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L’oralità tecnologica e la sua religione: il caso della televisione e le sue declinazioni.
(di Lorenzo Denicolai)
Nel 1986, Walter Ong pubblica Oralità e scrittura – Le tecnologie della parola, con
l’intento di chiarire il ruolo che la tradizione orale ha avuto anche nella formazione secolare
dell’opera scritta e soprattutto di difendere le popolazioni orali dall’idea comune di primitività
rispetto all’avanguardia scritta. Il testo rivoluziona in parte la visione dell’arte comunicativa delle
civiltà antiche e di quelle moderne: tanto per citare un esempio interessante, Ong si sofferma sulla
questione omerica, qui trattata partendo dalle teorie di Milman Parry, secondo cui Omero non
avrebbe creato dal nulla le sue due composizioni, ma non avrebbe fatto altro che unire tra loro una
serie di strutture poetiche già esistenti (le formule), risultato di una tradizione orale che si
tramandava dalla notte dei tempi, unico vero contenitore della conoscenza popolare. Il
ragionamento di Ong si distribuisce sull’evoluzione linguistica che ha lentamente portato all’origine
della scrittura e alla sua lenta e graduale presa di posizione nei confronti dell’oralità, troppo
scomoda, per così dire, rispetto alla nuova tecnica di comunicazione del contenuto. Oggi, nella
modernità, in piena era tecnologica, momento in cui la parola scritta è ormai accettata
nell’inconscio collettivo, segni di ritorno dell’oralità sono sempre più manifesti nelle maggiori
manifestazioni della tecnologia: il telefono, la radio, ma anche la televisione e il computer. Ora, se a
prima lettura, radio e telefono sembrano mezzi facilmente adattabili alla nuova ondata orale, meno
appaiono il computer e la tv. Eppure, specie in quest’ultima, ci sono evidenti segni di quella che
Ong definisce oralità di ritorno o secondaria: inevitabilmente, dunque, l’attenzione sarà rivolta
verso la televisione, questa scatola parlante che come la scrittura ha più rivoluzionato usi e costumi
dell’umana coscienza. Risulta quindi corretto appoggiare la tesi di McLuhan, secondo cui «il
“messaggio” di un medium o di una tecnologia è nel mutamento di proporzioni, di ritmo o di schemi
che introduce nei rapporti umani»1. La televisione come continuazione ideale del mondo della
rappresentazione, il cui primo esponente è stato senza dubbio il teatro, in quel suo equilibrio tra
oralità e scrittura.
Il fatto stesso che la televisione, al momento della sua nascita e diffusione, venga
identificata come un elemento catalizzatore dell’attenzione comune, porta a pensare che essa abbia
delle caratteristiche intrinseche simili a quelle del racconto orale e del teatro rituale.
«La televisione, si è detto, è sempre più conversazione, il televisore un elettrodomestico ad alto contenuto simbolico che
consente di rimanere in contatto con la “realtà”, con il mondo che conta. Il tutto è dominato dalla ritualità, da un accesso
ripetitivo che dà luogo a un vero e proprio culto, insieme domestico e sociale.»2
All’inizio dell’era televisiva, molte famiglie3 si radunano attorno a un unico medium, poiché sono
pochi coloro che possono permettersi una tv. E si riverifica quel fenomeno aggregativo tipico di una
popolazione ancora in gran parte contadina, che usava ritrovarsi alla sera per ascoltare i racconti dei
vecchi. Insomma, la voce degli anziani sostituita da quella della tv. Si potrebbe affermare senza
difficoltà, quindi, che la televisione rappresenta una nuova piazza, di lontane reminescenze
medievali, in cui avviene la vita pubblica di una popolazione, in cui emergono sentimenti,
sensazioni, emozioni, pareri, discussioni, stili di vita. Una piazza virtuale che trasmette realtà. In
una visione più moderna, la tv diventa il salotto comune, o meglio, comunitario, contenitore di
storie, racconti, favole. È presente in essa quella stessa energica performance che motivava
l’esistenza artistica dell’aedo greco, del trombettista jazz e dell’improvvisatore dell’Arte: c’è in essa
un qualcosa di fondamentalmente arcaico, che richiama alla memoria le strutture narrative tipiche
della cultura orale. La parola, per esempio, non come scrittura, ma come suono. Ancora Ong:
1
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare – Mass media e società moderna, Milano, Il Saggiatore, 2002, p. 16.
Gian Paolo Caprettini, Totem e tivù – Cronache dell’immaginario televisivo, Roma, Meltemi, 2001, p. 97.
3
Per non scomodare realtà lontane dalla nostra, si fa riferimento qui al costume italiano degli Anni ’50 e ‘60.
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«Tutte le sensazioni hanno luogo nel tempo, ma il suono in particolare ha un rapporto speciale col tempo, diverso da
quello degli altri settori del sensorio umano. Il suono esiste solo nel momento in cui sta morendo (…)»4
O meglio, la parola come elemento che prevede una struttura mentale adatta a recepire dei messaggi
che non sono eterni, come in linea teorica quelli scritti, ma aleatori, immediatamente passato.
Quello che Walter Ong dice a proposito del «pensiero orale protratto»5 è facilmente immaginabile
anche per uno telespettatore che ascolta – e guarda – un personaggio parlare dalla tv: ci sono una
serie di formule ricorrenti che l’ascoltatore e lo spettatore hanno ben presenti nella propria mente e
con cui è possibile memorizzare dei pensieri complessi. Ong va oltre e, parlando di come una
cultura orale può ricordare un processo mentale analitico, afferma che poiché «una soluzione lunga
e analitica è difficile da strutturarsi, ci vuole un interlocutore: è difficile parlare a se stessi per ore di
seguito. Un pensiero protratto in una cultura orale è legato alla comunicazione»6. Il presentatore,
parlando al pubblico televisivo a casa, si trova davanti una massa di persone che stanno
inconsciamente ricorrendo a strutture formulari per ricordare o seguire il proprio ragionamento: e
questo grazie a una serie di espressioni ricorrenti, con cui il presentatore medesimo attira
l’attenzione e fa in modo che l’ascoltatore continui a seguirlo. Si tratta, di fatto, dei loci communes,
cioè quella parte dell’oratoria classica che, basandosi appunto su espressioni conosciute e ripetitive,
permettevano all’oratore di tenere alta l’attenzione del pubblico durante il proprio discorso. Dunque
la televisione come «conversazione» (cfr. nota 2), struttura che necessita di un interlocutore per
svolgere la propria trama giornaliera di programmazione.
