MIRTO - Il dio nato due volte

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MIRTO - Il dio nato due volte
Philologus
154
2010
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Maria Serena Mirto
IL DIO NATO DUE VOLTE: L’ETIMOLOGIA NELLE BACCANTI
TRA FEDE RELIGIOSA E CRITICA DEL MITO*
Fra le tragedie di Euripide le Baccanti sembrano orientate, più di altre, a drammatizzare il modo in cui l’intellettualismo si misura con la religione e ci consegnano
l’ultima testimonianza dell’indagine inquieta sul rapporto tra fede e ragione nell’opera
del poeta definito, sin dall’antichità, „il filosofo della scena“ 1. È un giudizio riduttivo,
spesso citato quando si presenta Euripide come portavoce superficiale del dibattito
sofistico contemporaneo – a sua volta tacciato di veicolare falsa sapienza – negando
così vigore alla sua vocazione drammatica che non sarebbe all’altezza degli altri due
grandi tragici 2. Un esempio concreto può evidenziare tuttavia l’intimo intreccio fra
invenzione drammaturgica e critica del mito, e a questo scopo prenderò in esame la
strategia che accosta, nel testo delle Baccanti, l’etimologia del nome e degli epiteti del
dio Dioniso alla bonaria denuncia delle alterazioni lessicali che sottendono le trasformazioni di una tradizione mitica; smascherare questo meccanismo, del resto,
potrebbe compromettere il gioco inesauribile delle associazioni etimologiche che
accompagnano e giustificano l’onomastica divina. Spero tuttavia di metterne invece in
* Questo lavoro ha tratto grande profitto dalle critiche di amici e colleghi che ne hanno letto precedenti
stesure. Desidero qui ringraziare Franco Ferrari, Alessandro Grilli, Franco Maltomini, Guido Paduano, Seth
Schein, Mario Telò e i curatori della rivista, che in vario modo mi hanno suggerito di chiarire o correggerne
alcuni aspetti.
1 A partire da Vitr. De Arch. 8, pr. 1 (Euripides, auditor Anaxagorae, quem philosophum Athenienses scaenicum appellaverunt …). Per altre testimonianze, antiche e moderne, e una discussione approfondita di questo
luogo comune critico, cfr. da ultimo Wright (2005) 226s., 235–252.
2 È fin troppo noto che Nietzsche, alfiere della tendenza a considerare il teatro di Euripide come dominato
da un’estetica razionalistica che soffoca l’arte – in continuità con i critici dell’Ottocento romantico – è influenzato dalla vivace caratterizzazione che le Rane di Aristofane offrono della sua disputa con Eschilo e dall’aneddotica antica: Eschilo, componendo i suoi drammi in stato di ebbrezza, avrebbe dimostrato una sorta di
saggezza creatrice inconsapevole e intuitiva; Sofocle, ancora dotato dell’istinto, lo avrebbe però accordato con
la riflessione; Euripide, ricordato come erudito lettore di libri e frequentatore di personalità quali Socrate o
Anassagora, è il primo poeta „sobrio“, un pensatore ateo in antitesi con il poeta „irragionevole“, invasato
dall’estasi divina. L’intellettuale scisso dall’artista era così in totale contrapposizione con il fenomeno tragico
più autentico e originario. In quest’ottica le Baccanti potevano rappresentare solo una palinodia del vecchio
poeta che, giunto alla fine della propria vita, s’interroga sul dionisiaco e ne riconosce la forza incoercibile,
anche se ormai è troppo tardi e l’estetica socratica ha già avviato la decadenza del genere tragico: »… un poeta
che con forza eroica ha resistito a Dioniso durante tutta la vita, per poi conchiuderla con la glorificazione
dell’avversario e suggellare la sua carriera con un suicidio …« (Nietzsche 1992, cap. XII, 87–94, in particolare
88). Su tutto ciò si veda l’incisiva discussione di Henrichs (1986).
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Maria Serena Mirto, Il dio nato due volte
luce l’interesse cruciale per comprendere i punti di vista di coro e personaggi in
relazione al culto dionisiaco: lungi dall’essere solo una cassa di risonanza delle teorie
dei sofisti sul linguaggio, la riflessione sull’etimologia qui diventa una risorsa per
illustrare sia la vitalità della fede popolare, sia l’incontro, non necessariamente ostile,
tra la coscienza critica che si apre al relativismo dei valori e la particolare forma
religiosa rappresentata dalle iniziazioni dionisiache.
La tragedia mette in scena una vicenda di resistenza al culto estatico di Dioniso
come tante ne registra la tradizione a partire dall’Iliade (VI 130–140), dove si allude
alla persecuzione delle nutrici e prime seguaci del dio bambino, le ninfe cui Zeus aveva
affidato il compito di allevarlo sul misterioso e remoto monte Niseo. Ma lo schema
mitico-rituale qui si complica intorno a un paradosso, definito da Desmond Conacher
il più rilevante fra i tanti che rendono così enigmatica la tragedia, per il senso generale
e perché riecheggia un tema molto dibattuto nella cultura sofistica: il tentativo di
colmare o ridurre la distanza tra i due concetti antitetici di nómov (norma, uso, convenzione) e fúsiv (natura) 3. Nelle Baccanti la polarità tra queste idee si struttura nella
particolare accezione del potere istituzionale che si oppone a un culto radicato nella
sfera naturale e si configura come un conflitto irriducibile tra il dio ,straniero‘ e
l’ordine della città. Il giovane re vigila sulle regole che articolano la vita sociale, la cui
cifra è data dalla rassicurante subordinazione femminile, e tutela la religiosità della
polis contrastando il diffondersi di riti scandalosi che consentono alle donne, invasate
dal furore mistico, di vagare sul monte Citerone, nella natura selvaggia esterna allo
spazio civico. Ma Dioniso, con il suo arrivo, rivendica anche la consanguineità con la
stirpe regale e l’integrazione del nuovo culto fra quelli accettati dalla comunità tebana,
traducendo la distanza in prossimità e neutralizzando, nel segno della continuità del
potere, l’inquietudine suscitata dal diverso che irrompe e conquista il favore popolare:
il dio è nato da Semele, è anche lui, come il sovrano Penteo, nipote di Cadmo. La
devozione mette i fedeli di Dioniso in sintonia con il mondo naturale, ma ciò non
significa sovvertire le norme della città o minare i fondamenti morali dell’ordine comunitario. Così il coro di baccanti lidie, nel canto d’ingresso che segue il modello di
un inno 4, disegna per il nuovo culto uno sfondo privo di connotazioni temporali, anzi
ne segnala il punto di forza nell’immemorabile antichità delle forme devozionali
(v. 71s.): tà nomisqénta gàr ai¬eì / Diónuson u™mnäsw. E ancora, nel terzo stasimo,
il brano lirico che prelude alla svolta drammatica della vendetta divina, il coro ammonisce (vv. 890–896):
ou¬
gàr κreîssón pote tøn nómwn
gignåsκein cræ κaì meletân·
κoúfa gàr dapána nomízein i¬scùn tód’ e c¢ ein,
3
4
Cfr. Conacher (1998) 99–107.
Cfr. Ferrari (1979).
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oç ti pot’ a¢ra tò daimónion,
tó t’ e¬n crónwı maκrøı nómimon
a¬eì fúsei te pefuκóv.
Non si devono mai sfidare,
nei pensieri e negli atti, le tradizioni.
Costa ben poco credere
nella forza del divino, quale che sia,
e della tradizione consacrata nel lungo corso del tempo,
che ha sempre origine dalla natura.
Non stupisce dunque che nelle Baccanti lo spiccato gusto euripideo per il contrasto
fra il nome e il suo referente reale (o¢noma / søma), particolare declinazione dell’antitesi nómov / fúsiv, sia condizionato dall’esigenza di conciliare le norme ancestrali con
il fondamento naturale della religione. A differenza dei molti esempi in cui questa
antitesi affiora nelle opere precedenti, ora non si tratta di smascherare l’arbitrarietà del
linguaggio, evidente in tutti i casi in cui lo stesso nome venga usato per più di un
referente creando confusione e disorientamento 5. I nomi, quelli degli dèi in particolare, designano una realtà che può essere ingannevole, ma riescono tuttavia anche a
cogliere l’essenza profonda della persona. Quando si tenta di interpretarne il senso la
lettura risulta talora inadeguata, ma persino l’etimologia popolare assolve un ruolo nel
poliedrico rapporto fra mortali e immortali e, pur in antitesi con il giudizio critico
peculiare di tanti personaggi euripidei nei confronti dei racconti tradizionali, rappresenta il modo privilegiato con cui la gente semplice si accosta al culto. Le Baccanti
offrono dunque, per questo aspetto, un quadro nuovo del rapporto tra fede e ragione,
e si vedrà che il giudizio dissacrante viene trasferito dal mûqov ai meccanismi di tradizione orale del lógov che, con il concorso di malintesi linguistici, finiscono per
trasformare la storia di una nascita divina dandole contorni inattesi, agli occhi di un
intellettuale persino grotteschi, che tuttavia vanno razionalizzati ma non scherniti.
5 L’Elena ha innumerevoli variazioni su questo tema, sottese al motivo del doppio, l’ei d
¢ wlon che rappresenta il miraggio per cui Greci e Troiani hanno combattuto una guerra inutile: cfr. Wright (2005) 307–316.
