L`intreccio dei diversi linguaggi educativi tra ricerca e servizi L

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L`intreccio dei diversi linguaggi educativi tra ricerca e servizi L
L’intreccio dei
diversi linguaggi
educativi
tra ricerca e servizi
Presentazione di alcune tesi significative
Grafica Servizi di Comunicazione Provincia di Bologna
Stampa tipografia metropolitana bologna
Si ringrazia Enrica Corso per la realizzazione dell’illustrazione di copertina
Indice
Regione Emilia-Romagna, Provincia
e Università di Bologna, Facoltà di Scienze della Formazione:
i buoni frutti di una convenzione
5
Sandra Benedetti e Maria Cristina Volta
L’intreccio dei diversi linguaggi educativi tra ricerca e servizi
7
Presentazione di alcune tesi significative
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Elisa Bigi
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Regione Emilia-Romagna, Provincia e Università
di Bologna, Facoltà di Scienze della Formazione:
i buoni frutti di una convenzione
di Sandra Benedetti e Maria Cristina Volta
N
el rieditare il lavoro composito rappresentato dalle nuove tesi più
significative che trovano nella presente pubblicazione un’occasione
per “presentarsi”, ci sembra utile ricordare come la convenzione siglata
a suo tempo con la Facoltà di Scienze della formazione dell’Università di
Bologna e con il Dipartimento di Scienze della Educazione della stessa
Università, abbia costituito uno degli obiettivi più qualificati dei recenti
programmi regionali in materia di servizi per la prima infanzia.
Si tratta di un’operazione che ci pare consenta di raccogliere frutti
significativi lungo il percorso di sviluppo dei servizi, mettendo in
connessione il mondo della ricerca scientifica con quello rappresentato
dall’insieme dei servizi educativi per l’infanzia che trova nella nostra
regione un terreno fertile, rendendo questi stessi servizi luoghi di ricerca
e di elaborazione culturale.
Questo materiale non nutre solo chi lo ha realizzato cioè le studentesse e
gli studenti che su questa produzione hanno acquisito un titolo di studio
dedicato; esso costituisce una fonte inesauribile di stimoli utili anche al
personale che lavora da anni nei servizi perchérappresenta il tentativo di
sensibilizzare anche le educatrici e gli educatori già occupati, nell’idea che
l’evento educativo non può essere letto interpretato e re-interpretato
solo avvalendosi del bagaglio formativo composto all’atto dell’ingresso
nei servizi stessi; infatti la formazione in servizio assume la caratteristica
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dell’aggiornamento professionale in quanto consente di operare quelle
connessioni utili non solo nella contemporaneità dell’azione educativa,
ma soprattutto nel saldarla con la memoria pedagogica e la cultura che
non subisce in questo modo battute d’arresto o rapide inversioni, ma si
avvale di una prospettiva pedagogica di lungo respiro. E questo materiale
ci consente di facilitare questo passaggio.
Inoltre i temi trattati portano provocazioni utili al confronto nell’incrocio
tra saperi ed esperienze, in bilico tra vecchie e nuove generazioni di
educatrici e coordinatori/trici pedagogici/che; in altre parole l’originalità
con cui vengono scelti alcuni temi oggetto di queste tesi possono far
evitare il rischio da un lato di inglobare le nuove generazioni di educatrici
ed educatori nei modelli e negli approcci già avviati, senza accettare il
contraddittorio come valore, poiché il timore che questo implichi una
erosione del sistema costruito in tanti anni, è forte e persistente; dall’altro
lato la presunzione del sapere basato in maniera preponderante a volte
sul pionierismo, sull’entusiasmo e sull’atteggiamento provocatorio tipico
delle nuove generazioni, può essere evitato e riconvertito in dialogo e
in occasioni di co-costruzione di nuovi orizzonti formativi, se materia
del confronto diventa un materiale che si presta ad essere analizzato
secondo criteri di scientificità e maggiore oggettività.
La Regione Emilia-Romagna e la Provincia di Bologna desiderano
presentare in forma congiunta questo lavoro poiché non solo costituisce
il frutto di un accordo che ha trovato nella formula della convenzione
con l’Università un modo per sintetizzare interventi di programmazione
educativa comune, ma anche perché in virtù di tale collaborazione già
espressa in precedenti edizioni è stato possibile raccogliere gli esiti e le
ricadute particolarmente nel territorio provinciale dove maggiore sono le
richieste di tirocinio e di inserimento temporaneo ai fini dell’acquisizione
della laurea all’interno dei servizi educativi.
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L’intreccio dei diversi linguaggi
educativi tra ricerca e servizi
di Elisa Bigi
Q
uest’anno la giornata dedicata alle tesi più significative del Corso
di Laurea in Educatore di Nido e Comunità Infantile prende
in considerazione gli elaborati di maggior interesse redatti nell’anno
accademico 2006/07.
Alcune delle tesi prese in considerazione hanno riguardato riflessioni su
contenuti teorici, altre hanno trattato l’argomento di pertinenza a partire
da esperienze pratiche svolte all’interno dei nidi o comunque in situazione.
