natura industriale74. Questo fallimento sul piano della definizione di meccanismi di negoziazione collettiva miranti all’elaborazione di politiche condivise di sviluppo e, soprattutto, di redistribuzione del reddito nazionale chiama in causa il rapporto tra la politica, con particolare riferimento al partito di maggioranza relativa, e l’economia. E’ proprio di quegli anni l’inaugurazione, da parte della DC, di una strategia rivendicante una maggior capacità di presa sui milieaux 69 Durante il 1955 vennnero istituiti ben 10 comitati ministeriali incaricati di raccogliere i dati sui programmi di investimento prospettati dal piano Vanoni, e di studiarne le modalità di realizzazione negli anni immediamente successivi (1955-58). L’anno dopo fu la volta del Comitato dei ministri per la coordinazione delle disposizioni esecutive relative al “piano”. Questa struttura fu subito affiancata dal Comitato per lo sviluppo dell’occupazione e del reddito, alla guida del quale fu nominato Saraceno. Esso doveva sostanzialmente fare una selezione dei problemi legati alla messa in opera del “piano”, per poi sottoporli all’attenzione del Presidente del consiglio. Anche gli esperti della SVIMEZ furono sollecitati al fine di offrire il proprio contributo per rendere conto degli strumenti operativi connessi al “piano” presso le istanze della burocrazia internazionale, in particolare il gruppo n. 9 dell’OECE, interamente dedicato allo studio dell’evoluzione dell’economia italiana. Cfr. V. Vitale, L’attività della SVIMEZ cit., pp. 594 ss. 70 A. Desrosières, La commission et l’équation. Une comparaison des plans français et néerlandais entre 1945 et 1980, in “Genèses”, 1999, n. 34, pp. 28.52. 71 Si veda a questo proposito L. Nizard (a cura di), Planification et société, Grenoble, Presse universitaire de Grenoble, 1974. 72 As Cisl (Archivio storico Cisl, presso Fondazione Pastore, Roma), b. 47, f. 1, Memorandum della CISL sul Piano Vanoni, 4 gennaio 1955. 73 V. Vitale, L’attività della SVIMEZ cit., pp. 594 ss. 74 L. Vandone, Il modello di sviluppo economico italiano negli anni ’50, in F. Peschiera (a cura di), Sindacato, industria e stato negli anni del Centrismo. Storia delle relazioni industriali in Italia dal 1948 al 1958, Firenze, Le Monnier, 1979, vol. II, p. 215. 16 economici del paese. Tale strategia, che verrà poi etichettata dai suoi detrattori come “neocapitalista”75, faceva perno sull’accresciuto dinamismo delle imprese di Stato e sulla mobilitazione dei molteplici interessi legati alle loro attività, nell’intento ultimo di creare consenso politico promuovendo forme di negoziazione diretta tra gli enti pubblici e le forze sociali76, in particolare i cosiddetti “ceti medi produttivi”77. In questo modo si portava la mediazione politica degli interessi fuori dal Parlamento, secondo un’accezione neocorporativa dei rapporti tra politica e società che non prevedeva momenti di confronto istituzionalizzato tra i vari attori sociali78. Di qui l’interpretazione restrittiva di tutte le ipotesi di pianificazione economica a partire proprio dallo “schema Vanoni”. Così, le attività delle imprese pubbliche non vennero inquadrate in alcun piano economico nazionale che potesse coordinarne gli indirizzi fondamentali, nemmeno dopo la creazione del Ministero delle partecipazioni statali nel 1956, rimasto privo per lungo tempo della capacità di incidere significativamente sulla politica industriale nazionale79. Non stupisce a questo proposito il fatto che lo “schema Vanoni” non assegnasse alle imprese pubbliche compiti particolari80, limitandosi a indicare gli investimenti diretti che lo Stato avrebbe dovuto compiere nei settori “propulsivi”. Tra questi, non figuravano i comparti dell’industria di base (siderurgico e meccanico), che pure proprio a partire dal 1954, insieme ai trasporti aerei e marittimi, beneficiarono degli sforzi più cospicui compiuti dall’IRI in termini sia finanziari sia progettuali, contribuendo a spingere la dinamica degli investimenti dell’intero gruppo su livelli d’eccezione (tra il 1954 e il 1958, l’incremento degli investimenti produttivi fu pari al 10%)81. Semmai, il rinnovato impegno dell’ente pubblico in tali settori (soprattutto in quello meccanico) veniva sussunto dalla prevista crescita della domanda di beni strumentali e del reddito pro-capite82. Ciò non di meno, visto che 5 dei settori riconducibili alle categorie “propulsive” codificate dallo schema (elettricità, telefonia, settore radiotelevisivo, trasporti aerei e marittimi) investivano buona parte delle attività del gruppo IRI, il sistema delle imprese pubbliche rappresentava uno strumento imprenscindibile alla realizzazione degli ambiziosi obiettivi indicati dal “piano”. L’assenza, nel documento in questione, di un esplicito riferimento a tale nesso va probabilmente ascritta non solo al carattere eminentemente macroeconomico delle ricette prospettate (in cui gli echi keynesiani erano evidenti), ma anche al rapporto, affatto risolto, tra tecnici e politici, e, nello specifico, tra IRI e partiti di governo. 75 In particolare da parte di esponenti del sindacalismo di sinistra come Bruno Trentin e Vittorio Foa. Cfr. G. Berta, L’Italia delle fabbriche. Genealogie ed esperienze dell’industrialismo nel Novecento, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 152-163. 76 M. Maraffi, Politica ed economia in Italia. La vicenda dell’impresa pubblica dagli anni trenta agli anni cinquanta, Bologna, Il Mulino, 1999, capitolo 8. 77 Ancora attuali, ci sembrano, le considerazioni contenute in A. Pizzorno, I ceti medi nei meccanismi del consenso, in A. Pizzorno, I soggetti del pluralismo. Classi, partiti, sindacati, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 6798. 78 Condividono sostanzialmente questa tesi anche F. Cassano, Il teorema democristiano. La mediazione della Dc nella società e nel sistema politico italiani, Bari, De Donato, 1976 ; M. Salvati, Stato e industria nella Ricostruzione: alle origini del potere democristiano, 1994-49, Milano, Feltrinelli, 1982. 