In altre tragedie nell’opposizione tra o¢noma e søma talora prevale una sfumatura positiva per il nome, che
sopravvive al corpo e non è altrettanto effimero, esposto alla violenza fisica, destinato alla malattia e alla
morte: cfr. HF 337s., IT 499–504, Hel. 588, Or. 390; talora, invece, si sottolinea come il nome sia più fragile del
corpo, perché mentre l’uno viene calunniato e oscurato dalla cattiva fama, l’altro si è mantenuto integro e
puro: cfr. Hel. 66s., 1100. Ma accade anche che la realtà scenica getti una luce ironica sulla battuta di un personaggio, se dà per scontato un diverso destino del nome rispetto al corpo che designa: cfr. Ion 1277s. Non mi
sembra, tuttavia, come cercherò di illustrare nell’analisi, che l’influsso della controversia sofistica determini
una qualità puramente ornamentale dei ricorrenti giochi etimologici nella tarda produzione di Euripide: è
quanto sostiene Kraus (1987) 143–146, affermando che le figure etimologiche e le interpretazioni dei nomi
non sarebbero più dettate dalla seria riflessione teologica di Eschilo o di Sofocle, ancora partecipi di una forma
del pensiero mitico ispirata alla sostanziale unità del nome e del denominato.
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I primi versi della tragedia presentano subito l’assonanza che suggerisce il legame
etimologico tra il nome di Dioniso e quello del padre divino (vv. 1s.): √Hκw Diòv paîv
tände Jhbaíwn cqóna / Diónusov. L’accostamento tra il patronimico e il nome del
figlio, che vuole vedere riconosciuta la propria discendenza divina, si ripete in modo
insistente dall’inizio alla fine 6. L’enfasi sul significato del nome di un dio, del resto, è il
tratto distintivo di ogni racconto mitico, della poesia teogonica, della tradizione orfica
e pitagorica: indagarne e riconoscerne l’origine e la sfera di competenze si legano in
modo indissolubile alla comprensione del suo nome, o meglio della pluralità di nomi
che la prassi religiosa associa diffusamente a ogni singola personalità divina, sia per
fenomeni di sincretismo, sia quando la riflessione teologica si orienta a ridurre e
semplificare il pantheon e occorre giustificare la polionimia esistente 7. Nella prima
parte del nome di Dioniso si distingue dunque il nome di Zeus, ma la seconda parte è
più enigmatica, in ossequio a quello che è stato definito un vero e proprio sistema,
basato su una deliberata oscurità e in grado di produrre varie e fantasiose esegesi dei
teonimi greci 8. Il Coro allude a un nesso etimologico tradizionale nell’epodo del
secondo stasimo, quando invoca il dio con gli elementi formali della preghiera perché
venga, dall’Olimpo o da qualsiasi altro luogo a lui caro, a punire il contegno blasfemo di Penteo: in una sequenza verbale ricca di allitterazioni viene menzionato
Nisa, il nome – mistico più che geografico – del monte legato all’infanzia di
Dioniso (vv. 556–558): póqi Núsav a¢ra tâv qh / rotrófou qursoforeîv / qiásouv,
w® Diónus’ …9. In questo stesso canto corale – vera e propria cerniera nell’azione
drammatica prima del miracolo del terremoto che scuote il palazzo, simbolo della
catastrofe di Penteo e della dinastia tebana – il consueto accostamento con il nome di
Zeus ricorre nell’antistrofe (vv. 550 s.: w® Diòv paî, / Diónuse); ma nella strofe iniziale,
dove quattro distinti nomi del dio si addensano in pochi versi, si narra l’eziologia di
uno in particolare, Ditirambo, che lo identifica col suo canto di culto (vv. 519–536):
’Acelåıou qúgater,
pótni’ eu¬párqene Dírκa,
sù gàr e¬n saîv pote pagaîv
tò Diòv bréfov e l
¢ abev,
oçte mhrøı puròv e¬x a¬qanátou Zeùv
o™ teκœn hçrpasé nin, tád’ a¬naboásav·
Cfr. vv. 27, 242s., 294s., 466, 550s., 859s., 1341s.
Si veda Gambarara (1984) 168–173; Burkert (1970), e in particolare 450: »De même que la dénomination
succède à la naissance dans la vie humaine, elle ne peut pas manquer à la genèse du monde. Dès l’origine, la
cosmogonie est à la foi onomatogonie«.
8 Cfr. Burkert (2003) 353; per l’etimologia cfr. 320 e Càssola (1975) 5.
9 Cfr. Dodds (1960) 146, ad vv. 556–559. Lo stesso gioco etimologico appare in Ar. Ran. 215s.: Nusäïon /
Diòv Diónuson, ma sarebbe stato già presente in un ditirambo di Pindaro (cfr. fr. 85a Snell-Maehler); in
Ap. Rhod. Argon. II 905, è un nesso ormai ben consolidato nella perifrasi che sostituisce il nome del dio: Diòv
Nusäion ui©a.
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ºIqi, Diqúramb’, e¬màn a¢rsena tánde bâqi nhdún·
a¬nafaínw se tód’, w® Báκcie, Jäbaiv o¬nomázein.
sù dé m’, w® máκaira Dírκa,
stefanhfórouv a¬pwqñı
qiásouv e c¢ ousan e¬n soí·
tí m’ a¬naínhı; tí me feúgeiv;
e t¢ i naì tàn botruådh
Dionúsou cárin oi n¢ av,
e t¢ i soi toû Bromíou meläsei.
Figlia dell’Acheloo,
veneranda Dirce, vergine benedetta,
tu accogliesti il neonato di Zeus
nelle tue acque,
quando Zeus, che lo aveva generato,
lo sottrasse al fuoco immortale
celandolo nella coscia, e gridò così:
»Vieni, Ditirambo,
entra in questa mia matrice virile.
Ti rivelerò, o Bacco, a Tebe
perché ti chiami con questo nome«.
Ma tu, Dirce beata, mi respingi
mentre io guido sulle tue rive
tiasi incoronati di ghirlande.
Perché mi rinneghi? Perché mi eviti?
Giuro per la vite, per la grazia
dei grappoli di Dioniso,
che dovrai ancora ricordarti di Bromio.
Le baccanti deplorano che Tebe respinga il suo figlio più illustre e ricordano a
Dirce, la sorgente sacra della città, il momento in cui Dioniso, uscendo dalla coscia in
cui Zeus lo aveva occultato per proteggerlo dalla gelosia di Era, viene definitivamente
alla luce e riceve nelle sue acque il bagno catartico della nascita. Per intendere il cortocircuito temporale che consente al Coro di rievocare l’intera vicenda delle due nascite,
mentre ne racconta ancora una volta il penoso inizio, bisogna tener presente l’antica
etimologia popolare del nome Ditirambo, sottesa con evidenza alle parole del padre
quando glielo impone e insieme rivela il figlio divino alla città di Semele. Dioniso è
o™ dìv qúraze bebhκåv (»colui che ha attraversato due volte la porta«, scil.: la porta
della nascita, la nhdúv femminile di Semele e quella maschile di Zeus). Il verbo usato da
Zeus, nel grido rivolto al figlio prematuro, evidenzia il legame con la perifrasi che
spiega il nome a¬pò toû dúo qúrav baínein, tän te κoilían tñv mhtròv Semélhv, κaì
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tòn mhròn toû Dióv (Etym. Magn. 274, 46–48), talmente nota che Platone, in un passo
delle Leggi, la dà per scontata senza neppure menzionarla esplicitamente quando
spiega l’origine del nome diqúrambov 10. Il coro riprenderebbe, variandola, l’idea che
ci viene testimoniata anche per un ditirambo di Pindaro: Zeus avrebbe gridato al
bambino, una volta completato il tempo della gestazione, di „sciogliere la cucitura“
(Zeùv tiκtoménou au¬toû e¬pebóa „lûqi r™ámma, lûqi r™ámma“) 11. Il passo delle Baccanti
non descrive però il grido della nascita e assegna al padre una diversa esortazione,
pronunciata da Zeus mentre assume il ruolo materno ma già guarda avanti al risultato
della sua spettacolare iniziativa e, con una sorta di ,presente oracolare‘, anticipa il
dovere esclusivo di un padre: legittimare il figlio imponendogli un nome.
Il nome di culto che verrà proclamato ufficialmente a Tebe rivela la natura divina
del neonato perché evoca lo straordinario duplice parto. Anziché connetterlo allora a
luqírambov, in ricordo delle parole usate per esortare il figlio a venir fuori dalla sua
coscia – come riferisce la testimonianza che attribuisce a Pindaro il differente gioco
etimologico – qui il padre non allude a „cuciture“ da sciogliere, ma al prodigio del
piccolo dio che supererà per la seconda volta „la porta della nascita“ (naturalmente il
ricorso a questa metafora si giustifica solo se si focalizza il movimento dall’interno
verso l’esterno, quando il nascituro esce dall’utero materno o dalla cavità nella coscia
maschile che ne replica la funzione, non quando il padre ve lo nasconde). Proprio la
diffusa conoscenza di questo preteso nesso semantico – che fa leva, come sempre nella
prassi etimologica antica, sulla coincidenza di alcune lettere o sillabe fra il nome e la
locuzione che ne spiegherebbe il senso – agevola il trapasso da un termine all’altro e la
compressione dell’arco cronologico, che può includere così anche l’ultimo atto:
la presentazione al mondo e il lavacro nelle acque di Dirce successivi al secondo parto.
A differenza di come s’intende comunemente, ritengo dunque che l’avvio della
gestazione nella „matrice virile“ del padre e il suo previsto compimento felice consentano di condensare, con uno scorcio audace non raro nella lirica euripidea, la
cronologia del momento iniziale e di quello finale: il passaggio dal ventre materno al
corpo paterno ne è solo l’aspetto più sorprendente, già narrato diffusamente nella
parodo con la descrizione delle doglie di Semele (vv. 88–104), quando il fulmine la
colpisce e lei, prima di spirare, spinge fuori dall’utero il feto – nhdúov eκ¢ bolon –
subito raccolto e celato da Zeus che lo assicura all’interno della coscia con spille d’oro.
