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26 ■ CRITICAsociale 10 / 2011 Articolo 6 Sono nulle le schede che non portino segnato alcun quadratello di lista o nelle quali sia segnato il quadratello di più di una lista. E’ la sanzione della disposizione precedente, che stabilisce la obbligatorietà di un unico voto di lista, ad evitare manifestazioni di volontà politicamente contraddittorie. Articolo 7 Se il votante non assegna un numero d’ordine a nessuno dei candidati, gli scrutatori assegneranno a ciascuno di essi il numero d’ordine uno. Se uno a più candidati ne sonon sprovvisti, assegneranno loro il numero d’ordine immediatamente più alto di quello dell’ultimo candidato personalmente designato. Dato il carattere facoltativo della designazione personale, la mancanza di questa non può produrre la nullità della scheda. Ma occorre stabilire il valore di tali schede agli effetti della composizione personale della rappresentanza che aspetterà a ciascun partito inn base ai calcoli numerici di cui al successivo artico 8. Il votante che non fa designazioni personali pone tutti i candidati su uno stesso piano. A tutti deve quindi assegnarsi il numero uno. Invece la designazione personale limita ad uno a da alcuni candidati implica una preferenza accordata a questi in confronto degli altri non personalmente designati.E’ quindi logico che a questi ultimi si assegnerà il numero d’ordine immediatamente successivo - ossia aritmeticamente più alto, ed avente quindi un valore di preferenza più basso - a quello dell’ultimo candidato personalmente designato. Articolo 8 È considerata cifra elettorale di ogni lista la somma dei voti di lista raccolti da ciascuna lista. Il seggio dividerà il totale delle schede valide per il numero dei deputati da eleggere, ottenendo così il quoziente elettorale. Quindi attribuirà ad ogni lista tanti rappresentanti, quante volte il quoziente elettorale risulterà contenuto nella cifra elettorale di ciascuna lista. I posti che resiuduassero verranno attribuiti alle liste che, nella divisione della loro cifra elettorale del quoziente elettorale, avranno ottenuto i resti più alti. Nelle singole liste saranno proclamati eletti i candidati, che avranno raccolto una somma numericamente più bassa di numeri d’ordine. A parità di somma sarà proclamato eletto il candidato più anziano d’età. Queste disposizioni risolvono il problema quantitativo della proporzionale, cioè della di- stribuzione numerica dei mandati fra le varie liste, come quelle dell’articolo 7 ne hanno risolto il problema personale, e cioè della rispettiva prevalenza dei candidati di ciascuna lista in relazione al numero dei mandati ad essa spettanti. A cominciare dal sistema di Hare, la maggior parte dei sistemi proporzionali ha adottato il congegno del quoziente. Data però la non perfetta divisibilità di tutti i dividenti per il loro divisore, esso ha bisogno di integrazioni, adottata dall’articolo è quella dei resti più forti, che, anche se non matematicamente perfetta, risponde al requisito della maggiore semplicità. Disposizione di grande valore politico è quella che desume la cifra elettorale di ogni lista esclusivamente dai voto di lista. Ciò sventa il pericolo, in cui incappano altri sistemi proporzionali, di aggiungere valore politico a designazioni puramente personali. La graduazione per numeri d’ordine non influisce sulla cifra elettorale, unica base di conteggio dei mandati da attribuirsi fra le varie liste. La portata puramente puramente personale della graduazione è salvaguardata nell’ultima parte dell’articolo. Uno significa primo in ordine di preferenza, due equivale a secondo, ecc. Quindi la somma più bassa di numeri d’ordine indica la preferenza personale più alta. Il criterio, poi, dell’anzianità, come succedaneo nel caso di una uguale somma di numeri d’ordine, è empirico, ma ha un valore e una ragione consuetudinarii, mentre non è completamente sfornito di giustificazioni intriseca, in