aspetti filosofici del gioco

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aspetti filosofici del gioco
Per una teoria filosofica del gioco
Oscar Meo
Università degli Studi di Genova
[email protected]
Il mio scopo è enucleare il significato
My aim is to enucleate the ontological and
ontologico e antropologico del gioco come
anthropological meaning of play as a
“simbolo cosmico”. Dall’analisi dei predicati
“cosmic symbol”. The analysis of the
fondamentali del gioco, inteso come play e/o
fundamental predicates of play and/or game
come game, risulta che esso è un atto libero,
reveals that they are free acts, dynamical
una forma dinamica di comportamento priva
behaviour forms without external constraints
di costrizione e finalità esterne, la quale si
and aims, and that they widely use a
avvale ampiamente della logica metaforica e
metaphoric logic and have an “as if”
del carattere “come se”. Ciò significa che,
character. That means that, while they are
rappresentando la realtà, i giocatori si
representing reality, the players exchange
scambiano informazioni intorno al mondo e
information about the world and at the same
al tempo stesso comunicano intorno al gioco.
time they communicate about the play or the
Dopo aver analizzato le analogie e le
game itself. After having analysed the
differenze fra play e game da un lato e
analogies and the differences between play
linguaggio (inteso come parole e come
and game on one side and speech and
langue), dall’altro, prendo in esame altri due
language on the other, I consider two other
predicati fondamentali: l’immersione in un
fundamental predicates: immersion in a
ambiente
e
different space-time setting and uncertainty.
l’incertezza. Da ultimo sottolineo i caratteri
At the end I point out common characters to
comuni ad arte e gioco.
art and play/game.
spazio-temporale
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diverso
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Ci sono due giochi, l’uno da gentleman e l’altro plebeo,
interessato, il gioco di ogni specie di marmaglia.
Qui tra i due si distingue rigorosamente e...
quanto ignobile è, in fondo,questa distinzione!
(F. Dostoevskij, Il giocatore)
1. Introduzione. Il gioco e il sacro
Fin dagli albori della speculazione filosofica, il tema del gioco ha ricevuto attenzione per la sua rilevanza
ontologica e metafisica, in quanto concerne cioè il rapporto dell’uomo con ciò che lo circonda, il suo ruolo
nel mondo e la sua destinazione. Secondo Eraclito, cui risale la più antica riflessione sul gioco a noi nota,
l’“aión [il tempo del mondo e della vita] è un fanciullo che gioca spostando le pedine; è il regno di un
fanciullo”1. Come suggerisce Eugen Fink, autore di uno dei più importanti lavori novecenteschi sulla filosofia
del gioco, Eraclito assume qui il gioco come metafora del corso del mondo e della caducità delle umane
cose: come simbolo cosmico o Weltsymbol (Fink 1960:62; Gargano 1991:9-10). A questa prima
caratterizzazione fa eco la posizione che Platone assume nelle Leggi: l’uomo è un giocattolo nelle mani
degli dei; ma poiché il suo valore proprio in questo va posto, egli deve vivere la propria vita “giocando i
giochi più belli”, celebrando sacrifici, cantando e danzando, in modo da rendersi favorevoli gli dei2. Platone
istituisce in tal modo un legame esplicito fra l’attività ludica e la sfera del sacro, che – come si vedrà più
avanti – trova riscontro in alcuni caratteri peculiari del gioco e che è stato sottolineato in epoca moderna da
moltissime indagini sia filosofiche sia antropologiche: da Nietzsche al già citato Fink, a Huizinga. Nietzsche
riunisce in una sola figura la sacralità del gioco e la giocosità del sacro: Zarathustra, che danza e insieme
gioca, unisce levità e gioia, facendo assumere alla propria azione il significato simbolico del “sì alla vita” e
del movimento del divenire, che si conclude nell’eterno ritorno; Dioniso, l’altra figura paradigmatica del
pensiero nietzscheano, che – in modo simile al divino fanciullo di Eraclito – gioca a dadi, unisce l’alea alla
necessità, il caso al destino3. Dal canto suo, riprendendo l’antica meditazione di Eraclito e Platone e
rileggendola alla luce dell’antimetafisica nietzscheana, Fink sostiene che a giocare davvero è il mondo: si
tratta di un gioco senza giocatori, che, come già per Heidegger4, è ciò che fonda senza essere fondato
(Heidegger 1997:168-169). L’uomo è “messo in gioco” in questo movimento ontologico. Ma quale è il senso
di questo gioco cosmico? Recuperando alcuni tratti della riflessione stoica, Fink risponde che l’uomo è
portato a librarsi nella leggerezza del gioco (e della danza) perché è consapevole dell’infondatezza,
dell’inutilità e dell’insensatezza dell’ordine cosmico: ogni ente (e dunque anche l’uomo) è un “giocattolo
cosmico” e i giocatori sono “essi stessi solo giocati”; “nulla è dietro” i fenomeni, se non il nulla stesso (Fink
1960:242). Per questa ragione il gioco è un Weltsymbol. Non stupisce dunque che Fink termini il suo lavoro
con una citazione da Also sprach Zarathustra nella quale si ritrova, rovesciato, lo stesso appello di Platone:
Se mai distesi sopra me cieli cheti e volai con le mie ali nel mio cielo: se giocando nuotai in profonde lontananze
di luce, e venne l’uccello-saggezza della mia libertà: – così però parla l’uccello-saggezza: “Ecco, non c’è alcun
sopra, alcun sotto! Slanciati in giro, in avanti, all’indietro, tu che sei lieve! Canta! non parlare più!” (Nietzsche
1968:282).
1
Eraclito, fr. B 52 Diels-Kranz: “Aiòn paîs esti paízon pesseýon; paidòs he basileíe”. Per l’interpretazione del problematico
termine aión, si veda Aichele (2000:20-22).
2
Platone, Leggi, 803 c-d. Cfr. pure 644 d-e.
3
Su questo punto cfr. l’interpretazione di Deleuze (1978:263-264).
4
L’analisi del frammento di Eraclito fornisce a Heidegger l’occasione per riproporre la domanda ontologica fondamentale di
Leibniz: “perché l’essere piuttosto che il niente?”. E la sua risposta, che riecheggia il celebre verso di Angelus Silesius die Rose ist
ohne Warum, è: il fanciullo gioca “perché gioca”; mondo e gioco non hanno un “perché”, l’essere non ha un fondamento. La
peculiare declinazione ontologica assunta in Heidegger dall’antico frammento è per altro evidente nell’“infedele” e tendenziosa
traduzione che in questo contesto egli dà di aión: Seinsgeschick. Sul concetto di gioco in Heidegger si veda l’ampia analisi di
Heidemann (1968:278-372); cfr. pure Viti Cavaliere (1983:9-44).
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Anziché l’elemento ontologico, che pure inevitabilmente emerge dalla sua analisi, Huizinga privilegia la
declinazione propriamente antropologica del legame fra gioco e sacro: con un richiamo indiretto a Platone,
egli sostiene che le stesse istituzioni religiose e civili, i riti, le forme di comportamento socializzato in
generale hanno alle proprie origini intenzioni e strutture ludiche (Huizinga 2002)5. Il gioco è dunque più
antico della cultura, e ciò spiega la sua onnipervadenza. È una tesi radicale, che non è possibile qui
discutere a fondo, ma che trova riscontro nell’associazione fra rito ed esercizi ludici che caratterizza il
tempo della festa. È assai significativo, sotto questo profilo, che il termine latino ludus designi sia lo svago
sia il rito sacro: i ludi publici sono un evento sia religioso sia socio-politico centrale nella vita dello stato
romano (Nuti 1998:16).
Quali sono i caratteri del gioco che consentono di istituire un legame con la sfera del sacro e con
l’ontologia? Per rispondere a questa domanda, occorre cercare di enucleare i predicati fondamentali (ma,
come si vedrà, non stricto sensu definienti) dell’attività ludica, cercando altresì di chiarire quegli aspetti che
ne fanno un oggetto di ricerca multidisciplinare.
2. Il gioco come atto libero e autotelico.
Fin dalle prime pagine di Homo ludens, Huizinga definisce il gioco come un “atto libero”: “Il gioco
imposto non è più gioco” (Huizinga 2002:11). Risuona qui un’eco della riflessione di Kant, della quale –
direttamente o indirettamente – molte indagini antropologiche hanno tenuto conto: “Un gioco coatto è
una contraddizione... Il gioco non deve diventare serio o finalizzato” (Kant 1923:338-339)6. È, scrive ancora
Kant, riprendendo l’antica distinzione fra otium e negotium, un’“occupazione” o Beschäftigung senza scopo
e in condizioni di riposo, e non un “negozio” o Geschäft (Kant 1923:360); è, in altri termini, un’attività che,
pur comportando un dispendio di energie fisiche e psichiche, pur comportando impegno e concentrazione
(pur possedendo cioè una propria “serietà”), si colloca nella sfera del rilassamento dalle fatiche quotidiane
e costituisce una parentesi di svago cui è collegata un’improduttività pratica, la mancanza di un interesse
materiale7.
Il carattere di atto, che potremmo considerare come il primo e più generale predicato dell’evento
ludico, ne sottolinea la dinamicità intrinseca, senza che sia necessario distinguere fra gioco strutturato sulla
base di regole e gioco non strutturato, improvvisato e privo di regole precostituite, anche se non
necessariamente fatto tutto di solo movimento. Tale distinzione, che corrisponde almeno parzialmente a
quella che intercorre in inglese fra game e play8, è invece importante dal punto di vista della psicologia
dello sviluppo e, in questo ambito, trova il proprio pendant nella contrapposizione piagetiana fra gioco di
fantasia o “simbolico” (non strutturato e frutto dell’ispirazione del momento) e gioco secondo regole
(Piaget 1972:204). Nel gioco simbolico si dà simulazione di una situazione reale o irreale, e ciò implica –
proprio come accade in un play – la presenza della coscienza rappresentazionale, cioè la consapevolezza
che i gesti, i comportamenti, gli oggetti ludici si rifanno a corrispondenti eventi e oggetti reali o fantastici
(Piaget 1972:160)9. La rappresentazione viene definita “simbolica” nella misura in cui il modello
paradigmatico del comportamento ludico è in absentia e per la sua realizzazione è necessario l’intervento
attivo e costruttivo dell’individuo. Vi è da aggiungere che tutti gli studiosi concordano sul fatto che i
bambini prendono molto sul serio i loro giochi, tanto che non tollerano distrazioni dalla loro occupazione e
che il gioco collettivo diventa punto di discriminazione fra il gruppo degli amici e quello dei non amici: il
bambino che viene espulso dal gioco è il pendant dell’emarginato sociale nel mondo degli adulti.