79 Per il semplice fatto che non disponeva di adeguati strumenti di controllo e sanzione da utilizzare nei confronti delle imprese pubbliche. Cfr. F. Barca, S. Trento, La parabola delle partecipazioni statali : una missione tradita, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra a oggi, Roma, Donzelli, 1999, p. 212. 80 D. Fausto, L’intervento pubblico in Italia (1946-1964), in F. Cotula (a cura di), Stabilità e sviluppo negli anni Cinquanta. 2. Problemi strutturali e politiche economiche, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 620. 81 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Servizio coordinamento e segreteria del direttore generale, b. IE/1316, fasc. 6, Carattere della politica degli investimenti dell’Iri, s.d. [1958]. 82 Ministero dell’industria e del commercio, L’Istituto per la Ricostruzione Industriale. III. Origini, ordinamenti e attività svolta (rapporto del prof. Pasquale Saraceno), Torino, Utet, 1956, pp. 297-299. 17 Dualismo economico e industrializzazione: i piani quadriennali d’investimento dell’IRI Il vero legame tra il “piano Vanoni” e la missione istituzionale dell’IRI, in realtà, consisteva nell’obiettivo dello sviluppo e dell’industrializzazione del Mezzogiorno83, così come la leadership nazionale della tecnocrazia meridionalista (da cui in parte derivava la SVIMEZ), dal 1943 in poi, aveva a più riprese indicato tra le priorità da inserire stabilmente nell’agenda dell’interventismo pubblico. La questione del persistente dualismo economico nord-sud andava risolta ricorrendo all’opzione dell’ammodernamento delle infrastrutture (creando cioè l’ambiente idoneo agli insediamenti industriali) e puntando sui conseguenti effetti moltiplicativi nei confronti della domanda aggregata84. Di fatto, l’elaborazione del “piano Vanoni” e il rafforzarsi della congiuntura a livello mondiale nella seconda metà degli anni cinquanta, costituirono l’occasione per riconsiderare, per la prima volta in modo organico, le prospettive di lungo periodo del gruppo pubblico. La politica degli investimenti dell’IRI, una volta conclusa la fase dei grandi programmi di ristrutturazione postbellica, entrava così in una nuova fase, caratterizzata da uno sforzo di maggior coordinamento con le politiche economiche nazionali, non più regolate unicamente attraverso lo strumento del governo della moneta. Di qui la stesura di “programmi coordinati” di gruppo. Si trattava di piani pluriennali di investimento (4-5 anni) che, da un lato, dovevano tenere conto delle linee di sviluppo economico prevedibili sul piano nazionale, e dall’altro delle modalità di partecipazione a tali sviluppi da parte dei vari settori in cui l’IRI operava85. L’orizzonte sancito dal perseguimento di grandi obiettivi di sviluppo, e dunque al servizio della politica economica nazionale, era evidente in tutti i documenti eplicativi che accompagnavano questi “piani di gruppo”: aumento dell’occupazione nelle imprese del gruppo di ben 23.000 unità, consolidamento del tasso di esportazione dei beni prodotti (che coprivano più del 25% del totale degli utili), promozione di iniziative di industrializzazione nelle regioni del sud Italia, ecc.86 Il primo piano quadriennale per il periodo 1957-60 prevedeva un impegno finanziario pari a circa 800/850 miliardi di lire correnti (poi rivisto al rialzo, attorno ai 1.000 miliardi, per via dell’acquisizione dell’intero settore telefonico nazionale e dell’ampliamento del programma per la realizzazione dell’Autostrada del sole)87 e, secondo gli esperti dell’ufficio studi dell’istituto romano, doveva rispondere a quattro ordini di esigenze: i) introdurre all’interno del gruppo un metodo di lavoro che consentisse di precisare meglio le responsabilità ai diversi livelli (IRI, finanziarie di settore e singole aziende); ii) stabilire direttive a lunga scadenza; iii) individuare gli elementi capaci di favorire l’armonizzazione dei singoli programmi; iv) definire i fabbisogni finanziari dei vari settori88, così da rimodulare il rapporto tra il (crescente) ricorso al Tesoro (per aumentare il fondo di dotazione) e l’utilizzo dei tradizionali strumenti offerti dal mercato finanziario (emissioni obbligazionarie e ricapitalizzazioni)89. 83 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio studi, Libro bianco, b. SD/1416, IRI e Piano Vanoni, 1954. 84 L. D’Antone, L’«interesse straordinario« per il Mezzogiorno (1943-60), in “Meridiana”, 1995, n. 24, pp. 1764. 85 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio studi, Piani quadriennali, b. ID/491, fasc. 2, Nota preliminare su un programma del gruppo IRI per il quadriennio 1957-60, 9 maggio 1956. 86 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio studi, Piani quadriennali, b. ID/491, fasc. 2, Sunto del piano quadriennale 1957-60, s.d. [1956]. 87 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio Studi, Piani quadriennali, b. ID/492, fasc. 10, Il programma di investimenti IRI, ottobre 1958. 88 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio Studi, Piani quadriennali, b. ID/491, fasc. 2, IRI. Sunto del piano quadriennale cit. 89 Questo problema si presentava ogni qualvolta veniva aggiornato il piano quadriennale di investimenti del gruppo. Cfr. As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio Studi, Piani quadriennali, b. ID/492, fasc. 10, 18 Dietro questa gamma di esigenze microeconomiche, più che altro legate a preoccupazioni di redifinizione degli assetti organizzativi e finanziari del gruppo, ve ne erano però altre che miravano a fare dell’IRI un attore fondamentale dello sviluppo economico nazionale. Questo primo piano puntava infatti a soddisfare la crescente domanda di modernizzazione che la società italiana reclamava sotto diversi punti di vista: in termini di allineamento dei servizi pubblici agli standard europei di efficienza e qualità (soprattutto per quanto riguardava le reti dei trasporti, delle telecomunicazioni e il servizio radiotelevisivo) e in termini di aumento della produzione di energia e di beni strumentali90. Il dettaglio del contenuto del programma quadriennale di investimenti dell’IRI a partire dal 1959, in seguito agli aggiustamenti effettuati in corso d’opera dopo la prima approvazione nel 1957, dà conto dell’ampiezza degli obiettivi che esso si prefiggeva (tab. 1): Tab. 2. Piano quadriennale d’investimenti