Un dominio della parola, che non può dimenticare le immagini7. S’è già affermato che in
certi termini, la tv può rappresentare, almeno per la popolazione degli Anni ’50, quello che era il
teatro per gli antichi greci, un rito collettivo che portava alla catarsi. Qui si tratterebbe più
propriamente di un rito laico – cioè non legato ufficialmente ad alcuna fede religiosa –, in cui
l’elemento religioso è ben distinto dalla scatola parlante, ma di cui conserva ancora l’andamento e
l’incedere. In sostanza, del rito del teatro, la tv mantiene determinati aspetti e strutture, rendendo la
propria presenza nella società sacra e profana contemporaneamente.
La narrazione orale presuppone da parte del poeta – o del narratore – un vasto repertorio di
termini e di strutture formulari, spesso anche in forma metrica, che gli permettono di averne sempre
a disposizione per qualunque esigenza si presentasse durante il racconto della storia. Durante il
simposio, l’aedo greco ricama i suoi versi accompagnati dal suono di strumenti musicali, affidando
all’estro creativo dell’istante l’andamento della propria performance artistica, basata su formule
mnemoniche derivanti dalla tradizione orale precedentemente ascoltata. All’interno delle feste
dionisiache, le rappresentazioni tragiche segnano uno dei momenti culminanti della celebrazione
religiosa del dio dell’istinto. Coro, attori e spettatori si fondono in un individuo collettivo che
prende parte alla ierofania divina e partecipa collettivamente alla vita dionisiaca. Questo, secondo
Nietzsche, grazie alla compresenza nella forma tragica di più elementi artistici: poesia, danza e
soprattutto musica, il motore vero e proprio della rappresentazione, la creazione che rende possibile
la con-fusione. S’è accennato al fatto che secondo il filosofo tedesco la forma tragica si incrina nel
4
Walter Ong, Oralità e scrittura – Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 59.
ivi, p. 63.
6
ivi, p. 62.
7
L'idea qui riportata di parola legato alle immagini potrebbe facilmente essere ricondotta al pensiero di Pasolini
riguardo all'immagine cinematografica: a questo riguardo, Ambrogio Artoni, nel saggio Il sacro dissidio, si esprime
così: «(...) per l'autore di Accattone la ripresa cinematografica, nel catturare automaticamente la forma sensibile del
mondo, non si limita a trattenerne e convogliarne la pura apparenza fenomenica; il cinema dovrebbe infatti essere
concepito alla stregua di una autentico linguaggio apofantico, un linguaggio che "non si esprime mediante sistemi di
segni simbolici", ma in forza di "segni di vita", dal momento che "esprime la realtà mediante la realtà" (Pasolini, 1986,
p. 94)» (corsivi dell'autore). L'immagine va considerata in questo caso non come rappresentazione, ma come azione,
come già sosteneva Artaud davanti ad alcune opere pittoriche che ne hanno influenzato la linea di pensiero, immagini
che sono in grado di scatenare una reazione anche fisica oltre che emotiva dell'osservatore. Non un qualcosa di fisso, di
riprodotto, ma un qualcosa in costante divenire, in trasformazione perenne e aleatoria, come, di fatto, la parola orale
(Ambrogio Artoni, Il sacro dissidio – Presenza, mimesis, teatri d’Occidente, Torino, UTET, 2005, pp. 204-205).
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momento in cui, con Euripide, la parola prende il sopravvento sul resto, relegando le atre arti a
corollario. Si assiste, conseguentemente, a una graduale individualizzazione del pubblico, che,
attento alla parola, si relativizza, non permettendo più al proprio io di fondersi con la collettività,
ma tentando una prima lettura critica di ciò cui sta assistendo. Ora, il fatto che la tragedia sia scritta
rende possibile avvicinare la trasformazione iniziata dallo stile euripideo con quella che la scrittura
ha avuto nel passaggio dalla cultura orale a quella letteraria. L’equazione è presto fatta: un teatro
che con il dominio della parola diventa individuale, una cultura che con il libro si isola dalle
narrazioni comunitarie, poiché, come afferma McLuhan, «la parola parlata non fornisce l’estensione
e l’amplificazione del potere visivo necessario all’individualismo e alla privacy»8, creando quindi
una sorta di distacco emotivo dalla situazione che si sta analizzando o cui si sta assistendo. Il
discorso, decisamente lungo e articolato, potrebbe essere condotto sull’intero emisfero teatrale, fino
al teatro della modernità; basterà però, per questo scritto, citare la Commedia dell’Arte come altro
evidente stadio di passaggio tra oralità e scrittura, in particolare quei i canovacci su cui i comici
dell’Arte basarono le loro improvvisazioni, fatte di lazzi, di recitazione all’impronta su base
formulaica. Una produzione che si fonda su una pre-scrittura, in un problematico equilibrio tra il
canovaccio e l’inventiva istantanea – creazione momentanea – dell’attore: un originale (per i tempi)
connubio tra la base proto-letteraria di partenza e l’elemento creativo dell’improvvisatore.