5
Il legame fra la tesi fondamentale di Huizinga e il discorso di Platone nelle Leggi è sottolineato da Bataille (2000:330-331).
Cfr. pure Kant (1923: 266-267). Sul concetto di gioco in Kant, soprattutto nei suoi rapporti con la Kritik der ästhetischen
Urteilskraft, si vedano Trebels (1967), Heidemann (1968:125-216), Aichele (2000:77-108), Meo (2000:18-26) e Wachser (2006).
7
Secondo Kant, anche quando è presente (come nel “gioco di fortuna”), l’interesse per l’utile o per l’appagamento della propria
“vanità” (oggi diremmo: per l’accrescimento della propria autostima) è sopravanzato da quello per il gioco in quanto tale, per
l’alternarsi delle sorti, e dunque delle emozioni che si verifica durante il suo svolgimento. Cfr. Kant (1968.5:331-332; 1968.7: 232).
8
Sono molti gli studiosi che sottolineano, sia pure con diverse sfumature e diverso intento, la distinzione fra game e play. Cfr.
in particolare Schaffner (1996), che è la trascrizione di un convegno del 1955 cui parteciparono, per citare solo gli studiosi più noti,
G. Bateson, E.E. Erikson, M. Mead e R. Birdwhistell; Henriot (1983:29,90); Eco (2002:XVIII-XXI).
9
Va comunque rilevato che altri studiosi considerano i giochi rappresentazionali come games e questi ultimi come membri
della classe denominata play. Muovendo da questa prospettiva, F. Redl individua tre condizioni che fanno sì che un game “si guasti”
o degeneri: il venir meno del divertimento; il venir meno della sicurezza; il venir meno del carattere “come se” (Schaffner 1996:142143)
6
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Analizzando il problema, già Freud ne traeva l’interessantissima conclusione secondo cui il contrario del
gioco non è il serio, ma il reale (Freud 1941.7:214)10.
L’idea di libertà, ossia il secondo predicato fondamentale del gioco, evidenzia non solo che esso, sia
come play sia come game, permette l’estrinsecazione della personalità degli individui che lo praticano e il
loro svincolarsi dalle faccende serie della vita per immergersi in una parentesi di serenità festosa e di otium,
per entrare, come suona il titolo di un altro lavoro di Eugen Fink, in un’“oasi della gioia” (Fink 1987), ma
anche che libera è da parte dei giocatori l’accettazione delle regole che governano il game. Nel gioco non
vige cioè un imperativo categorico (il kantiano “Tu devi”), ma semmai un imperativo ipotetico: “se vuoi
partecipare al divertimento, devi disporti ad accettare determinate condizioni dell’azione”.
Dal canto suo, l’idea dell’assenza di finalità, che costituisce il terzo predicato fondamentale del gioco,
esclude che l’attività ludica possa essere intesa come mezzo per raggiungere uno scopo altro rispetto a essa
e mette per contro in evidenza il fatto che la sua essenza consiste nell’essere chiusa in se stessa e
autosufficiente. A essere assente è pertanto non la finalità in generale, ma quella esterna: il gioco è
disinteressato, autoregolativo e autotelico11. La soddisfazione che si prova nel comportamento ludico è
dunque paragonabile a quella che Kant considerava propria dell’atteggiamento estetico, il cui unico fine –
giusta l’eautonomia da lui attribuita alla reflektierende Urteilskraft – è l’autoprocrastinarsi nel tempo. Al di
là dell’accertamento delle sue premesse filosofiche, la posizione assunta da Piaget su questo punto
teoreticamente importantissimo merita particolare attenzione. Proprio muovendo dal concetto di
autofinalità, e riprendendo altresì la distinzione freudiana fra Lustprinzip e Realitätsprinzip, egli critica la
tesi secondo cui il gioco sarebbe un’attività radicalmente diversa dalle altre: il gioco non è autotelico perché
puramente disinteressato e mirante al piacere, ma perché l’interesse è centrato sul soggetto stesso e non
sulla presa sulla realtà; non si ha la subordinazione degli schemi soggettivi alla realtà, come nelle azioni
eteroteliche, ma l’inglobamento della realtà entro i propri schemi (Piaget 1972:213-219).
La definizione del gioco come atto libero e autofinalistico lascia però in sospeso molte questioni di
carattere strutturale. Come si sa, il termine “gioco” è polisemico. Sotto la stessa denominazione sono
compresi, oltre alle già menzionate attività governate o meno da regole, occupazioni molto diverse fra loro:
dagli ormai celeberrimi “giochi linguistici” di Wittgenstein, che sono inclusi nel più ampio insieme dei giochi
comunicativi, ai giochi sociali, ecc. Come molte altre forme di gioco, anche queste presuppongono una
certa abilità di esecuzione e dunque un addestramento, un apprendimento. Qualcuno potrebbe pensare
che, al contrario dei giochi strutturati, quelli non strutturati e improvvisati possano prescinderne. In realtà,
però, quando il bambino si esercita in un gioco totalmente libero, per esempio facendo rimbalzare una
palla e cercando di non perderne il controllo, sta mettendo alla prova la propria abilità, si sta anche
allenando a emergere grazie a essa nella comunità dei pari. Da questo punto di vista, ogni gioco è un’arte,
ossia – giusto l’etimo del termine – un poter fare che poggia su un saper fare.
3. Il giocattolo
All’ambiguità del concetto di gioco contribuisce anche il fatto che esso può realizzarsi sia mediante sia
senza l’utilizzo di oggetti. Un oggetto tipicamente atto al realizzarsi del gioco è il cosiddetto “giocattolo”. Si
è tentato in vari modi di distinguere adeguatamente il gioco dal giocattolo. Si è proposto per esempio di
differenziarli sulla base di tre criteri (Caprettini 1997:214-215). Il primo, quantitativo, si fonda sul numero
degli attori coinvolti: se qualcuno invita un altro a usare lo stesso oggetto con il quale sta giocando, il
giocattolo si trasforma in gioco, proprio in virtù della partecipazione di più individui. Questa soluzione, che
poggia sull’interpretazione del termine “gioco” nel senso molto ristretto di strumento per giocare e non nel
10
Sul carattere di serietà proprio del gioco insiste anche Huizinga, in perfetta coerenza con il presupposto iniziale del suo
lavoro: il carattere ludico del sacro e sacrale del gioco (Bataille 2000:337).
11
Il requisito dell’autofinalità è asserito direttamente o indirettamente da tutti gli studiosi (Jünger 1953:45 e 47; R. Birdwhistell
e J.B. Richmond in Schaffner 1996:102, ove si parla di autostimolazione da parte del bambino, e 150; Fink 1960:239; Fink 1987:33;
Gadamer 1975:103; Gadamer 1977:29-31; Caillois 2004:195; Henriot 1983:36). Coerentemente con l’impostazione del suo lavoro,
Huizinga (2002:55) ripropone la tesi dell’autofinalità all’interno di una definizione generale di gioco tanto ampia, da includere anche
ciò che solo per analogia possiamo chiamare tale: non solo l’attività artistica, ma anche (kantianamente) la fruizione dell’oggetto
artistico e – aggiungerei – anche alcuni tipi di cerimonia pubblica. A mostrare tale estensione provvedono molti degli esempi
addotti nel testo.
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senso originario di attività, presta il fianco a una facile obiezione: da un lato, non solo l’adulto, ma anche il
bambino gioca da solo utilizzando vari strumenti che non sono giocattoli, ma giochi, dai solitaires con le
carte ai videogames12; dall’altro, il giocattolo non muta costituzione ontologica, anche quando a utilizzarlo
sono più soggetti. Una seconda distinzione poggia sulla concezione del giocattolo come merce: esso si può
acquistare, ha un prezzo, mentre il gioco no. La verità dell’affermazione è ottenuta al prezzo di un evidente
slittamento semantico: questa volta si considera il gioco come l’azione e il giocattolo come qualsiasi
strumento fabbricato per giocare. Occorre però tenere presente che in alcuni giochi (come per esempio
quelli “da tavolo”) si utilizzano strumenti (il contenuto della confezione) che hanno un prezzo e sono merce,
ma non sono giocattoli. Un terzo criterio poggia sulla differenza fra le regole: quelle per il gioco sono norme
di azione; quelle per il giocattolo sono istruzioni per l’uso. Ma tale distinzione presuppone, e non
determina, la differenza fra gioco e giocattolo, giacché si fonda sulla preliminare differenza fra l’attività
come fine e l’oggetto come mezzo. Di fronte alle manchevolezze dei criteri prospettati, sembra plausibile
definire il giocattolo sulla base delle seguenti proprietà peculiari: 1) si tratta di un oggetto (o di un set di
oggetti) appositamente fabbricato per essere utilizzato nel corso del gioco infantile; 2) costituisce la
riproduzione di enti realmente esistenti; 3) può essere liberamente manipolato dal bambino per costruire
simulazioni di eventi. A questo proposito, già Baudelaire sosteneva che proprio perché appaga
l’immaginazione, il giocattolo “è la prima iniziazione del bambino all’arte” o la prima realizzazione dell’arte
in lui (Baudelaire 2002:1372)13.