10 Pl. Leg. 3, 700b: κaì a¢llo [scil. ei®dov w¬d
ı ñv], Dionúsou génesiv oi®mai, diqúrambov legómenov. La voce
Diqúrambov dell’Etymologicon Magnum, riepilogando le diverse etimologie del nome, presenta una duplice
parafrasi per quella presupposta dal passo euripideo. Alla spiegazione citata nel testo segue infatti questa
precisazione: a¬pò toû deúteron tetécqai, a¬pó te tñv mhtròv, κaì a¬pò toû mhroû toû Dióv· içn’ h®ı o™ dìv qúraze
bebhκåv (274, 48–50). Ma il gioco verbale per cui diqúrambov equivale a dìv qúraze bebhκåv viene talora
omesso, per esempio da Fozio quando riassume le etimologie enumerate da Proclo (Chrestom., ap. Phot. Bibl.
V 320 a–b 160, 25–30 Henry), o dallo schol. B a Eur. Hipp. 560 (cfr. infra n. 16), luoghi in cui sembra sufficiente rinviare al dato che Dioniso è dìv genómenov.
11 La notizia ci è trasmessa ancora da Etym. Magn. 274, 50–2, s. v. Diqúrambov (Pind. fr. 85 Snell-Maehler);
si vedano anche le altre testimonianze antiche sull’etimologia del nome divino raccolte in Ieranò (1997)
155–167, Testt. 1–23.
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Ai vv. 94–98 la sintassi relativa all’articolazione dei vari atti del padre divino è
altrettanto compendiosa: la sequenza non sembra infatti lasciare spazio per azioni
intermedie tra locíoiv d’au¬tíκa nin dé / xato qalámoiv Kronídav Zeúv e il gesto, che
dovrebbe seguire senza indugio, di celare all’interno della coscia l’embrione per
proteggerlo da Era: κatà mhrøı dè κalúyav / cruséaisin sunereídei / perónaiv
κruptòn a¬f’ √Hrav 12.
Nell’apostrofe di Zeus a Dioniso il verbo a¬nafaínein, che appartiene al lessico
religioso dei misteri13, configura inoltre un’azione opposta a quella descritta nella
parodo (vv. 96–98: κatà … κalúyav … κruptón). Il salvataggio del piccolo dio è sì
evocato ancora una volta, nel modo sintetico consentito dal linguaggio lirico e dal
fatto che la vicenda è ormai nota, ma la presentazione a Tebe e l’apostrofe alla sorgente – che apre e chiude la strofe incorniciando gli eventi della prima e della seconda
nascita con una sorta di hysteron proteron – spostano l’attenzione sul termine della
„gravidanza“, mentre nella parodo si insisteva sull’aspetto furtivo del soccorso divino
in occasione del primo parto. L’abluzione nelle acque di Dirce è certamente il
momento conclusivo della laboriosa gestazione, iniziata da Semele e portata a termine
da Zeus 14. Sembra infatti illogico che il padre, già descritto nella parodo come il soc12 I critici che hanno giudicato la sintassi dei vv. 94–98 incongruente con la situazione descritta nel secondo
stasimo, per cui Zeus avrebbe nascosto Dioniso nella sua coscia solo dopo averlo lavato nelle acque della fonte
Dirce e non nell’immediatezza del parto di Semele, propongono di emendare il testo (Dodds 1960, 79 ad
vv. 94–95); oppure negano che il neonato venisse immerso direttamente nella fonte: Roux (1972) 277–278,
426–427 (si veda infra, n. 14). Ma cfr. Seaford (2001) 160 e Di Benedetto (2004) 292. Naturalmente l’ipotesi che
qui si propone – riferire il bagno alla seconda e non alla prima nascita – elimina ogni difficoltà ai vv. 94–98.
Non si deve comunque esigere una rigida scansione cronologica da nessuno dei due passi, perché entrambi
illustrano la libertà con cui Euripide costruisce i suoi brani lirici.
13 Cfr. Dodds (1960) 143 e Roux (1972) 428. Si osservi che la forma del presente (a¬nafaínw), restituita da
una correzione di Hermann, è garantita dal metro (l’elemento lungo richiesto dal dimetro ionico); la tradizione manoscritta reca invece la forma del futuro (a¬nafanø) e il guasto si può spiegare con la necessità di
proiettare la rivelazione in un momento distinto da quello in cui il feto viene nascosto, se non si tiene conto del
valore di anticipazione oracolare nell’uso del presente.
14 L’allusione al bagno cerimoniale nella fonte Dirce ricorre solo in questo passo euripideo, ma sorgenti
diverse vengono menzionate in tradizioni locali, come accade anche per Zeus e per altre divinità: Plut. Lys. 28, 7,
riferisce un mito della città beotica di Aliarto, secondo cui il piccolo Dioniso alla nascita era stato purificato
dalle sue nutrici in una fonte chiamata Kissoussa (un nome legato alla pianta sacra al dio, l’edera: κissóv), le
cui acque limpide avrebbero riflessi del colore del vino e un sapore particolarmente dolce (cfr. Dodds 1960, ad
vv. 521–2). Sul rito di passaggio del bagno del neonato, cfr. Ginouvès (1962) 235–238. Proprio il senso di
„passaggio“ che introduce alla vita rende necessario situare il bagno nel momento in cui Dioniso è ormai autonomo, e non avrebbe senso dopo il primo drammatico parto prematuro. Un bagno tra la prima e la seconda
nascita crea in ogni caso perplessità (cfr. Seaford 2001, ad v. 524), e la fantasia dei critici ha contribuito a
motivarlo con spiegazioni stravaganti almeno quanto il mito originale; cfr. la nota di Paley (1874) 454, ad
v. 525: »There appears to have been a legend that the child when born was dipped in the fountain to heal the
burns«. Un’idea ispirata, forse, da un epigramma dell’Anthologia Palatina (9, 331), ma il contesto culturale in
cui Meleagro offre l’artificiosa eziologia per l’abituale mescolanza di vino e acqua è ben diverso: le Ninfe lavarono Dioniso oçt’ e¬κ puròv hçlaq’ o™ κoûrov e u™pèr téfrhv a¢rti κuliómenon (»quando balzò dalle fiamme«
e »ancora rotolava sulla cenere«); allo stesso modo, per evitare il fuoco ardente del vino schietto, bisogna associarlo all’acqua. Roux (1972) 426s., pensa invece a una poco plausibile espressione „allegorica“ (o piuttosto
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Maria Serena Mirto, Il dio nato due volte
corritore che strappa alla vampa del fulmine il figlio divino e si affretta a proteggerlo
dall’odio della matrigna, senta la necessità di purificarlo prima di accoglierlo nel suo
corpo. Il fuoco, non si dimentichi, ha virtù catartiche e rigeneratrici tali da essere al
centro dei miti in cui una divinità cerca di rendere immortale un neonato 15.
L’atroce fine di Semele, del resto, aveva già suggerito a Euripide un brano lirico in
cui i tratti distintivi della vicenda di amore e morte tra la sfortunata donna e il dio
supremo sono accostati con un violento hysteron proteron: nella seconda antistrofe
del primo stasimo dell’Ippolito le mura di Tebe e la sorgente Dirce sono invocate come
testimoni dell’azione rovinosa di Afrodite, allorché brontâı gàr a¬mfipúrwı / toκáda
tàn digónoio Báκ / cou numfeusaména pótmwı / foníwı κathúnasen (»dando in sposa
al tuono fiammeggiante la puerpera di Bacco, il figlio nato due volte, la mise a dormire
con una morte violenta«) 16.
L’enfasi sull’origine tebana di Dioniso richiede inoltre una certa vaghezza sul luogo
dove avviene la seconda nascita; già nella parodo la conclusione della storia sacra
omette ogni dettaglio relativo al luogo in cui, a™níκa Moîrai / télesan, Zeus genera
Dioniso tauróκerwn qeón (vv. 99s.), e lo incorona con ghirlande di serpi: una
precoce, sorprendente allusione all’aspetto teriomorfo e agli attributi che lo caratterizzano nel culto orgiastico (vv. 1017s.). La tradizione, com’è noto, conosceva innumerevoli alternative e nelle Baccanti, in cui tutto ruota intorno al rapporto fra Dioniso
e Tebe, sembra deliberata l’intenzione di suggerire che le vicende della duplice nascita
abbiano come sfondo solo la città di Cadmo. Sulla base dello stesso schema, per cui si
condensano i tempi e si omettono i dettagli che appaiono superflui, nell’apostrofe a
Dirce non è affatto esplicito chi abbia materialmente provveduto al bagno del piccolo
dio. Zeus occupa da solo la scena, ma in genere il compito di lavare il neonato, prima
di accudirlo e nutrirlo, spetta a figure di aiutanti: ancora una volta non sorprende che
la qualità evocativa del canto del Coro trascuri il contorno, diversamente da quanto
metaforica): non un bagno nella sorgente, ma un lavacro con acque attinte alla sacra fonte e portate all’interno
del palazzo, nella camera di Semele (si veda quanto osserva, per contro, Di Benedetto 2004, 361). WinningtonIngram (1948) 78 e n. 2 suggerisce che bréfov, al v. 522, vada inteso come »the child in the womb, the
embryo«, e che dunque »it was a foetus brought prematurely to the light of day that was washed in Dirce’s
waters«; ma lo stesso termine appare al v. 289 nella versione di Tiresia, dove la vicenda della seconda nascita e
dunque la stessa idea del parto prematuro sono eliminati, con il senso inequivocabile di „neonato“.
15 Lo illustrano, fra l’altro, le vicende di Demetra che vorrebbe rendere Demofonte a¬gärwn t’ a¬qánatón
te (Hymn. Hom. Cer. II, 239–242) e di Teti, che fa lo stesso con Achille (cfr. Ap. Rhod. Argon. IV 869–872;
Apollod. Bibl. III 13, 6). Alcuni critici ipotizzano addirittura che Dioniso sopravviva al fulmine che ha
incenerito la madre perché il fuoco celeste lo sacralizza divinizzandolo: cfr. Bollack (2005) 13 e 24; ma si veda
la giusta replica di Schlesier (2007) 312–314 e n. 34 (cfr. infra n. 22). Sulle virtù catartiche del fuoco cfr. Parker
(1983) 227.