La televisione, o almeno un certo tipo di essa, ripercorre anche da questa esperienza e si
propone agli occhi dei telespettatori sotto forma di tv contenitore, in cui diverse arti – balletti,
momenti di recitazione, momenti di informazione… – sono tenute assieme dall’abilità affabulatoria
di un presentatore, quindi dalla capacità eventualmente improvvisatoria di colui che racconta e
accompagna lo svolgimento del programma. O meglio, dalla capacità di una persona che parte da
un testo-canovaccio scritto e sa raccontarlo a braccio a un pubblico. Il presentatore-narratore, in
questo caso, emerge nuovamente dal contesto di creazione artistica, diventa di nuovo un elemento
distinto, in grado di essere totemico tra le varie esibizioni che costituiscono il programma
contenitore, come già il narratore antico.
Il potere di concentrare attorno a sé l’attenzione di un numero elevato di spettatori rende la
televisione un moderno rito collettivo, in cui il conduttore televisivo è «necessariamente un
personaggio polimorfo, un portavoce sia della collettività che è in ascolto sia dei sentimenti del
proprio interlocutore»9, attore principale di una trasformazione di un elettrodomestico in una
rappresentazione rituale della quotidianità: la vita del personaggio della fiction è presumibilmente
esemplificazione mitica delle aspirazioni, della weltangshaung che ogni telespettatore vorrebbe
avere, così come il talk strappalacrime diventa modello dei sentimenti comuni di rabbia, odio,
amore e pena. Qui la catarsi collettiva, il pianto davanti al televisore di chi si lascia coinvolgere in
questa ripetizione della tragicità eroica della modernità.
La televisione come altare collettivo cui fa riferimento una popolazione che (ad esempio
durante il secondo dopoguerra) deve recuperare necessariamente un ordine e una visione della realtà
speculare con le proprie necessità e soprattutto con i propri desideri. Un mezzo, insomma, per
assopire le mancanze materiali e alleviare – in un annegamento collettivo – le preoccupazioni reali.
Perché la tv, moderno rito catartico, offre una realtà diversa, che è nient’altro che un riflesso,
un’illusione, quella cioè di fare parte di una creazione artistica momentanea e di goderne totalmente
l’esistenza. La partecipazione collettiva al rito televisivo si manifesta nell’attesa davanti allo
schermo di un evento, la trasmissione serale, che raduna più famiglie attorno a un innovativo
focolare domestico, che assume sempre più forme e capacità oracolari:
«Quella piccola edicola in cui i nostri antenati custodivano, accanto al focolare domestico, i simboli personificati della
famiglia, fa venire in mente il televisore, il suo sacro compito unificante delle relazioni all’interno delle mura, il culto a
cui è sottoposto, ivi compreso il saluto ad ogni ingresso nella casa, che corrisponde all’accensione dell’apparecchio.
(…) Il televisore si è antromorfizzato, essendo dotato, se non proprio di un’anima, certamente di una voce interiore, di
8
9
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare…, cit., p. 88.
Gian Paolo Caprettini, Totem e tivù…, cit., p. 48.
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una capacità dialogica con l’ambiente di cui fa parte, di una possibilità di soddisfare le aspettative dei propri utenti che
sono poi i suoi familiares».10
La televisione ripropone dunque la possibilità di prendere parte a un evento creativo istantaneo,
proposto in un mondo che non ha più tutte le istanze per così dire primitive tipiche della società
orale, ma che non può allontanarsi del tutto dalle medesime. Il teatro, inteso come atto recitativo,
che fa da tramite tra l’oralità e la medialità, presuppone uno spazio adatto e ad esso dedicato in cui
si possa verificare la confusione partecipativa dello spettatore. Adesso è l’ambiente casalingo, per
certi versi privato e chiuso, a poter essere reso partecipante del rito visuale collettivo. Si potrebbe
parlare quindi di una partecipazione e di una penetrazione maggiore del medium nel tessuto
culturale rispetto alle ritualità precedenti, di una più alta possibilità di trance di fronte al totem
catodico, grazie al quale l’ambiente comunitario penetra e si fonde con quello individuale – o
familiare. Si tratta di uno spostamento del raggio d’interesse del medium che non influenza più solo
la grande piazza, la platea teatrale, o l’antecedente di lusso, la sala cinematografica, ma il salotto di
casa, il mondo più privato e intimo, il nucleo attorno a cui ruota la società moderna e passo
necessario affinché la televisione e la medialità degli ultimi anni possa poi raggiungere
esclusivamente l’individuo.
La mira all’individualità, tuttavia, si ribalta sull’esterno, poiché spinge lo spettatore a
modificare anche il proprio modo di parlare e di atteggiarsi, proprio per la natura stessa del medium
che modifica le condizioni esistenti di un mondo in cui viene inserito. Un esempio pratico è la
funzione che la tv ha ricoperto nei primi anni di esistenza, con il programma Non è mai troppo
tardi, in onda dal 1960 al 1968, condotta da Alberto Manzi: si tratta di una vera e propria esperienza
didattica, in cui la narrazione audiovisiva ha il pregio di avvicinare adulti analfabeti a un mondo,
quello della scuola, mai frequentato. Una scuola non esistente in realtà, ma per così dire creata
nell’illusione televisiva a somiglianza di quella tradizionale. La volontà del maestro–conduttore è
quella di raggiungere le case di tutti i telespettatori e di essere compreso da ogni fascia di istruzione
– specie quelle più deboli –, ricreando per certi versi una situazione tipica di una cultura basata
sull’oralità primaria11: la spiegazione dell’italiano avviene come il racconto e la narrazione davanti
allo sciamano, al saggio del villaggio, all’aedo durante il simposio. Inoltre, è difficile pensare che
gli spettatori del programma, per lo più analfabeti, fossero in grado di scrivere eventuali appunti di
grammatica. Ecco quindi emergere una possibile seconda somiglianza col mondo orale, quello
basato sulle tecniche di memoria, discorso da rivolgere non più esclusivamente a colui che parla,
ma anche e soprattutto a coloro che ascoltano, che apprendono a tutti gli effetti. Per questo si deve
ricorrere a un linguaggio che permetta allo spettatore di ricordare le parole – che per lui sono solo
suono12 – che sta sentendo pronunciare da Manzi, un linguaggio necessariamente fatto di
ripetizioni, di detti popolari, di ridondanza che consenta allo spettatore di memorizzare un concetto
e di abbinarlo, eventualmente, a una lettera o a una regola grammaticale:
«Il pensiero (…) deve strutturarsi in ripetizioni ed antitesi, in allitterazioni e assonanze, in epiteti e espressioni
formulaiche, in temi standard (l’assemblea, il pasto, il duello, l’aiutante dell’eroe, e così via), in proverbi costantemente
uditi da tutti e che sono rappresentati con facilità, anch’essi formulati per un facile apprendimento e ricordo, o infine in
altre forme a funzione mnemonica»13.