Il tema che accomuna la maggior parte delle tesi selezionate riguarda
la molteplicità dei linguaggi utilizzati all’interno dei servizi educativi 0-3
anni; in particolare, gli elaborati redatti hanno preso in considerazione
il linguaggio dal punto di vista espressivo, approfondendo aspetti relativi
all’educazione al sonoro e alla letteratura per l’infanzia, e dal punto di vista
dello sviluppo linguistico in età 6-30 mesi.
Le tesi in Letteratura per l’Infanzia hanno messo in luce come oggettisimbolo quali gli specchi, le scarpe e gli armadi (considerati in tre tesi
differenti) siano fortemente evocativi e rimandino, attraverso il linguaggio
simbolico tipico delle favole, ad un altro ed un altrove caratterizzati da
esperienze di crescita e di vita e da mondi fantastici in cui tutto è possibile.
Gli elaborati in Educazione al Sonoro hanno approfondito come il
linguaggio sonoro stimoli curiosità, capacità di esplorazione e creatività
nei bambini da 1 a 3 anni, e quanto il repertorio di musica folklorica possa
veicolare il senso di appartenenza ad una determinata cultura e comunità,
come emerge nel caso di Monte Quemado, in Argentina, .
L’unica tesi in Psicologia dello Sviluppo ha riguardato una ricerca sullo
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sviluppo linguistico nei primi anni di vita, condotta attraverso l’utilizzo del
questionario “Mac Arthur”.Tale strumento consente di valutare la capacità
di comprensione e produzione di parole, di raccogliere informazioni
attendibili sul corso dello sviluppo linguistico e comunicativo partendo
dai primi segnali non verbali, attraverso l’espansione del vocabolario, fino
all’emergere della grammatica e delle prime combinazioni di parole e
frasi.
Tra gli elaborati redatti nell’a.a. 2006/07 sono state selezionate anche due
tesi di laurea che, pur non approfondendo tematiche relative linguaggio,
sono risultate comunque significative per l’argomento trattato: il modello
e il ruolo maschile nel lavoro di cura, all’interno dei servizi educativi per
la prima infanzia.
Le tesi selezionate sono presentate in questo fascicolo, all’interno del
quale sono raccolti gli abstract e la relativa bibliografia/filmografia.
Tale fascicolo, assieme a quelli redatti negli anni precedenti, rappresenta
una testimonianza significativa dei molteplici ambiti di ricerca educativa
e del quotidiano intreccio tra teoria e prassi.
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Presentazione di alcune tesi significative
Specchio, specchio delle mie brame
di Michela Maiani
Relatrice Prof.ssa Giorgia Grilli
P
artendo dal presupposto
che lo specchio è
portatore di un’eccezionale
molteplicità di forme che ci
circondano ogni giorno e che
riempiono il nostro mondo
quotidiano,
l’elaborazione
della mia tesi è nata per
merito di questo variegato
universo di riflessi, della pluralità di rappresentazioni che possono scaturire
in ogni momento e in ogni luogo nella nostra società, e anche perciò
nella letteratura. Con occhio critico e “aperto” ho cercato di affrontare
la questione sotto differenti aspetti e i temi che ho trattato sono per
questo pieni di sfaccettature e non lineari: ho fornito un orientamento
negli spazi reali e virtuali deputati all’informazione concernente lo
specchio nella lettura per l’infanzia, perché oggi giorno quest’ultima è
considerata come un percorso formativo indispensabile per i soggetti
in età evolutiva. Riflettendo su tutto ciò, e considerando la letteratura
come specchio attraverso il quale leggere infinite storie ai bambini allo
scopo di esplorare i loro mondi a volte sommersi, lontani, e di avvicinarsi
alle loro attese, ansie e bisogni, ho approfondito qualche piccolissima
parte dell’universo letterario che ha al suo centro differenti aspetti dello
specchio. La letteratura, nei migliori dei casi, è essa stessa il riflesso di verità
che gli adulti vogliono nascondere a loro stessi e che celano attraverso
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discorsi impregnati di logica e razionalismo; ancora, la letteratura è quel
qualcosa che fa comprendere chi siamo realmente al di là dei ruoli e delle
maschere sociali e oltre ciò che è bene o opportuno dire. Le storie sono
estremamente indispensabili ai bambini per crescere e sopravvivere in
una società costituita da adulti, che non conosce il mondo che sta al di là
dello specchio: “ogni fiaba è uno specchio magico”, ogni storia è il pianeta
fantastico che ciascun bambino esplora, con cui cresce e che ricorda poi
con dolce nostalgia nella vita adulta, un mondo magico che accompagna alla
scoperta e al riconoscimento di sé e della realtà che ci circonda. Uno degli
obiettivi della mia tesi è stato di interpretare le forme di rispecchiamento
riscontrabili nelle pagine della letteratura per l’infanzia, e di verificarne
così la ricaduta nell’utilità formativa per e verso i bambini: sono essenziali
nella civiltà di oggi metodi e strategie di motivazione alla lettura al fine di
recuperare, anche negli adulti, una dimensione emotiva e creativa relativa
ai libri; ne è risultato che l’atteggiamento dell’adulto è fondamentale
per un positivo percorso di crescita dei bambini e, in particolare, che
le fiabe possono essere utilizzate come validi strumenti rispecchianti le
situazioni vissute dall’infanzia. La letteratura è infatti qualcosa di diverso
e trasgressivo, creato da adulti che sono riusciti a mantenere vivo dentro
di sè il proprio io bambino, celato dietro una maschera che permette
loro di vivere integrati tra gli altri adulti, ideando storie che illuminano
aspetti profondi della vita, che ci mettono in contatto con emozioni o
lati del nostro carattere altrimenti rimossi o tenuti sotto controllo, e che
fanno comprendere chi siamo realmente. Le storie servono per capire,
per restituirci la nostra identità, per farci aggrappare alla vita, quella
interiore e non a quella sociale: la figura metaforica di ciò la si trova tra le
pagine delle “Mille e una notte”, in cui la protagonista si salva dalla morte
proprio narrando. La letteratura per l’infanzia, come specchio per la vita,
è indispensabile per crescere e cercare di vivere autenticamente in una
società come la nostra, che tende a schiacciare qualunque possibilità di
realizzazione personale inglobandola in sogni socialmente preconfezionati
socialmente e uguali per tutti.