quanto la anzianità suppone maggiore esperienza. Articolo 9 Quando, durante una legislatura, si rendesse vacante un posto di deputato, esso verrà attribuito al candidato che,nella medesima lista del deputato cessante, avrà ottenuto, dopo di lui, la somma numerica più bassa di numeri d’ordine. Per reintegrare, in casi di parziali vacanze sopravvenute, la rappresentanza dei singoli partiti, si utilizzano i candidati che in ciascuna lista seguirono gli eletti nella scala delle graduazioni. Procedere a nuove elezioni parziali turberebbe la economia del sistema. D’altra parte,essendo sommamente improbabile che, colla Proporzionale, riescano tutti i candidati di una lista, sarebbe inutile una preventiva designazione di supplenti. Articolo 10 Rimangono in vigore tutte le disposizioni della legge elettorale politica non modificate dalla presente legge. ■ 1919 FASCICOLO 10 PAGINA 113 DIETRO LE IDEOLOGIE BANCHE, MERCATI, DITTATURA ECONOMICA Giovanni Merloni I contrasti e le opposizioni intransigenti, che si sono sollevati alla Conferenza di Parigi contro la tesi italiana di Fiume, sembra abbiano di un tratto dissigillati gli occhi dell’opinione pubblica italiana che volle la guerra sui retroscena economici, finanziari, bancari, della Conferenza medesima. Il Partito Socialista aveva già, fino dai primordi, sostanziato la sua fiera e recisa avversione con argomenti di carattere prevalentemente economico. Al di sopra delle ideologie con cui la guerra fu orpellata in nome dei più grandi principi democratici e uma- nitati, il Partito Socialista, dove riuscì, come in Italia, a separarsi nettamente dalla politica della guerra, vide chiaro che nelle intime viscere della conflagrazione pulsava l ‘anima stessa del capitalismo, di un capitalismo giunto a una fase suprema di sviluppo e di crisi. Erano i grandi imperialismi economici d’Europa che si davano Ia suprema disperata battaglia per il dominio di gran parte del mondo. Nel corso della guerra, nelle vicende lunghe e varie degli avvenimenti, questo fattore fu sempre visibile e agì da propulsore potente; e, quando la partita era terribilmente incerta, un altro imperialismo più lontano - a riprovare l’immutabile essenza del gigantesco conflitto - gettò nella bilancia il suo peso; lo gettò nel momento più opportuno, per il rendimento più sicuro e più alto. Né giovò a nascondere l’intima natura deIl’intervento americano la grossa verniciatura idealistica, in stile fìlosoficoreligioso-giuridico, del presidente Wilson. Non mette conto insistere. Ora, che Io scenario é interamente crollato, noi ritroviamo, con una prodigiosa e non immaginata anticipazione nel tempo, e con una evidenza meridiana di dimostrazione, la riconferma delle nostre critiche, del nostro metodo di analisi dei fatti storici, delle nostre previsioni. Guardiamo dunque alla realtà, che ci è offerta dalle nazioni le quali dichiararono di sostenere la guerra contro l’imperialismo tedesco perché ogni imperialismo fosse distrutto, perché fosse instaurata nel mondo la libertà e la giustizia per tutti, per i grandi e per i piccoli, per i forti e per i deboli, per gli amici ... e per i nemici. Ci limiteremo per questa volta a una prima rapida serie di fatti. Cominciamo dall’America, la più ... idealistica delle nazioni entrate nel conflitto europeo. È noto il grandioso sviluppo che hanno assunto Ie esportazioni americane sul continente europeo. Si tratta di un movimento che ha acquistato una crescente intensità durante gli ultimi anni, in cui l’America ha fornito prodotti di ogni sorta agli eserciti alleati e alle popolazioni civili alleate e neutre. La potenza acquistata in tale periodo e un’organizzazione sempre più perfetta e formidabile permettono all’America di importare in Europa grandi quantità di merci a prezzi migliori di quelli della produzione locale, per cui il movimento continua incessantemente e tende ad accentuarsi sempre più. Gli Americani, ad esempio, hanno già con-quistato