Come dicevo poc’anzi, lo strumento del gioco infantile non è necessariamente un giocattolo, ma può
essere un oggetto di recupero o avere una destinazione originaria diversa : per esempio la sedia e il
bastone che la fantasia ludica del bambino trasforma rispettivamente in sedile di guida di un immaginario
mezzo di trasporto e in arma. Il meccanismo “artistico” su cui, nel caso di un oggetto che funge da sostituto
simbolico di un altro oggetto, si fonda lo scambio fra la realtà e la simulazione è noto: si tratta della
presenza di predicati in comune fra i due oggetti. Soccorre qui la tesi di Wittgenstein secondo cui la
trasformazione è consentita da un “vedere come” fondato sull’analogia. C’è un legame sottile fra la
capacità del bambino di servirsi di un surrogato, di usare un oggetto (in modo talvolta imprevisto) per scopi
diversi da quelli cui è destinato, e la capacità dell’artista di rappresentare un oggetto in forma di un altro
oggetto; così come vi è un legame sottile fra la capacità del bambino e quella di certe correnti artistiche
contemporanee (dall’Arte povera in poi) di riabilitare un oggetto ormai inservibile. Là, dove l’adulto non
vede altro che una sedia, il bambino vede una parte di un immaginario mezzo di trasporto perché non
applica la logica delle classi e utilizza largamente la logica metaforica, quella che si manifesta appunto nel
“vedere come” di Wittgenstein (Meo 2008:72). Per fare un solo esempio tratto dalla sfera dell’arte, vi è
qualcosa di molto vicino al pensiero infantile in un’opera in cui Picasso ha incorporato un oggetto ludico.
Nella scultura in bronzo intitolata “Babbuino con il suo piccolo”, la testa dell’animale non è stata modellata,
ma è un objet trouvée: un’automobilina di latta poggiante su un’altra in posizione rovesciata (Fig. 1)14.
L’operazione compiuta da Picasso consiste nello sfruttamento dell’aspetto abituale del cofano e del
parabrezza di un’automobile, mettendo in rilievo quelle caratteristiche che li fanno assomigliare a un volto
e in forza delle quali nel linguaggio quotidiano parliamo, per catacresi, di “muso” della macchina. Picasso ha
rivitalizzato questa metafora morta mediante una trasformazione ontologica: la parte anteriore
dell’automobile non assomiglia più a un muso, ma è letteralmente un muso. E con ciò incontriamo un altro
predicato fondamentale del gioco, su cui dovrò ritornare: il suo carattere metaforico, il suo non solo essere
il prodotto di un “vedere come”, ma anche di un “fare come”.
12
Anche di questa tesi si ha un riscontro in Kant: “Da solo, l’uomo non gioca. Non cercherebbe di tirare acconciamente le palle
da biliardo né abbatterebbe i birilli, e nemmeno giocherebbe a bilboquet o a solitaire. Quando fa tutto questo per sé, lo fa solo per
mostrare più tardi agli altri la sua abilità. Per sé, egli è serio... Un gioco senza spettatore umano sarebbe preso per pazzia” (Kant
1923:431).
13
La tesi compare pure in Freud: il bambino che gioca costruisce un mondo di fantasia proprio come l’artista (Freud
1941.7:214).
14
L’opera è del 1951 e si trova al MoMA. Altri oggetti utilizzati furono: i manici di due tazze per le orecchie e un grosso boccale
con i manici per il corpo e le spalle.
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Fig. 1 – Pablo Picasso, “Babbuino con il suo piccolo”
Vi sono però anche casi in cui il surrogato non ha alcuna analogia strutturale o funzionale con l’oggetto
reale. Celebre è l’analisi freudiana dell’“innocente” gioco di un bambino (suo nipote), che si “divertiva” a
fare sparire e riapparire un rocchetto di filo accompagnando queste azioni con i due suoni “o” e “a”, da
Freud interpretati rispettivamente come corrispondenti agli avverbi tedeschi fort e da (Freud 1941.13:1314)15. Secondo Freud, il bambino dominava in tal modo l’angoscia connessa con l’allontanamento della
madre e reprimeva l’impulso di vendicarsi dell’affronto subito: l’oggetto diventava in tal modo il sostituto
simbolico della madre16. Sotteso all’analisi di Freud ritroviamo però anche l’antico tema filosofico del
rapporto fra gioco e senso dell’essere: lungi dal costituire un gioco “innocente”, ossia una mera
sospensione dell’attenzione nei confronti della realtà, l’occupazione del bambino ne testimonia l’impegno
ontologico. Cosa significa che il bambino, attuando un forte investimento psichico, espelle da sé l’oggetto,
se non che lo annienta, lo riduce a non-essere? Il gioco del fort ha allora un fondo nichilistico: è il gioco
dell’assenza, del niente. È il modo in cui il bambino si pone la domanda ontologica fondamentale: perché
l’essere piuttosto che il niente? Dire fort significa dire di no all’essere. La sua attività ludica consiste
primariamente nel dare voce al niente, nell’impossibilità di concepire il senso dell’essere di ciò che è. Non
solo la madre, dunque, ma il mondo stesso è considerato indegno di essere. Detto altrimenti, il gioco con il
rocchetto si trasforma in Weltsymbol, in espressione del rapporto fra il soggetto e il mondo: Freud sta
ponendo al suo lettore lo stesso problema che era già stato di Eraclito e di Platone, a testimonianza del
fatto che la lettura in chiave ontologica del gioco e del giocattolo è una costante della meditazione intorno
alla ludicità.
Tuttavia, come già accennato, il gioco del rocchetto ha anche un secondo tempo. Dopo aver compiuto la
propria distruzione del mondo, dopo aver risposto con un atto nichilistico al vuoto lasciato dalla madre, il
bambino passava al momento ludico del da, dal quale – ci assicura Freud – egli traeva il piacere maggiore,
pur trattando in alcuni casi la fase del fort come gioco autonomo. Emettendo il suono “a”, egli richiama con
forza a sé l’essere, riempie il vuoto. Questo nietzscheano dire di sì all’essere (alla vita) è un compenso al
“doppio nulla” in cui il bambino si trova: il nulla della madre scomparsa e il nulla della madre non ancora
presente, il nulla della sofferenza e dell’angoscia ontologica. E anche se, come si sa, i bambini crescono, il
passaggio all’età adulta non fa affatto diminuire, dal punto di vista di Freud, la spinta alla produzione di
mondi ludici, giacché rimane intatto nell’adulto il senso della mancanza e, di conseguenza, il desiderio di
provare un piacere sostitutivo. Di qui la possibilità per la psicoanalisi di applicare all’arte le considerazioni
valide per il gioco infantile e per il sogno: l’artista è colui che – conservando piena coscienza della realtà –
“fantastica” anziché giocare, costruisce oggetti e mondi tali, da consentirgli di soddisfare in modo illusorio il
desiderio. L’uomo felice, afferma Freud con sottile ironia, non fantastica mai; solo l’insoddisfatto lo fa
(Freud 1941.7:216). Ma poiché tutti gli uomini, sia l’artista sia l’individuo adulto comune, provano il bisogno
di rifugiarsi in mondi paralleli a quello reale, mediante il sogno o rivivendo l’esperienza infantile del gioco,
se ne inferisce che l’uomo non è un animale felice.
15
Per un’analisi più ampia di questo gioco e del suo significato nell’ambito della teoria freudiana delle pulsioni di morte, cfr.
Meo (1989:38-41).
16
Possiamo constatare qui quella stessa distinzione fra un sistema che ingloba in sé la realtà e un sistema che discrimina fra
desiderio del soggetto e indipendenza dell’oggetto messa in luce da Piaget nel corso della sua analisi dell’attività ludica infantile.
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L’analisi freudiana del gioco del fort - da mostra che il bambino nutre una forma di ambivalenza affettiva
nei confronti del giocattolo: da un lato, lo cerca, lo desidera, ne ha cura; dall’altro, lo respinge, lo maltratta.
Di tale condizione psicologica è sintomo il fatto che talvolta il gioco del bambino consiste non nell’usare il
giocattolo, ma nel distruggerlo, e che questa azione ha su di lui un forte potere di fascinazione (Grätzel
2004:99)17. Da un punto di vista filosofico, però, appare assai suggestiva la spiegazione che Baudelaire
fornisce del piacere ricavato dal bambino nel ridurre a rottame il giocattolo. Più che del frutto di una mera
pulsione nichilista, si tratterebbe di una “prima tendenza metafisica”: il bambino vuole “vedere l’anima” del
giocattolo, ossia mettere a nudo ciò che lo fa essere ciò che esso è (Baudelaire 2002:1375-1376). La
distruzione dell’oggetto sarebbe dunque espressione di un interesse ontologico che trova il suo correlato
psicologico nella curiosità per la scoperta della sua struttura interna. Anche in questo caso, però, poiché il
desiderio rimane inappagato, il risultato è una condizione di “tristezza”, versione per così dire più lieve e
transitoria della radicale infelicità asserita dal pessimista Freud.
Occorre però considerare che lo strumento con il quale ci si diverte non ha necessariamente una
consistenza materiale, non è necessariamente una cosa. Si può, per esempio, giocare con il linguaggio o con
altri sistemi semiotici, con i ruoli sociali (anche senza travestimento). I “giocattoli” sono allora,
rispettivamente, il codice stesso e la vita sociale stessa. Anche in questi casi si può parlare di sostituzione
simbolica: dato un certo oggetto (evento, mondo) A, vi sono regole di trasformazione le quali consentono la
costruzione di un oggetto (evento, mondo) A’, tale che la relazione fra A e A’ soddisfi le esigenze di
comprensione, di interpretazione, di gusto, di divertimento proprie di un determinato contesto culturale.
