Il Progresso Veterinario

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Il Progresso Veterinario
Progresso Vet_Gennaio 05
17-01-2005
21:30
Contributi
pratici
Salvatore Parrino
Alfonso Piscopo
Commento
al problema
dell’incenerimento
delle carcasse
e possibilità
di sotterramento
in loco
Nell’ultimo decennio, l’impiego sempre più
massiccio dei chemioterapici, il miglioramento del management aziendale e, la
conoscenza di migliori approcci diagnostici e
terapeutici hanno consentito di ridurre la
mortalità aziendale negli animali da reddito.
Tuttavia, un certo numero di bovini giunge a
morte, in una percentuale più o meno ampia,
a seguito di svariate patologie e soprattutto,
come noto, in concomitanza di particolari
momenti-stress della vita dell’animale quali il
parto e il puerperio, per le vacche, o i primi
mesi di vita per i giovani vitelli per i quali le
patologie intestinali o polmonari, soprattutto
da virus , continuano a essere fra le più frequenti causa di mortalità precoce.
La morte degli animali da allevamento che
avviene per cause di ordine naturale (la
quasi totalità dei casi)costituisce comunque
un evento che si inscrive in quel ciclo della
vita comune ad ogni essere vivente, di cui
l’arresto delle funzioni vitali rappresenta la
penultima tappa. Infatti la Natura, che nulla
spreca, “ricicla” il materiale di cui sono fatti
tutti gli organismi viventi, (proteine, grassi ed
altro), attivando un ulteriore ciclo.
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Il destino degli
animali morti
in allevamento
In termini energetici, questo sistema ottimizza al massimo l’impiego di energia contenuta nei legami chimici delle sostanze organiche, facendo sì che essa non venga sprecata, ma venga impiegata per la vita di altri
esseri viventi.
Semplificando ulteriormente, un animale
morto non costituisce di per sé “inquinamento”, nel senso che normalmente attribuiamo
a questo termine, ma, adeguatamente trattato, in modo da evitare la formazione dei
gas putrefattivi, si trasforma nel più naturale
dei fertilizzanti: l’humus, costituito per l’appunto dai resti di sostanze organiche animali e vegetali.
Il problema
in allevamento
Un bovino, un ovino o qualunque altro animale, quindi, che giunge a morte in una
azienda zootecnica diventa, per l’allevatore,
qualcosa di cui disfarsi immediatamente, per
motivi facilmente comprensibili.
Esso rientrerebbe a pieno titolo nella definizione di rifiuto, in quanto lo unico destino a
cui l’animale morto va incontro, nella maggior parte dei casi, non è che la distruzione
totale, in quanto sono ben pochi gli impianti
di termodistruzione che utilizzano le carcasse per una ulteriore trasformazione in qualche prodotto che può rientrare nella catena
alimentare animale. E lo stesso vale per
ogni altro prodotto che fino a poco tempo fa,
veniva estratto, si badi bene, solo dagli animali morti dopo regolare macellazione quali,
ad esempio alcuni organi endocrini, utilizza-
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ti dalle industrie farmaceutiche o della
cosmesi, per i quali il legislatore ha posto
oggi severi divieti nell’utilizzo.
Alla luce di quanto sopra esposto, non si
capisce quindi perché gli animali da reddito
morti per cause naturali e per i quali l’allevatore manifesta la piena volontà di avviarli ad
una completa distruzione, vengano considerati “sottoprodotti” invece che “rifiuti”.
Eppure questo è quanto dispone il famigerato Reg 1774 / 2002, che, pur apprezzabile
per la minuziosa ed attenta disamina di una
materia molto delicata quale la gestione dei
sottoprodotti di origine animale, di fatto ha
operato una inversione di rotta rispetto al
precedente Decreto 508 / 92, che considerava gli animali morti per cause naturali, a
ragione, secondo noi, un rifiuto e non un sottoprodotto (vedi riquadro).
Da questo “abbaglio” derivano tutta una serie di gravi conseguenze e di incongruenze,
che certo non mancano di suscitare perplessità.
Andiamo per ordine.
La legge impone oggi all’allevatore di comunicare la morte dei propri animali, entro 48
ore al Servizio Veterinario perché questi
appuri se il decesso sia avvenuto a seguito
di una malattia infettiva del bestiame (es.
peste, afta, ecc.), nel qual caso scattano
particolari misure di sicurezza per impedire il
propagarsi della malattia ad altri allevamenti e per tutelare la salute umana nel caso in
cui queste malattie possono essere trasmissibili all’uomo.