dell’IRI (milliardi di lire correnti), 1959-62 Settori Previsioni 1959-62 Previsioni 1959 Telefonia 265 69 Energia elettrica 300 71 Radiotelevisione 30 8 Trasporti marittimi 110 24 Trasporti aerei 55 8 Siderurgia 130 29 Meccanica 95 23 Imprese diverse 5 3 Autostrada del Sole 110 32 Totale 1.100 267 Fonte : As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio Studi, Piani quadriennali, b. ID/492, f. 11, Programma finanziario di massima dell’IRI per il quadriennio 1959-1962, 1959. Lo sforzo finanziario, organizzativo e progettuale era considerevole, e configurava la volontà di eliminare alcune strozzature che in Italia ancora persistevano sul piano infrastrutturale. Nella telefonia, per esempio, attraverso la riunificazione sotto il controllo pubblico di tutte le società concessionarie che allora si spartivano il mercato nazionale, si mirava a creare, sotto l’egida del monopolio statale, una rete telefonica unica capace di rendere accessibile ovunque i servizi da essa offerta, e di accrescere il numero degli abbonati in media del 38% (60% per le regioni meridionali). Allo stesso modo, gli investimenti negli impianti radiotelevisivi puntavano ad affiliare un maggior numero di abbonati. Nel settore dell’energia elettrica, si puntava a accrescere sensibilmente le capacità produttive degli impianti idroeletttrici (da 10.180 Gwh a 11.844 Gwh per la fine del 1962), di quelli termoelettrici, e a costruire la prima centrale termonucleare. La costituzione della compagnia aerea di bandiera, l’ALITALIA, e l’allargamento della sua flotta, che doveva raggiungere le 58 unità alla fine del 1958, andava di pari passo all’aumento del traffico che i principali aeroporti italiani avevano registrato nel corso di quegli anni. L’idea di accompagnare la crescita economica nell’ambito di una congiuntura particolarmente favorevole, che domandava un surplus di sforzi al fine di dotare il paese delle infrastrutture necessarie alla sua industrializzazione, era ugualmente presente nel progetto per la realizzazione dell’autostrada Milano-Napoli, meglio nota come Autostrada del Sole, che sarebbe divenuta la seconda rete stradale europea in termini di chilometri disponibili. Anche gli altri investimenti previsti Aumento del fondo di dotazione dell’Iri in relazione al finanziamento del piano quadriennale 1959-1962, s.d. [1958-59]. 90 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio studi, Piani quadriennali, b. ID/491, fasc. 2, IRI. Sunto del piano quadriennale cit. 19 erano complementari a un progetto dagli accenti chiaramente “sviluppisti”, che si trattasse di accrescere la produzione di ghisa e acciaio per meglio servire le esigenze del mercato nazionale (passando da 4 a 5 millioni di tonnellate annue) o di rilanciare i settori più promettenti dell’industria meccanica (l’industria automobilistica, l’elettromeccanica, la meccanica di precisione, ecc.)91. Ora, sarebbe assai utile comparare la proporzione degli investimenti destinati dall’IRI ai cosidetti settori “propulsivi” con le previsioni contenute nel “piano Vanoni”. Tuttavia le differenti modalità di aggregazione dei dati complicano tale compito (bisognerebbe poter scomporre i dati secondo i diversi sotto-settori). A titolo di esempio, se si prendono in considerazione gli investimenti per il 1959, al momento dell’avvio del primo piano quadriennale, si nota che l’impegno finanziario dell’IRI nei settori “propulsivi” raggiungeva il 14,6% del totale degli investimeni previsti a livello nazionale dal “piano Vanoni” (e la percentuale sarebbe ben più elevata si si prendessero in considerazione solamente i sottosettori in cui l’IRI promosse i suoi investimenti, vale a dire l’energia, la telefonia, la radiotelevisione, le autostrade, i cantieri navali, ecc.)92. Il compito per l’IRI era dunque non indifferente. A ciò non bisogna dimenticare l’impegno a destinare una parte dei propri investimenti produttivi (almeno il 40%) nelle regioni del sud d’Italia, in applicazione della legge n. 634 del 30 giugno 1957. La quota della capacità produttiva delle imprese siderurgiche del gruppo pubblico localizzate nel Mezzogiorno, per esempio, sarebbe passata dal 30 al 51% già nel corso dei primi anni sessanta93. Questo vincolo, a seconda dei settori, a volte permise di destinare più di un terzo delle risorse del piano quadriennale d’investimenti alle regioni meridionali (vedi tab. 2). In generale, però, il tetto del 40% indicato dalla legge non fu quasi mai raggiunto. Tab. 3. Ripartizione degli investimenti del gruppo IRI (miliardi di lire correnti), 1959-62 Settori Totale investimenti Investimenti nel Mezzogiorno % Mezzogiorno Telefonia 263 53 20,1 Energia elettrica 301 171 56,8 Siderurgia 171 17 10, Meccanica 110 34 30,6 Diverse e RAI 37 10 27,1 Autostrada del sole 125 42 33,6 Trasporti marittimi 108 41* 36,0 Trasporti aerei 55 21* 38,0 Totali 1.170 389 33,2 Fonte : As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio Studi, Piani quadriennali, b. ID/492, f. 8, Relazione della Comissione Demaria sui problemi degli investimenti e dei finanziamenti dell’IRI e dell’ENI per i quadrienni 1959-1962 e 1958-1961, 1958, parte III, p. 3. * Stime In mancanza di un’iniziativa politica sufficientemente convinta, la quale scontava le numerose divisioni interne alla DC e la tradizionale prudenza delle coalizioni governative in materia economica, il management dell’IRI raccolse dunque il testimone dei programmi 91 Per una sintesi del primo piano quadriennale si rinvia a As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Segreteria organi deliberanti, Consiglio di amministrazione (materiale in preparazione), b. 112/D, IRI. Grado di avanzamento a fine 1958 del programma 1957-60. Linee sommarie del programma 1959-62, 23 ottobre 1958. 92 Come si è visto in precedenza, gran parte degli investimenti “propulsivi” previsti dal piano Vanoni erano destinati al settore agricolo e ai lavori pubblici, attività in cui le imprese dell’IRI non erano direttamente coinvolte. 93 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Segreteria organi deliberanti, Consiglio di amministrazione (materiale per la preparazione), b. 116/D, IRI. Elementi per la relazione programmatica per l’esercizio 1961, 15 dicembre 1961. 