Trascurando le implicazioni sul piano della teoria della convenzione, il fatto cioè che i comportamenti socioculturali (compreso il gioco) costituiscono una “forma simbolica” valida in un determinato contesto e
soggetta a modifiche anche profonde nel corso del tempo, vale la pena di approfondire le implicazioni che
quanto ho detto ha per quanto concerne il gioco di tipo rappresentazionale, sia esso il gioco simbolico
infantile, quello dei ruoli, quello di simulazione. Se, per esempio, si sta giocando a Monopoli, che simula
una competizione per la supremazia economica fra proprietari terrieri che aspirano a diventare
immobiliaristi, il denaro di cui ci si serve nelle transazioni d’affari è una rappresentazione del denaro reale e
ha corso legale entro i confini spazio-temporali del gioco, in modo da soddisfare perfettamente le esigenze
dei giocatori. Essi si sottopongono cioè a una norma che mantiene un riferimento al mondo reale, ma è al
tempo stesso autonoma rispetto a esso, così che il gioco si pone come una forma-rappresentazione, ossia
come modello formale di simulazione che funge da veicolo del significato mediante il ricorso a specifiche
convenzioni. Scambiandosi simboli, i giocatori non si stanno semplicemente distraendo dalle occupazioni
serie della vita, ma si scambiano pure informazioni intorno al mondo, ponendosi su un piano diverso
rispetto a esso. Ne consegue che un gioco non è mai “solo” un gioco, ma si pone su un livello
metacomunicativo rispetto alla realtà oggettiva, da cui pure dipende per la sua esistenza e cui si riferisce
per temi, per struttura, per metodo. È una delle ragioni in forza delle quali il gioco è, come già sostenevano
Platone e Aristotele, un allenamento alla serietà18: è parte integrante del processo di formazione; è –
potremmo dire con Wittgenstein – una Lebensform, un insieme di azioni indispensabile allo strutturarsi del
comportamento razionale e di quello comunicativo. Una testimonianza di questo valore ci viene
nuovamente dal latino ludus, che designa non solo il gioco (puro o rituale), ma anche un’attività seria: la
scuola intesa come palestra. L’apprendimento scolastico a livello elementare è visto cioè dai Romani come
impegno metodico, come esercizio le cui regole si apprendono solo con l’applicazione costante19.
4. Il “come se” del gioco e le regole metacomunicative.
Se confrontata con la realtà, la maggior parte delle azioni ludiche appare come una forma di
rappresentazione, ossia di trasposizione di eventi, vicende reali più o meno complesse sul piano della fictio.
Sorge subito un problema ontologico: quale è il livello di realtà sul quale si colloca, per es. nei giochi di
17
Rifacendosi direttamente a Winnicott e indirettamente a Freud, Grätzel sottolinea pure il ruolo che il giocattolo assume come
oggetto sostitutivo di transizione.
18
Utili a questo proposito i rilievi del teologo Rahner (1969:36) e di Caillois (2004:12).
19
La polisemia di ludus non può sfuggire a chi sia memore delle vicende del Magister Ludi Josef Knecht nel romanzo di Hesse
Das Glasperlenspiel.
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ruolo e in taluni giochi di società, un evento che rappresenta un altro evento (nel duplice senso che ne è la
riproduzione controllata e che ne fa le veci), rispettando le regole dell’illusionismo fino alla simulazione
quasi perfetta? E, dal punto di vista comunicativo, come appare agli altri, agli estranei al gioco, tale
simulazione? Se lo spettatore esterno non ha assistito alle fasi preparatorie o, in generale, non è al corrente
del carattere ludico dell’evento cui assiste, potrebbe ingannarsi sulla funzione pragmatica di ciò che gli si
presenta, fino a credere nella sua realtà. In tal caso, messaggio e metamessaggio si pongono sullo stesso
piano, così che non si è più in grado di stabilire cosa funge da cornice e cosa da evento: è un esempio da
manuale dell’uso dei media il famoso annuncio di un’invasione marziana fatto alla radio da Orson Welles e
la successiva reazione di panico del pubblico. Qualcosa del genere può avvenire nel caso di una lotta
simulata, che può essere scambiata dagli astanti per una lotta reale. Casi come questo si verificano o
perché manca l’avvertenza, una sorta di etichetta metacomunicativa, “questo è un gioco”, oppure perché
gli astanti non sono stati in grado di interpretarla. Un aspetto particolarmente interessante (e forse anche
inquietante) della questione è che un fraintendimento siffatto può aver luogo anche fra i partecipanti al
gioco: per un impercettibile (e magari involontario) superamento del limite ludico, una lotta simulata può
trasformarsi in lotta reale. In questi casi si dice che il gioco “degenera”, cioè si trasforma in qualcos’altro,
negativamente connotato sul piano etico e comunicativo.
La degenerazione può però colpire anche un pacifico gioco di società. Si pensi al ruolo devastante
esercitato nella comunità ludica dal cosiddetto “guastafeste”, ossia da colui che – deliberatamente o meno
– prende a tal punto il gioco per quello che è, da disturbare in modo esiziale l’andamento di un evento
ludico. A differenza del baro, il quale agisce nella presupposizione che gli altri rispettino le regole e dunque
prende il gioco molto sul serio, il guastafeste trae dall’etichetta metacomunicativa “questo è un gioco” una
conseguenza logica estrema: se questo è un gioco, ciascuno è libero di fare quel che gli pare, violando a
proprio arbitrio le regole, scombinando il gioco stesso, non prendendolo sul serio. Per quanto paradossale
possa sembrare, il baro ha bisogno delle regole, così come il delinquente in generale ha bisogno della legge:
se tutti si comportassero allo stesso modo, non vi sarebbe più alcuna società e la vita diventerebbe
impossibile anche a lui. Per contro, il guastafeste mina alle fondamenta l’edificio ludico, perché non sta alle
regole in modo palese, indipendentemente dalle motivazioni che lo inducono ad agire (l’assurdità delle
regole stesse, la noia, una particolare costituzione psicologica, ecc.)20.
Dal punto di vista comunicativo, l’intervento del guastafeste costituisce però un caso assai diverso da
quello della degenerazione del gioco: il guastafeste ignora la premessa metacomunicativa (per lo più
implicita) che occorre prendere sul serio il fatto che si tratta di un gioco (che occorre, per così dire, “giocare
seriamente”); per contro il gioco degenera quando vengono a mancare quegli specifici segnali (verbali e/o
paraverbali) che fungono da denotatori metacomunicativi per l’evento in corso. Quest’ultima situazione è
stata studiata approfonditamente da Gregory Bateson, il quale – dall’osservazione del comportamento
ludico degli animali – traeva la conclusione, di portata generale, che nel gioco si ha una violazione della
teoria russelliana dei tipi logici (Bateson 1976:219-220). L’enunciato metacomunicativo “questo è un gioco”
è la formulazione brachilogica e colloquiale di una metaregola logica: “Le azioni che in questo momento
stiamo compiendo non denotano ciò che sarebbe denotato da quelle azioni che queste azioni denotano”.
Esemplificando: il mordicchiare ludico di due cuccioli denota il morso vero e proprio, ma non denota ciò che
tale morso denoterebbe, cioè un vero combattimento. Come, secondo Freud, accade nella peculiare logica
dell’inconscio, così nella sfera subantropica è però ignota la negazione. Per negare la serietà della
situazione, anziché inviare un messaggio metacomunicativo, l’animale è costretto a compiere l’azione che
compirebbe in una situazione reale, come mostra l’esempio del combattimento ludico fra canidi: per far
arrestare la furia del vincitore, lo sconfitto dichiara la propria resa offrendogli spontaneamente la gola e,
contrariamente a quanto avverrebbe in un combattimento reale, l’effetto del suo atto è l’immediata
cessazione dell’attacco.
L’analisi di Bateson conferma quanto è già emerso: le azioni ludiche sono surrogati, rappresentazioni
dotate del carattere “come se” e sono contrassegnate, dal punto di vista della logica della comunicazione,
da specifici messaggi21. È questione di interesse etologico approfondire le modalità del riconoscimento, da
20
Sulla differenza fra baro e guastafeste si vedano Huizinga (2002:15-16) e Caillois (2004:23). La mia interpretazione diverge
però dalla loro in alcuni punti essenziali.
21
Sul concetto di “come se” nel gioco, che affonda notoriamente le sue origini nell’analisi kantiana del rapporto fra natura e
arte, si vedano: Piaget (1972:136, 219-221), con esplicito riferimento al concetto di gioco come pre-esercizio di Karl Groos, cui
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parte dell’animal ludens, dei segnali metacomunicativi. Importante è sottolineare piuttosto che l’homo
ludens ricorre preferibilmente a segni linguistici (la stipulazione preliminare delle regole e l’accertamento
della loro comprensione, per es.) e solo subordinatamente a un sistema semiotico diverso dal linguaggio e
più facilmente equivocabile. Il gioco di simulazione comporta in sostanza due registri: quello simbolico e
quello letterale. Quando, per ragioni che non occorre qui indagare, prevale il registro letterale, viene a
cadere l’opzione rappresentazionale legata alla lettura simbolica dell’evento; cessa cioè il suo carattere
“come se” e crolla la stipulazione metaludica originaria, l’insieme di regole che definiscono non solo la
cornice del gioco (ivi compreso il suo contesto spazio-temporale), ma il gioco stesso. Proprio questo
carattere “come se”, ossia l’aspetto finzionale, il porsi come evento analogo, ma non identico a quelli reali
(che, inter alia, come già vedeva Kant, avvicina il gioco all’arte), costituisce il quarto predicato
fondamentale del gioco.