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L’infanzia non è proprietà degli adulti, tutti i bambini possono essere
un’implicita minaccia per la propria cultura, perché essi sono nuovi,
aperti al mondo, mentre gli adulti, crescendo, imparano a vivere in base
a rigidi schemi e la loro evoluzione biologica contribuisce a diminuire
la loro creatività. La letteratura per l’infanzia ci consente, come in uno
specchio magico, di tornare a “vedere in una luce” secondo cui tutto
è ancora possibile. La letteratura, strumento educativo estremamente
profondo, complesso, non banale, permette ai bambini di calarsi in un
mondo parallelo, che trova corrispondenze fra le cose, ma che dà spazio
soprattutto a figure “diverse”, “altre”, devianti. La narrativa si nutre infatti
per eccellenza dell’anomalo, dell’imprevisto e dell’ostacolo, per fare
procedere e per rendere interessanti le proprie trame: in questo senso
essa funziona da specchio in qualche modo “rovesciato” rispetto a quella
cosiddetta normalità a cui nella nostra veste ufficiale aneliamo tanto,
ma che finisce spesso per coincidere con la banalità, tanto dell’esistenza
quanto della visione del mondo. In quest’ottica interpretativa la fiaba va
intesa come specchio della vita, come metafora delle emozioni e dei
sentimenti fondamentali di ogni bambino, che impara a gestire le sue
emozioni attraverso le storie che ascolta. Facendo riferimento agli
atteggiamenti che gli adulti hanno nei confronti dei propri figli e a come
le fiabe possano essere il rispecchiamento delle emozioni dei piccoli
lettori, e anche un aiuto nei momenti in cui questi ultimi possono sentirsi
soli e abbandonati da coloro che dovrebbero prendersi cura di loro, è
essenziale prendere in considerazione le forme di rispecchiamento che il
bambino può attuare nei confronti dell’adulto in correlazione alle figure
della letteratura per l’infanzia (ad esempio emerge una forte presenza tra
i protagonisti di tutte le fiabe dell’orfano, perché esso è la metafora più
assoluta della mancanza di amore parentale).
Approfondendo il discorso in termini meno metaforici, lo specchio è
descrivibile come una superficie sufficientemente lucida da permettere la
riflessione di tutto ciò che rientra nel suo campo visivo spontaneamente,
involontariamente e impassibilmente. Lo specchio, generando una
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riproduzione precisa e fedele dell’aspetto visibile di qualsiasi oggetto, può
far scaturire differenti interpretazioni di significato nella letteratura per
l’infanzia: la copia è sincrona rispetto all’originale e al suo movimento,
perciò la caratteristica di riproduzione è sincera e suggerisce l’idea di
usare di conseguenza quest’ultimo per la trasmissione di messaggi, come
ad esempio accade nella storia di Biancaneve, dove il riflesso verbale
dello specchio funge da messaggero avendo la funzione principale di
rivelare un’amara verità alla donna che si riflette davanti ad esso. La copia,
caratteristica quasi unica del riflesso, è perciò spazialmente separata
dall’originale e riproduce quest’ultimo con un’estrema precisione (a
esclusione del rapporto destra/sinistra), la violazione delle regole
dell’identità dello specchio può creare un oggetto che in letteratura
subisce differenti processi evolutivi: se viene tradito il principio di
sincronicità tra immagine e originale, riflettendo ciò che non rientra
direttamente nel campo visivo, emerge un tipo comune di specchio
magico che in narrativa è facile riscontrare, un’idea di specchio nel quale si
possono vedere ad esempio passato e futuro, o che addirittura sostituisce
mostrando ad esempio ad una fanciulla il suo promesso sposo. La copia,
accessibile solo alla vista e che appare su una superficie piana e uniforme,
caratterizza l’impenetrabilità dello specchio (con relativa distruzione delle
proprietà qualora si tenti di violarla). La silenziosità e l’impalpabilità della
rappresentazione, correlano l’immagine speculare al sogno, alle visioni e,
in generale, ad un mondo altro, ultraterreno. Lo specchio, diviene così
modello di menzogna, di inganno, di contraddizione tra apparenza ed
essenza: la violazione dei principi di impalpabilità e silenziosità dell’immagine,
nonché l’indipendenza e l’autonomia dell’immagine dall’originale, genera
l’idea di un doppio autonomo rispetto all’originale e, più in generale, di
un oltre lo specchio indipendente rispetto al nostro mondo, una sorta
di anti-mondo. Carroll, spingendo Alice oltre lo specchio, crea un mondo
fatto di emozioni e di situazioni paradossali immaginando l’ingresso in una