A questi elementi bisogna necessariamente aggiungere il gesto e le sue declinazioni mimiche, che
probabilmente risultano più immediate e accattivanti della parola medesima. Ogni rito ha la propria
10
ivi, pp. 16-17.
Cioè una cultura che è del tutto ignara di scrittura e stampa (cfr. W. Ong, p. 29).
12
«Senza la scrittura, le parole come tali non hanno una presenza visiva, anche quando gli oggetti che rappresentano
sono visibili; esse sono soltanto suoni che si possono “richiamare”, ricordare, ma non c’è luogo alcuno dove “cercarli”
(…) Sono occorrenze, eventi.» (Ong, p. 59). In questo caso si tratta di un paragone solo in parte esatto, poiché la
scrittura è un fatto acquisito dalla nascita, anche se per l’analfabeta essa è solo un insieme di segni senza possibilità di
essere codificato.
13
Walter Ong, Oralità e scrittura…, cit. pp. 62-63.
11
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gestualità, così come ogni racconto viene accompagnato e supportato dal movimento corporeo di
chi racconta. Il teatro greco ne è esempio lampante, l’ormai celeberrima fusione di arti coreutiche,
musicali e recitative, così come le danze tribali fino alle invocazioni alle divinità: il gesto è
l’elemento trascinatore del fisico in un qualcosa che solitamente impegna l’area trascendentale e
cerebrale dell’uomo. È la parte istintiva e materiale che si fonde con l’area della ragione, a sua volta
trascinata nello spazio sconfinato della trance da performance creativa e/o divina. Anche nel pianeta
televisivo, non si può prescindere, dunque, dall’uso della retorica, l’arte della parola per eccellenza,
principio costituente dell’oratoria, la cui struttura pentapartita14 includeva l’actio, cioè l’elemento
recitativo, gestuale. L’eredità della società orale si nota quindi anche nel metodo e nello stile
linguistico con cui il conduttore–narratore avvicina e coinvolge il telespettatore–popolo.
L’acutezza orale del suo agire porta il conduttore televisivo a giocare con la gestualità, a
volte fino a essere identificato con un modo di dire – formula mnemonica – e con un movimento
preciso del proprio fisico: ho sempre visto Mike Bongiorno pronunciare il suo “Allegria!” alzando
gli occhiali verso l’alto col braccio, muovendolo in un ipotetico saluto ai «cari amici ascoltatori» e,
credo, non sarebbe la stesso sentire il suo motto senza il gesto. Inoltre, sentendo solo la parola,
ognuno è portato a immaginare il movimento del braccio di Bongiorno, come qualcosa di
inevitabilmente legato al suono ascoltato. Gesto e parola sono fusi, in un’unica espressione che
ripetuta costantemente, diventa rituale15, ricorrenza, coinvolgimento, estensione nella comunità: in
una parola, i telespettatori si rispecchiano in una cerimonia catodica, della quale sono compartecipi
e complici. Tornando a Non è mai troppo tardi, il conduttore Manzi è il celebrante di un rito laico e
mediale che orienta la comunità televisiva alla conoscenza della lingua italiana, rendendo la
comunità stessa creatrice di un istantaneo coinvolgimento collettivo, in cui il sapere dell’uno si
estende al tutto, in cui l’individualità muta in collettività. Il rapporto diventa, però, bi–direzionale: il
conduttore si apre al pubblico, che lo ingloba in sé per riconoscersi nell’uno.
Il rapporto così stretto tra entità individualmente distinte da cariche (conduttore e spettatori)
ma al tempo stesso collettivamente unificate dalla forza partecipante della televisione rafforza la
teoria secondo cui il mezzo televisivo sia addirittura più vicino all’evento orale piuttosto che il
teatro. Ong è piuttosto chiaro quando afferma che «è significativo che nel teatro manchi la voce
narrante: il narratore è immerso completamente nel testo e scompare dietro le voci dei suoi
personaggi»16. Per quanto possa sembrare innaturale, quindi, la tv sarebbe un prodotto basato meno
sulla scrittura di quanto non lo sia il teatro.