coi loro carboni il mercato svizzero, che fin qui era quasi esclusivamente alimentato dalla Germania. A parte questo particolare, I’insieme delle esportazioni degli Stati Uniti a destinazione del continente europeo dà, solo per questi ultimi mesi, una media di eccedenza delle esportazioni americane sulle importazioni in America di più di 400 milioni di dollari; onde si può prevedere che, mantenendosi allo stesso ritmo anche senza intensificarsi, le esportazioni stesse finiranno col dare agli Stati Uniti, nel 1919, un’eccedenza della bilancia commerciale a loro favore di non meno di 5 miliardi di dollari ! Nel Belgio si è già istituito un certo numero di banche inglesi e americane, che aspirano naturalmente a contribuire in larga misura alla restaurazione economica del Paese, o a dividerne più largamente i benefici. Ma, dove lo sforzo e il Ianciamento, per così dire, del capitale americano si rivelano maggiormente, è nella furiosa conquista che esso tenta nei Paesi «nemici» e nei Paesi nuovi. Esso è già in via di creare affari considerevoli in Germania, in Polonia, nella nuova Repubblica ceco-slovacca, nella Jugoslavia, e cosi via; ordinazioni in gran numero, contratti cospicui, tentativi di ogni genere per accaparrarsi tutti i mercati, il maggior numero di mercati. I commercianti inglesi li seguono molto dappresso. Dietro Ie bandiere di Wilson, l’America si è data in realtà alla più intensa spasmodica penetrazione commerciale nel continente europeo. In tutti i paesi di Europa la propaganda è la stessa. Un corrispondente del Matin riferiva recentemente che nel febbraio scorso l’Associazione Nazionale dei fabbricanti americani rappresentante 4000 fabbriche, e un capitale di 15 miliardi di dollari, inviava delegati a Berlino, ed entrava in pourparlers con gli industriali tedeschi per riorganizzare i loro affari con capitale americano. Inoltre l’ «American Merchandise lnterchanqe Company», che fu costi- tuita da poco in America, inaugurava nel marzo una succursale a Berlino, il cui programma è precisamente di esportare prodotti tedeschi e di importare le materie prime dai Paesi dell’Intesa; e non sono questi che alcuni fatti tra i cento che si potrebbero citare. Come si vede, I’America non ha bisogno di attendere la firma del trattato di pace per avviare e far prosperare i suoi affari nei Paesi vinti. La guerra è stata, specialmente per l’America (e in grado quasi eguale per l’Inghilterra), un meraviglioso terreno di coltura per i propri profitti capitalistici. Grazie alla guerra, ,l ‘orientazione .imperialistica degli Stati Uniti è ora in pieno rigoglio. Un rapporto ufficiale dice che la potenza bancaria degli Stati Uniti, rappresentata dal capitale e annessi, dalla circolazione e sopratutto dai depositi di tutte le «National Bank », «State Banks» e «Trust Companies», alle quali si aggiungono ora il capitale e i depositi delle «Federai Reserve Banks», si ragguagliava, nel giugno 1918, a 215 miliardi di franchi. Dal giugno 1914 questa potenza bancaria degli Stati Uniti era aumentata di 70 miliardi di franchi. E, ove si aggiunga all’eloquenza di queste cifre la considerazione che gli Stati Uniti sono in questo momento il più grande serbatoio d’Doro del mondo (uno.stock di circa 15 miliardi di franchi), si ha agevolmente una idea della potenza formidabile con la quale l’America, messe da un lato le ideologie, si prepara - ed è già un pezzo innanzi sulla buona strada! - a sostituire, ad assorbire anzi, l’imperialismo tedesco, e ad instaurare la sua dittatura economica su tanta parte del mondo. Si comprende quindi come Wilson - da che la vittoria rende oramai superflui i 14 punti — abbia apporre anche il suo sigillo a quel tale trattato, che gli Alleati stanno per imporre alla Germania, che ha suscitato le proteste dei socialisti francesi e inglesi, e che è la guerra in gestazione ora e sempre, pago di essersi salvato l’anima col suo non possumus per Fiume: dove per altro è sempre