16 Hipp. 559–562. Definire Semele, nel momento del connubio che la ucciderà, toκáda tàn digónoio Báκ-/
cou forza in un’unica immagine non solo l’effetto immediato dell’unione con Zeus, il parto prematuro, ma anche l’epiteto che denota con audace prolessi l’intervento di Zeus e la seconda nascita di Dioniso. Non stupisce
quindi che anche in questo caso la tradizione manoscritta abbia registrato un guasto, corrompendo digónoio
nell’ametrico Diogónoio, mentre la lezione corretta è preservata e illustrata dallo schol. B ad v. 560: gr. κaì
digónoio, κaqò κaì diqúrambov légetai tøı dissøv tecqñnai.
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Philologus 154 (2010) 1
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avviene nei resoconti dei mitografi e nell’iconografia 17. Se questa interpretazione è
corretta, il secondo stasimo allude al complesso degli eventi relativi alla nascita di
Dioniso – mentre la parodo insiste sul primo parto, quando era necessario proteggerlo
e nasconderlo al mondo – e ciò si accorda molto meglio con l’annuncio-rivelazione
del padre, con l’imposizione del nome di culto e, infine, con il rito del bagno.
È singolare però che la storia sacra celebrata dal Coro sia stata in precedenza
oggetto della critica razionalistica di Tiresia. L’indovino, rappresentante dell’autorità
religiosa nella città lacerata tra la resistenza al nuovo culto, condotta dal potere politico, e l’entusiasmo che ha invasato le donne tebane, risponde allo scherno sacrilego di
Penteo (vv. 242–245) con un’analisi che demistifica e corregge il mito della seconda
nascita. Una serie di travisamenti linguistici, nella tradizione orale della vicenda,
avrebbe indotto gli uomini a inventarne una versione bizzarra, che suscita imbarazzo
per la sua cruda fisicità (vv. 286–297):
17 Altre testimonianze che narrano la nascita di Dioniso dalla coscia di Zeus aggiungono sempre gli avvenimenti relativi ai personaggi che se ne prendono cura: si parla delle ninfe di Dodona in Pherecyd., FGrH 3 F
90b; di Ino, madre vicaria tebana, e poi delle ninfe di Nisa in Ov. Met. III 313–315; Ermes, in Apollod. Bibl. III
4, 3, lo consegna prima a Ino e Atamante e poi, dopo che Era adirata li ha reso folli, alle ninfe di Nisa. Anche
l’iconografia del ,parto‘ di Zeus contempla sempre delle figure che assistono: Ermes è in attesa, mentre la
testina di Dioniso affiora dalla coscia di Zeus seduto su una roccia, nella scena sulla lekythos attica a figure
rosse del Pittore di Alkimachos, conservata a Boston (MFA 95. 39, da Eretria, datata intorno al 460–450 a. C.);
Eileithyia accoglie fra le braccia il piccolo Dioniso che emerge dalla coscia di Zeus seduto, alla presenza delle
divinità olimpiche, nel cratere a volute apulo del Pittore della Nascita di Dioniso (Taranto, Mus. Naz. I. G.
8264, datato tra la fine del V e l’inizio del IV sec. a. C.); sul rilievo neoattico di età adrianea del Vaticano (Sala
delle Muse 493, inv. 398), che forse deriva da un rilievo della seconda metà del IV sec. a. C., Dioniso è raffigurato mentre esce dalla coscia di Zeus e tende le braccia verso Ermes, dietro il quale sopraggiungono tre figure
femminili, Ninfe o Eileithyiai (cfr. LIMC, s. v. Dionysos, nn. 666, 667, 668; si veda la descrizione di altri
documenti figurativi in Philippart 1930, 16–21). La scena dipinta su una pelike attica del IV sec. a. C. (San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage, St 1792), in cui una figura femminile coronata d’edera emerge dal suolo in una
grotta, ricoperta anch’essa d’edera, e consegna a Ermes un neonato avvolto in una nebride, è stata interpretata
in modo convincente come la nascita del Dioniso ctonio, il figlio di Persefone della tradizione orfica, secondo
lo schema figurativo noto per la nascita di Erittonio (Simon 1966, 78–86, in particolare 80 e n. 44, tavv. 18 e 19,
2; Graf 1974, 66–78). In precedenza si era ritenuto invece di potervi ravvisare l’illustrazione del passo delle
Baccanti: Dirce, sprofondata nel terreno fino alle ginocchia, sarebbe in procinto di consegnare a Ermes il
piccolo Dioniso dopo averlo lavato nelle sue acque, mentre Atena lo nasconde con lo scudo agli occhi di Era
che sta più in alto, al fianco di Zeus in trono, poco prima che il dio lo accolga nella sua coscia (cfr. Philippart
1930, 16; Metzger 1944–45, 332). In realtà la scena rappresenta l’anodos dagli inferi – la grotta, su cui è seduta
Ecate con in mano due fiaccole accese, ne simboleggia l’ingresso – della stessa Persefone (o di una ninfa ctonia,
forse quella del fiume Stige) dopo la misteriosa nascita del piccolo Dioniso Zagreo, per la cui salvezza Atena
avrà un ruolo importante. È anche interessante notare come la figura femminile intenta a percuotere un timpano, alla destra del gruppo che si occupa del piccolo dio, testimoni la tradizione orfica secondo cui il tamburo
fu inventato per coprire i vagiti del piccolo (Opp. Cyneg. IV 244–249), in analogia con l’infanzia di Zeus a
Creta, quando i Cureti fecero risuonare le loro armi per proteggerlo dal padre Crono (Apollod. Bibl. I 1, 7);
ma già per il figlio di Semele è evidente la tendenza a ricondurre elementi del suo culto alle vicende della
nascita del padre: in Bacch. 120–134 l’eziologia dell’invenzione del timpano da parte dei Coribanti ha come
sfondo la grotta cretese in cui Rea generò Zeus (cfr. anche Roux 1972, 287s.).
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Maria Serena Mirto, Il dio nato due volte
κaì diagelâıv nin, w™ v e¬nerráfh Diòv
mhrøı; didáxw s’ w™ v κaløv e c¢ ei tóde.
e¬peí nin hçrpas’ e¬κ puròv κerauníou
Zeúv, e¬v d’ ºOlumpon bréfov a¬nägagen qeón,
√Hra nin h¢qel’ e¬κbaleîn a¬p’ ou¬ranoû·
Zeùv d’ a¬ntemhcanäsaq’ oi©a dæ qeóv.
r™äxav mérov ti toû cqón’ e¬gκuκlouménou
ai¬qérov, e d¢ wκe tónd’ oçmhron, e¬κtiqeìv
Diónuson √Hrav neiκéwn· crónwı dé nin
brotoì r™afñnaí fasin e¬n mhrøı Dióv,
o¢noma metastäsantev, oçti qeâı qeòv
√Hraı poq’ w™ märeuse, sunqéntev lógon.
290
295
Tu lo deridi perché è stato cucito nella coscia di Zeus? Ti dimostrerò come si
spieghi perfettamente. Quando Zeus lo sottrasse al fuoco del fulmine e portò
sull’Olimpo il dio neonato, Era voleva scagliarlo giù dal cielo. Allora Zeus escogitò
uno stratagemma degno di un dio per contrastarla: lacerò un pezzo dell’etere
che circonda la terra, e ne formò un ostaggio che consegnò a Era, così sottraendo
Dioniso al suo odio. Ma, col tempo, i mortali dicono che fu cucito nella coscia di
Zeus, trasformando la parola – poiché lui, un dio, un giorno servì da ostaggio a una
dea, Era – e hanno creato questa favola 18.
La ricostruzione del modo in cui il mito della seconda nascita ha avuto origine dai
fraintendimenti degli uomini, nel processo di diffusione orale della storia, è una prova
ulteriore del metodo razionale seguito da Tiresia. Il suo discorso di monito a Penteo si
apre con il biasimo del cattivo uso della retorica fatto dal giovane sovrano e sottolinea
poi come le virtù civiche siano basate sul buon senso e non sulla competenza dialettica
(vv. 266–271). La saggezza si sostanzia di coscienza dei propri limiti, in quanto mortali, e non usa l’arma della ragione per combattere il divino: questo principio non solo
La traduzione dei vv. 293s. presuppone le correzioni di Verdenius e Borthwick, accolte da Diggle nella
sua edizione (e d¢ wκe … e¬κtiqeìv invece di e q
¢ hκe … e¬κdidoùv dei mss.: cfr. Verdenius 1988, 260). Non condivido tuttavia l’idea, spesso avanzata, di una deliberata falsificazione del racconto, perché gli uomini avrebbero
trovato inaccettabile che un dio venisse dato in ostaggio a un’altra divinità, sia pure solo nella finzione dell’
eidolon (così Roux 1972, 351, Verdenius 1988, 261, Seaford 2001, 177, Basta Donzelli 2006, 7). Di questa
critica morale (che pure è presente, ad esempio, in H. F. 1340–1346) qui non c’è alcuna traccia, e la ricostruzione di Tiresia insiste sulle alterazioni linguistiche, dovute evidentemente a una serie di malintesi. La
leggenda che ne nasce, oltretutto, non risponde a istanze etiche e anzi si distingue da altre storie di nascite
divine per i dettagli straordinari e innaturali. L’alterazione della vicenda delineata da Tiresia e la conseguente
invenzione della duplice nascita, cui crede la massa dei fedeli, non riguardano dunque un tentativo di depurare
il mito, né questa è la via scelta dalle Baccanti per descrivere il rapporto fra gli uomini e la religione: quando il
culto si diffonde nessuna variante della storia viene scartata, ma la tradizione popolare ha ormai preso il posto
di quella che si riesce ancora a scorgere, con un’analisi razionale, dietro il miracolo della doppia nascita. In
ogni caso ciascuno resta libero di modellare la propria fede a seconda delle coordinate culturali cui si ispira,
purché l’errore non tocchi il nucleo della verità religiosa: Dioniso è figlio di Zeus.