20 prospettati dal “piano Vanoni” e si impegnò in un vasto programma di investimenti in settori giudicati strategici per lo sviluppo nazionale. L’allora presidente dell’IRI, Aldo Fascetti, avvocato, ex deputato della DC vicino agli ambienti della sinistra cattolica che faceva riferimento a Gronchi, non esitò, in occasione della presentazione del primo piano quadriennale di gruppo del 1957-60, a evidenziare il nesso esistente tra gli obiettivi manageriali dell’IRI e quelli macroeconomici indicati dal “piano Vanoni”, in particolare la realizzazione dei livelli di produzione e di reddito da questo prospettati94. Successivamente si fece promotore del piano quadriennale presso il governo dell’epoca, guidato da Antonio Segni, che ufficialmente non lo approverà mai. Quest’ultimo, stretto tra le polemiche alimentate dalla stampa circa il possibile drenaggio di risorse del mercato finanziario che un’operazione di quella taglia avrebbe provocato e la preoccupazione di ridurre il deficit di bilancio dello Stato, si rese colpevole di un’esitazione rivelatrice, tra le altre cose, delle ambiguità che ancora perduravano tra il mondo politico e il management dell’IRI95. Mentre tutti sembravano essere d’accordo sulle linee di sviluppo dettate dal “piano Vanoni”, sarebbe stato imperdonabile, secondo l’opinione di Fascetti, non dare impulso alla produzione di quei beni e quei servizi indispensabili alle esigenze di un mercato in continua espansione. E così pure di non intervenire per sradicare i “colli di bottiglia” che erano presenti in alcuni settori dell’economia italiana (in particolare l’energia, la siderurgia, le infrastrutture destinate alla mobilità interna, ecc.). L’impasse istituzionale, tuttavia, non venne eliminata. Il mancato intervento di sostegno finanziario da parte del governo a un così importante programma di investimenti mise in tensione la tesoreria dell’IRI96, che si vide obbligata a fare sempre più ricorso all’indebitamento a breve, in particolare attraverso l’emissione di obbligazioni. Il che rischiava di provocare un corto circuito finanziario, visto che un tale indebitamento era quasi esclusivamente finalizzato a rimborsare i debiti contratti in precedenza, senza peraltro provvedere all’intero servizio del debito stesso (nel 1958, per esempio, i bisogni finanziari da coprire erano stimati in 140 miliardi di lire, mentre le emissioni obbligazionarie erano in grado di raccoglierne solamente 40!)97. Si spiegano quindi le sollecitazioni fatte presso il Ministero delle participazioni statali da parte dei dirigenti IRI durante il 1957 e oltre98. Per esempio, in occasione della redazione del secondo piano quadriennale d’investimento, relativo al periodo 1959-62, l’adeguazione del fondo di dotazione venne invocata dai dirigenti dell’IRI come misura indispensabile per far fronte a nuovi problemi finanziari (legati a nuovi investimenti effettuati nei settori dell’aviazione civile, della telefonia, della radiotelevisione) e sociali (dovuti all’adozione di diversi programmi di ristrutturazione sociale presso le imprese del settore meccanico in crisi)99. L’aumento del fondo di dotazione reclamato a più riprese da Fascetti (60 miliardi in quattro 94 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Segreteria organi deliberanti, Comitato di presidenza, b. 222/D, rapporto verbale del 13 dicembre 1956. 95 A. Fascetti, Scritti e discorsi, Milano, Garzanti, 1960, pp. 138 ss. 96 Di fatto, dall’agosto 1952 la tesoreria dell’IRI non aveva ricevuto aiuti da parte dello Stato. I bisogni di mezzi liquidi indispensabili a dare il via al programma di investimenti sopra evocato era stimato in 630-670 miliardi di lire, di cui circa un terzo avrebbe dovuto essere coperto direttamente dallo Stato. Cfr. As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio Studi, Piano quadriennali, b. ID/491, f. 2, IRI. Sunto del piano quadriennale cit. 97 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Segreteria organi deliberanti, Comitato di presidenza, b. 222/D, rapporto verbale del 13 dicembre 1956. 98 Si veda per esempio As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Segreteria organi deliberanti, Comitato di presidenza, b. 222/D, lettera del presidente dell’IRI al Ministero delle partecipazioni statali, 10 ottobre 1957, in copia al verbale del Comitato di presidenza del 24 ottobre 1957. 99 As. Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio Studi, Piani quadriennali, b. ID/492, f. 2, IRI, Orientamenti e programmi generali dell’istituto, Roma, 19 giugno 1958 ; ivi, f. 10, Aumento del fondo di dotazione dell’IRI in relazione al finanziamento del piano quadriennale 1959-1962, 1958. 21 anni al fine di riequilibrare il rapporto tra capitale sociale e indebitamento esterno)100 divenne così una posta in gioco che andava ben al di là dell’aspetto strettamente finanziario, malgrado il suo relativo impatto sulla curva dei finanziamenti destinati al gruppo in un primo tempo101. Vi erano in discussione l’autonomia del management del gruppo pubblico e il suo ruolo nella definizione delle politiche di sviluppo nazionali, i rapporti (di forza) con il governo e i partiti, i rapporti con la burocrazia ministeriale, ecc. La messa a punto di un vero e proprio dispositivo di pianificazione degli obiettivi industriali così come dei mezzi necessari al loro raggiungimento, intrapresa dai dirigenti dell’IRI a partire dalla seconda metà degli anni cinquanta con lo strumento dei piani quadriennali di investimeno, restò, di fatto, isolata. Il Ministero delle partecipazioni pubbliche, a questo proposito, si contraddistinse per la sua fragorosa assenza. Un esempio fra i tanti: una volta abbracciata la cosiddetta “teoria dei due tempi” (prima le infrastrutture, poi le installazioni industriali), l’insieme delle disposizioni prospettate dalla legge sulla localizzazione prioritaria dei siti industriali nelle regioni del sud non furono inquadrate dal Ministero in una strategia di politica industriale coerente, e rimasero dunque assai effimere102. Bisognerà attendere una decina d’anni per registrare un vero e proprio sforzo progettuale e amministrativo in