MESTIERI / Il carrettiere - Corpo Forestale dello Stato
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MESTIERI / Il carrettiere - Corpo Forestale dello Stato
MESTIERI / Il carrettiere CARRI E BUOI IN GIRO PER LE LANGHE Storia di un lavoro particolare, di uomini che dormivano nella stalla accanto alle proprie bestie delle quali conoscevano vita e miracoli. Un buon carrettiere, si diceva, non aveva mai bisogno del veterinario di Giuseppe Brandone rasportare merci è un’occupazione, un mestiere vecchio come il mondo, o, per lo meno, dall’invenzione della ruota in avanti. Ma in Langa quest’attività è stata ben altro: un lavoro tipico, particolare, non una professione; piuttosto un riempitivo per arrotondare i magri introiti della campagna. Da notare, la dizione dialettale: “andè an carej”. T Non “fare il carej”cioè il carrettiere, ma letteralmente non imprestare se stessi, i buoi e il carro per trasportare merce per conto terzi. A volte “andè an carej” significava anche “far sanmartino” portare masserizie (poche) e speranze (troppe) su altre colline o in pianura, al di là del fiume. Un lavoro - dicevamo - che serviva ad arrotondare, ma che presupponeva una ricchezza di base indispensabile: possedere una coppia di buoi solidi e Il Forestale n. 56 - 41 forti, abituati al tiro per lunghe distanze. E non era cosa da poco. Per i contadini, impiegare tanta ricchezza solo per i lavori della terra era uno spreco in partenza. Meglio farseli imprestare. “Fare il carrettiere” o meglio “essere carrettiere” era certo faticoso, un’occupazione saltuaria ma redditizia che permetteva alla propria famiglia certi “lussi”: gli zoccoli nuovi e la carne nei giorni di festa. Camicia a quadri e si parte Al mattino presto, o anche a notte fonda, quando l’alba è ancora di là a venire, aggiogata la coppia di buoi, si partiva per lo “straordinario”: camicia a quadri vistosi e cappello a larghe tese. Negli occhi il sonno e in mano il “guret” (flessuoso bastone di vimini) per vincere la pigrizia 42 - Il Forestale n. 56 delle bestie: un colpo ai buoi, un grido e un canto solitario e improvvisato. Su tutto il gracchiare delle pesanti ruote sul selciato sconnesso. Il borgo, intanto, dormiva ancora e il ritmo ossessivo e discontinuo delle ruote era il primo segnale della giornata che scuoteva le case scure e infreddolite. Ogni lavoro che si rispetti presuppone una contropartita, la “paga”. Erano tempi in cui i soldi mancavano in tutte le famiglie, anche in quelle ritenute più solide per cui sovente il “carej” veniva pagato in natura. Il carro partiva vuoto e, dopo il “servizio”, ritornava a casa con sacchi di grano, castagne, ceste colme di uova e barilotti di vino. Già il vino. Il lavoro più grosso si compiva in periodo di vendemmia. Si caricava sul carro la bigoncia fin dal primo giorno e la si toglieva solo a vendemmia finita. Un carrettiere che era intenzionato a fare tutta la campagna dell’uva si premuniva di avere a disposizione una bigoncia sana, possibilmente intarsiata a regola d’arte, con ben visibile il nome del costruttore che doveva essere il pià abile della zona. Sovente il carrettiere fungeva anche da brentatore: pensava lui stesso a vendere l’uva e, oltre alla mediazione pattuita, un barilotto di “quello buono” riusciva sempre a portarlo a casa o a scaricarlo nell’osteria di fiducia. In ogni paese solo pochi godevano della stima e della fiducia della gente. Solo i più capaci emergevano. E il segreto consisteva nel non avere mai sonno, possedere un fisico integro, sopportare la fatica e, soprattutto, conoscere le bestie. Avere un paio di buoi robusti non significava necessariamente essere validi uomini da “carej”. Sacrificio e profonda conoscenza del mestiere: solo questo contava. Si narra di uomini che dormivano nella stalla accanto alle proprie bestie delle quali conoscevano vita e miracoli e un buon carrettiere - si diceva - non aveva mai bisogno del veterinario. L’animale accusava sintomi di stanchezza, si rifiutava di continuare il suo lavoro. Bastava cercare e trovare una particolare erba dei boschi, preparare un infuso, somministrarglielo con il fieno e le forze ritornavano come per incanto. Al sabato santo si prendeva il giogo di legno e lo si immergeva nell’acqua corrente di un ruscello durante lo scampanìo festoso del “Gloria”: era di buon auspicio per sconfiggere le malattie, come la terribile afta epizootica. Anche se durante la vendemmia il carrettiere era impe- gnato tutto il giorno, il suo rapporto con il mondo di bacco non si esauriva qui. Per Pasqua, ad esempio, il vino “novello” saliva verso le “piole” di montagna e ancora una volta era lui che, carico di botti e di damigiane, partiva nella notte dalla zona di produzione - dalle basse Langhe e dai Roeri - per raggiungere i paesini di montagna del cuneese e dell’entroterra ligure, terre di forti e tenaci bevitori e si tornava a casa carichi di patate e di castagne. La camicia di tessuto rosso ma sempre pulita, diventava una divisa conosciuta dappertutto e acquistava il valore di un simbolo. Soli nella notte per un lavoro che obbligava a rimanere lontani da casa, uomini e bestie accomunati nella fatica e nel sudore, ma con la libertà nel cuore. “Andè an carej” era anche questo. Mio nonno era un carrettiere io nonno era un carrettiere” (di Francesco Rapisarda, 392 pagine, 16,50 euro) è un viaggio nella memoria, sospeso fra la nostalgia ed il rimpianto per un tempo ed un mondo ormai irrimediabilmente perduto, violentato e sfregiato dagli interessi di pochi e dalla speculazione edilizia. Una carrellata, di sapore cinematografico, con relativa colonna sonora, fra gli avvenimenti della vita, in giro per l’Italia, dal dopoguerra ai giorni nostri, con un particolare “focus” su personaggi e fatti della Sicilia, di Catania e del paese Mascalucia. Una galleria di personaggi tanto veri da sembrare irreali, descritti con tenerezza ed una “pietas” infinita. Un tentativo di rappresentare ai più giovani un’Italia che non esiste più, dove tutto era meno semplice di oggi, ma enormemente più umano e meno stressante. Dove i valori fondamentali erano ancora un patrimonio da valorizzare e non da sperperare. Insomma un tempo in cui “eravamo felici… ma non lo sapevamo!” “M Il Forestale n. 56 - 43