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sottende la morale delle seguaci di Dioniso, ma guida anche i due anziani adepti,
Cadmo e soprattutto Tiresia, che lo ha espresso in termini netti in un loro precedente
dialogo (vv. 200–203):
ou¬dèn sofizómesqa toîsi daímosin.
patríouv paradocáv, açv q’ o™mäliκav crónwı
κeκtämeq’, ou¬deìv au¬tà κatabaleî lógov,
ou¬d’ ei¬ di’ a¢κrwn tò sofòn huçrhtai frenøn.
Non vale nulla escogitare sottigliezze nei confronti degli dèi. Nessun argomento
riuscirà a demolire le tradizioni ancestrali, ricevute dagli avi e antiche come il
tempo, neppure se il sapere è frutto di menti raffinate.
Benché queste siano dunque le premesse, Tiresia procede poi a una teoria sulla vera
natura del „nuovo“ dio ricorrendo a un’idea antica, che ha origine nella filosofia
ionica, nelle prime speculazioni cosmologiche e negli scritti medici, poi ripresa da
sofisti contemporanei a Euripide, come Prodico (DK 84 B 5), e offre una spiegazione
allegorica delle divinità antropomorfiche: gli elementi basilari per la vita degli uomini
sono il secco e l’umido; la dea Demetra, cioè la Terra – l’uno e l’altro nome si equivalgono – provvede al nutrimento solido con i cereali; il dio figlio di Semele è
sopraggiunto poi a scoprire e diffondere, come principio di civiltà, la bevanda derivata
dall’uva, il vino, necessario complemento degli alimenti secchi che dona il sonno e
l’oblio degli affanni; Dioniso non è solo lo scopritore, ma incarna lui stesso questo
inestimabile rimedio ai mali ed è funzionale ai riti religiosi perché si versa nelle
libagioni agli altri dèi (vv. 274–285). È stato osservato che Tiresia fonde così due
aspetti apparentemente contraddittori – in modo simmetrico alla costante celebrazione del culto dionisiaco proposta dal Coro – delineando la selvaggia religione
orgiastica del nuovo dio come un incontro fra cultura e natura, fra nómov e fúsiv,
e suggerendo che il mito ha un profondo contenuto di verità velato da enigmi e storie
arcane 19.
Il panorama dei documenti sulla religiosità misterica in età classica si è ormai
arricchito della preziosa testimonianza del papiro di Derveni, e in esso un iniziato
impegnato nell’esercizio professionale della mantica, autore del commento di un
poema teogonico attribuito al mitico cantore Orfeo, adotta diffusamente l’esegesi
allegorica e fa riflessioni onomastiche in modo non diverso dal personaggio di Tiresia.
Se poi si osservano l’associazione suggerita dall’indovino tebano tra varî significanti –
nel ricostruire la vicenda che dal mérov di etere, offerto come oçmhrov a Era, conduce al
mhróv di Zeus, trasformato in incubatrice del figlio divino – e l’insistenza con cui il
Coro celebra ancora questa vicenda, benché sia stata spiegata come frutto di un
estroso travisamento del linguaggio, si noterà che un’analoga tendenza a moltiplicare i
nessi etimologici, anziché sceglierne uno come il solo attendibile, caratterizza Socrate
19
Cfr. soprattutto Conacher (1998) 102, Seaford (2001), ad vv. 274–85.
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Maria Serena Mirto, Il dio nato due volte
nel Cratilo platonico 20. In più occasioni per i nomi divini – quelli stabiliti dai mitici
legislatori che hanno creato il linguaggio umano, e le cui intenzioni bisogna cercare
di ricostruire – accanto all’etimologia popolare ne viene presentata un’altra, più
sofisticata: il nome di Ade viene così spiegato non come »Invisibile« – √Aidhv (da
a¬-idév), legandone la radice al verbo i¬deîn „vedere“ – secondo la credenza più diffusa,
ma a¬pò toû pánta tà κalà ei¬dénai, associandolo al verbo ei¬dénai „sapere“ (Pl. Cra.
403a–404b); un nesso forzato, da un punto di vista filologico, ma in grado di trasmettere un principio fondamentale della filosofia platonica: il dio dell’oltretomba è un
filosofo, un sapiente, perché sceglie di convivere con gli uomini quando sono ormai
solo anime purificate dai vizi e dalle passioni che si associano al corpo. Nel Fedone
(80d), tuttavia, l’etimologia popolare non è più in concorrenza con quella elaborata
nel Cratilo, anzi viene reinterpretata da Platone per renderla funzionale allo stesso
concetto: Ade, proprio come l’anima purificata, è un dio incorporeo, il luogo in cui
risiede è nobile, puro e »invisibile«, lui stesso è buono e saggio. L’opinione corrente
viene criticata allora solo in quanto ne derivano una valutazione errata del dio e il
terrore della morte; ma se lo stesso significante, »invisibile«, può veicolare un’idea
diversa, e la consueta paura è sostituita da valori positivi, allora anche l’etimologia
popolare è in grado di rivelare la vera natura e la potenza del dio. Ancora, Socrate nel
Cratilo offre molteplici letture del nome di Apollo, tutte valide perché ciascuna coglie
un aspetto della divinità (404e–406a). O, ancora, l’interpretazione del nome di Era si
basa su un procedimento analitico simile a quello di Tiresia, e spiega come la forma
iniziale sia stata mascherata da mutamenti morfologici, che ne hanno occultato il vero
senso lasciando spazio all’etimologia popolare (404b–c). Infine, l’esegesi dei nomi di
Demetra e Dioniso nasce dal dono degli alimenti che essi rappresentano: κatà tæn
dósin tñv e¬dwdñv didoûsa w™ v mäthr Dhmäthr κeκlñsqai (404b); e la deformazione
scherzosa del nome di Dioniso (Didoínusov) viene sciolta nella perifrasi o™ didoùv tòn
oi®non, nell’intreccio costante fra etimologia e interpretazione allegorica (406c).
Il segno criptico costituito dal nome di un dio appare così come una profezia chiusa e
20 Cfr. Kouremenos, Parássoglou, Tsantsanoglou (2006). Con la formulazione del nome di Demetra dei
vv. 275s. cfr., in particolare, PDerv col. XXII 7ss.: Gñ dè κaì Mäthr κaì ¿Réa κaì √Hrh h™ au¬tä. e¬κläqh dè / Gñ
mèn nómwı, Mäthr d’ oçti e¬κ taúthv pánta g[ín]etai […]. Dhmäthr [dè] / w¬nomásqh wç sper h™ Gñ Mäthr, e¬x
a¬mfotérwn eÇ[n] o¢noma· / tò au¬tò gàr h®n. Cfr. ancora col. VII 6s., e il modo in cui si spiega l’intento del poema
di Orfeo: [e¬]ríst’ ai¬n[ígma]ta ou¬κ h¢qele légein, [e¬n ai¬n]ígmas[i]n dè / [me]gála. Qui non si parla di travisamenti cui sarebbe sottoposto il mito, come nel discorso di Tiresia, bensì di una deliberata invenzione poetica,
strumentale a illustrare attraverso il mito i fenomeni divini a chi sappia comprenderne il senso allegorico. Altri
confronti nel commento di Seaford (2001) 174–176 a Bacch. 274–85. In generale, per un’analisi delle affinità
tra gli intellettuali dell’Atene classica e il personaggio di Tiresia, „theological sophist“ incline al sincretismo e
alle associazioni etimologiche, si veda Roth (1984) 59–69; per il confronto fra le interpretazioni allegoriche
dei nomi divini, nel papiro di Derveni, e l’analogo procedimento etimologico di Socrate cfr. Anceschi (2007).
Baxter (1992) 130–139, individua invece nel commentatore della teogonia orfica di Derveni uno degli
esponenti della teoria di un’origine naturale del linguaggio che sarebbero il bersaglio polemico del dialogo
platonico (cfr. anche Casadesús Bordoy 2000). Quasi un millennio più tardi, tuttavia, il filosofo neoplatonico
Proclo si mostra ben consapevole che il Cratilo riflette la tendenza dell’epoca a interpretare idee orfiche con
un metro filosofico: cfr. Van den Berg (2008) 178s.
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Philologus 154 (2010) 1
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insieme un messaggio aperto a infinite traduzioni umane, nessuna del tutto esatta e
nessuna esclusiva 21.
Nelle Baccanti si ha dunque un esempio della critica al mito esercitata negli ambienti intellettuali tra la fine del V e il IV sec. a. C., non finalizzata a rinnegarlo e a
svuotarlo di senso, bensì impegnata a intrecciare un nuovo dialogo tra fede e ragione.