Partendo dal presupposto che ormai nessuna manifestazione umana legata alla
comunicazione prescinde dalla tecnica scritta – e che l’uomo di fatto nasce e vive secondo una
forma mentis tipica di chi conosce la scrittura e intende la parola più come elemento visivo che
come evento sonoro – la televisione sviluppa un linguaggio che per certi versi ripercorre le orme del
teatro della Commedia dell’Arte e, in generale, dell’improvvisazione. Il linguaggio della tv si basa
su costruzioni simili a canovacci con cui il conduttore va alla sfida col pubblico, nel tentativo di
attirarne l’attenzione e di fidelizzarne la presenza. Quello che per il comico dell’Arte è il
canovaccio, per l’uomo di televisione è la scaletta, cioè uno scheletro della trasmissione che andrà
in onda, in cui sono fissate le situazioni necessarie per lo svolgimento del programma, le indicazioni
tecniche, temporali e le formule – linguistiche – con cui si scandiscono le varie sezioni. Una
trasmissione televisiva potrebbe andare in onda così, senza l’aggiunta di altri orpelli letterari. In
realtà, esiste la scrittura di un programma, un testo vero e proprio comunemente detto copione, che
comprende il parlato della trasmissione: una scrittura dedicata unicamente alla parola, per così dire;
14
Inventio, cioè il reperimento delle notizie e dei dati. Dispositio, l’ordine e la disposizione logica delle informazioni
per formare il discorso. Elocutio, lo stile. Memoria, la capacità mnemonica dell’oratore. Actio, la gestualità persuasiva.
15
Paolo Taggi, nel libro Un programma di – scrivere per la tv, accennando a questi comportamenti rituali parla di
liturgia: «Dal punto di vista del linguaggio la liturgia è l’assunzione di una dimensione rituale di alcuni comportamenti
ricorrenti: gesti, movimenti, meccanismi, cambi di luce, parole o frasi. (…) Non tutti i gesti ripetuti diventano liturgia,
ma soprattutto pochi programmi la sanno creare e pochi conduttori la sanno celebrare. (…) La liturgia si nutre di rituali
fatti di gesti e parole anche banali, che riveste di solennità». (pp. 73-74).
16
Walter Ong, Oralità e scrittura…, cit. p. 208.
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sta poi al conduttore rispettarlo attentamente o semplicemente usarla come promemoria,
abbandonandosi all’improvvisazione del momento.
Potrebbe dunque avere senso l’affermazione di Paolo Taggi, secondo cui «un programma è un work
in progress, un copione troppo dettagliato toglie naturalezza alla trasmissione (…). Il copione ideale
è aperto, procede per suggerimenti che qualche volta si traducono in frasi compiute: qualche volta
sono utili, costituiscono snodi emozionali o passaggi obbligati»17. Perché il pubblico possa
comprendere immediatamente il contenuto di una trasmissione, l’autore televisivo ricorre, come già
accennato in precedenza, ai loci communes, cioè espressioni che lo spettatore è in grado di percepire
con velocità, senza rischio che si perda in ragionamenti e che non riesca più a seguire lo
svolgimento del programma. Quindi, se in teatro l’attore è tenuto normalmente a rispettare il
copione, memorizzandolo e riproponendolo al pubblico in modo conforme alla scrittura dell’autore
e diventandone parte quasi non distinguibile, l’uomo di televisione può manipolare come meglio
crede, al limite anche mutare del tutto, il copione che l’autore gli produce. Ma non è tutto: il
conduttore ha un ruolo riconoscibile, separato dal flusso emotivo dell’immagine e dell’evento
televisivo: è colui che guida lo spettatore all’interno dell’illusione che egli – con la sua funzione di
pubblico partecipante – contribuisce a creare; quasi mai egli è totalmente inserito nello show: il
moderatore di talk show è piuttosto colui che detta i tempi e gli argomenti di discussione, che
organizza gli interventi degli ospiti, che cerca l’attenzione del pubblico in studio e a casa
sollecitando i propri ospiti a raggiungere i limiti del proprio ragionamento, ma difficilmente prende
parte al dibattito in corso con una posizione dichiarata. Si potrebbe azzardare a paragonare il
conduttore al narratore dell’antichità, all’aedo che narra e che rende partecipi della propria storia i
presenti: entrambi sono su un ideale piedistallo che li separa dal racconto ma al tempo stesso li
rende rappresentanti ideali dello spettatore.
Se l’esaltazione dell’aedo e del conduttore particolarmente loquace e convincente – o del
suonatore di jazz o di qualunque artista in preda a un – è reale, allora anche il pubblico sarà attirato
in quello stato emozionale che sta vivendo il protagonista, un’emotività scaturita
dall’improvvisazione, dal copione aperto, dal work in progress. L’unica vera differenza è la
presenza di un testo scritto, frutto di una coscienza collettiva che ormai ha interiorizzato la scrittura.
Come già detto più volte, la forza della televisione è quella di rendere possibile un ritorno ad
alcune abitudini orali pur basandosi sull’elemento scritto. Finora s’è accennato solo alla figura del
conduttore, simile al narratore antico. Ma, a ben vedere, anche il contenuto della produzione
televisiva non è così distante dal modo in cui il poeta antico – un Omero qualsiasi – recitava versi
strutturati su apparati formulari derivanti dalla tradizione. Come sostiene Ong,
«La narrativa è ovunque un genere d’arte verbale superiore, presente costantemente a partire dalle culture orali primarie
fino a quelle ad alta alfabetizzazione e alle elettroniche. In un cero senso, la narrativa domina tutti gli altri generi,
perché è alla base di tante altre forme artistiche, anche le più astratte. (…) Dietro ai proverbi, agli aforismi, alle
speculazioni filosofiche e ai riti religiosi giace la memoria dell’esperienza umana disposta nel tempo e soggetta a una
trattazione narrativa»18,
la base della cultura orale è dunque da ricercare in una forma d’arte che la cultura odierna pensa
appartenente alla scrittura. In realtà, la narrativa esiste già nella cultura a oralità primaria e la
televisione è fonte di narrazione, perché basata su una struttura simile a quelle delle «storie delle
guerre troiane presso gli antichi Greci, quelle del coyote presso le varie popolazioni indigene
d’America, i racconti di Anansi nel Belize e in altre culture caraibiche con qualche eredità africana,
storie di Sunjata nel Mali, quelle di Mwindo fra i Nyanga, e così via»19. Questo tipo di narrativa
consente alle culture ad oralità primaria di raccontare e unificare una grande quantità di sapere in
opere piuttosto lunghe, anche per essere durevoli nel tempo, grazie naturalmente alla ripetizione.