direzione della pianificazione economica, attraverso la costituzione del Comitato interministeriale per la programmazione economica nel 1967. Una tecnostruttura destinata, nelle intenzioni degli ideatori, a rispondere alle esigenze di coordinamento e armonizzazione delle strategie industriali condotte dai vari enti pubblici, a partire dall’IRI. Nel frattempo, però, il contesto politico era mutato: l’alleanza di centro-sinistra, che per la prima volta aveva integrato al governo il Partito socialista, cercava infatti di instaurare un clima favorevole alle grandi intese nazionali, all’interno delle quali aveva maggiormente senso parlare di iniziative miranti a coordinare e razionalizzare l’allocazione delle risorse prodotte dalla crescita economica degli anni precedenti103. Programmazione economica e planning aziendale Tornando ai piani quadriennali d’investimento dell’IRI, si è già accennato al fatto che questi fossero percepiti da una parte del management come l’occasione per migliorare alcune procedure organizzative all’interno del gruppo. Stabilire obiettivi di produzione e mezzi finanziari da impiegare con un certo anticipo permetteva di affidarsi a procedure standardizzate di previsione/controllo, nonché al flusso regolare delle informazioni. E’ noto che l’introduzione di misure di pianificazione avvenga più facilmente laddove l’impresa opera in un contesto caratterizzato da un elevato grado di stabilità, in termini di concorrenza, dinamica dei prezzi, andamento delle vendite, ecc.104 La congiuntura di forte crescita a cavallo dei decenni cinquanta e sessanta, in questo senso, facilitava il lavoro dei manager del gruppo pubblico. La programmazione diventava così strumento di direzione aziendale a tutti gli effetti, capace di «crea[re] obiettivi e defin[ire] modalità e responsabilità di esecuzione, [di porre] la base di una efficiente struttura di controlli aziendali e delle azioni direzionali 100 A. Fascetti, Scritti e discorsi cit., p. 146. La commissione Demaria, incaricata di indagare sulla situazione finanziaria di IRI e ENI, stimava che i bisogni finanziari dell’IRI fino a tutto il 1958 erano stati coperti in gran parte dall’autofinanziamento (46% del totale), mentre l’aumento del fondo di dotazione vi aveva partecipato in misura assai ridotta (5,6%). Cfr. As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio Studi, Piani quadriennali, b. ID/492, f. 8, Relazione della Commissione Demaria sui problemi degli investimenti e dei finanziamenti dell’IRI e dell’ENI cit., p. 1. 102 B. Bottiglieri, La politica economica dell’Italia centrista cit., pp. 306-311. 103 Sulla svolta politica del centro-sinistra si veda P. Di Loreto, La difficile transizione: dalla fine del centrismo al centro-sinistra, 1953-60, Bologna, Il Mulino, 1993. 104 H. Mintzberg, The Rise and Fall of Strategic Planning, New York, Free Press, 1994. 101 22 correttive»105. In questa prospettiva, il piano quadriennale appariva importante non tanto per l’entità degli sviluppi programmati, bensì per il fatto che esso mirava a diventare un metodo di lavoro fondamentale nella pratica corrente della gestione aziendale, così come talune situazioni all’interno del gruppo e, soprattutto, l’esperienza delle visite di imprese straniere (in particolare il viaggio negli Stati Uniti effettuato da alcuni top managers nel 1953) avevano messo in evidenza106. Non è un caso che il più entusiasta sostenitore dell’introduzione del planning all’interno del gruppo fosse proprio il vicedirettore Gaetano Cortesi, che delle “missioni” oltre oceano organizzate nel quadro dei programmi di assistenza tecnica destinati alla FINSIDER e finanziati dal Piano Marshall aveva fatto parte107. In effetti, proprio le imprese del settore siderurgico erano le più avanti nella messa a punto delle tecniche di programmazione e controllo aziendale108. Scopo di Cortesi, giovane manager (poco più che quarantenne) formatosi alla Bocconi, era di estendere questa prassi operativa all’intero gruppo, ribaltando mentalità e abitudini consolidate, peraltro responsabili, secondo il suo punto di vista, di condizionare la percezione della natura stessa dell’istituto di via Veneto: “Finora le aziende – affermava Cortesi nel 1956 - hanno in genere visto l’IRI quale ‘esaminatore’ della loro gestione ‘passata’, e questa funzione, a parte quella ‘costituzionale’ di dover sempre e comunque dare soldi per coprire perdite o i nuovi sviluppi aziendali, è apparsa loro funzione fondamentale dell’Istituto. Per le aziende infatti, le riunioni di bilancio presso l’IRI […] hanno costituito il ‘momento’ formalmente più solenne della loro gestione. In esse il futuro è raramente stato oggetto di ‘effettiva’ discussione nel senso che poi si dirà, mentre, per molte circostanze, la discussione sul ‘passato’ è risultata spesso generica, svalutando alquanto, con l’andare degli anni, anche l’efficacia psicologica di simile ‘solenne’ momento aziendale. Il principale risultato pratico delle riunioni è stato in genere la ‘sistemazione’ dei bilanci”109. Il planning si presentava dunque come uno strumento al servizio del processo di professionalizzazione dei manager del gruppo. Secondo i consulenti americani che accompagnarono i quadri dirigenti italiani nell’adozione e nella messa a punto di questo strumento gestionale110, il piano, in quanto doveva armonizzare le prevedibili richieste del mercato, nei 4-5 anni successivi, con le capacità finanziarie e tecniche delle società del gruppo, tenendo pure conto degli obiettivi dettati dal Ministero delle partecipazioni pubbliche, consentiva ai vari manager di elaborare una visione d’insieme delle attività d’impresa inscrivendola in una prospettiva stabilizzata sul medio periodo. Allo stesso tempo contribuiva a mobilitarli attorno a degli obiettivi precisi. Il ricorso al budget, ovvero il principale mezzo di previsione dei risultati d’esercizio, andava nella stessa direzione. Esso mirava a mettere alla prova il grado di responsabilità dei dirigenti ai vari livelli attraverso la costituzione di centri di responsabilità operativa. Per fare ciò, richiedeva una buona struttura organizzativa, ma allo stesso tempo contribuiva a rafforzarla. La funzione di controllo, infine, nell’ambito di una struttura organizzativa decentrata, avrebbe consentito un’ampia delega di autorità agli organi 105 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ufficio Studi, Piani quadriennali, b. ID/491, fasc. 19, Norme per la programmazione di gruppo, s.d. [1956?], p. 5. 