Se il coro di menadi asiatiche associa il nome di culto Ditirambo alla storia sacra della
nascita di Dioniso, con la sua analisi razionalistica di quella tradizione Tiresia non ne
rifiuta la divinità, ma segnala anzi a Penteo una versione della vicenda modellata sui
consueti schemi dei rapporti fra gli Olimpî narrati da Omero ed Esiodo. Il falso
Dioniso, il doppio etereo lasciato in ostaggio alla vendetta gelosa di Era, descrive
un quadro più aderente ai noti dissidi dei coniugi divini, sempre occasionati dalle
infedeltà di Zeus: una »favola verosimile«, come Platone nel Timeo (29c–d tòn ei¬κóta
mûqon) definisce il solo risultato che ci si può attendere dalle speculazioni umane sugli
dèi 22. L’intelligenza del sapiente non deve mirare a demolire le credenze della gente
comune, ma può invece avanzarne spiegazioni ,linguistiche‘, o contribuire alla lettura
allegorica di una storia sacra con ipotesi naturalistiche. Questo esercizio intellettuale
mira solo a dare fondamento alla fede religiosa per una élite più esigente, ma non ne
disprezza gli aspetti popolari, né si rifiuta di credere alla divinità che ripropone in
termini aggiornati principî antichi. Non c’è allora motivo di opporre la posizione
,sofistica‘ di Tiresia alla fede acritica professata dal Coro: la sua devozione si distingue
da quella della massa solo perché non disdegna un uso cauto della ragione, mettendola
tuttavia al servizio della tradizione religiosa; l’osservanza non mortifica né la persona
21 Gli studi più recenti sul Cratilo hanno sottolineato il valore non trascurabile della rassegna di tante
bizzarre etimologie affidata a Socrate nel dialogo platonico. Per coglierne la serietà bisogna però considerare la
netta differenza tra la teoria antica e quella dei linguisti moderni, per i quali la ricostruzione dell’origine di una
parola si basa sulla sua vicenda evolutiva: la ,scienza‘ etimologica degli antichi presuppone che una stessa
parola possa combinare due o più significati, e l’esegeta più abile è quello capace di decifrare il senso più
sottile, ben nascosto sotto la superficie del nome. Cfr. in particolare Barney (1998); Sedley (1998) e, in
generale, per la tesi della serietà della sezione etimologica del dialogo, Sedley (2003). Sui nomi di Ade e Apollo,
cfr. Wolhfarht (1990); Montrasio (1988).
22 Euripide gioca con echi intertestuali da altre sue tragedie, se si pensa che qui si ritorce su Era lo stesso
espediente che lei aveva escogitato per sottrarre Elena a Paride, e punirlo così del giudizio che non l’aveva
premiata (cfr. Hel. 34: ei d¢ wlon e m
¢ pnoun ou¬ranoû xunqeîs’ a¢po). L’azione scenica replica poi probabilmente
questo stratagemma tra gli effetti dell’arte illusionistica con cui lo stesso Dioniso si difende dalla violenza
di Penteo: cfr. i vv. 629–631 (se al v. 630 si accoglie la correzione di Jacobs fásm’ in luogo di føv dei mss.).
I risvolti religiosi della rivalità fra Era e Zeus – che innesca una sorta di sfida tra le due divinità sulla possibilità
di procreare figli senza il contributo del coniuge – sono al centro dell’interessante analisi di Schlesier (2007).
La nascita di Dioniso, ancor meglio di quella di Atena, dimostrerebbe l’autosufficienza del sovrano
dell’Olimpo: non solo Zeus si appropria ancora, almeno in parte, della gestazione femminile e „partorisce“
(dalla coscia anziché dalla testa), ma in questo caso il figlio divino è stato concepito con una mortale, non con
una dea. La peculiare natura di Dioniso, dotato di status divino a differenza degli eroi, che restano per sempre
mortali o, come Eracle, vengono divinizzati solo dopo la morte, lo rende unico nel sistema religioso dominante: proprio per questo l’embrione non muore, quando la madre viene uccisa dalla folgore, e la sua
condizione eccezionale è il mistero affidato alla fede degli iniziati, il credo quia absurdum che caratterizza la
religiosità dionisiaca.
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Maria Serena Mirto, Il dio nato due volte
di cultura né l’uomo di potere, se sanno leggere sotto il velo e creare consenso intorno
a credenze condivise guardandosi bene dall’assumere un contegno scettico. „La
speculazione intellettuale non è saggezza“ (v. 395: tò sofòn d’ ou¬ sofía), la parola
d’ordine con cui il coro delle baccanti asiatiche mette in guardia dall’agnosticismo e
dall’empietà che marcano il rifiuto di Penteo, significa solo che il vero sapiente sa
coniugare la fede delle persone modeste, dettata dal rispetto di antiche tradizioni, alla
capacità d’interpretare i fondamenti culturali della civiltà umana e, come il sofista
Prodico, identifica il divino con l’utile, mettendo gli elementi e le forze che giovano
alla vita umana a fondamento della teologia.
Tiresia, rappresentante per antonomasia della tecnica divinatoria e del suo problematico rapporto con il potere politico – al punto da figurare anacronisticamente nelle
vicende di svariate generazioni di re tebani – nelle ultime tragedie di Euripide non è un
professionista screditato, e tuttavia sembra a disagio nella sua veste tradizionale 23. La
sua apparizione nel primo episodio, vestito da baccante come il vecchio Cadmo,
entrambi vacillanti e bisognosi di sostegno ma determinati a danzare in onore di
Dioniso e a recarsi sul Citerone per testimoniare come sappiano onorare il dio –
benché la cecità di Tiresia sia un limite fisico ancora più serio dell’età avanzata – ha
connotazioni vistosamente ridicole, e molto si è discusso sulla tonalità comica della
scena e sul suo senso nel contesto generale della tragedia24. Si è detto, a ragione, che
non è possibile giungere a una soluzione soddisfacente se la controversia implica una
scelta esclusiva. Chi ritiene che gli aspetti comici tolgano rispettabilità ai due rappresentanti dell’autorità politica e della saggezza ancestrale, e dunque indeboliscano la
qualità tragica dell’intreccio, reagisce con energia a questa lettura; ma la ricezione di
una scena simile non è mai così univoca da parte del pubblico (o dei critici) 25. Lo
scontro fra Tiresia e Penteo si configura in modo molto diverso rispetto alle scene
23 Cfr. Phoen. 954–959, dove Tiresia lamenta la sua scomoda posizione: lo status fragile dell’indovino,
strumento di una volontà divina talora crudele, lo induce a sfidare Apollo perché si assuma direttamente il
compito della comunicazione mantica, essendo il solo a non dover temere il risentimento dei mortali. Per la
caratterizzazione della figura profetica nelle Fenicie e nelle Baccanti, cfr. Papadopoulou (2001). Cf. anche
Mastronarde (1986) 206s. e Gemelli Marciano (2006), in particolare 213–215.
24 Cfr. soprattutto il severo giudizio di Deichgräber (1935). Un’equilibrata valutazione degli elementi
innegabilmente comici di questa scena in Seidensticker (1978), e Seidensticker (1982) 115–129, con relativa bibliografia; la tarda produzione euripidea mescola abilmente tratti comici e tragici: la rovina ineluttabile verso
cui si avvia Penteo traspare anche dagli aspetti ambigui di una religiosità che egli guarda con legittima
diffidenza, ma in cui poi si calerà, per ironia tragica, quando il dio lo irretisce e lo induce a travestirsi a sua
volta con gli abiti e le insegne del culto. Per un diverso parere, cfr. Basta Donzelli (2006).
25 Cfr. Papadopoulou (2001) 26s.: »… both receptions are equally possible. It is important to understand
that they do not necessarily exclude, but, on the contrary, are meant to supplement each other. In other words,
the tone of the scene is neither serious alone nor comic alone; it is deliberately controversial«. Come osserva
Seidensticker (1982) 127: »es ist wichtig zu verstehen, daß es keineswegs notwendig ist, den komischen
Aspekt zu leugnen, nur um die tragische Qualität der Szenen zu ,retten‘«. Goldhill (2006) 99 sottolinea che la
risposta del pubblico alle scene in cui il comico fa irruzione nel tragico sarà stata imprevedibile e tutt’altro che
unitaria, creando divisioni sulla base delle sensibilità individuali, e comunque il disagio di lasciarsi andare alla
risata in un contesto improprio, »a theatrical device that Euripides very much liked toying with«.
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dell’Edipo re e dell’Antigone in cui Sofocle delinea il conflitto fra gli esponenti del
potere politico, Edipo e Creonte, e l’indovino: in questo caso Tiresia non smaschera
l’incompatibilità tra l’interesse individuale e quello comunitario, perché il fondatore
della dinastia tebana è schierato al suo fianco, e la lacerazione attraversa così la cerchia
familiare con un contrasto che non oppone in modo netto il potere umano alle ragioni
divine. Lo scherno di Penteo s’indirizza contro l’indovino e il nonno materno ma
Tiresia, anziché rispondere alle accuse di avidità e corruzione o alludere minacciosamente a eventi che la sua arte gli consente di rivelare ai profani, s’impegna in una
speculazione teologica e mette in scena una sorprendente variazione del modello della
consultazione mantica 26. Il senso della sofía tradizionale per cui viene ammirato e
riverito (vv. 179, 186) si sposta in una direzione inattesa: il rispetto del divino e il
riconoscimento dei limiti umani devono conciliarsi con la comprensione razionale, e il
sapere laico, purché si astenga dall’intellettualismo e da una fiducia eccessiva nello
strumento della ragione, è in grado di offrire ai devoti più esigenti risposte forse
parziali, che cercano tuttavia di cogliere le verità profonde della religione 27. Per lo più
la critica non ha nessuna indulgenza verso un personaggio che sembra incarnare,
in termini contraddittori rispetto alla sua immagine convenzionale, un esempio
parodistico di razionalismo illuminato, e la valutazione più diffusa del suo ruolo nella
tragedia risente di contaminazioni anacronistiche con figure di ecclesiastici moderni,
esponenti di una sfera religiosa assolutamente incomparabile 28. Ne deriva anche la
tendenza ad attenuare la linea di demarcazione che schiera su fronti opposti Tiresia e
Penteo o, in alternativa, a ribaltare le affinità con il dionisismo, invertendo quel che
sarebbe logico attendersi dall’oppositore e dal difensore di una religione estatica:
»Pentheus appears as the persecutor of Dionysus and his followers; Teiresias is their
advocate. But, to the discerning eye, Teiresias has little in common with them,
Pentheus all too much. He thinks he is rational and prudent, but really, like them, he is
at the mercy of irrational impulse, and, like them, he expresses himself through
Cfr. Flower (2008) 208s.