17
Paolo Taggi, Un programma di, scrivere per la tv, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 77.
Walter Ong, Oralità e scrittura…, cit, pp. 197-198.
19
ivi, p. 198.
18
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Perché potessero essere memorizzate, era necessaria una struttura diversa da quella tipica del libro –
a climax emotivo ascendente, basata sulla cosiddetta piramide di Freytag20 – quindi in medias res,
senza andamento cronologico, impossibile senza scrittura, a favore di un più immediato intreccio a
episodi, che consentisse al poeta narratore di inserire tutti gli episodi memorizzati dalla tradizione,
senza porre attenzione all’ordine e al valore emotivo. Insomma, se l’attuale lettore o telespettatore è
abituato a un andamento lineare e cronologicamente ordinato, il pubblico della cultura orale ascolta
episodi accostati l’uno all’altro in apparente casualità. Una differenza di struttura già sottolineata da
Aristotele, anche se il filosofo critica il sistema orale, indice di cattiva poesia, favorendo invece la
metodicità della scrittura – nello specifico quella drammatica –, che consente alla carica poetica la
massima espressione:
«Chiamo infatti “episodico” in cui non c’è né verosimiglianza né necessità che gli episodi si susseguano in un certo
modo (…) Dei racconti, alcuni sono semplici, altri complessi. Chiamo semplice quell’azione che, mentre si svolge,
come si è definito, con continuità ed unità, muta direzione senza peripezia e senza riconoscimento; mentre complessa
quella in cui il mutamento si ha con riconoscimento o con peripezia o con tutti e due»21.
Questi concetti sono per certi versi mutuabili per il mondo della televisione, il cui palinsesto
giornaliero potrebbe essere considerato un'unica grande prova di narrativa episodica, che un
ipotetico conduttore deus ex machina dell’illusione televisiva racconta senza soluzione di continuità
allo spettatore, seduto sul divano di casa, magari circondato da amici e parenti, tutti attratti dalla
forza coinvolgente della scatola parlante.
È curioso poi notare come le parole usate da Ong nella descrizione del poeta orale possano
essere in qualche modo riferite all’autore di un certo prodotto tv, il format:
«Egli ricorda in pubblico, non un testo imparato a memoria (…), ma i temi e le formule che egli ha udito cantare dagli
altri cantori. Li ricorda in modo sempre diverso, rapsodizzandoli o unificandoli di volta in volta alla sua maniera, a
seconda del pubblico e dell’occasione»22.
Il format è un particolare tipo di trasmissione, o meglio di pacchetto televisivo pronto per la vendita
e il consumo. Taggi lo presenta come «televisione pensata in funzione della sua riproducibilità»23 e
aggiunge che esso è passibile di modifiche – seppure minime – per essere adattato alle esigenze dei
diversi paesi in cui viene mandato in onda. Quindi, il format ha struttura prettamente scritta, ideato
per essere sempre e comunque identico nella sua lineare ripetizione, anche se consente una rottura
del sistema, per essere accostato meglio ai telespettatori. Insomma, un po’ come il poeta orale che
mutava i ricordi di antiche rapsodie per renderli nuovi: una sorta di oralità che affiora dal suo
contrario, la scrittura, perché non si tratta qui di un canovaccio, su cui l’autore e il conduttore
armonizzano liberamente, ma di una vera e propria opera di riscrittura che assume le sembianze di
una modificazione orale. Taggi parla di «autore plurale»24, facendo riferimento a un particolare
modus operandi, per cui ogni autore applica modifiche al format secondo le esigenze della propria
produzione, modifiche che vengono per così dire sommate ai cambiamenti precedenti, in un
processo di sedimentazione a strati, per cui l’ultima variazione difficilmente viene riferita all’idea di
partenza, ma a una realtà che ha già subito mutazioni, fino all’ipotetica creazione di un format
completamente diverso da quello di base. Il format televisivo ricorda quindi in questo caso la
20
Si tratta di un andamento emotivo e ritmico del racconto che può essere rappresentato graficamente con una linea
scendente seguita da una discendente: l’azione in ascesa provoca tensione e monta fino a un climax che di norma
consiste in un riconoscimento e in un capovolgimento della situazione attuale, con successivo scioglimento e
rivelazione dell’intreccio, che è l’azione in discesa. È andamento tipico di ogni narrazione eroica o degli attuali film
d’azione.
21
Aristotele, Poetica, Milano, Rusconi, 1995, pp. 79-80.
22
Walter Ong, Oralità e scrittura…, cit., p. 205.
23
Paolo Taggi, Un programma di…, cit., p. 180.
24
ivi, p. 183.
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narrativa antica o quella della cultura a oralità primaria o, più semplicemente – e più vicino alla
quotidianità – il racconto di una favola o di una filastrocca. È difficile pensare che un genitore non
abbia raccontato ai propri figli la favola di Cappuccetto Rosso, ma è altrettanto difficile immaginare
che l’abbia letta su un libro. Sarà piuttosto ricordo di quando, da piccolo, l’ascoltava raccontare da
qualcun altro, a sua volta ascoltatore durante l’infanzia e così via. La Bella e la Bestia, nata dalla
penna di Madame de Beaumont, conosce numerose varianti25: in Italia, ad esempio, Bellinda e il
mostro, di tradizione toscana, oppure Il toro nero di Norroway26, di origine scozzese, che non ha
più quasi nulla a che vedere con la fiaba originale.