In questo modo è possibile un monitoraggio
quasi giornaliero, attraverso la Banca Dati
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Nazionale delle variazioni numeriche negli
allevamenti, circostanza questa che, in aggiunta alle multe salatissime in caso di ritardata od omessa comunicazione è un forte
deterrente per la macellazione clandestina.
Cosa accadeva fino a non molti anni fa?
Qualora non esisteva nessun elemento che
facesse sospettare di essere in presenza di
queste malattie, la carcassa poteva essere
tranquillamente distrutta mediante infossamento da attuarsi in loco o in un sito adatto,
con opportuni accorgimenti per evitare la
contaminazione di corsi d’acqua vicini, o di
falde superficiali.
Questo sinteticamente era il modus operandi di qualche tempo fa, fino alla emanazione
del Decreto Legisl. n. 508 del 1992.
Il principio ispiratore di questo decreto è
chiaramente indicato nel primo articolo dove
si stabilisce che le norme del decreto citato
hanno lo scopo di “distruggere gli agenti
patogeni eventualmente presenti”.
Quindi la preoccupazione del legislatore
stava proprio nell’eliminare in modo sicuro
quegli animali o rifiuti di origine animale che
potevano “eventualmente” essere contaminati da germi nocivi alla salute dell’uomo. E
questo è comprensibile ed accettabile.
Se la autorità sanitaria competente ha motivo di ritenere che un animale (quel particolare animale) ha possibilità di essere stato
contagiato da una malattia pericolosa per
l’uomo è doveroso che vengano prese tutte
le misure necessarie per l’eliminazione di
questo materiale a rischio. Ma, si badi bene,
tra queste misure figurava anche il sotterramento quando la raccolta e il trasporto e la
distruzione mediante incenerimento erano
difficoltosi o eccessivamente onerosi (non
giustificati).
Si inseriva in questo modo un criterio di non
poco conto, cioè l’opportunità economica
dello intervento. Come a dire “il massimo
sarebbe incenerire, ma tenete conto delle
difficoltà del territorio e dell’incidenza economica dei costi”.
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Su questo terreno e nell’ambito di questo
riferimento normativo ci si è mossi con una
certa flessibilità fino a quando non ha fatto
irruzione sulla scena l’Encefalopatia Spongiforme Bovina, meglio nota come B.S.E.
Sul fenomeno B.S.E. si è detto e scritto tantissimo, in quantità inversamente proporzionale alla pericolosità della malattia.
Non vogliamo qui fermarci ad approfondire
l’argomento, se non per ricordare che anche
questo problema delle carcasse animali è
figlio di quell’isterismo collettivo che ha coinvolto anche il mondo scientifico, o per lo
meno, quella parte politicamente rilevante,
che detta legge poi in ambito europeo .
Nonostante infatti i dati in nostro possesso ci
dicano ormai chiaramente che la B.S.E. non
è una malattia infettiva, che ha un comportamento epidemiologico più simile ad una
sorta di “avvelenamento” (ci scusate l’eccessiva semplificazione ), nonostante le evidenze scientifiche rivelano una netta flessione,
se non una quasi estinzione dei focolai di
B.S.E., la legge (Decreto Leg.vo. 16/10/03)
ha ulteriormente inasprito la situazione giungendo a considerare anche un vitellino
morto per bronchite o per gastroenterite
(quindi senza alcun nesso con la B.S.E.)
“materiale ad alto rischio specifico”.
Ma a rischio di che?
Non solo. In base alle deroghe previste dal
Reg 1774 / 2002 riguardo alle zone isolate
(art 24), sembra di capire che un bovino non
è di per sé “materiale a rischio specifico” ma
che lo diventi in base alla sua... posizione
geografica! Infatti, basta che il luogo in cui si
è verificata la morte sia abbastanza lontano
(abbastanza quanto?) da un impianto di trasformazione che, per una sorte di miracolo,
esso non sia più soggetto alle restrizioni del
Regolamento, ma si trasformi, per incanto,
in rifiuto, per cui lo si può tranquillamente
interrare!
Qui ci sfugge completamente la ratio legis di
questa norma che appare in contrasto con le
premesse del Regolamento 1774 / 2002 che
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evocano uno stato di grave urgenza (BSE) a
giustificazione delle norme emanate.