lo stesso demone imperialistico, capitalistico e bancario che parla... Anche in Inghilterra la formula della concentrazione delle forze domina e caratterizza il momento finanziario presente. Infatti le «Joint Stock Banks» di Londra non formano più oramai, in seguito a un vasto processo di amalgamazione, che cinque gruppi rappresentanti, come importanza di depositi, più di 34 miliardi di franchi, ossia i due terzi della cifra totale dello Banche inglesi, che è valutala a circa 50 miliardi di franchi. È questa la più grande concentrazione di forze finanziarie, che si trovi riunita in un solo mercato del mondo: il che significa che il mercato di Londra lotterà con tutte le sue energie per difendere, o per rafforzare, il suo primato di ante-guerra. Dal canto suo; il capitalismo francese accentua le medesime tendenze. Se la Russia ha cessato di essere la grande cliente della Banca francese, questa già si getta avida sui mercati dei nuovi Stati slavi, riconosciuti dalle Potenze alleate, e che essa considera oramai come il prolungamento dell’Influenza francese nell’Oriente europeo, cioè in Polonia e negli Stati ceco-slovacchi e yugoslavi. I principali Stati capitalistici, insomma, America, Inghilterra, Francia, sono Ianciati alla conquista di mercati nuovi, vicini e lontani, delle Colonie come dei Paesi economicamente più deboli, e quindi a intensificare al massimo grado la produzione industriale per crearsi una bilancia commerciale sempre più favorevole e capace di dare i più grassi profitti. Un esempio tipico del prevalere delle considerazioni economiche su ogni altra considerazione alla Conferenza della pace, è offerto dalla soluzione che essa ha dato alla questione del bacino della Sarre, «dove non è chi parli francese», a cui fa riscontro perfetto il caso di CRITICAsociale ■ 27 10 / 2011 Fiume negato all’Italia. In quest’ ultimo, la smascheratura delle superbe ed evanescenti ideologie guerriere non poteva essere più completa. Per La Sarre i motivi economici fondamentali non sono meno chiari e luminosi. La tesi del capitalismo francese fu questa: «l bacini .di Longvy, di Briey e di Nancy possono vivere soltanto se la Francia avrà il carbone della Sarre». Le industrie metallurgiche francesi richiederanno domani 80 milioni di tonnellate di carbon fossile all’anno, mentre la produzione francese raggiunge appena la metà. Diplomatici e storici hanno esumato a gara il «passato francese del bacino della Sarre». Sono cose che non guastano, codeste: non si voleva presentare la questione alla Conferenza nella sua sola nudità economica. Ma il fatto è che in visione dei mirifici risultati destinati a uscire dalla combinazione del bacino carbonifero di Sarrebruck con quello di minerale di ferro di Meurthe-et-Moselle, ha signoreggiato gli spiriti, e condotto irresistibilmente allo scopo voluto. Domani il capitalismo e la Banca francese avranno in quella ricchissima regione il più complesso e coordinato campo di sfruttamento con tutta una serie di industrie, Iegate ad essa e legate insieme tra di loro: la industria carbonifera coi suoi sottoprodotti (prodotti coloranti, prodotti farmaceutici e fotografici), I’industria metallurgica di cui si prevede colà uno sviluppo prodigioso, le industrie chimiche, con I’ammoniaca ed il solfato di ammonio per l‘agricoltura, col benzolo, il toluolo; l’anilina, base di tante materie coloranti. La morale della Conferenza è questa, e null’altro. Abbiamo appena accennalo ad alcuni dei fatti più salienti, che dimostrano da quali ragioni, per quali fini e con quali risultati la guerra è stata combattuta, e una vittoria è stata raggiunta. La disamina deve continuare, e continuerà: non solo a conforto delle tesi e delle previsioni che furono nostre, ma per gli orientamenti necessari alla nostra opera di ricostruzione, all’azione più consapevole e più efficace nell’imminente domani. s ■ 1921 FASCICOLO 3 PAGINA 40 ASPETTI E RIFLESSI DEL PROBLEMA SIDERURGICO Gino Luzzato