zona inesistente, in un altro mondo parallelo, quello interno allo specchio:
la protagonista si divincola dalle catene delle regole e delle consuetudini
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e, attraversando lo specchio, dimostra di poter credere a tutto quel che
incontra. Al di là dello specchio si respira nella dimensione del sogno
perché la superficie riflettente pare carpire la nostra identità, sembra un
altro da noi, addirittura noi stessi. La teoria che sostengo è che il mondo
che sta oltre lo specchio, proprio come quello di Alice nel Paese delle
Meraviglie, sembra uguale a quello reale ma invece è diverso, ed entrare
dentro di esso anche per quel che riguarda noi stessi, oltre che il mondo
fuori, significa capovolgere le abitudini acquisite della nostra cultura. Con
un’ottica interdisciplinare attenta agli scenari aperti dalle nuove forme di
comunicazione e di espressione che possono celarsi dietro la riflessione
come rappresentazione, ho trattato anche il rispecchiamento allo scopo
di utilizzare il rapporto empatico come forma di costruzione della sintonia
tra diversi esseri viventi. Il rispecchiamento, che ho riscontrato nelle pagine
delle storie, può essere d’estremo aiuto in un processo d’identificazione
tra gli autori e le storie che elaborano, nel riconoscimento di sé stessi tra
i lettori e le pagine, e di correlazione tra i personaggi delle opere. Quando
un bambino tiene tra le mani uno specchio tende a congiungere ogni
parte della sua faccia alla superficie riflettente, come se volesse passarci
attraverso, nello stesso modo in cui la oltrepassa Alice.
Anche se si riconosce nello specchio, l’infanzia va tuttavia a cercarsi dietro
esso: prende possesso del suo doppio (che si tratti dell’immagine riflessa
o di un compagno immaginario è ininfluente), e tuttavia lo tratta come
un altro sé: i bambini ad esempio attribuiscono la loro ombra a terra a
qualcun altro, ma tuttavia gridano che gli si fa male quando qualcuno la
pesta.
L’argomento è carico di aspetti simbolici soprattutto per quanto
riguarda l’evidente implicazione dei gemelli, che di per sé sono l’estrema
manifestazione del tema del doppio non solo nella letteratura, ed è
perciò in questo senso che sono prossimi al riflesso dello specchio. La
coppia gemellare, che esercita una forte fascinazione su chi li circonda a
causa o per merito della costante ricerca dell’identità ai quali essi sono
sottoposti, possono essere correlati alla figura del compagno immaginario
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del bambino, o dell’Ombra, che al di là dell’essere apparentemente e
iconicamente uguale al piccolo stesso, può rivelare una personalità altra,
con la quale ci si può trovare in accordo, ma anche in conflitto, a causa
del suo stesso comportamento imprevedibile: come l’ombra di Peter Pan
quella del bambino scompare, riappare, si allunga, si accorcia, inventa un
gioco con la sua presenza insistente, ma può dissociarsi dall’interazione
ludica appena intrapresa. Il doppio all’interno della letteratura, oltre ad
essere evidente nelle coppie gemellari e in tutti i doppi che il bambino
può crearsi (che si tratti di un’ombra, di un compagno immaginario, o di
un peluche), può essere anche caratterizzato da un personaggio e dal
suo Sosia, attraverso la rappresentazione dell’esistenza di due persone
distinte che hanno lo stesso aspetto esteriore ma che, come i gemelli,
si differenziano per il loro aspetto interiore e per i loro atteggiamenti,
proprio come avviene nel romanzo “Il principe e il povero”. Un’altra
implicazione può essere rappresentata dalla possibilità che esista un
gemello nascosto dentro ciascuno di noi: in modo differente da ciò che
avviene quando i protagonisti delle storie sono entrambi ragazzi, sosia
uno dell’altro, può succedere che nei libri il doppio venga rappresentato
dalla stessa persona, come Narciso e il suo riflesso nell’acqua che funge
da specchio. Due eccezionali romanzi fanno da testimonianza a questa
tesi: “Il ritratto di Dorian Gray” è il primo, in cui il quadro, specchio dei
vissuti del protagonista, è una sorta di coscienza per Dorian costretto a
invecchiare e a macchiarsi delle colpe e dei peccati di quest’ultimo, che
si trova spesso a guardarlo esaminandolo, ricordandosi quale sia la vera
realtà e nascondendosi al contempo dietro una bellissima maschera.
Un’altra tipologia di forma sotto la quale si può celare la comprensione
di se stessi, dove l’altro da sé assume la straordinaria funzione di agente
socializzatore facilitando al soggetto l’ingresso nella società di appartenenza,
è “Lo strano caso del Dottor Jekyll e Mister Hyde”.