Di fatto, il REG. n.1774 , imponendo di incenerire indiscriminatamente vacche, vitelli,
pecore, cavalli, ha creato una enorme confusione tra la prevenzione della B.S.E., con la
quale lo incenerimento delle carcasse ha
poco a che fare, con l’ordinario smaltimento
delle carcasse animali.
Sicuramente, le misure che hanno portato
ad una netta riduzione dei casi di BSE nei
bovini sono state quelle già assunte subito
dopo le prime fasi dell’epidemia (divieto di
utilizzo delle farine animali ed eliminazione
poi dalla catena di macellazione dei materiali a rischio), mentre non ci risulta che siano
forniti dei dati a sostegno della reale utilità,
per la limitazione della BSE, della pratica
dell’incenerimento, a meno di non scomodare proiezioni statistiche che non mancano di
mostrare molti lati oscuri ed indecifrabili.
Senza voler sminuire il lavoro di bravi epidemiologici, vogliamo qui ricordare le catastrofiche previsioni di solerti ma incauti scienziati che pronosticavano decine di migliaia di
vittime a seguito dell’epidemia di BSE e che
hanno dovuto clamorosamente rivedere al
ribasso le loro stime, pur basate su proiezioni statistico-matematiche... Un po’come la
fine del mondo dei Testimoni di Geova!
Le conseguenze derivanti dall’applicazione
completa del Reg.1774 sono poi particolarmente pesanti in termini di costi che la collettività deve sopportare per la gestione di
un problema che come abbiamo cercato
sopra di chiarire non ha affatto i caratteri dell’emergenza sanitaria, ma si configura, almeno attualmente, come un vero e proprio
servizio di tipo continuativo, che viene sostenuto economicamente, in molte regioni,dagli
enti locali (Regioni, Comuni, Province).
Si consideri che in molti territori a dimensione subprovinciale, (ad es. parte della Provincia di Ragusa) con forte presenza di allevamenti bovini muoiono, in un anno, circa
1000 animali, con una media giornaliera di
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circa 3 animali o che, tradotti in soldi, vogliono dire circa 720 euro al giorno spesi per
incenerirli! Più di 250.000 euro l’anno! (ma
in altre regioni si spende molto di più).
Si tratta di costi molto alti (più di 200 euro
per animale) che non possono essere sostenuti dagli allevatori e che, per il momento
(?), si riversano sulle casse di vari soggetti
pubblici, che, in pratica dovranno, d’ora in
avanti, istituire un nuovo capitolo nei loro
bilanci di ogni anno, in quanto, come in
molte cose italiane, in cui nulla è più definitivo delle cose provvisorie, tutto lascia presupporre che le norme del Reg 1774 rimarranno in vigore anche quando finalmente si
uscirà da questa emergenza (?) BSE che
dura ormai da più di 4 anni!
Riteniamo quindi le linee normative per la
gestione delle carcasse animali vanno riscritte tenendo conto dell’esperienza maturata fino ad oggi nei vari paesi e dai comportamenti indicati da vari esperti del settore.
Ci limitiamo a riportare alcuni passi degli atti
di un convegno del CEMEL, il Centro Europeo per la Medicina delle Catastrofi, riguardante “Note sulla distruzione di carcasse e
prodotti di origine animale”, prima del “ciclone” B.S.E., laddove si afferma che “l’interramento in azienda rappresenta la soluzione
più idonea, quando è disponibile un area
con caratteristiche geologiche tali da consentirne la realizzazione...”.
Si badi bene che gli autori si riferiscono al
caso addirittura di parecchi animali morti per
cause di natura infettiva o eventi catastrofici.
Ancora, l’esperienza francese... “Dal punto
di vista del controllo delle epizoozie il metodo migliore per l’eliminazione delle carcasse
è l’infossamento nella stessa azienda se ciò
è compatibile con i vincoli di protezione dell’ambiente e dell’igiene pubblica”...
A livello idrogeologico pare che il fondo della
fossa resti ad almeno un metro dal livello
della prima falda freatica.
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Ipotesi di soluzione
La strada da percorrere, sulla base delle
considerazioni su esposte, non è pertanto
quella di spingere le Pubbliche Amministrazioni a trovare in continuazione centinaia
di migliaia di euro da... “mandare in fumo”,
soldi tra l’altro che non basteranno mai.
Impostare il problema in questi termini vuol
dire soltanto condannare gli Enti Pubblici a
un lento dissanguamento della finanza pubblica, a vantaggio dei gestori degli impianti.