5. Gioco e linguaggio
Le considerazioni sul gioco dal punto di vista della teoria della comunicazione ci introducono a un altro
argomento, che ha appassionato i filosofi del linguaggio nella seconda metà del Novecento: quello delle
differenze, ma soprattutto delle analogie, fra linguaggio e gioco, sulle quali insistevano pure Saussure e
Wittgenstein, in riferimento al gioco degli scacchi22. Come ogni gioco, il linguaggio è retto da regole
convenzionali e, come accade in particolare nel gioco degli scacchi, si realizza nel tempo una serie di mosse
strategiche che cambiano la disposizione dei “pezzi”, la loro relazione reciproca, il loro stesso significato. Vi
è tuttavia da dire che, accertate le analogie, non si possono ignorare le profonde differenze. Il gioco ha un
inizio e una fine, determinate dalla libera scelta dei giocatori oppure, per quanto concerne l’esito, dalle
regole stesse del gioco. Per contro, non solo la comunicazione linguistica (o meglio: la comunicazione in
generale) ha una durata indeterminata, ma neppure posso scegliere se entrarvi o meno, perché vi sono
immerso fin dal momento in cui sono entrato nel mondo. Criticando la concezione duale del linguaggio di
Agostino, nelle Philosophische Untersuchungen (in part. I.32) Wittgenstein nega che il bambino impari a
designare correttamente gli oggetti grazie alla loro ostensione. In questo modo, egli obietta, si descrive
l’apprendimento del linguaggio come se il bambino giungesse in una terra straniera e non ne comprendesse
la lingua. Parlare significa usare oggetti (le parole) secondo certe regole, come negli scacchi (o nei giochi da
tavolo in generale). Una parola, un concetto, un significato sono tali soltanto all’interno di un sistema retto
da regole. In qualche modo il linguaggio è sempre istruzionale; mi dice cioè come devo collegare i segni se
voglio comprendere il messaggio. Ma per fare ciò, devo già essere da sempre immerso nel sistema
linguistico. Il gioco è costruito solo parzialmente dai giocatori, giacché le regole precedono la sua
esecuzione. In questo modo, Wittgenstein fa assumere un carattere per così dire “imperativo” non solo al
linguaggio, ma anche al gioco, intesi entrambi come sistemi strutturati: per collegare i nomi ed estrarne il
significato, così come per comprendere il significato dei singoli pezzi e le relazioni che li legano, occorre
preliminarmente il possesso del sistema. Vi è in quanto dice Wittgenstein un’importante verità: si può
conoscere il gioco soltanto giocandolo; per dirla con Hegel, non si può apprendere il metodo prima di
esercitarlo, così come non si può imparare a nuotare senza gettarsi nell’acqua. La comprensione piena del
significato delle istruzioni di un gioco non la si ha nel momento in cui le si legge, ma nel momento in cui le si
applica. Le parole hanno un nome e una funzione solo nel linguaggio, così come i pezzi degli scacchi hanno
nome e funzione solo nel gioco degli scacchi. Il che è quanto dire, estendendo il campo di applicazione di
una celebre tesi di Frege, che solo nel contesto d’uso un oggetto ha significato.
Tuttavia, lo ripeto, non è possibile scegliere se entrare o meno nel linguaggio, così come non è possibile
scegliere se uscirne o meno, perché al rifiuto di giocare esteriormente il gioco linguistico si contrappone
l’impossibilità di non giocarlo interiormente. Né posso scegliere i miei compagni nel gioco linguistico,
proprio perché sono già da sempre immerso in esso insieme a tutti gli altri (o, quanto meno, insieme agli
altri parlanti una determinata lingua). Tutt’al più ho la facoltà di cambiare sistema linguistico, di passare
all’uso di un’altra lingua. Come sosteneva già Humboldt, non mi è consentito pormi da una prospettiva
dedica una certa attenzione anche Caillois; l’intervento di S. Levy in Schaffner (1996:145); Fink (1960:75,77-78); Caillois (2004:24);
Grätzel (2004:29); Henriot (1983:93).
22
Sul rapporto fra linguaggio e gioco cfr. Meo (1991:99-106).
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esterna al linguaggio (Humboldt 1963:434)23. Per quanto concerne il gioco vero e proprio, invece, le cose
non stanno sempre così. Può certamente accadere che non possa scegliere i miei compagni, come accade
durante i tornei, nelle partite on line, fra i frequentatori dello stesso casinò, ecc. Ma si verifica molto spesso
anche l’opposto: posso scegliere liberamente con chi passare un certo lasso di tempo a giocare, così come
posso scegliere liberamente di partecipare al gioco da attore oppure da spettatore, sulla base di
motivazioni psicologiche, fisiche, culturali, sociali, economiche molto varie: perché non mi va di giocare,
perché non mi piacciono i giocatori, perché non ho la costituzione fisica adatta, perché non mi sento
sufficientemente padrone del meccanismo ludico, perché non ho sufficiente disponibilità di denaro (nel
caso del gioco d’azzardo), ecc. Mentre dunque è possibile all’uomo non giocare sempre, non gli è possibile
non parlare sempre, sia pure nei modi specificamente diversi della comunicazione intersoggettiva e del
monologo interiore24. Accettare le regole di un gioco, essere disposti a sottoporsi alla loro coazione, ha
come conseguenza una forma di illibertà, ma costituisce un atto di libera scelta; la libera scelta fra
comunicare e sottrarsi alla comunicazione si colloca invece pur sempre nel cerchio chiuso del linguaggio e si
staglia dunque su uno sfondo di illibertà.
Per quanto concerne le analogie, in primo luogo, un gioco può morire esattamente come una lingua. In
secondo luogo, entrambi si evolvono nella loro struttura: le lingue nella morfologia, nel lessico, nella
sintassi; i giochi nelle regole e nella strumentazione. In terzo luogo, esistono in entrambi i casi varianti
locali: anche nei giochi (l’esempio più evidente è quello dei giochi di carte) si riscontrano dialetti, idioletti,
gerghi. Ogni comunità ludica può cioè adattare alle sue esigenze il gioco, variando le regole,
sopprimendone alcune e/o introducendone di nuove; e il succedersi delle modifiche può essere tale, da
condurre alla nascita di un nuovo sistema, che può affiancare o soppiantare quello originario, esattamente
come accade alle lingue. Come esistono famiglie linguistiche, esistono infine famiglie di giochi, originate da
un unico archetipo o dalla commistione di modelli diversi, siano essi già imparentati o meno.
6. Game e play
L’analogia fra il gioco e il linguaggio può servire anche per chiarire la già menzionata, e utilissima,
distinzione fra game e play. Nella misura in cui è usato per designare, più che il gioco vero e proprio,
l’insieme delle regole, che – in quanto tali – sono indipendenti dai giocatori e dalla loro azione, il termine
game si riferisce all’aspetto istituzionale, indipendente dai singoli atti che lo riempiono di contenuto, come
lo sono la langue in Saussure o l’érgon in Humboldt, ossia il deposito collettivo a disposizione dei singoli
parlanti, la lingua come fatto sociale, l’insieme delle convenzioni linguistiche così come risultano codificate
all’interno di una comunità in un determinato momento storico25. Sorge a questo un punto un problema:
possono esistere una langue che non si concretizza nei singoli atti di fonazione e un game che nessuno ha
mai giocato né mai giocherà? Si potrebbe cioè, in linea teorica, inventare a tavolino un gioco fissando le sue
regole, anche senza poi concretare questa invenzione aggiungendo i mezzi fisici necessari per giocarlo e poi
sperimentandolo? È stato detto che ogni gioco presuppone l’esistenza di un giocatore, almeno virtuale
(Henriot 1983:90). Non esiste cioè un gioco al quale nessuno abbia mai giocato né giocherà mai, così come
non esistono lingue che nessuno abbia mai parlato né parlerà mai. Un gioco, per essere tale, deve implicare
la possibilità di essere giocato. Le regole devono consentire la sua effettuazione: non devono essere
contraddittorie, non devono comportare una durata infinita né una degenerazione, ecc. Ma ciò non vieta
che il game rimanga virtuale, ossia che a giocarlo sia solo il suo inventore, allo stesso modo in cui una lingua
può essere l’invenzione idiosincratica di un singolo che trova la sua declinazione concreta soltanto in atto di
parole interno. Ciò detto, potrebbe accadere che un game si riveli sperimentalmente irrealizzabile, come
mostrano alcuni interessanti esempi26. Oppure, come è accaduto per quel versante della teoria
23
Secondo Humboldt, gli uomini si avvolgono nel linguaggio, ed esso traccia intorno a loro un cerchio, “dal quale è possibile
uscire soltanto in quanto ci si trasferisce in un altro cerchio”.
24
Sul “linguaggio interiore” (il lógos endiáthetos degli Stoici) contrapposto a quello “esteriore” (il lógos prophorikós) si veda in
particolare l’analisi di Vygotskij (1966:221).
25
Si tenga però conto che game (usato in inglese soprattutto come sostantivo) ha anche il significato di forma o modo di
divertirsi, con estensione anche alla sfera sessuale. Il suo campo semantico è comunque meno ampio dell’italiano “gioco”.
26
Cfr. la descrizione di un meccanismo ludico che si distrugge da sé perché risulta impossibile non violare le regole in Schaffner
(1996:154-155).
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(matematica) dei giochi che (consistendo lo scopo nell’ottimizzazione delle strategie sulla base della
matrice) postula sia un comportamento perfettamente razionale dei giocatori sia una sostanziale
predeterminazione delle azioni, possono venir meno quegli elementi che rendono il gioco attraente e
avvincente: la libertà di scelta e il caso27.
Mentre game designa dunque la forma di gioco dotata di regole, la langue ludica, play designa il gioco in
atto, la parole contrapposta alla langue o l’enérgeia contrapposta all’érgon; oppure, secondo un’altra utile
distinzione, il game è ciò cui si gioca, mentre il play è ciò che si gioca (Henriot 1983:29)28. Play è anche la
facoltà del gioco in senso molto astratto e generale. Si riferisce cioè a qualsiasi attività gratificante (non solo
per gli uomini, ma anche per gli animali), a ciò che dà una soddisfazione immediata. Si comprende perciò
facilmente che è il play a possedere il predicato dell’autofinalità: il suo télos consiste nel godimento che
esso procura. E ciò vale forse anche a giustificare l’uso del termine “gioco” in ambito artistico, e non
soltanto nelle correnti che asseriscono il carattere puramente libero, disinteressato e autotelico della
produzione e della fruizione artistica. Occorre però considerare che esistono forme d’arte strutturate come
un game, in cui vengono cioè stabilite regole d’azione che il destinatario è invitato a seguire per ottenere il
risultato voluto, ossia il conferimento di un significato all’opera. È il caso di molta arte interattiva, in cui il
destinatario è pilotato mediante istruzioni a esplorare l’ambiente (per esempio quello virtuale) alla ricerca
della combinazione più soddisfacente dal punto di vista estetico. Il game dà così origine a un play, che
consiste nel compiere multiformi esperienze di tipo anche sinestetico. La difficoltà che molti incontrano
nell’approccio a un’arte di questo genere consiste proprio nella cattiva comprensione delle regole di questo
gioco complesso e presenta molte somiglianze con la difficoltà che alcuni provano nel giocare determinati
giochi, le cui regole risultano loro incomprensibili, assurde, inutilmente complicate o, viceversa,
semplicemente infantili.