106 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ispettorato, Varie, b. SD/234, fasc. 3, Considerazioni operative sul piano quadriennale Iri, 10 dicembre 1956, firmato da Gaetano Cortesi. 107 F. Ricciardi, Lezioni dall’America. L’Iri, il Piano Marshall e lo “scambio” di esperti con gli Stati Uniti durante gli anni Cinquanta, in “Imprese e storia”, 27, gennaio 2003, p. 54. 108 Cfr. G Osti, L’industria di Stato dall’ascesa al declino: trent’anni nel gruppo Finsider, conversazioni con R. Ranieri, Bologna, Il Mulino, 1993. 109 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ispettorato, Varie, b. SD/234, fasc. 3, Considerazioni operative cit., p. 5. Sottolineatura originale. 110 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ispettorato, Varie, b. SD/234, fasc. 1, Sistemi di programmazione, rendiconti e controlli del Gruppo I.R.I., 31 ottobre 1960; ivi, Review of programs for improving planning, reporting, and control in IRI, ottobre 1960. 23 dirigenti subordinati, perché “decentrare – sottolineavano gli esperti statunitensi – significa […] costituire delle unità autonome nel senso che l’attività di ognuna si svolge richiamandosi a principi, obiettivi e mete anziché preoccupandosi soltanto di soddisfare i superiori”111. Insomma, se da un lato il piano faticava a imporsi come strumento di politica economica nazionale nel quadro di una visione del futuro economico-industriale del paese di carattere sviluppista, dall’altro esso veniva recepito e interpretato secondo un’accezione più ristretta, di tipo aziendale. Quasi a significare un ridimensionamento delle sue prerogative originarie in mancanza di quel compromesso politico-istituzionale capace di creare le condizioni più adatte al suo radicamento. I tecnici e manager dell’IRI incaricati di metterlo a punto sembravano più che altro interessati a riprodurre l’ideologia americanista dell’efficienza aziendale di cui il planning era espressione, senza peraltro coniugarla con una prospettiva di intervento pubblico che mirasse a un’allocazione “razionale” (ovvero negoziata) delle risorse. In questo senso il volontarismo di matrice nittiana e beneduciana, che aveva fin lì caratterizzato la tradizione dell’interventismo pubblico nell’economia attraverso la selezione strategica degli investimenti effettuata dalle élites tecnocratiche, non venne rimpiazzato dalle ricette filo-keynesiane e dagli strumenti operativi che queste proponevano. In modo simile a quanto registrato con l’episodio della “campagna della produttività”, che in pratica si risolse in un coacervo di iniziative spesso non coordinate tra di loro e sottoposte all’interpretazione/rimaneggiamento degli attori locali, anche nel caso delle ipotesi di adozione di un piano economico nazionale furono i processi di traduzione e adattamento imposti da tradizioni e pratiche preesistenti ad avere la meglio. In particolare, non si riuscì a conciliare la definizione di obiettivi macroeconomici con una serie di interventi più circostanziati derivanti da una concertazione tra i vari attori coinvolti che, di fatto, non fu nemmeno abbozzata. I sostenitori di un New Deal all’italiana, o quantomeno di un’ipotesi di économie concertée sull’esempio di quanto avveniva in Francia attraverso l’esperienza di socializzazione degli obiettivi economici incarnata dal Commissariat général au plan, o, ancora, di un’industria di Stato nazionalizzata sul modello delle politiche pianificatrici intraprese dai governi laburisti in Gran Bretagna, erano ben lontani dal veder ricompensati i propri sforzi. E ciò probabilmente per l’incapacità di costruire una solida sponda con la tecnocrazia pubblica e il modello liberale delle “amministrazioni parallele” in cui si era fin lì identificata112. Emblematica è, a questo proposito, la vicenda della commissione parlamentare Giacchi per la riforma dello statuto dell’IRI, i cui lavori iniziarono nel 1954. Un tentativo di riforma politica del capitalismo italiano di Stato che, recependo le istanze provenienti, in modo peraltro confuso, da alcune frange della DC e del mondo cattolico (il keynesismo di La Pira, il laburismo di Gronchi e Pastore, il riformismo di Romani, il nuovo meridionalismo della SVIMEZ di Saraceno, ecc.)113, mirava a fare dell’IRI una sorta di appendice ministeriale sottoposta al controllo diretto del Parlamento, snaturandone sì le tradizionali prerogative di organo di natura privatisticha le cui attività economiche avvenivano al di fuori del bilancio 111 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ispettorato, Varie, b. SD/234, fasc. 1, Sistemi di programmazione, rendimenti e controlli del Gruppo IRI, 31 ottobre 1960, p. 46. 112 Si vedano a questo proposito le considerazioni di M. de Cecco, Keynes and Italian Economics, in P.A. Hall (a cura di), The Political Power of Economic Ideas. Keynesianism across Nations, Princeton, Princeton University Press, 1989, pp. 195-229. 113 In particolare si veda l’ipotesi di “terza via” tra capitalismo e colletivismo avanzata al congresso della DC di Napoli nel 1954. Cfr. B. Bottiglieri, La politica economica dell’Italia centrista cit., pp. 288-289 ; L. Avagliano, La Dc tra capitalismo e impresa pubblica, in F. Malgeri (a cura di), Storia della Democrazia cristiana. 19481954. De Gasperi e l’età del Centrismo, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1987, vol. II, pp. 324-325. 