Dunque la televisione come moderno rito di racconto e coinvolgimento emotivo della
collettività. Un’idea ripresa anche da Marshall McLuhan, che, in tempi non sospetti, aveva già
considerato la nascente tv come medium in grado di mutare profondamente la società ed esponente
di una nuova forma di oralità. Questo spiega anche la collocazione della televisione che Marshall
McLuhan fa nel suo testo Gli strumenti del comunicare. Per il sociologo canadese, esistono
fondamentalmente due tipologie di media, quelli caldi e quelli freddi. Sono calde quelle forme di
comunicazione che prevedono un basso coinvolgimento della comunità, mentre sono freddi i media
che causano una notevole partecipazione del pubblico:
«C’è un principio base che distingue un medium “caldo” come la radio o il cinema, da un medium “freddo” come il
telefono o la TV. È caldo il medium che estende un unico senso fino a “un’alta definizione”: fino allo stato, cioè, in cui
si è abbondantemente colmi di dati. Dal punto di vista visivo, la fotografia è un fattore di “alta definizione”, mentre un
cartoon comporta una “bassa definizione”, in quanto contiene una quantità limitata di informazioni visive. Il telefono è
un medium freddo, o a bassa definizione, perché attraverso l’orecchio si riceve una scarsa quantità di informazioni, e
altrettanto dicasi, ovviamente, di ogni espressione orale rientrante nel discorso in genere perché offre poco ed esige un
grosso contributo da parte dell’ascoltatore. Viceversa, i media caldi non lasciano molto spazio che il pubblico debba
colmare o completare; comportano perciò una limitata partecipazione, mentre i media freddi implicano un alto grado di
partecipazione o di completamento da parte del pubblico»27.
Il discorso di MuLuhan è dunque esplicazione costante dei concetti già espressi, specie nel trattare
la televisione a pari livello o quasi con «ogni espressione orale»28, elementi del comunicare che
prevedono una forte partecipazione del pubblico. Anche il sociologo canadese rafforza la tesi
secondo cui, quindi, la tv possa rientrare a pieno titolo nella schiera delle tecnologie a oralità
secondaria, ponendo però un gancio di riflessione per la tv on demand, la tematicità dei canali e,
naturalmente, il web, messa in pratica inconscia delle teorizzazioni del villaggio globale.
Si potrebbe arrischiare, a questo punto, un’immaginaria linea evolutiva del mezzo televisivo,
o meglio dell’oralità televisiva, a partire dai fantastici Anni ’50 per giungere a quelli attuali della tv
quotidiana, ragionando su una scansione temporale e formale tripartita, che come un ideale rito di
passaggio trasformi l’oralità primaria in quella secondaria, ricordando però che il contenitore di
partenza è quello dell’oralità di ritorno. In altre parole, all’interno del concetto generale di oralità di
ritorno, il singolo medium potrebbe avere subito un’evoluzione tripartita che ricalca esattamente
quella superiore. Si tratterebbe , quindi, di nuovo di un rituale, di una circolarità temporale che si
ripete all’infinito all’interno di scatole cinesi29.
- Oralità primaria televisiva: gli Anni Cinquanta e Sessanta hanno rappresentato in Italia il
periodo dell’oro, della scoperta del nuovo medium, che comporta un riversarsi del pubblico nelle
25
Cito anche le trascrizioni per cinema e televisione come quella del 1962, con regia di Edward L. Cahn, peraltro con
adattamento della Bestia a licantropo, fino a quella celeberrima, della Walt Disney, in cartoni animati.
26
Vedi www.paroledautore,net/fiabe Per quanto riguarda invece Cappuccetto Rosso, pare importante la differenza che
intercorre tra la versione di Charles Perrault, del 1697, e quella successiva dei fratelli Grimm, frutto di varie riedizioni
fino alla definitiva del 1857. quest’ultima è molto meno sinistra rispetto alla prima, che prevedeva un finale negativo,
con riscontri anche a sfondo sessuale (http://it.wikipedia.org/wiki/Cappuccetto_Rosso).
27
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare…, cit., p. 31.
28
Ibidem.
29
Si è di nuovo davanti all’archetipo che viene declinato nelle sue diverse forme, o, se si vuole dare un taglio più
filosofico ma puramente culturale, al Logos stoico che origina logoi minori e dunque imperfetti.
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case, negli ambienti domestici. Questa trasformazione è in realtà il momento iniziale del rito di
passaggio della televisione. Per McLuhan, il cinema è essenzialmente un medium caldo, perché
produce e offre visione definite, perfettamente replicabili e non modificabili dall’istinto collettivo. Il
pubblico cineasta va nella sala cinematografica per vedere una pellicola, un prodotto finito, non per
assistere, ad esempio, a uno show che sta avvenendo in quello stesso istante in qualche teatro e
trasmesso, nelle case attraverso il medium. La differenza è che prima era il pubblico a cercare il
medium, adesso è questo che va nelle case dello spettatore. Le prime trasmissioni televisive
richiamano milioni di telespettatori e danno vita a un fenomeno coinvolgente e partecipante anche
basandosi su un aspetto prettamente economico: le famiglie che possono permettersi il nuovo
mezzo comunicativo sono in netta minoranza rispetto al numero di telespettatori. È normale, quindi,
assistere a ritrovi di più famiglie davanti a un unico schermo tv. Questo rispecchia il movimento
contadino che si radunava nei fienili per ascoltare le narrazioni dei vecchi. Trasmissioni come
Campanile sera30 rappresentano la prima forma di tv collettiva e un modo innovativo, per l’epoca,
di ricreare quella compartecipazione collettiva tipica delle culture classiche.