7. Il gioco come classe: il concetto di prototipo e le “somiglianze di famiglia”
Come si può facilmente constatare, la varietà dei giochi e degli atteggiamenti assunti dai giocatori è tale,
che non si può darne una definizione univoca. Gli stessi predicati fondamentali fin qui menzionati non
compaiono necessariamente tutti insieme: sono cioè disgiuntamente necessari, anche se congiuntamente
sufficienti. Così, mentre il carattere di “atto” è universale e necessario (giacché vale sia per il play sia per il
game), la libertà di entrare nel gioco e/o di uscirne non è sempre concessa dalle regole e dev’essere
pertanto stipulata come regola aggiuntiva. Se poi si considera l’autofinalità come predicato necessario,
diventa impossibile considerare come giochi una serie abbastanza ampia di attività che pure denominiamo
in quel modo, come il gioco d’azzardo o gli sport praticati da professionisti. Si tratta in quest’ultimo caso di
giochi competitivi inseriti in un complicato sistema di valori socio-culturali e retti da regole rigidamente
codificate. A venir meno sono la libera stipulazione della forma generale del gioco (contrariamente a
quanto accade nei giochi spontanei infantili) e/o dei ruoli (contrariamente a quanto accade anche nei giochi
strutturati degli adulti, come wargames, giochi di strategia in generale, ecc.), la libera aggregazione del
gruppo, la già citata possibilità di smettere di giocare ecc. Si potrebbe suggerire che solo per abitudine
linguistica (e per metafora) meritano la designazione di “gioco” attività che richiedono l’impegno di enormi
energie produttive (in mezzi e in persone) e che mettono in movimento ingenti masse umane, costituendo
per determinati sistemi politico-sociali un veicolo di propaganda e di promozione dell’immagine, ma anche
una fonte di squilibri e, all’occasione, di gravi perturbazioni dell’ordine pubblico. Infine, non per tutte le
forme di gioco vale la caratteristica del “come se”, la quale – come ho già accennato – si riferisce alla forma
ludica rappresentazionale: di una pura attività cinetica, senza scopo e senza cornice di regole, o di certi
giochi competitivi (carte, biliardo, ecc.) non si può dire che in essi si agisce “come se”, che simulano
situazioni reali specifiche.
A questo punto il concetto di gioco ci appare assai frastagliato e disomogeneo, tanto che per definirlo si
è proposto di ricorrere alla nozione di “prototipo”, coniata da Eleanor Rosch e affermatasi in ambito
27
Sul concetto di teoria dei giochi e sull’utilizzo in essa del teorema di von Neumann cfr. Eigen e Winkler (1986:28). Per una
critica fondata sostanzialmente sulla sovradeterminazione delle scelte dei giocatori, cfr. Henriot (1983:91) e Mongardini
(1989:21,86).
28
Su questo punto Nuti fa un parallelo con la distinzione latina fra ludo ludere e ludum ludere (Nuti 1998:31).
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psicologico (Rosch 1973:114-144, Rosch 1975:192-233)29. Si tratta di un elemento strutturale
dell’organizzazione mentale (e del linguaggio) che costituisce il miglior esempio di una classe, quello che ha
il massimo di caratteristiche in comune con gli altri membri di essa. Poiché però molte classi (siano esse
naturali o meno) hanno confini non sempre ben distinti, l’organizzazione categoriale è piuttosto flessibile.
Ispirandosi alle “somiglianze di famiglia” di Wittgenstein, Rosch sostiene che il prototipo consente non solo
di organizzare classi omogenee grazie al fatto che ci si concentra su caratteristiche comuni, ma anche di
classificare sulla base di altri criteri categoriali i membri che se ne discostano. Esso non serve soltanto ad
assegnare un esemplare a una classe determinata, ma anche – ed è proprio questo il nostro caso – a
valutare l’ampiezza della classe. Non soltanto una classe non è rappresentata nello stesso modo da ogni
membro, ma nemmeno ha confini rigidi. In altri termini, se si passano in rassegna i caratteri distintivi delle
categorie30, ci si rende conto che i giochi possono essere considerati tali: non possono essere definiti
mediante un unico plesso di proprietà necessarie e sufficienti; si articolano in sovrapposizioni e
raggruppamenti semantici; includono gradi diversi di pertinenza categoriale; hanno margini sfuocati. E di
nuovo torna il parallelo con i fenomeni linguistici. Introducendo proprio il concetto di somiglianze di
famiglia, già Wittgenstein avvertiva nelle Philosophische Untersuchungen (§§ 66 sgg.) che né i giochi né le
lingue hanno un predicato in comune che li denoti, ma sono imparentati in modi differenti. Se ne conclude
che, come nel caso del linguaggio, nemmeno in quello dei giochi è possibile fare ricorso a una logica di tipo
estensionale.
8. Spazialità e temporalità del gioco
In forza di queste caratteristiche peculiari suscitano perplessità i tentativi di classificazione dei tipi di
gioco, il più noto dei quali è quello di Roger Caillois, di cui mi occuperò fra breve. La sua tesi fondamentale,
che si inscrive nel contesto di una desacralizzazione del fenomeno ludico31 e che – come si è visto – era già
stata anticipata da Kant, è che il gioco non produce qualcosa di positivo, di tangibile. L’aspetto curioso della
faccenda è che tale caratteristica vale anche per quei giochi che apparentemente sono testimonianza del
contrario: quelli d’azzardo, senza tenere conto dei quali si ha un modello fortemente incompleto del
concetto di gioco. Secondo Caillois, nel gioco d’azzardo vi è spostamento di proprietà, ma non produzione
di beni (Caillois 2004:21). Di conseguenza, potremmo dire avvalendoci della terminologia di Gadamer, non
vi è alcun incremento di essere, alcun arricchimento ontologico. Per tale carattere, e non per la sua
mancanza di serietà e di impegno, il gioco si differenzia sia dal lavoro sia dall’arte. Si potrebbe obiettare che
è riduttivo considerare il lavoro, ma soprattutto l’arte, come attività finalizzata esclusivamente alla
produzione di beni; in particolare, che è riduttivo identificare il guadagno con l’arricchimento economico,
giacché il profitto prodotto dall’arte consiste per il fruitore, in quanto soggetto economicamente
disinteressato, nell’interpretazione-comprensione del messaggio e nella schiusura di orizzonti semantici.
Nell’isolare in vitro l’evento ludico, Caillois sembra invece voler proprio mostrare che alla fine del gioco si
ripristina lo status quo ante: niente di nuovo si è originato, la compagnia si scioglie, il gioco si rivela puro
dispendio di tempo, energie, abilità. La serietà dell’impegno profuso non trova corrispondenza in un
profitto né economico, sociale, psicologico né semantico.
La tesi qui riassunta costituisce una radicalizzazione della concezione del gioco come autotelico: è essa a
indurre Caillois a considerarlo, al pari di quanto aveva già fatto Huizinga (2002:13), come una parentesi di
sospensione nel frammezzo delle occupazioni serie della vita. Tuttavia, in tanto tale posizione è
interessante, in quanto consente di individuare un ulteriore predicato fondamentale del gioco,
strettamente legato a quello dell’autofinalità. Si è già visto che uno dei presupposti fondamentali di molti
tipi di gioco è la presenza di regole, la quale ne denunzia il carattere di fatto eminentemente sociale. Le
29
Per un resoconto della teoria, cfr. Moates, Schumacher (1983:328-331). Per un’analisi critica, cfr. Eco (1997:167-173). Per il
suo uso in linguistica e in filosofia del linguaggio, cfr. Lakoff (1987), Taylor (2003), Kleiber (1990). Per quanto riguarda la sua
applicazione al concetto di gioco, cfr. ancora Nuti (1998).
30
Cfr. Geeraerts (1989:592-593) e la discussione delle sue considerazioni in Nuti (1998:75-76).
31
Cfr. in proposito le pertinenti osservazioni di Rovatti (2004:VIII-XI), che sottolinea pure la differenza dell’approccio di Caillois
rispetto a quello “ottimista” di Huizinga e Fink: lungi dal privilegiare l’aspetto “giocoso” (e gioioso) del fenomeno ludico, egli ne
mette in luce gli aspetti inquietanti.
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regole sono sia generali (cioè pertinenti a tutti i giochi o quanto meno a una classe di giochi) sia particolari,
esclusive di un singolo gioco. Per es. una delle regole generali dei giochi da tavolo è che i giocatori
compiano la loro mossa uno alla volta, e non tutti insieme, pena la destrutturazione del gioco e di
conseguenza la sua degenerazione. Tuttavia non è soltanto l’esistenza di regole autonome rispetto alla
normale vita sociale a fare sì che il gioco costituisca, come rilevano diversi studiosi, un sistema isolato
(un’“oasi”, per usare la metafora di Fink) rispetto all’ambiente in cui ha luogo sia sul piano spaziale sia su
quello temporale: tutti i giochi vivono in uno spazio-tempo peculiare e diverso da quello della vita
quotidiana (Huizinga 2002:13,25; Fink 1960:143,234-235; Caillois 2004:82,156; Henriot 1983:21), che
favorisce la coesione della comunità ludica e corrobora la tesi del suo legame con il sacro. Il fatto stesso che
come esempio di isolamento spaziale Caillois citi il recinto dei parchi di divertimento e delle feste rende
evidente il rapporto con la delimitazione dello spazio e del tempo nell’atto cultuale.32
Del fatto che si realizzi uno spostamento spazio-temporale è chiara testimonianza la premessa
metacomunicativa dei giochi simbolici infantili: “Facciamo che ero, eri...”. Mentre l’uso del performativo
“fare” ha la funzione di segnalare il carattere convenzionale dell’azione e di incorniciare la fictio, l’uso
dell’imperfetto ha la funzione di collocare l’azione non solo in un tempo, ma anche in uno spazio
indeterminati, di immergere gli attori in un “mondo possibile” diverso da quello reale33, allo stesso modo
del classico incipit delle fiabe tradizionali: “C’era una volta...”. “Facciamo che ero...” ha, da un lato, lo stesso
valore semantico di un enunciato ossimorico come “c’era e non c’era”, che è riscontrabile nella prassi
narrativa della cultura catalana e che si riferisce palesemente al carattere finzionale del racconto fiabesco;
dall’altro, rappresenta l’enunciazione di una regola istitutiva del gioco, quella della trasposizione in un
contesto situazionale diverso rispetto a quello di appartenenza. In generale, che si svolga in luogo pubblico
o privato, ricorra a mezzi tradizionali dal punto di vista tecnologico o si serva dei nuovi media, si realizzi
tramite il movimento fisico o si limiti allo spostamento di pezzi su una plancia o su una scacchiera, abbia
carattere rappresentazionale o meno, il gioco astrae dalla situazione contingente: dal punto di vista
psicologico e sociale, lo spazio e il tempo dei partecipanti sono quelli fittizi della rappresentazione “come
se” o quelli dell’assetto di gioco.