Non solo. Si potrebbe venire a creare una
pericolosa ed odiosa difformità nell’applicazione della legge, a motivo del fatto che
regioni con capacità di spesa maggiore possono attivare cospicue risorse finanziarie a
differenza di altre, determinando di fatto una
soluzione del problema non su base sanitaria, ma su base geo-economica.
Occorre, invece, che la comunità scientifica
faccia una attenta riflessione, supportata dai
risultati e dalle evidenze scientifiche di questi ultimi anni circa l’andamento del problema BSE e dello smaltimento degli animali
morti, rivedendo l’impianto normativo che
attualmente disciplina questo settore.
Una valida alternativa potrebbe essere quella di mantenere l’obbligo di distruzione delle
carcasse, lasciando la possibilità ai Servizi
Veterinari di poter scegliere fra
1. incenerimento
2. infossamento in loco
soprattutto in rapporto al tipo di animale
morto (se vitellino o bovino adulto) e alla
possibilità di essere in presenza di malattie
infettive.
Nel primo caso il servizio veterinario avvierà
la carcassa al forno inceneritore con le
modalità alle quali si è fatto ricorso fino ad
oggi, mentre l’allevatore parteciperà con una
quota (una sorta di ticket) allo smaltimento.
La rimanente parte potrà essere versata
dagli enti locali, singoli o consorziati.
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Ovviamente necessita riportare i costi attuali dell’incenerimento a livelli accettabili.
Nel secondo caso, una volta che il Servizio
Veterinario abbia escluso che la causa di
morte sia riconducibile a malattie infettive
per le quali è controindicato l’interramento,
(dov’è altrimenti la professionalità del Servizio Veterinario?) potrà decidere di infossare la carcasse in una zona della azienda che
sarà attrezzata in modo tale da assicurare
che non vi sia rischio di inquinamento ambientale e del sottosuolo, chiaramente dopo
opportuna autorizzazione dell’autorità sanitaria competente.
Tale procedura nasce dalla necessità di rendere più agevole le operazioni successive
alla morte dell’animale, convogliando le carcasse in una sorta di fossa comune (una
zona designata appositamente dalle autorità) ciò in linea alle decisioni di cui all’ex D.l
vo. 508 / 92 (art. 3) e alle condizioni inserite
al punto 4.
In tal caso le aziende dovranno dotarsi all’atto autorizzativo di un “cimitero aziendale”, di
proporzioni legate alla consistenza aziendale, in cui accogliere le spoglie degli animali
morti in azienda.
Il veterinario pubblico interviene nel redigere
il certificato di morte assolvendo ad un atto
di cui si assume la totale responsabilità, stabilendo, sulla base della sua professionalità,
la natura della morte e accertandone le circostanze (“circostanze naturali”), le cause
(“cause di forza maggiore”) il modo (“le
modalità con cui l’animale è morto”).
Gli indizi redatti nel certificato di morte rappresentano le linee guida per una corretta
diagnosi di morte e allo stesso tempo indirizzano il veterinario ad ipotizzare o ad escludere particolari patologie che possono attentare alla salute degli animali, ma anche recare danno alla collettività.
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Le carcasse di animali sono o no un rifiuto?
Il Decreto Ronchi n.22/97 all’art. 8 , esclude chiaramente dal campo
di applicabilità del decreto stesso le “carogne”, in quanto oggetto di
normativa specifica di settore.
Pertanto, il problema degli animali morti trova collocazione nel Reg
1774 che supera il problema della “definizione” delle carcasse collocandole a priori sotto il termine di sottoprodotti, al di là o meno del
fatto che queste possano diventarlo o no. In tal modo, il Reg. 1774
assume come dato di partenza che tutti gli animali morti debbano
trasformarsi in sottoprodotti, tranne poi contraddirsi più avanti
quando ammette la possibilità di una eliminazione completa, senza
la produzione di prodotti intermedi. Come si diceva un tempo, la
domanda nasce spontanea: le carcasse degli animali sono da considerare “sottoprodotti” o “qualcosaltro”? Senza avere la presunzione di avere la parola definitiva su una materia così controversa,
anticipiamo che, a nostro avviso, esse vanno considerate come
“scarto”, qualcosa cioè di assimilabile se non identificabile al concetto di “rifiuto”. mentre possono essere qualificate come “sottoprodotto” solo in conseguenza della loro destinazione ad una operazione di recupero, per espressa volontà del detentore.
La definizione autentica di “rifiuto” prevista dall’art. 2 comma 1 del
D.lvo 508 / 92, ormai non più in vigore, è riportata in maniera integrale all’art. 6, comma 1, lettera a), del D.lvo 5 Febbraio 1997, n° 22.