24 dello Stato, ma allargandone allo stesso tempo i confini operativi114. La reazione degli uomini dell’IRI a questo progetto di riforma fu assai decisa. Essa si concretizzò nell’elaborazione di diversi documenti interni115, tra cui va segnalata una sorta di “lettera aperta” inviata da Ernesto Manuelli ed Ernesto Cianci, dirigenti di primo piano di FINSIDER, agli altri manager del gruppo nel settembre 1954. Nella missiva116, in risposta alla “mozione Pastore” che qualche mese prima era stata avanzata in Parlamento col fine ultimo di distaccare le aziende dell’IRI dalla Confindustria, respingevano qualsiasi ingerenza politica nella loro attività, e rilanciavano proponendo di trasformare l’IRI in un ente centralizzatore di tutte le participazioni economiche dello Stato (ad eccezione dei monopoli e delle ferrovie), non dipendente da alcun ministero, operante in regime di diritto privato e dunque completamente autonomo sul piano delle scelte operative. In altre parole, essi facevano appello a quei principi di autodeterminazione che erano caratteristici del modello di gestione tecnocratica del bene comune affermatosi ancor prima della guerra e rivendicavano il loro statuto professionale di manager comparabili in tutto e per tutto ai colleghi che lavoravano nelle società private. Paradossalmente, proprio la predisposizione dei piani quadriennali di investimento dava (almeno in linea teorica) maggiori poteri alla holding-madre, ridimensionando le prerogative imprenditoriali dei singoli manager. All’IRI, per esempio, venivano assegnate le funzioni di definizione dei “traguardi”, di coordinamento dei piani operativi aziendali, di redazione del bilancio consolidato di gruppo, col fine ultimo di evitare che le perdite del passato acquistassero il carattere di “irragionevole fatalità” senza che nessuno ne pagasse le conseguenze, e ponendo così le basi per la messa a punto di un sistema di controlli e sanzioni regolato dall’alto. L’IRI, in altre parole, avocava a sé le decisioni ultime sugli aspetti “politici” o “sociali” connessi alla gestione delle singole imprese del gruppo, evitando altresì che tali aspetti potessero nascondere “insufficienze direzionali e professionali sul piano operativo”117, ma di fatto aprendo la strada a interventi non necessariamente ortodossi sul piano delle logiche aziendali. 3. Conclusioni In conclusione di questo contributo, pare inevitabile cercare di rispondere all’interrogativo che ne ha scandito lo svolgimento. Fu dunque vera modernizzazione? Se si prendono in considerazione alcuni parametri macroeconomici relativi al periodo qui esaminato (il reddito procapite, i livelli di produzione dei principali settori industriali, l’andamento delle esportazioni, l’occupazione, ecc.), è chiaro che la risposta non potrebbe essere che positiva. Se invece si adotta l’ottica del controllo pubblico degli investimenti e della definizione del bene comune nel quadro di una politica di gestione razionale del ciclo economico (simbolicamente rappresentata dal ricorso allo strumento del piano economico), la risposta sarebbe invece negativa. Essa andrebbe così ad alimentare la retorica dell’occasione mancata di cui si è detto in precedenza. Coloro che sono più propensi a mettere in evidenza le manchevolezze del modello di modernizzazione economica realizzatosi nel dopoguerra, soprattutto per quanto riguarda l’assenza di regolamentazione dei mercati e di 114 Si vedano i verbali della commissione contenuti in Ministero dell’industria e del commercio, L’Istituto per la Ricostruzione Industriale, vol. II, Torino, Utet, 1956. 115 Cfr. per esempio Acs, Iri, Serie Nera, b. 117, Riforma statuto IRI, s.d. [1954] ; ivi, Osservazioni in merito ad alcuni argomenti trattati nel cap. V (“Intervento del governo e del parlamento nell’IRI”), 1954. 116 AL (Archivio Luraghi, presso Isec-Bocconi, Milano), b. 54, f. 2, lettera di Ernesto Cianci e Ernesto Manuelli ai dirigenti dell’IRI, 2 settembre 1954. Il documento mi è stato segnalato da Nicola Crepax, che ringrazio. 117 As Iri, Archivio II (Numerazione Nera), Serie Ispettorato, Varie, b. SD/234, fasc. 3, Considerazioni operative cit. 25 un’amministrazione pubblica capace di programmare e monitorare il proprio intervento, imputano queste défaillances essenzialmente alle responsabilità della classe politica118. I tecnocrati pubblici vengono in genere assolti dal mancato processo di riforma del capitalismo italiano, esaltando semmai lo spirito di missione che caratterizzò la loro azione (almeno fino allo spegnersi della generazione beneduciana e all’arrivo dei manager direttamente sponsorizzati dai partiti politici)119 e glissando sulle strategie di legittimazione politica da questi adottate, le quali permisero loro di transitare disinvoltamente dal fascismo al postfascismo all’interno dei vari enti parastatali120. Il valore della continuità dell’azione delle tecnocrazie pubbliche è stato messo sul piatto della bilancia del giudizio storico da chi vi ha colto la presenza di un progetto strategico e coerente di lungo periodo, i cui contorni sarebbero rintracciabili già nell’Italia giolittiana121. Secondo questa interpretazione, la rottura tra le politiche economiche e industriali messe a punto durante il periodo autarchico-bellico e quelle adottate dai governi centristi non sarebbe stata tale. L’offensiva della retorica liberista sviluppata all’indomani del conflitto, e la difficoltà ad associare le varie forme dell’interventismo pubblico con l’esperienza fascista, avrebbero prodotto una sorta di mistificazione anzitutto nel dibattito storiografico relativo, dimenticando il ruolo preminente di questi esperti nel garantire la continuità dei progetti fondati sul cosiddetto “paradigma della scarsità”. Le linee di sviluppo dell’Italia del dopoguerra furono infatti dettate dagli stessi tecnocrati che si formarono negli anni tra le due guerre, e che fecero del periodo bellico il banco di prova di strategie di intervento pubblico non necessariamente imposte dalla congiuntura economica e politica. L’analisi che è stata fatta in queste pagine ha contribuito a sfumare questa interpretazione, mostrando l’eterogeneità delle correnti di pensiero che animavano questi tecnici e le difficoltà che molti di essi ebbero a conciliare prassi culturali e amministrative spesso divergenti. Basti pensare alle figure opposte di Menichella e Malvezzi, entrambi formatisi sul campo, durante la crisi finanziaria degli anni trenta, al servizio della banca universale (nello specifico il Credito Italiano), ma la cui traiettoria divergerà negli anni cruciali a cavallo del conflitto, così come le soluzioni operative da essi prospettate. Oppure basti qui