Questioni diverse sono quella della temporalità interna, in forza della quale si distinguono giochi in cui si
ha una sequenza discreta (o diacronia) scandita dalle mosse successive (come nei giochi da tavolo in
generale) e giochi in cui si ha una sequenza continua (come nei giochi di movimento), e quella dei limiti
fisici del gioco. Per quanto concerne lo spazio, pare evidente che si debbano fissare confini, all’interno dei
quali i giocatori abbiano tuttavia libertà di movimento (delimitare il recinto di cui parla Caillois), ma che non
possono superare: in questo senso anche il play si subordina a una regola. Per quanto concerne il tempo,
mentre il gioco libero può avere una durata indefinita all’origine e assai variabile, le regole del game
devono prevedere una conclusione: un gioco virtualmente infinito non avrebbe senso per i giocatori,
perché verrebbe meno una componente essenziale dell’esercizio ludico, ossia la soddisfazione connessa
con la buona riuscita, cui fa da ovvio pendant l’insoddisfazione degli avversari (o quella del soggetto stesso,
nel caso dei solitaires).
Alla già nutrita serie di predicati del gioco fin qui menzionati se ne può aggiungere – con Huizinga
(2002:14) e Caillois (2004:26) – un altro, strettamente legato al decorso temporale: l’incertezza, la quale
consiste nel fatto che lo svolgimento dell’azione ludica non può essere preprogrammato completamente e
il suo risultato non può essere previsto fin dall’inizio. Tale restrizione esclude non solo tutti quei giochi (per
lo più molto semplici) in cui a vincere è, tranne in casi di imperizia, chi compie la prima mossa e che
pertanto perdono presto interesse, ma anche la competizione esclusivamente strategica e perfettamente
razionale postulata dalla teoria matematica dei giochi. L’incertezza non va confusa con un carattere tipico
di alcuni giochi, ma non di tutti: il caso, che è proprio dei giochi d’azzardo e di fortuna. E nemmeno la si
deve confondere con la libertà di scelta concessa ai giocatori a un determinato stadio del gioco, quando
cioè sono possibili diverse decisioni. L’incertezza è un predicato molto più generale, ed è forse l’unico
(insieme al carattere di atto) che possa essere attribuito a tutti giochi, compresi il gioco simbolico e quello
32
A questo proposito Fink rinvia giustamente al témenos, di cui è nota la parentela etimologica e semantica con templum. È
interessante osservare che, polemizzando con la tesi di Schröder (1937:45-46), reperibile pure in Paul (1966:sub voce), secondo cui
uno dei più antichi significati del termine Spiel era “danza”, Trier (1947:450-456) lo riconduce al campo semantico di “recinto”
(Hegung e Zaun).
33
Sul concetto di mondo possibile cfr. Meo (2002).
Meo O., Per una teoria filosofica del gioco
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di libero movimento, in cui si ha una durata assai variabile e la cui evoluzione è fondata sull’inventiva dei
partecipanti. L’incertezza è piuttosto la conseguenza della libertà di scelta e si colloca dal lato dei fattori
emozionali, conferendo al gioco il suo tipico pathos.
9. Problemi di tassonomia
Fin qui l’analisi dei predicati del gioco. Resta da esaminare l’ambizioso tentativo di classificazione di
Caillois. Riproduco qui di seguito lo schema riassuntivo della sua suddivisione dei giochi in quattro grandi
categorie, disponentisi ciascuna lungo un asse che va dal più semplice al più complesso:
AGÓN
(competizione)
PAIDIÁ
chiasso
corse
combattimenti
ecc.
atletica
non soggetti
a regolamento
ALEA
(fortuna)
filastrocche per
fare la conta
testa o croce
agitazione
MIMICRY
(simulacro)
ÎLINX
(vertigine)
imitazioni infantili
giochi illusionistici
bambola
costumi vari
maschera
travestimento
roteare infantile
giostra
altalena
valzer
fou-rire
aquilone
solitari
cruciverba
boxe
biliardo
scherma
dama
calcio
scacchi
competizioni sportive in genere
scommesse
roulette
lotterie semplici
composte
o a ripetizione
teatro
arti dello spettacolo
in generale
volador
luna-park
sci
alpinismo
acrobazia
LUDUS
Tab. 1: Schema riassuntivo delle quattro categorie di gioco individuate da Caillois
Il termine greco paidiá e il termine latino ludus, collocati ai due poli opposti dell’asse verticale, indicano
rispettivamente giochi di carattere più marcatamente infantile, nei quali regna la turbolenza,
l’improvvisazione, la fantasia e in cui si può arrivare fino alla perdita del controllo di sé e/o della situazione,
e giochi che richiedono tanta maggiore concentrazione e rispetto delle regole, quanto più si allontanano
dall’anarchia del livello più grezzo (corrispondente a una sorta di “grado zero” di strutturazione). Per
quanto concerne la denominazione delle quattro classi, il significato dei termini emerge chiaramente dalla
tavola, che però ci riserva anche qualche sorpresa, a riprova del fatto che è impossibile ingabbiare in uno
schema rigido il complesso di eventi e processi che comunemente chiamiamo “gioco”34 e che il campo
semantico del termine è assai ampio e sfrangiato. Accanto ad alcuni giochi propriamente detti, Caillois
include infatti nella sua classificazione teatro e spettacolo (per ragioni essenzialmente linguistiche, come è
facilmente intuibile)35, nonché alcuni tipi di danza, di attività sportive e atletiche in generale, mentre
esclude tutti quei giochi da tavolo che dovrebbero situarsi nell’intersezione fra i due insiemi denominati
agón o “competizione” e alea o “fortuna” (non solo i cosiddetti giochi di società, ma anche le carte). Una
particolare attenzione meritano quei giochi che Caillois raggruppa sotto l’etichetta mimicry, termine che in
inglese indica il mimetismo, in particolare quello degli insetti. Come egli stesso avverte, la scelta
terminologica intende sottolineare la natura primigenia, fondamentale ed elementare, “quasi organica”
dell’impulso che sta a base di questa forma: anche l’uomo ama mascherarsi, travestirsi, sostenere una
34
Prescindo dall’appropriatezza della traduzione in lingua moderna dei termini classici impiegati da Caillois, giacché in greco
îlinx significa propriamente “vortice”, “gorgo” e in latino alea “gioco di dadi”, “gioco d’azzardo” e – per metonimia – “caso”.
35
Come è noto, l’inglese to play, il francese jouer e il tedesco spielen vengono usati anche come corrispondenti dei nostri
“recitare”, “rappresentare” e “suonare”. L’unica espressione italiana che conserva un’eco del rapporto fra gioco e arti che
prevedono l’intervento di esecutori è “giocare un ruolo (o una parte)”.
Meo O., Per una teoria filosofica del gioco
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parte di fronte agli altri, e a volte anche di fronte a se stesso; in altri termini, ama comportarsi “come se”.
Caillois ha in mente non soltanto le feste carnascialesche o i ruoli teatrali in senso proprio, ma anche i
comportamenti all’interno delle culture di interesse etnologico, che sono notoriamente legati al sacro: le
maschere tribali, lo sciamanesimo, l’identificazione con il totem, ecc. Sappiamo poi, come avverte già
Aristotele nel IV cap. della Poetica, che i bambini imitano volentieri gli adulti e che questa imitazione non
soltanto procura loro un piacere (in buona misura estetico), ma costituisce anche una fonte di
apprendimento. Sappiamo però pure che per Aristotele l’arte in generale è mímesis. Inserendo varie forme
di spettacolo nella categoria del mimicry e ponendo l’accento sul carattere rappresentazionale e
trasformazionale dell’azione scenica e del gioco cosiddetto “imitativo”, Caillois recupera palesemente la
tradizione aristotelica, senza che si debba necessariamente attribuirgli un’identificazione ingenua fra
mímesis e “imitazione”. Occorre però distinguere, e Caillois non lo fa, fra due forme di imitazione: l’una,
quella tipica della rappresentazione teatrale (in generale: della fiction) e carnascialesca ha come scopo
l’illusione, ossia – giusto l’etimo (da in-ludere) – costituisce un invito allo spettatore a “entrare nel gioco”, a
collaborare alla buona riuscita dell’azione e a contribuire alla costituzione del suo significato36; l’altra ha
invece come scopo la frode, l’inganno. Inaugurando una lunga e fortunata tradizione etica ed estetica, già
Agostino distingueva nelle Quaestiones evangeliorum (2, 51, 1) fra la fictio come illustrazione figurata della
verità (noi diremmo: come illusione artistica che coincide con la fiction, con l’invenzione narrativa, e
conferisce ai prodotti artistici un peculiare statuto di realtà) e la fictio che nihil significat, la simulazione, la
menzogna, l’inganno37. Si riaffaccia in tal modo il tema dell’ingresso in un mondo altro, contrassegnato dal
“come se”.