Le parole si “disfi”, “abbia deciso”, “abbia l’obbligo di disfarsi” si
interpretano come segue:
• a - “si disfi”: qualsiasi comportamento attraverso il quale in modo
diretto o indiretto, una sostanza, un materiale o un bene sono
avviati o sottoposti ad attività di smaltimento o di recupero ;
• b - “abbia deciso di disfarsi”: la volontà di destinare ad operazioni
di smaltimento di recupero, sostanze, materiali o beni;
• c - “abbia l’obbligo di disfarsi”: l’obbligo di avviare un materiale
una sostanza o un bene ad operazioni di recupero o di smaltimento, stabilito da una disposizione di legge o da un provvedimento delle pubbliche autorità o imposto dalla natura stessa
del materiale, della sostanza e del bene ecc.
In conclusione, al di là di alcune nostre considerazioni, volutamente provocatorie, ci
auguriamo che si possa avviare un serio ed
onesto dibattito nel mondo scientifico, che
possa giungere alle conclusioni che abbiamo espresso in questo nostro intervento.
Per raggiungere questo obiettivo è necessario che su questo argomento si esprimano
diversi soggetti,(veterinari , operatori del settore, mondo universitario) perché il confronto diventi quanto più ampio possibile e si
Ora è chiaro che in capo all’allevatore permanga non solo la necessità di disfarsi dello animale morto, ma che anche l’obbligo a disfarsene, a seguito della natura del materiale, e di provvedimento delle
pubbliche autorità, realizzandosi pienamente quindi l’ultima opzione di “rifiuto” “c”. A sostegno di questa nostra ipotesi ci viene in aiuto
una recentissima sentenza della Corte di Giustizia del 11/11/2004
che è intervenuta a chiarimento della definizione di rifiuto. La Corte
ritiene che “può anche ammettersi che una sostanza... può costituire un “sottoprodotto”, a condizione, però che il suo riutilizzo sia
certo. Anche la Corte di Cassazione il 31/7/03 sentenza n. 32235 si
era pronunciata nel senso di attribuire analogo significato a beni,
sostanze o materiali residuali di produzione o di consumo qualora
siano effettivamente ed oggettivamente riutilizzati...” In questo caso
non si può parlare di rifiuto in quanto il soggetto economico che si
disfa del bene intende continuare a ricevere benefici dal bene: questo non è rifiutato, ma ulteriormente utilizzato come bene economico e dunque, il rifiuto ab origine non è venuto ad esistenza giuridica come tale”.
Pur esulando dall’elenco dei rifiuti previsto dal decreto n 22, come
abbiamo precisato in premessa, riteniamo che questo ragionamento possa riproporsi anche per le carcasse degli animali che , pertanto, in assenza di un riutilizzo certo per decisione del detentoresoggetto economico, debbano essere considerate unicamente
come “scarti” ed essere avviati alla distruzione ,in modo non più vincolante, mediante incenerimento o infossamento in loco, secondo
le modalità esposte in un’altra parte dell’articolo.
Al di là di tutto, comunque, riteniamo che debba essere compito del
servizio veterinario decidere attraverso il “giudizio tecnico - scientifico”, insindacabile sotto ogni punto di vista”, l’approccio sanitario
migliore nella prevenzione del rischio legato di volta in volta all’evento (morte naturale, morte accidentale, morte per epidemie e
rischio di zoonosi, morte per eventi calamitosi, morte per condizioni climatiche avverse, ecc.), inviando l’animale verso il sotterramento o l’incenerimento.
realizzi dal basso un movimento di opinione
di cui tener conto nelle scelte di politica sanitaria che si realizzano in ambito nazionale
ed europeo, Vi sono altri campi, come l’incredibile vicenda della Blue Tongue, che
meritano un approfondimento critico molto
ampio e dibattuto, per evitare che la Veterinaria Pubblica perda di credibilità di fronte
al mondo produttivo e alla opinione pubblica.
È auspicabile inoltre che si sviluppi una serena verifica a livello politico, di alcuni prin-
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cipi che oggi ispirano le scelte della Commissione Europea, e in particolare di quel
“principio di precauzione”, che tutti noi riteniamo importante, ma la cui applicazione
dogmatica rischia di produrre norme che
mettono a rischio quella professionalità tanto faticosamente raggiunta dalla Veterinaria
Pubblica e che oggi sentiamo sempre più allontanarsi.