ricordare il percorso cultural-professionale di Saraceno, che oscillò tra il solidarismo cattolico di Camaldoli e l’ortodossia della stabilità imposta dalla Banca d’Italia nel primo dopoguerra (e di cui il “piano di lungo termine” era l’espressione più evidente), tra il meridionalismo della SVIMEZ e il post-keynesismo del “piano Vanoni”. Se è dunque lecito porre l’accento sulla continuità, pur con tutte le avvertenze del caso, non va dimenticato il punto di rottura che la fine della guerra rappresentò in termini di ridefinizione delle interdipendenze internazionali, e gli effetti che tale svolta ebbe sull’azione delle élites dirigenti nazionali, a partire dalle tecnocrazie pubbliche. In questo senso l’adesione al piano Marshall fu cruciale, più che per il suo impatto sulla ripresa economica del 118 Su tutti si veda F. Barca, Compromesso senza riforme nel capitalismo italiano, in Id. (a cura di), Storia del capitalismo italiano cit., pp. 3-115 ; F. Amatori, Italy : the tormented rise of organizational capabilities between governement and families, in A.D. Chandler jr., F. Amatori, T. Hikino (a cura di), Big business and the wealth of nations, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 246-276. 119 M. de Cecco, Splendore e crisi del sistema Beneduce : note sulla struttura finanziaria e industriale dell’Italia dagli anni venti agli anni sessanta, in F. Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano cit., pp. 389-404. 120 Come dimostrano efficacemente recenti ricerche. Cfr. J-Y. Dormagen, Salvatore Gatti (1879-1951). Un haut fonctionnaire italien entre libéralisme, fascisme et république, in “Mélanges de l’Ecole française de RomeMEFREM”, 1991, n. 1; Id., Les effets d’une épuration de façade : la mise en conformité politique de la haute administration italienne entre fascisme et république (1944-1948), in F. Dreyfus (a cura di), L’administration dans le processus de transition démocratique, Parigi, Presses de la Sorbonne, 2004, pp. 13-34. 121 Cfr. C. Spagnolo, Tecnici e politici in Italia cit. ; R. Petri, Dalla ricostruzione al miracolo economico cit. ; id., Cesura e continuità nell’economia italiana tra fascismo e repubblica, in R. Covino, A. Grohmann, L. Tosi (a cura di), Uomini, economie, culture. Saggi in memoria di Gianpaolo Gallo, Napoli, Esi, 1997, vol. II, pp. 131162. 26 dopoguerra, per il fatto che contribuì a rafforzare l’assetto politico centrista, consentì la riutilizzazione in un contesto democratico dello State-corporatism affermatosi tra le due guerre (attraverso la formula del neocapitalismo cavalcato da una parte della DC), e rese possibile la costituzione di un modello di “economia mista” al servizio di politiche industriali selettive122. In questo contesto caratterizzato dalla rielaborazione del “vincolo esterno” (inteso come influenza dei rapporti internazionali sulle scelte di schieramento e di appartenenza dei vari attori)123 va inquadrata pure l’azione dei tecnici dell’IRI durante tutti gli anni cinquanta. Essi tentarono di adattare il proprio volontarismo alle mutate condizioni politicoistituzionali (interne ed esterne), riattualizzando le ricette del nazionalismo economico e dell’interventismo liberale di cui erano gli eredi naturali. In questo senso si spiegano il rifiuto delle opzioni keynesiane, l’ambiguità con cui le soluzioni prospettate dal “piano Vanoni” vennero recepite (semplice documento di studio oppure documento programmatico per l’azione politica?) e, soprattutto, il “carattere sostitutivo imperfetto” che i piani quadriennali di investimento, inaugurati dall’IRI sul finire del decennio cinquanta, costituirono nei confronti delle ipotesi di pianificazione economica avanzate, in modo forse troppo confuso, da alcune frange del mondo politico e dell’expertise tecnico-scientifica. Ciò fu dovuto alle incertezze dei governi centristi ma anche a quelle imputabili ai tecnici dell’istituto pubbblico. Si è evidenziato, a questo proposito, l’atteggiamento oscillatorio di questi tecnici. Da un lato, per esempio, essi aderirono all’ispirazione sviluppista del’ “piano Vanoni”, cercando di realizzarne alcuni obiettivi attraverso lo strumento dei piani quadriennali di investimento; dall’altro, fecero un uso strumentale di questi piani ai fini della professionalizzazione dei quadri dirigenti del gruppo. E ancora: da un lato, videro in questi piani l’occasione per esercitare un controllo più stringente (e dunque “politico”) sull’attività delle imprese del gruppo; dall’altro, di fronte alle novità prospettate dalla “commissione Giacchi” si chiusero a riccio in difesa della propria autonomia professionale, tentando di scongiurare eventuali ingerenze da parte della sfera politica. Alla luce di tutte queste considerazioni, il tema dell’americanizzazione non va qui inteso come misura dello scarto esistente rispetto alla matrice ideale del modello di sviluppo destinato ai paesi occidentali sottoposti all’egemonia statunitense (in tal caso lo scarto con il modello newdealistico sarebbe enorme!)124, ma piuttosto come uno dei tanti riferimenti a cui le élites dirigenti nazionali fecero ricorso (modulandolo secondo una vasta gamma di interessi particolari e contingenti) per portare avanti il processo di modernizzazione postbellico. 122 C. Spagnolo, La stabilizzazione incompiuta cit. R. Gualtieri, Nazionale e internazionale nell’Italia del dopoguerra (1943-50), in S. Pons (a cura di), Novecento italiano cit., pp. 229-255 ; F. De Felice, Nazione e sviluppo : un nodo non sciolto, in Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, La trasformazione dell’Italia: sviluppo e squilibri, t. I, Torino, Einaudi, 1995, pp. 783-882. 124 Sulla base di un’impostazione determinista del processo di diffusione del modello tecnocologico, socioeconomico e politico rappresentato dagli Stati Uniti. Adotta chiaramente questa prospettiva, tra gli altri, H.G. Schröter, What is americanisation ? Or about the use and abuse of americanisation-concept, in D. Barjot, I. Lescent-Giles, M. de Ferrière Le Vayer (a cura di), L’Américanisation en Europe au XXe siècle : économie, culture, politique, Lille, Université Charles de Gaulle-Lille 3, 2002, vol. I, pp. 41-57. 123 27