10. Conclusioni. Gioco e arte
La classificazione di Caillois offre lo spunto per fare qualche cenno, introduttivo e non sistematico, al
rapporto fra gioco e arte, ossia al correlato estetico del fenomeno ludico, cui ho più volte alluso e che, già
ampiamente abbozzato da Kant, è stato particolarmente sviluppato, sia pure in modo non sempre
condivisibile, da Hans-Georg Gadamer nella seconda metà del Novecento. Egli rileva che nel concetto di
gioco (anche quando il termine è usato in senso metaforico, come per esempio nei sintagmi “gioco di luci”
o “gioco delle onde”) è sempre presente l’idea del movimento, che si ripete e non ha alcun termine finale,
che non solo è “senza scopo e senza intenzione, ma anche senza sforzo” (Gadamer 1975:100). Ad essere
centrale è dunque l’azione motoria, ed è indifferente quale sia il suo soggetto. In tal modo si chiarisce il
senso del gioco come ciò che “si produce attraverso i giocatori”: parafrasando quanto sosteneva Heidegger
a proposito del rapporto fra arte e artisti, non sono essi i soggetti, ma il gioco (Gadamer 1975:98)38. Il
significato originario del verbo spielen è, secondo Gadamer, “mediale”: qualcosa gioca o è in gioco. Ogni
giocare è al tempo stesso un essere-giocato. Il gioco ha in sua balìa il giocatore, lo irretisce in se stesso39. Il
compito posto dal gioco rimane interno al gioco stesso. Proprio questa autofinalità consente a Gadamer di
definire il gioco come un’“autorappresentazione” (Selbstdarstellung) (Gadamer 1975:103), giacché
rappresentarsi un fine intraludico significa rappresentarsi il gioco stesso. Il giocatore si autorappresenta
nella misura in cui “gioca a”, cioè rappresenta qualcosa, per es. un ruolo. Poiché però rappresentare è
sempre rappresentare per qualcuno, anche l’atto di culto (che è una rappresentazione per la comunità) e lo
spettacolo teatrale sono giochi: “i giocatori tendono a rappresentare una totalità compiuta per uno
spettatore” (Gadamer 1975:104). I mondi che l’atto cultuale o scenico rappresenta (nel senso che li “porta
a presenza”) sono aperti dunque dal lato dello spettatore; e ciò significa che assumono consistenza
ontologica soltanto quando sono per qualcuno, nel quale acquistano tutto il loro significato. Gadamer
rifiuta però l’idea che lo spettatore sia chiamato a riempire questi mondi di contenuto semantico, ossia che
36
Questione degna di riflessione, ma assai diversa, è che “illudere” abbia in italiano anche un significato negativo, come per
altro quasi tutti i composti di ludere: cfr. “alludere”, “colludere”, “deludere”, “eludere”. Si tratta di un chiaro indizio del fatto che i
predicati della finzione e dell’ambiguità sono inseparabilmente connessi con il concetto di gioco.
37
Cfr. Agostino, Quaestiones evangeliorum 2, 51, 1.
38
La posizione di Gadamer risulta in tal modo assai vicina a quella di Fink (Heidemann 1968:16).
39
Ciò è vero, secondo Gadamer, di tutti i giochi, e non soltanto di quelli d’azzardo. Anche grazie all’estensione di tali
caratteristiche al “gioco della lingua”, vi sono innegabili analogie, riconosciute per altro dallo stesso Gadamer nella Prefazione alla
seconda edizione di Wahrheit und Methode (Gadamer 1975:XXIV), con gli Sprachspiele di Wittgenstein.
Meo O., Per una teoria filosofica del gioco
Linguaggi 21.0, n. I, anno 2010
l’azione ludica (così come quella artistica) abbia un aspetto intrisecamente pragmatico. È questa sorta di
“oggettività ermeneutica” a differenziare la sua posizione da quella costruttivista, secondo la quale il
significato del “gioco” (non importa se sacro o profano, infantile o adulto) è il prodotto di un’attività
multilaterale, si colloca cioè al punto d’incontro fra le istanze dei vari giocatori fra loro e degli eventuali
spettatori, dei mittenti e dei destinatari del messaggio (fra i quali gli stessi partecipanti). Detto in altri
termini, mentre per Gadamer il gioco ha una propria autonomia strutturale, indipendente dall’azione dei
giocatori, per l’opzione costruttivista “comprendere” un significato equivale a disambiguare segni e a
entrare attivamente nel “mondo possibile” che si struttura nel momento in cui si inizia a giocare, equivale a
contribuire a costituirlo. Alla tesi secondo cui il gioco precede i soggetti, che risente ancora fortemente
dell’interpretazione ontologico-metafisica, si sostituisce quella secondo cui sono i soggetti a far essere il
gioco: al ludus ludens e al mundus ludens si sostituisce davvero l’homo ludens.
Stanti queste premesse, si può comprendere per quale ragione Gadamer inclini a pensare che a
costituire l’essenza del gioco siano le regole che lo governano. Proprio la concezione del gioco più come
game che come play gli consente di istituire una stretta analogia con l’arte, giacché anche quest’ultima è un
fare governato da regole. Nel farsi arte del gioco consiste la sua “trasmutazione in struttura (Verwandlung
ins Gebilde)”, l’acquisizione di una sorta di essenza ideale, grazie alla quale esso – afferma Gadamer – “ha il
carattere dell’érgon, dell’opera, e non solo dell’enérgeia *sc.: del game e non solo del play+”. In sostanza, il
gioco, anche quello non preordinato, improvvisato, è qualcosa di ripetibile e permanente (Gadamer
1975:105-106)40. Tale essenza ideale è un’identità definita indipendente dalla rappresentazione che ne
hanno i giocatori (nel caso dell’attività ludica) o l’autore e gli esecutori (nel caso dell’opera d’arte), tanto
che si può prescindere dall’identità di chi gioca. Accanto alla tesi, fortemente debitrice a Heidegger e
ripresa poi da alcuni esponenti della Rezeptionsästhetik, dell’anautorialità dell’opera d’arte, emerge da
queste pagine gadameriane il primato della struttura intesa come dotata di esistenza autonoma, la quale
trova hegelianamente in sé la propria misura, ossia non si confronta con niente di esterno, si autolegittima
e si autosorregge: la Verwandlung ins Gebilde “è una trasmutazione nella verità” (Gadamer 1975:107)41.
L’“autogiocarsi” del gioco e il suo trovare giustificazione in se stesso lo trasformano in qualcosa di molto
simile al puro eîdos in senso platonico. E l’arte è gioco, così potremmo chiosare, perché appare come una
struttura mobile, in divenire, che non esiste indipendentemente dal suo manifestarsi, la cui forma consiste
nella rappresentazione, è érgon che si fa enérgeia.
Fig. 2
Fin qui gli aspetti teorici del rapporto fra gioco e arte. Per quanto concerne la pratica artistica, diverse
esperienze novecentesche hanno ampiamente attinto al gioco. Sia sufficiente menzionare il debito
contratto dal futurismo, dal Bauhaus, dal dada, dal surrealismo, dal movimento Fluxus nei confronti del
mondo dell’infanzia: da Paul Klee alle realizzazioni di giocattoli da parte di Fortunato Depero, Johannes
Itten, Oskar Schlemmer, Lyonel Feininger; dal “cadavere squisito” (gioco praticato sia con le parole sia con il
40
a
Heidemann sottolinea l’affinità fra il concetto schilleriano di lebende Gestalt come oggetto dello Spieltrieb (si veda la 15
lettera di Über die ästhetische Erziehung des Menschen in einer Reihe von Briefen) e quello gadameriano di Gebilde (Heidemann
1968:6-7).
41
Sono inevitabili a questo punto alcune importanti riserve, fra le quali l’obiezione che in questo modo si rischia di identificare
l’arte-gioco (o il gioco-arte) con un sistema olistico che nulla re indiget ad existendum.
Meo O., Per una teoria filosofica del gioco
Linguaggi 21.0, n. I, anno 2010
disegno) al “disegno comunicato”42; dal frottage di Max Ernst alle “macchine inutili” di Jean Tinguely, fatte
di meccanismi sferraglianti, ingranaggi, ruote, giunti, piani di scorrimento, ma che non producono nulla e
che mettono a nudo, sia pure in modo meno graffiante della critica di Duchamp e di Chaplin al
macchinismo, il gioco infernale della società industriale43.
Da ultimo, ricorderò il circo in miniatura di Calder, con il quale – come testimonia un interessantissimo
filmato – il vecchio artista si divertiva ancora a giocare come un bambino (Fig. 2). Si tratta di una
composizione realizzata con diversi materiali che prendevano vita grazie all’azione demiurgica del loro
creatore e il cui fine consisteva nel puro godimento offerto dal movimento44. Commentando il celeberrimo
verso di Schiller Ernst ist das Leben, heiter die Kunst, Adorno sosteneva che il contrario sarebbe meglio
(Adorno 1977)45. Considerata la passione con la quale il creatore della danza aerea dei mobiles manipolava
la sua opera cinetica, si potrebbe suggerire che l’ottimo sarebbe una pari leggerezza e una pari serenità
della vita e dell’arte. Allora il gioco fungerebbe davvero da Weltsymbol, da mediatore per un migliore
approccio alle cose e al problema del loro senso.
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42
Il gioco consiste nella riproduzione a memoria di un oggetto visto per pochi secondi.
Per un panorama sulla produzione ludica nell’arte del Novecento si veda il catalogo della mostra L'arte del gioco. Da Klee a
Boetti (Bellasi et al. 2002).
44
La costruzione dei primi pezzi del Cirque Calder (conservato nel Whitney Museum of American Art di New York) iniziò nel
1927. Le prime performances animate dinanzi a un pubblico di artisti (fra i quali: Miró, Man Ray, Léger, Hans Arp, van Doesburg,
Cocteau, Mondrian) ebbero luogo a Parigi. Il film fu girato nello studio parigino di Calder nel 1961.
45
È nota la dura, e ingenerosa, presa di posizione di Adorno nei confronti delle teorie del gioco, con particolare riferimento a
Schiller e a Huizinga: poiché, secondo la sua definizione riduttivista, tutti i suoi tipi sono attività ripetitive, il gioco è una “prassi”
coatta solo apparentemente priva di scopi; in altri termini, è “copia del lavoro non libero”, e dunque tale è anche il momento ludico
dell’arte (Adorno 1977:530-533). Se però così è, l’arte come gioco è già troppo affetta dalla serietà perché sia necessario
aggiungervene altra.
43
Meo O., Per una teoria filosofica del gioco
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