Il termine “rispecchiamento”, ad un primo approccio, porta il pensiero nella
direzione di una semplice riflessione davanti allo specchio, o in qualunque
superficie che rifletta l’immagine che trova davanti a sé, ma ad una più
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profonda significazione specchiarsi può significare imitare, guardare fisso
qualcuno per osservarlo, per prenderne esempio, per riflettersi nelle sue
azioni, come accade nel libro “L’occhio del lupo”; il termine può condurre
anche all’analisi della riflessione come rappresentazione di ciò che un
autore è, e può esprimere, attraverso le parole che riproducono sentimenti,
o esperienze, all’interno dei libri. Tutto ciò conduce alla creazione di una
sorta di filone intrecciato del rispecchiamento e delle identificazioni
che possono perciò essere riscontrate come rapporto empatico tra
personaggi dello stesso romanzo, tra gli autori e le loro opere, e tra le
pagine da loro scritte e i lettori (come accade spontaneamente nella
lettura di alcune famose storie tra cui spicca il celebre personaggio del
Piccolo principe, che è l’identificazione del suo stesso autore Antoine de
Saint-Exupéry, e di tutti i lettori che con la mente aperta leggono le pagine
del libro). Quest’ultima raffigurazione del rispecchiamento può essere
ricercata nella capacità degli autori di riuscire e creare testi ed opere in
cui i lettori possono riconoscersi, immedesimarsi, e proiettarsi, fino ad
esserne emotivamente coinvolti. Perché, se è vero che la letteratura per
l’infanzia presenta tanti specchi come oggetti veri e propri ritrovabili nelle
sue trame, è anche vero che nel suo insieme essa stessa si presta appunto
da specchio, in cui gli autori e i lettori vedono riflesse parti di sé: le storie
servono proprio a questo, sono indispensabili per essere utilizzate come
rispecchiamento della vita, servono per farci riflettere, per rappresentarci,
per permettere a chiunque di sognare un mondo diverso da quello che
ci circonda. Nonostante gli studi teorici di vario tipo che ho effettuato,
la letteratura ha ancora tanto da dire rispetto allo specchio, alle sue
proiezioni, alle sue identificazioni, ai suoi doppi e ai suoi riconoscimenti,
perché essa è uno dei pochi “luoghi” che ci permettono di comprendere
noi stessi, che arricchiscono l’uomo e aprono lo sguardo sul mondo e
su di noi, proprio come lo specchio è l’unico oggetto che ci permette di
vedere la nostra immagine, altrimenti inaccessibile al nostro sguardo.
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In punta di piedi
su scarpette di cristallo
di Clara D’Onofrio
Relatrice Prof.ssa Giorgia Grilli
Q
uando si è cresciuti con la consapevolezza che i libri sono porte per
raggiungere altri mondi, nei quali è possibile diventare chiunque e
vivere qualsiasi avventura, scrivere una tesi sulla letteratura è un po’ come
un sogno che si avvera.
Fin dalla preparazione per l’esame di letteratura per l’infanzia, infatti, è
andata crescendo la passione per una materia che si incontrava così
spontaneamente con i miei interessi. Mentre studiavo mi accorgevo di
quanto incanto contenesse questa disciplina e di quanto sarebbe stato
bello poter lavorare a lungo su qualcosa di tutto mio, fino a quando
sono riuscita a trovare un argomento tanto vasto quanto affascinante,
abbastanza per convincere la professoressa Giorgia Grilli a farmi
intraprendere questo meraviglioso viaggio nella letteratura per l’infanzia.
Il tutto è partito dalle scarpe, infatti avevo notato come spesso, nelle
fiabe famose, fossero presenti scarpe speciali (nel senso di fattezza o di
poteri magici), poi mi sono accorta di come tornassero i piedi scalzi o
le ferite a uno degli arti. Ma la vera illuminazione mi è venuta leggendo
“In volo, dietro la porta”, il libro della mia relatrice; qui, infatti, ho trovato
non solo qualche elemento di studio in più, ma lo spunto per la ricerca,
anche in romanzi, degli stessi princìpi che avevo trovato nella letteratura
per l’infanzia più famosa.
Nel mio studio, infatti, sono state analizzate trame di fiabe, romanzi e film
in maniera da estrapolare da ognuna di esse gli argomenti essenziali che
23
vi si incontrano.
Ho voluto concentrarmi anche su lavori cinematografici, alcuni recenti
altri degli anni trenta, per sottolineare che i temi da me affrontati sono
tuttora non solo nella letteratura contemporanea, ma anche nel cinema
o in televisione.
Ragionando e confrontando le opere, dai miti greci fino ai libri e alle
pellicole più recenti, ho approfondito quelle che possono sembrare pure
coincidenze, ma che, invece, ho dimostrato essere idee concrete,
trasversali a diverse culture, studiate da grandi storici ed antropologi, e
provenienti tutte dallo stesso “padre”: lo sciamanismo.
E’ questo, infatti, il centro di tutto il mio lavoro, che rappresenta una
ricerca e un’analisi di come, alla base di tutta la letteratura infantile, il
fiabesco e i riti iniziatici siano elementi che ricorrono e che sono presenti
fin dai tempi ancestrali.
Ho strutturato questo studio in cinque sezioni trattando, in ognuna,
un elemento fiabesco e il suo corrispettivo sciamanico. Scarpe, ferite,
claudicanza, danza e volo vengono spiegate in modo da coinvolgere il
lettore affascinandolo con una miscela di fantasia e realtà, di fiabesco e
ve(riti)ero.