Per un’analisi del lessico della sapienza nelle Baccanti, con articolazioni che sembrano intese a definire i
diversi atteggiamenti dell’uomo e della divinità, insieme alle rispettive forme di degenerazione ed eccesso, ma
anche un modello etico ideale che trascende le realizzazioni concrete della sophia, cfr. Origa (2007) 88–91,
112–125; cfr. anche Leinieks (1996) 257–275, Egli (2003) 138–146.
28 Cfr. ad esempio Winnington-Ingram (1948) 54–58. Anche considerare Tiresia l’esponente del culto
delfico e dei suoi interessi appare una petizione di principio (51 e n. 2): dietro la sua devozione per il nuovo dio
bisognerebbe leggere un’abile mossa politica, finalizzata a integrare pacificamente la mania dionisiaca nel
pantheon ellenico; questa motivazione politica lo costringe però a dar credito alla divinazione estatica, benché
la sua tecnica profetica si basi piuttosto sull’osservazione e sull’interpretazione dei presagi. S’impone così
un’ipotesi del tutto indimostrabile: poiché l’oracolo delfico emana responsi attraverso una profetessa ispirata
dal dio, »Euripides suspected that the Teiresias-element bulked larger than the mania in the Delphi of his own
day«. Di opportunismo al servizio della religione tradizionale parla anche Oranje (1984) 38s., n. 95. Si noti
ancora come Winnington-Ingram (1948) 56 n. 3 stabilisca un’ardita simmetria fra anticlericalismo antico e
moderno; all’osservazione di Dodds (1960) 116, ad vv. 360–3, che vede nel giudizio di Wilamowitz relativo alla
presunta ipocrisia di Tiresia il condizionamento di una mentalità che »disliked priests«, obietta: »but then
Euripides disliked prophets«. Cfr. anche Winnington-Ingram (1969) 138 e 142 n. 68.
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Maria Serena Mirto, Il dio nato due volte
violence« 29. Ma Tiresia non è il trasformista capace di strumentalizzare il nuovo culto
pur di difendere la causa del conservatorismo religioso. Un personaggio molto
diverso da lui, l’Ecuba delle Troiane, simbolo eloquente del dolore insanabile di chi ha
perduto tutto, affetti, potere, libertà – e ormai sull’orlo di una crisi radicale nel
rapporto di fede con gli dèi, che non hanno dato ascolto alle sue preghiere – esprime
un’invocazione a Zeus (definito, tra l’altro, a¬nágκh fúseov e noûv brotøn) in cui
riecheggiano principi della filosofia presocratica (Diogene di Apollonia, Anassagora),
così suscitando la perplessa curiosità di Menelao che non sa spiegarsi questo „nuovo
modo di pregare“ (Tro. 889: eu¬càv w™ v e¬κaínisav qeøn).
L’interesse di Euripide per simili speculazioni, che guardano alla divinità come
principio cosmico e trascendente ma, soprattutto, suggeriscono che la sua interferenza
nella storia umana debba rinunciare ai caratteri antropomorfici per rivestire qualità
etiche, non deriva dunque né dall’adesione diretta al pensiero filosofico che cerca una
difficile conciliazione con la tradizione cultuale della polis, né da semplice dissacrazione delle forme consolidate della religione olimpica. Moltiplicare i punti di vista da
cui si può guardare con consenso all’entusiasmo dionisiaco e ai misteri del dio, che ha
un aspetto esotico ma in realtà è profondamente legato alla città e alla sua dinastia
regale, significa far risaltare l’insensatezza e l’isolamento del theomachos. Le divinità
del pantheon greco non scrutano nel cuore dei fedeli, si limitano a esigere che essi ne
riconoscano la superiorità piegandosi al loro potere, come testimonia Afrodite nel
prologo dell’Ippolito (vv. 1–50). Sarebbe così fuori luogo stabilire una gerarchia tra i
devoti di Dioniso che si presentano sulla scena delle Baccanti: il cinico pragmatismo
con cui Cadmo esorta il nipote a mantenere pure il suo scetticismo, ma almeno saper
trarre profitto dai vantaggi che possono derivare alla famiglia dalla consanguineità con
un dio (vv. 333–336), non dimostra affatto che lui stesso sia guidato da questo spirito.
Almeno a giudicare dall’exemplum negativo di Atteone, menzionato subito dopo per
additare a Penteo le funeste conseguenze della hybris nei riguardi di una divinità
(vv. 337–341), o anche dall’elogio iniziale di Dioniso – che approva la sua iniziativa di
aver consacrato e reso inaccessibili le rovine dell’edificio in cui Semele è stata colpita
dalla folgore di Zeus (vv. 10–12) – il comportamento di Cadmo è guidato da una
corretta sottomissione, e l’argomento della menzogna utile al potere dinastico 30 è solo
la lusinga offerta alla vanità del giovane re (già evidenziata da Tiresia ai vv. 319–321)
per vincerne la resistenza. Quanto al modo in cui Tiresia ha smontato e decifrato la
bizzarra storia sacra di Dioniso cucito nella coscia del padre divino – storia che lo
stesso Straniero diffonde suscitando lo sdegno dell’ateo puritano (vv. 242s.) – le
menadi del coro non esprimono alcuna sorpresa, e tanto meno perplessità verso
l’ottica intellettuale del vate tebano, loro che incarnano la forma più popolare ed entu-
Winnington-Ingram (1948) 58.
La locuzione del v. 30, Kádmou sofísmaq’, va invece riferita solo alla calunnia delle sorelle di Semele,
che addebitano a Cadmo l’invenzione dell’unione con Zeus per coprire una realtà diversa e meno onorevole:
cfr. Dodds (1960) 67; Roux (1972) 252.
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siastica del culto e nel secondo stasimo celebreranno di nuovo lo stesso mito già
evocato nella parodo; anzi, approvano la capacità del vecchio indovino di rendere
onore a Dioniso senza sconfessare Apollo, il dio cui Tiresia deve le sue capacità
mantiche (vv. 328s.).
Le Baccanti accostano così i diversi modi in cui la religione viene vissuta, dagli
intellettuali e dalla gente semplice, condannando senza riserve la diffidenza e l’opposizione di Penteo e affiancando su percorsi convergenti valori della cultura arcaica e
misticismo, etica tradizionale e argomenti sofistici: se il sofón ha un ruolo nelle scelte
di vita degli uomini, non deve servire a demolire la fede consuetudinaria ma piuttosto
a sostanziarla con l’esegesi allegorica, rendendo comprensibile la sfera del divino e
meno arbitraria la sua interferenza in quella umana 31. Euripide si limita a registrare
le nuove vie percorse dalle élite di devoti colti, e a segnalare nell’ostinazione del theomachos un contegno ambiguo, perché rifiuta in blocco sia le ragioni del dio, sia quelle
della sapienza umana che ha scelto di non »demolire« la tradizione religiosa; perché,
inoltre, continua a schernire lo straniero che diffonde con successo il culto di Dioniso
ma anche chi, nella sua stessa famiglia, rende onore al concepimento straordinario di
Semele. Il modo in cui i giochi etimologici e l’analisi linguistica indugiano sul mito
della doppia nascita, ma anche sul destino crudele di Penteo riflesso nel suo nome 32,
31 Puntuali paralleli con il papiro di Derveni e con i procedimenti etimologici del Cratilo – oltre che con le
laminette auree di Pélinna e con altri documenti cosiddetti „orfici“ – sono invece addotti da Di Benedetto
(2004) 24–34, 89–91, 324–327, a sostegno di una tesi radicale: che il dionisismo sia inconciliabile con le
prospettive soteriche dell’orfismo e che Euripide prenda le distanze dall’intellettualismo anche quando è al
servizio del culto dionisiaco, come accade per il personaggio di Tiresia, la cui contraddittorietà sarebbe
funzionale solo a mostrare che i legami tra le due forme di esperienza religiosa non sono plausibili. Ritengo, al
contrario, che proprio queste testimonianze confermino la tendenza dei riti orfici e dionisiaci a contaminarsi e
influenzarsi reciprocamente già in età classica, almeno nell’ambito di alcuni gruppi elitari, come ormai gli
studiosi riconoscono diffusamente. Da ultimo, si può vedere l’utile panorama offerto in proposito da Tortorelli Ghidini (2006) 18–23; Graf, Johnston (2007), passim (in particolare, 142s.). Le Baccanti, tragedia
composta dal vecchio poeta durante il suo soggiorno in Macedonia, una delle regioni interessate da questi
fenomeni iniziatici, rappresenterebbero così un esempio del confronto tra i riti dionisiaci e l’intellettualismo
legato alla tradizione orfica. Quale fosse la personale posizione di Euripide non è dato sapere, ma è significativo il suo interesse culturale per la complessa fenomenologia della religione. La recente analisi di Gigli
Piccardi (2008) 236–239 interpreta alcune espressioni del secondo episodio della tragedia alla luce delle
formule rituali misteriche della tradizione orfica, e osserva opportunamente che nel personaggio di Tiresia si
realizza una „pacifica convivenza“ tra cultura elitaria di tipo orfico e dionisismo. Egli (2003) 145s. parla invece
di incompatibilità tra l’intenzione drammatica e la cornice culturale del discorso di Tiresia.