L a discussione avvenuta ai primi di dicembre alla Camera dei Deputati e le ripercussioni ch’essa ha avuto sui giornali ha dimostrato ancora una volta che non esiste una comune opinione socialista intorno a quello che è, oggi, il più grande dei problemi industriali dell’Italia moderna, il problema cioé dei rapporti fra lo Stato e l’industria siderurgica. Il Gruppo Parlamentare Socialista anche di fronte a questo problema si è mostrato diviso; ma in questo caso ha manifestato una scissione che non deriva da diversità di tendenze e di programma, ma dall’impreparazione e dall’incertezza della massima parte dei suoi componenti. Mentre l’on, Albertelli, seguito da pochi altri, si è mantenuto fedele alle tradizioni più pure del pensiero socialista, contrario ad ogni barriera doganale fra popolo e popolo, ed ha sviluppato con rigore Iogico impeccabile le idee liberiste ed antisiderurgiche, che egli aveva ripetutamente manifestate in questa Rivista, la maggioranza del Gruppo ha preferito seguire l’on. Umberto Bianchi ed ha fatto anzi propria la mozione con cui egli «invitava il governo ad esaminare e risolvere il problema della siderurgia». La tesi dell’on. Bianchi si può riassumere nella formula: per la siderurgia - contro i siderurgici, ed il discorso indubbiamente abile e brillante, con cui egli l’ha sostenuta, si può dividere in due parti d’intonazioni diametralmente opposte, nell’una delle quali egli fa una carica contro i finanzieri, che hanno-considerato la siderurgia come un semplice strumento per i loro giochi di Borsa, mentre nell’altra parte egli tenta la difesa dell’industria, che, libera da questi elementi perturbatori e demoralizzatori, potrebbe vivere e prosperare senza gravare sul bilancio dello Stato e senza opprimere i consumatori. «Se la siderurgia italiana, egli conclude, vuol vivere e, da industria parassitaria, trasformarsi in industria seria, sana, benemerita per la nazione, deve mutare strada, farsi un programma ed una organizzazione tecnica e scientifica, stare nei laboratori e nelle officine, non in Borsa; guadagnare in qualità ciò che gli altri Paesi più fortunati hanno in quantità, utilizzare nella maggior copia possibile forze, ricchezze, elementi nazionali finora trascurati... Essa deve ridurre al minimo possibile il numero dei forni Martin; cercare di introdurre nel maggior numero convertitori e forni elettrici e muovere elettricamente tutte le macchine accessorie. Essa deve progressivamente trasformare in acciaierie le ferriere arretrate ed annettere laminatoi a tutte le acciaierie... Essa non deve chiedere né carbone a prezzo politico né condizioni di favore per derivazioni di acque pubbliche, né chiedere commesse di prodotti onerose per lo Stato; ma essa deve darsi una sistemazione integrata ed organica, tale da consentirle una vita propria ed indipendente, non dannosa per l’economia generale del nostro Paese». Queste conclusioni sono supergiù uguali a quelle a cui erano giunti nel 1917 l’Iannacone e il Catani, potrebbero essere sottoscritte da qualunque liberista e potrebbero ottenere il pieno consenso di tutti i socialisti, se il Bianchi non avesse avuto il torto di giungere a questa invocazione di una siderurgia trasformata, che sarebbe in sostanza una siderurgia di acciai speciali e di semilavorati, attraverso una difesa della siderurgia qual’essa è attualmente in Italia, di una industria, cioè, che produce in grande prevalenza materie grezze, che non possono resistere alla concorrenza straniera se non con sovraprezzi altissimi, che danneggiano e finirebbero per rovinare tutte le industrie che da essa dipendono, ed in questa difesa, che non era affatto necessaria per le conclusioni a cui egli è arrivato, il Bianchi; nel suo desiderio di assumere l’atteggiamento imparziale dell’arbitro fra accusatori e difensori della siderurgia, è ricorso ad argomenti che, mentre possono trovare una giustificazione nella sua grande fede ottimistica, non sono affatto