Nel primo capitolo ho messo a confronto le varie versioni mondiali
della fiaba “Cenerentola”, sottolineandone differenze e punti in comune;
ho inoltre messo in luce diverse analogie tra l’eroina, gli déi mitologici
e pagani, e gli eroi greci. Infine, ho introdotto il tema dell’asimmetria
deambulatoria che caratterizza diversi personaggi che vanno o vengono
dall’aldilà, quello delle ferite simboliche a uno o ad entrambi gli arti, e il
significato folklorico delle scarpe: il perdere una scarpetta o il camminare
scalzi, infatti, è stato collegato ad un’eventuale perdita della verginità; ma si
vedrà, anche, come una calzatura possa permettere il riconoscimento di
un personaggio, come troviamo per esempio in Cenerentola e in diversi
miti greci, o come possa essere l’oggetto magico che aiuta i protagonisti
nei lunghi spostamenti (gli stivali delle sette leghe).
24
Il secondo capitolo è dedicato alle ferite simboliche autoinflitte e a quelle
che vengono inflitte da altri a causa di un rituale per rendere un bambino più
potente o immortale, per evitargli dolorose trasformazioni in determinati
periodi dell’anno, o anche per cercare di sfuggire da una profezia funesta.
La ferita produrrà dolore e a volte porterà a una zoppaggine caratteristica
o spesso anche alla morte; in alcuni casi le eroine trattate si troveranno
“costrette” ad amputarsi o farsi amputare parte degli arti per amore
dell’amato, per la danza, e a volte per la vita stessa... in altri casi, l’amore viene
trasformato nella voglia di sentirsi come tutti gli altri. Comunque, il rito che
prevede una ferita, ha quasi sempre uno scopo iniziatico, ovvero intende far
diventare un bambino membro della società adulta.
Nel terzo capitolo ho approfondito il tema dell’asimmetria deambulatoria
dividendolo a seconda del motivo che determina la claudicanza: questa,
infatti, può essere causata dal monosandalismo (come per Cenerentola,
per Italia in “Non ti muovere”, o per il piccolo Menèc ne “L’albero degli
zoccoli”, ecc...), dalle ferite simboliche che abbiamo visto essere alla base
dei riti iniziatici e che troviamo nella leggenda di Edipo ma anche ne
“La sirenetta” di Andersen; infine, la claudicanza è presente anche in casi
estremi come l’assenza di un arto, che caratterizza personaggi quali: Long
John Silver de “L’isola del tesoro” o il più recente Tariq di “Mille splendidi
soli”, il soldatino di stagno della fiaba anderseniana o il Tenente Dan di
“Forrest Gump”, che nella guerra del Vietnam ha perso entrambe le
gambe. Queste deambulazioni difficili hanno, però, origini antiche e rituali:
partendo da Dioniso, il dio che fa vacillare anche a causa dell’ebrezza,
fino agli sciamani che per andare in estasi spesso intraprendono una
danza rituale famosa anche sotto il nome di “passo di Yu”, è importante
sottolineare come l’avere un passo diverso dal comune faccia di un
personaggio una figura liminare, ovvero che può viaggiare tra il nostro
mondo e l’Altrove, regno per antonomasia di spiriti, morti e particolarità.
A questo proposito è impossibile non citare Mary Poppins, la figura
liminare per eccellenza, che con il suono del suo inseparabile ombrello con
25
il manico a forma di testa di pappagallo, eccede il normale passo binario.
Il quarto capitolo affronta un tema particolarmente affascinante, ovvero
la danza. Partendo da uno dei personaggi più romantici del fiabesco
moderno, la sirenetta di Andersen, si entra in un argomento toccante.
Continuando poi con “Scarpette rosse”, il tema dal ballo assume altri
significati profondi (oltre al sacrificio della propria vita per amore e per
poter essere uguale a tutti gli altri umani) come la precarietà della vita o il
dedicare un’intera esistenza alla danza. Si passerà, poi, a parlare di quando
la danza rischia di essere eterna, come accade in alcune fiabe dei fratelli
Grimm quali “Biancaneve” o “Il diletto Orlando”; tutto questo serve
anche a dare l’idea di un “condimento” tipico del fiabesco dei Grimm
e facilmente ritrovabile in altri testi: il tema del perturbante. Finali come
quelli di “Scarpette rosse” in cui la piccola Karen si vede costretta a farsi
amputare i piedini pur di smettere di danzare, o personaggi quali il pirata
Long John Silver o altri suoi compari che troviamo nella lettura de “L’isola
del tesoro”, sono un esempio perfetto di figure che portano con loro
mistero e un pizzico di inquietante; di questo argomento la governante
più famosa del mondo, Mary Poppins, è la regina: infatti è la prima ad
affascinare per via dei suoi modi di fare bruschi ma sempre simpatici e per
una porzione di mistero non da poco.