32 Il legame tra il re theomachos e la sofferenza è ribadito da tre diversi punti di vista: quello di Tiresia,
con il presentimento del lutto che colpirà la dinastia regnante di Tebe (vv. 367s.: Penqeùv d’ oçpwv mæ pénqov
ei¬soísei dómoiv / toîv soîsi, Kádme); quello del dio, che legge in quel nome la naturale predisposizione alla
sventura, ben presto confermata dalla sua feroce vendetta (v. 508: e¬ndustucñsai tou¢nom’ e¬pitädeiov ei®); quello
offerto dall’ironia tragica di una battuta dello stesso Penteo, che lamenta come „terribile“ lo scacco appena
subito dall’avversario (v. 642: péponqa deiná), ignaro dell’atroce sciagura che lo travolgerà nel momento del
trionfo del dio. La vicenda tragica distribuisce poi i ruoli secondo la giusta lettura ,onomastica‘; la persecuzione e gli oltraggi inflitti da Penteo allo Straniero si rivelano alla fine grottesche illusioni e il dio, rientrando
nel palazzo per essere imprigionato, può asserire (vv. 515s.): oç ti gàr mæ creån, ou¢toi creœn / paqeîn e poi,
prima della catastrofe, osserva che Penteo travestito da menade si avvia ormai al suo destino di tremendo
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Maria Serena Mirto, Il dio nato due volte
anticipano la posizione relativistica che sembra l’approdo del Cratilo platonico: la
magia dei nomi può efficacemente catturare l’essenza, la storia o il destino del denominato, convinzione che affonda le sue radici nell’arcaica visione del mondo di
Omero e, come il testo omerico, continua a esercitare durevole influenza anche nella
cultura tra V e IV secolo a.C., quando l’esegesi allegorica consentiva ormai una lettura
razionalistica dei miti; ma talora il linguaggio è solo l’elaborazione ingannevole di un
malinteso, non coglie la realtà e non riesce a descriverla correttamente 33. Di questa
ambivalenza dei nomi la tragedia più controversa di Euripide si serve abilmente,
rispecchiando nella loro qualità mutevole il difficile rapporto tra gli uomini e il dio
deinótatov, a¬nqråpoisi d’ h¬piótatov (v. 861) 34.
Continuare a vedere nel personaggio di Tiresia il sofóv che tenta una mediazione
impossibile tra passato e presente ma appartiene al medesimo orizzonte culturale del
dissennato Penteo, sia pure contrastandolo formalmente 35, equivale a non allontanarsi
dal cono d’ombra del „mito“ nietzscheano: Euripide sembra condannato così a non
potersi riscattare dall’accusa di essere araldo del „socratismo estetico“, avversario di
Dioniso proprio come Socrate che, in Die Geburt der Tragödie, è paragonato a un
nuovo Orfeo. Ma la complessa rete dei legami che si delineano, già per il tempo
di Euripide, fra la religiosità intellettuale degli orfici e le sette dionisiache mina
decisamente l’idea del razionalismo che uccide l’arte tragica. E l’immagine scelta da
Nietzsche per illustrare il modo in cui Dioniso, stretto da un assedio trionfante,
avrebbe lasciato gli spazi del teatro per rifugiarsi, come quando era perseguitato dal re
trace Licurgo, »nelle profondità del mare, vale a dire nelle onde mistiche di un culto
segreto, che a poco a poco avrebbe invaso il mondo intero« 36 non è una metafora
appropriata per lo sfondo culturale testimoniato dai documenti misterici che, sempre
più, offrono suggestivi paralleli alle Baccanti: nella poesia tragica l’analisi razionale
s’insinua fra i simboli del mito, ma il fenomeno è ben più ampio e coinvolge anche le
risposte religiose che gruppi di fedeli del culto dionisiaco, in varie parti del mondo
greco, cercavano di dare alle ansie e ai dubbi sulla condizione umana. Distinguere gli
abissi dell’irrazionale – inteso soprattutto come un declino della religione olimpica a
favore di quella orgiastica – dal razionalismo filosofico e scientifico, come fenomeni
dolore (v. 971: κa¬pì deín’ er¢ chı páqh). In generale si vedano Van Looy (1973) 359; Stanford (1939) 34s., 175s.;
Segal (1982) 81–93. Un’analisi del modo in cui il mito e il linguaggio veicolano la crisi dei simboli nelle
Baccanti, in Segal (1997) 272–338.
33 Sul passaggio dall’etimologia elaborata dai poeti a quella delle teorie filosofiche e su come l’etimologia si
associ utilmente all’allegoria cfr. Baxter (1992) 113–117, Burkert (1970) 450.
34 È solo uno dei molti modi, inquietanti e affascinanti, scelti dalla scrittura euripidea per segnalare la
dinamica con cui il dionisiaco afferma il suo potere nella sfera umana, accanto all’inversione drammaturgica
dei ruoli di vittima e carnefice o alla mescolanza tra elementi comici e tragici, che Seidensticker (1982) 129
motiva così: »ein Ausdruck der rätselhaften Ambiguität des Dionysischen, des rituellen und psychischen Urgrundes der Tragödie und Komödie«.
35 Cfr. Susanetti (2007) 282–285.
36 Nietzsche (1992) 94. La fragilità della connessione tra Euripide e Socrate presupposta da Nietzsche è
ben illustrata da Henrichs (1986) 385–390.
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che nella cultura greca classica scelgono direttrici diverse, destinate a non intersecarsi
e a non dialogare, è un’impresa tanto più insensata oggi di quanto apparisse alla metà
del secolo scorso, dopo la pubblicazione del fondamentale libro di E. R. Dodds 37.
La definizione di Euripide come »poeta dell’illuminismo greco«, se con ciò s’intende una forma moderna di razionalismo ateo, non è certo adeguata a inquadrarne
l’opera. Ma se si legge la sua ultima tragedia non solo sullo sfondo del movimento
sofistico, ma anche delle tensioni sottese a una religione che, con i culti tributati agli
dèi principali, aveva il ruolo di saldare identità privata e appartenenza comunitaria, si
comprende perché le due versioni di questa storia sacra, una popolare e una colta,
possano convivere e opporsi insieme all’incredulità di chi combatte il dio. Perché
Dioniso si dimostri „figlio di Zeus“, inverando il senso del proprio nome, Penteo è
destinato a „soffrire“ – come del resto annuncia il suo nome legato al lutto e al dolore
(pénqov) – a pagare orribilmente, ucciso e smembrato dalla madre in preda al delirio
bacchico, l’illusione di poter combattere e umiliare chi aderisce all’esperienza
misterica nella sua città. Il composito gruppo dei devoti, con la varia gamma delle loro
risposte alla rivelazione della natura divina di Dioniso, mostra l’insensatezza dell’oppositore che non ha saputo seguirne l’esempio, e tanto meno scegliere una via
personale per aderire al culto. Penteo resta sordo al linguaggio ambiguo e arcano della
religione propagata dal profeta straniero – il dio stesso che ha assunto sembianze
umane – ma anche a quello della sapienza autorevole, che si apre a istanze laiche,
rappresentata da Tiresia: tralasciando le sue credenziali di profeta ispirato, il vecchio
indovino mostra che l’esperienza dei limiti umani e l’analisi razionale dei fatti gli
suggeriscono di venerare il giovane dio tebano, benché intuisca che il trionfo di
Dioniso implicherà la rovina della dinastia familiare e non risparmierà a Cadmo il dolore provocato dalla sua vendetta 38. Quando auspica che il destino luttuoso espresso
nel nome di Penteo non trovi conferma negli avvenimenti, Tiresia afferma con
chiarezza di non derivare questa lettura del nome dall’arte profetica, bensì da una
valutazione oggettiva dei comportamenti che già rivelano la tracotanza dissennata del
re (vv. 367–369). Euripide, del resto, non di rado ha messo in scena vicende eroiche
e divine in cui la consanguineità fra dèi e mortali si rivela fonte di dolore, anziché
motivo di vanto o privilegio com’era nelle speranze di Cadmo 39.
37 Dodds (2003). Dodds (1929) 104, attribuisce a Euripide tutti i sintomi caratteristici dell’irrazionalismo,
che nella sua definizione è »the peculiar blend of a destructive scepticism with a no less destructive mysticism;
the assertion that emotion, not reason, determines human conduct; despair of the state, resulting in quietism;
despair of rational theology resulting in a craving for a religion of the orgiastic type«. Henrichs (1986) 390,
sottolinea come Dodds – non diversamente da Karl Reinhardt – pur indebitato con Nietzsche per la visione
della crisi della cultura greca, ne rovesciò l’interpretazione dell’opera di Euripide e dei suoi eroi.
38 Si pensi a come Afrodite preveda in modo esplicito la sventura di Fedra, sua devota ma anche strumento
della feroce vendetta per punire il rifiuto arrogante di Ippolito (Hipp. 47–50). Cfr. anche Leinieks (1996)
41–47.
39 Nella concezione di Euripide la parabola di Eracle da eroe-dio a uomo è altrettanto dolorosa per la sua
famiglia: benché proceda in direzione inversa rispetto a Dioniso, e alla fine il protagonista recida i suoi legami
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Dipartimento di Filologia classica
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Maria Serena Mirto, Il dio nato due volte
Abstract
In the Bacchants, the etymological puns and plays on words, which Euripides often uses to illustrate the
mysterious relationship between language and reality, are functional for the description of the different ways
in which simple people and intellectuals follow the cult of Dionysus. In the first strophe of the second
stasimon, the Chorus recalls the sacred story of the little Dionysus, sewn into the thigh of Zeus, thus alluding
to the popular etymology of the epithet Dithyramb, and shows its devotion and enthusiasm by celebrating his
two births with a daring narrative synthesis (as yet not recognized by critics, who refer all the events narrated
to his first birth, from Semele). Teiresias, the seer, on the contrary, rationally offers a personal interpretation of
this embarrassing myth, which he attributes to human linguistic misunderstandings. The Derveni papyrus and
Plato’s Cratylus follow similar criteria for the linguistic analysis of divine names, thus confirming that
etymology was a privileged instrument, in religious and philosophical culture, in order to attempt to understand the gods and the order of the world.
Keywords: Euripide, Ditirambo, giochi etimologici, intellettuali e religione
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