suffragati dall’esperienza, ed hanno intanto servito mirabilmente ai fini immediati di quegli stessi finanzieri siderurgici, che egli si prometteva di combattere. Il Bianchi, infatti, come erede alle grandi ricchezze minerarie del nostro suolo inesplorato, crede anche alla naturalità di una industria siderurgica italiana, e vi crede perché, secondo lui, non è affatto vero che noi siamo così poveri di minerali di ferro, come finora si è universalmente affermato. Egli accetta - è vero - le cifre date da Iannacone e Catani, secondo i quali la, consistenza accertata di tutti i giacimenti di minerali di ferro era, nel 1916, di 20 milioni di tonnellate, mentre la consistenza probabile, secondo i calcoli, naturalmente ipotetici, del prof. Stella, non supererebbe i 40 milioni. Per provare che siamo ricchi egli non si ferma al confronto troppo sconfortante fra i nostri 20 milioni ed i 22 miliardi accertati finora per .tutto il mondo; ma prende come sicuri i 40 milioni probabili e, limitando a 400,000 tonnellate di minerale il consumo annuo, arriva alla conclusione che ancora per un secolo noi potremo fare della siderurgia col minerale nazionale. E intanto non avverte che in un solo anno, nel 1917, furono estratte più di 900.000 tonnellate, e che per provvedere all’intero fabbisogno nazionale, in anni di pace, sarebbe necessaria l’estrazione di almeno 2 milioni di tonnellate, per cui le riserve accertate verrebbero totalmente esaurite in un solo decennio. Per un industria naturale ci pare davvero una bella alternativa! O distruggere in 10 anni tutto quel po’ di ferro che esiste ancora in Italia e che potrebbe essere prezioso in un momento di crisi totale degli scambi, oppure ridursi a non poter soddisfare che ad un quinto appena del fabbisogno attuale, destinato, ad aumentare di anno in anno! Dall’altra parte la mancanza di carbone non ha per il Bianchi una grande importanza perché si tratta, secondo lui, di un quantitativo assai modesto – 300.000 tonnellate appena – che può anche essere sensibilmente ridotto da un sempre più largo uso delle ligniti nazionali e della energia idroelettrica. Ma questi suoi argomenti: ottimistici gli sono stati demoliti, se pur ve n’era bisogno, dagli stessi difensori autorizzati della gran’de siderurgia, e per il loro buon motivo. Il fabbisogno di 300 mila tonnellate è soltanto - e calcolato anche con una parsimonia eccessiva quello degli alti forni; ma, messe assieme a questi tutte le ferriere e le acciaierie, il fabbisogno saliva, prima della guerra, come ha confessato l’on. Bignami, a quasi 2 milioni di tonnellate. Altro che quantità trascurabile! In un periodo in cui l’Italia importa appena 5 milioni di tonnellate di carbone di cui quasi tre milioni son destinati alle ferrovie, tutta la restante disponibilità dovrebbe essere riservata alla siderurgia! Né ha fondamento alcuno la fiducia che il Bianchi manifesta in ogni occasione per le ligniti nazionali, la cui produzione annua dopo I’armistizio è discesa, nonostante i prezzi insperatamente elevati, da 2,171.000 tonnellate ad 1.158000, costituite per la massima parte da lignite xiloide, e che assai difficilmente potrà avere un avvenire migliore, perché, come ci confessava l’amministratore delegato di una delle maggiori società lignifere, il giorno in cui la sterlina scendesse a meno di 50 lire, la maggior parte delle miniere italiane non potrebbero resistere alla concorrenza del carbone inglese e dovrebbero sospendere la produzione. Resta sempre - è vero -, la speranza dei forni elettrici, Ma anche in questo campo preferito l’on. Bianchi si è dimenticato del lato fondamentale della questione, che è quello economico, e gli oratori che lo hanno seguito han gettato molta acqua diaccia sugli entusiasmi suoi e dell’on. Beretta. Nel paese, obiettava il Bignami, dove l’energia idroelettrica si può avere più a buon mercato e dove se ne sono fatte le massime applicazioni all’industria siderurgica, in Isvezia, su 