Nel quinto ed ultimo capitolo si parlerà del volo e non potrà mancare
il principe dei folletti Peter Pan, di cui ho affrontato sia le avventure
con i bambini Banks che la storia. Un’altro personaggio significativo è,
ancora, Mary Poppins, che spesso e volentieri scopriamo in voli magici in
compagnia dei piccoli protagonisti dei suoi libri, per cui appare sempre
più evidente la sua somiglianza con la figura dello sciamano. Con il libro
di Calvino “Il barone rampante”, poi, appare evidente come il volo serva
soprattutto a far cambiare punto di vista: dall’alto tutte le cose appaiono
diverse, e non è un caso se il protagonista Cosimo decide di passare
tutta la sua vita senza mai toccare terra: vivendo sugli alberi, è possibile
26
estraniarsi da una realtà che a volte appare noiosa, tutta uguale. Infine, ho
voluto affrontare un argomento essenziale parlando di infanzia: ovvero il
saper volare di fantasia. Nel film di Jean Vigo “Zero in condotta” troviamo
un professore diverso dagli altri, il sorvegliante Huguet, che riuscirà a
farsi amare dai suoi ragazzi proprio per questa somiglianza al loro essere
spensierati e “leggeri”. In una famosa scena della pellicola è possibile
vedere l’uomo mentre diverte i ragazzi in una verticale in equilibrio sulla
cattedra: in questo modo Huguet mostra agli studenti (e a noi spettatori)
che non vede la realtà come tutti gli altri adulti, ma che, osservando il
mondo al contrario, tutto può apparire differente.
27
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- (1937) Biancaneve e i sette nani di David Hand, Walt Disney
- (1939) Il mago di Oz di Victor Fleming
- (1940) Pinocchio di Hamilton Luske, Ben Sharpsteen
- (1948) Scarpette rosse di Michael Powell, Emeric Pressburger
- (1950) Cenerentola di Clyde Geronimi, Wilfred Jackson, Hamilton Luske
- (1952) Giochi proibiti di René Clement
- (1953) Le avventure di Peter Pan di Hamilton Luske, Clyde Geronimi, Wilfred
Jackson, Walt Disney
- (1962) Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan
- (1964) Mary Poppins di Robert Stevenson
- (1978) L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi
- (1987) L’impero del sole di Steven Spielberg
- (1989) Il mio piede sinistro di Jim Sheridan
- (1989) La sirenetta di John Musker, Ron Clements
- (1991) Hook – Capitan Uncino di Steven Spielberg
- (1993) Il giardino segreto di Agneszka Holland
- (1994) Forrest Gump di Robert Zemeckis
- (1997) Il grande Lebowsky di Joel Cohen
- (1997) La vita è bella di Roberto Benigni
- (2001) Harry Potter e la Pietra filosofale di Chris Columbus
- (2002) Harry Potter e la Camera dei segreti di Chris Columbus
- (2002) Pinocchio di Roberto Benigni
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- (2003) Appuntamento a Belleville di Sylvain Chomet
- (2003) Big Fish di Tim Burton
- (2003) Io non ho paura di Gabriele Salvatores
- (2004) Harry Potter e il prigioniero di Azkaban di Alfonso Cuaròn
- (2004) Neverland – Un sogno per la vita di Marc Forster
- (2004) Non ti muovere di Sergio Castellitto
- (2004) The village di Manoy Night Shyamalan
- (2005) Harry Potter e il Calice di fuoco di Mike Newell
- (2005) La sposa cadavere di Tim Barton
- (2006) Il diavolo veste Prada di David Frankel
- (2006) La ricerca della felicità di Gabriele Muccino
- (2007) Harry Potter e l’Ordine della fenice di David Yates
- (2008) Into the wild di Sean Penn
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Armadi: quando bambini, segreti e paure
si nascondono nel ripostiglio
di Elisa Sedani
Relatrice Prof.ssa Giorgia Grilli
L
’idea di fare la tesi sull’armadio è nata in seguito alla visione del film
“Le cronache di Narnia – Il leone, la strega e l’armadio” prodotto dalla
Disney e uscito nelle nostre sale cinematografiche nel 2005. La storia
racconta l’avventura vissuta dai quattro fratelli Pevensie i quali, passando
proprio attraverso il mobile, giungono in un mondo fantastico ricco di
personaggi e luoghi per noi inimmaginabili. Mi ha colpito particolarmente
lo sguardo stupito e incantato della piccola Lucy, la sua perseveranza nel
raccontare quanto aveva visto ai suoi fratelli, che non riuscivano a credere
alle sue parole, e il fatto che un oggetto così comune nelle case di ognuno
di noi potesse rivelarsi tanto speciale e denso di magia e mistero. Anche
33
in un libro letto qualche anno fa, La stanza 13, questo mobile era investito
di una funzione totalmente fuori dal comune: di giorno era un armadio
come tanti altri, ma di notte si trasformava nella stanza di Dracula.
Mi ha interessato fin da subito il fatto che lo stesso oggetto potesse avere
connotazioni così contrastanti tra loro.
Da queste osservazioni e da questi pensieri ho cercato di fare chiarezza
su quali sono i vari significati che può avere l’armadio nella letteratura
per l’infanzia e ho indagato sulle cause che portano tale mobile a destare
tanta curiosità e ad apparire così particolare agli occhi dei più piccoli.
Mi è stato di grande aiuto il lavoro di Antonio Faeti sul genere horror in
quanto, nonostante sia riferito in gran parte alle opere di Stephen King,
fa chiarezza su cosa spinge l’infanzia verso l’orrore e, soprattutto, quali
elementi fanno sì che un qualcosa abbia un certo carattere orrorifico;
anche il saggio di Giorgia Grilli sulla curiosità, contenuto in “Infanzia e
racconto”, mi ha suggerito diversi spunti poiché, a mio avviso questo
tratto, che appartiene ad ogni bambino, è fondamentale per l’avvenimento
di una storia: se i bambini non mettessero sempre in dubbio tutto e non
andassero a verificare, come potrebbe esserci qualcosa di interessante da
raccontare?