- Scrittura televisiva: bisogna necessariamente specificare che per “scrittura televsiva” in
questo caso specifico si intende non la tecnica vera e propria di drammaturgia e realizzazione tv, ma
il secondo momento di evoluzione del linguaggio, nel rispetto della divisione logica descritta da
Ong nel suo saggio sull’oralità e la scrittura. Si potrebbe parlare di un secondo stadio evolutivo del
linguaggio in tv. L’esplosione dei canali tematici, delle piattaforme satellitari fino alla tv on
demand31 ha reso la televisione in qualche modo un medium caldo, poiché di fatto ogni
telespettatore può decidere che cosa vedere e quando, liberandosi dei vincoli del palinsesto e della
comunità. È un chiudersi nel proprio antro e concentrarsi su uno spettacolo che diventa a uso e
consumo del singolo e non più di una totalità di telespettatori. Paradossalmente, l’evoluzione
tecnologica ha portato a una chiusura graduale del rapporto di collettività che la fase di oralità
primaria televisiva era riuscita invece a restituire alla popolazione moderna. La tv in questo
momento diventa un rito strettamente privato, accessibile solo a ipotetici iniziati: la possibilità di
scegliere tra decine di canali, richiede anche una specializzazione maggiore da parte del pubblico,
che sarà in qualche modo più di nicchia e in parte più deus ex machina della propria creazione
artistico–televisiva. Da questo punto di vista, quindi, la tv si avvicina pericolosamente alla cultura
del libro, sua negazione logica, anche perché «la stampa incoraggia un senso di chiusura,
l’impressione che ciò che si trova in un testo sia finito, abbia raggiunto uno stato di completezza»32,
mentre come detto più volte la televisione dovrebbe aprirsi a una nuova collettività. Liberandosi del
palinsesto e del peso di una ritualità collettiva e collettivizzata, si ottiene una nuova linearità,
parallela a quella quotidiana, che non permette le tangenze circolari di una tv collettiva, ma
semplicemente un libro visivo, per cui gli spettatori «si sforzano senza successo di leggerla in
profondità, riversando su di essa tutti i loro sensi. Ma ne vengono respinti, perché la stampa (e la tv
tematica)33 richiede una facoltà visiva denudata e isolata, non un sensorio unificato»34.
- Oralità secondaria televisiva: ricordato che in linea generale tutta la televisione rientra in
ciò che Ong ha classificato come espressioni di oralità secondaria35, è possibile restringere il campo
30
Gioco televisivo in onda dal 1959 al 1961, condotto tra gli altri da Mike Bongiorno ed Enzo Tortora. La struttura del
programma prevedeva la partecipazione al gioco sia del pubblico presente in studio sia di quello a casa. Si trattava di un
quiz con domande rivolte a concorrenti del Nord e del Sud Italia. A inizio programma veniva inserito un filmato che
descriveva il paesaggio e la realtà dei comuni in gara.
31
È la possibilità dal proprio televisore di decidere che cosa vedere in qualsiasi momento, senza vincoli di orario o di
palinsesto.
32
Walter Ong, Oralità e scrittura…, cit., p. 186.
33
Corsivo e contenuto delle parentesi nostro.
34
Mashall McLuhan, Gli strumenti del comunicare…, cit., p.328.
35
«Questa nuova oralità ha sorprendenti somiglianze con quella più antica per la sua mistica partecipatoria, per il senso
della comunità, per la concentrazione sul momento presente e persino per l’utilizzazione delle formule. Ma si tratta di
un’oralità più deliberata e consapevole, permanentemente basata sull’uso della scrittura e della stampa, che sono
essenziali per la fabbricazione e il funzionamento delle attrezzature, nonché per il loro uso». (Walter Ong, Oralità e
scrittura… , cit., p. 191).
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all’analisi evolutiva e dire che sulla base della tv on demand e dei canali tematici – in sostanza sulla
scrittura televisiva sopra citata – prende piede una forma televisiva che in qualche modo recupera le
strutture mistiche e collettive che avevano caratterizzato la tv “antica”. Tutto ciò con una visione
più consapevole, come dice lo stesso Ong, grazie all’esperienza passata. La nascita dei format, con
la scrittura dell’autore plurale, e soprattutto dei reality show testimoniano la nuova esigenza dal
sapore antico del telespettatore, di essere attivamente partecipe della realizzazione di una
trasmissione: evidentemente con una coscienza maggiore del medium, che viene manipolato più
facilmente e non più visto solo come divinità domestica. Il telespettatore ha trovato una chiave in
più per essere partecipante, diventare lui stesso motore dell’atto di creazione artistica –
indipendentemente dal livello qualitativo – dell’istante televisivo, con una partecipazione
individuale e collettiva alla trasmissione che si sta realizzando. Questo senza dimenticare che
l’evoluzione tecnologica ha consentito un rapporto decisionale ancora più stretto tra telespettatore e
tv: il digitale terrestre36, che di fatto consente la ricezione di canali tematici senza l’impianto
satellitare, offre una scelta quantitativa più elevata e la possibilità di interazione col medium: in
sostanza, il mezzo modifica ma viene modificato contemporaneamente, come un racconto che
subisce le modificazioni durante la sua stessa narrazione. Un racconto collettivo che diventa una
trasmissione collettiva. Questa partecipazione allargata e fortemente attiva porterebbe a ottenere un
prodotto tv non più limitato, ma in continua crescita e mutazione, in una rigenerazione continua
dell’idea originaria.
Questa linea evolutiva è ipoteticamente completata dal computer, o meglio dalla considerazione che
la televisione può essere parente stretta del pc, fino a una completa fusione dei due media in
un’unica realtà. Tale fusione non è però da leggere esclusivamente come un superamento della
scatola parlante da parte del computer, ma anzi come una confusione37 dei due mezzi di
comunicazione, che si sono influenzati e modificati vicendevolmente.
36
La televisione digitale terrestre, abbreviata in DTT (Digital Terrestrial Television) è la tv rappresentata in forma
digitale. La grande novità, oltre all’aumento dei canali disponibili, è l’interattività, che consente di interagire con la tv,
potendo partecipare ad esempio a quiz televisivi, rispondere a domande e sondaggi e interrogare pagine web.
37
Uso il termine con il significato di fondere con, mescolare insieme più oggetti o realtà.
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