824.000 tonnellate di ghisa se ne producevano, nel 1917, solo 64,000 coi forni elettrici. In Italia la situazione è assai peggiore, perché tutta l’energia elettrica attualmente disponibile è insufficiente ai bisogni, ed i nuovi impianti hanno un costo che supera per lo meno 7 volte quello del tempo di pace. Per tutto ciò i siderurgici ed i deputati che meglio ne hanno espresso il pensiero hanno riconosciuto che la loro industria non può vivere senza il carbone d’importazione, ed anzi il loro rappresentante, più sincero, l’on. Olivetti, ha mosso aspri rimproveri al Governo, perché ha lasciato che si spegnessero gli alti forni, resistendo all’onestissima domanda dei grandi industriali del ferro, i quali pretendevano che il carbone, proveniente per via di mare, fosse loro ceduto, al prezzo a cui era computato in, conto-riparazioni di guerra il carbone tedesco proveniente per via di terra, e cioè a 170 lire la tonnellata il litantrace ed a 240 il coke metallurgico, in un periodo -in cui il carbone inglese era rispettivamente quotato in Italia a 700 e ad 850 lire la tonnellata! Quasicché le spese ed i danni della guerra le avessero sostenute soltanto i siderurgici e che ad essi, e non a tutti i contribuenti, dovesse essere riservato il vantaggio delle magrissime riparazioni! Nonostante queste confessioni, l’on. Bianchi crede ancora alla funzione di calmiere, di una siderurgia nazionale e vene anzi in questa funzione il motivo più forte per la conservazione di questa industria; ma temiamo che sarebbe alquanto imbarazzato a dimostrarci in quale maniera essa possa esercitare tale funzione, quando egli vuol ridurre la produzione a 200 mila quintali di ghisa sopra un fabbisogno di più di un milione; e, quando confessa che il costo di una tonnellata di ghisa in Italia si avvicina oggi alle 1500 lire, mentre esso varia in Francia dalle 500 alle 750 lire ed in Belgio dalle 600 alle 650 lire; e mentre il Bianchi stesso, nelle, proposte che egli avanza, dietro suggerimento di alcuni tecnici, per il miglioramento dei metodi di produzione, riesce appena a ridurre il costo a 1150 nel caso che si impieghi soltanto carbone, ed a 905 lire nel caso che si impieghi metà carbone e metà lignite. *** M a del resto tutte queste discussioni sulla naturalità e sull’utilità di una industria siderurgica in Italia avrebbero avuto una grande importanza pratica in un altro momento ma nei giorni in cui esse sono state fatte, la Camera aveva davanti a sé un compito ben diverso e più urgente: essa doveva indicare al Governo la via da seguire di fronte ad una domanda dei siderurgici, che pretendevano di essere salvati ancora una volta a spese di tutti i contribuenti e di tutti i consumatori italiani. Di fronte al fatto nuovo rivelato con tanta chiarezza dalle lettere di Attilio Cabiati e confermato dalle dichiarazioni dell’on. Giolitti e poi - con qualche attenuazione - dall’on. Meda era stretto dovere di tutti i legislatori, e dei deputati socialisti in prima linea, di prendere posizione. Tutti questi pratici, che irridono con tanta soddisfazione agli economisti cattedratici, avrebbero dovuto dichiararsi senz’altro convinti dal fatto di una industria, che, dopo trent’anni di esistenza, dopo favori e protezioni di ogni genere, dopo un primo salvataggio impetrato nel 1911, con largo concorso delle Banche di emissione, dopo i profitti altissimi ottenuti in quattro anni di guerra, non solo non si è consolidata, ma, al primo accenno di una crisi mondiale dei prezzi si presenta subito in istato fallimentare e dichiara che l’ottenuto finanziamento di 350 milioni di lire (questa almeno è la modestissima cifra confessata dall’on. Meda) non basterà a salvarla, se nello stesso tempo non le si assicurano nuove e grandi commesse di Stato a prezzi di ricatto, e forniture di carbone a sottocosto. Dopo un tale fatto, parlare di un’industria, che, risanata e purificata, può vivere senza protezione doganale, senza commesse di favo-