Nel primo capitolo della tesi ho riflettuto su ciò che porta i bambini
verso il mobile; innanzi tutto esso è metafora dell’infanzia: gli adulti non
conoscono l’infanzia in tutti i suoi aspetti, anche se spesso sono convinti
del contrario; allo stesso modo non conoscono i mobili che hanno in casa,
non vanno al di là delle apparenze e dell’aspetto esteriore, cosa che, al
contrario, fanno molto spesso i bambini. Questo avviene perché i grandi
non sanno più guardarsi attorno con gli occhi del bambino che, come
dice Pascoli, è e sarà sempre in loro. Grande spazio è dato anche allo
sguardo curioso tipico dell’infanzia, quello sguardo che, come enunciato
precedentemente, mette tutto in discussione perché non si accontenta
delle spiegazioni banali dei grandi.
Nel secondo capitolo mi sono concentrata sulle possibilità di “altrove”
34
che l’armadio dona ai fanciulli che lo aprono ed entrano in esso. Ho
distinto in particolare quattro tipi di mondi paralleli al nostro: uno è un
mondo reale, concreto, abitato da altre persone, come il caso di Narnia;
un altro è piuttosto un mondo immaginario, un luogo in cui si rifugia la
mente ma non il corpo, che rimane all’interno dell’armadio; è ciò che
accade a Jess, La bambina Icaro; il terzo invece è un mondo concreto
ma creato sempre dai bambini, un mondo che rimane Qui ed è fatto
dalle cose che conosciamo perché sono nostre, dai giocattoli e dai vecchi
oggetti che si trasformano fino a divenire qualcosa di completamente
nuovo e diverso da prima: si tratta del mondo di Anna, protagonista della
fiaba di Andersen, La stanza dei bambini. L’ultimo “altrove” infine è quello
in cui viene portata Maria, protagonista della famosa fiaba di Hoffmann
Schiaccianoci e il Re dei Topi. E’ sempre un mondo concreto ma, a differenza
di Narnia, non sono i bambini ad entrare in esso, bensì è lui a farsi vivo e
presente nella nostra realtà, o meglio, nella realtà di Maria.
Ho ragionato molto, in particolare nel capitolo dedicato alla paura,
sull’importanza della quotidianità, la quale è elemento imprescindibile per
la nascita della storia: è dagli oggetti quotidiani che i bambini sono attratti,
e sono essi stessi a portare ad un Altrove, a contenere mostri e altre
cose strane, bizzarre, pazzesche. L’armadio inoltre, così come la soffitta, la
cantina o addirittura la casa in sé, sono luoghi chiusi da cui è impossibile
fuggire e per questo sono luoghi ideali per creare stati d’animo d’angoscia
e di terrore.
Scrivere queste pagine, oltre che interessante, è stato come un ritorno al
passato, piacevole sotto alcuni aspetti e un po’ meno sotto altri. Piacevole
poiché mi sono spesso rispecchiata in alcuni personaggi dei racconti letti.
Altre volte mi sono invece sentita come se stessi frugando tra cose che
non mi appartengono, come se stessi cercando di portare alla luce i trucchi
di un prestigiatore: per quanto possa essere eccitante sul momento, poi
lo spettacolo perde il suo fascino; allo stesso modo ho temuto che, una
volta scoperto ciò che rende l’armadio tanto attraente agli occhi infantili,
avrebbe poi perso quel fascino che, a mio avviso, lo contraddistingue da
35
sempre. Fortunatamente non è stato così, anzi.
Mai mi sarei aspettata che l’immagine dell’armadio potesse contenere
così tante suggestioni capaci di attrarre i bambini!
Questa tesi è stata per me una sorta di viaggio incredibile ed interessante,
che mi ha portato a vedere moltissimi luoghi differenti tra loro, ma tutti
parte di un unico mondo, all’apparenza troppo piccolo per contenere
tanto: l’armadio.
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38
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di Miro Dogliotti e Luigi Rosiello, 11. ed., Bologna, Zanichelli, 1992.
39
Un dolce suon di cucchiaini, esperienza
di un progetto sonoro al nido
di Barbara Bedei
Relatrice Prof.ssa Anna Rita Addessi
I
l titolo della tesi prende il nome dal progetto musicale realizzato
durante il tirocinio del terzo anno universitario, in concomitanza con
la mia partecipazione al GRES, Gruppo di Ricerca sull’Educazione al
Sonoro, promosso dalla Facoltà di Scienze della Formazione e dal Settore
Istruzione del Comune di Bologna.
Nel corso degli anni accademici ho affrontato diverse discipline, alcune in
parte conosciute e approfondite, altre per me completamente nuove ed
estremamente interessanti, come l’Educazione al Sonoro, che si è rivelata
utile per acquisire la consapevolezza dell’importanza di un’educazione
musicale precoce. In particolare, gli scritti di Delalande, mi hanno avvicinato
ad una nuova metodologia educativa basata sul “risveglio e attivismo
musicale” e sull’osservazione delle “condotte” sonoro-musicali infantili,
dove non si impartiscono insegnamenti espliciti, valutando il soggetto in
base al raggiungimento dell’obiettivo prefissato, ma si accompagna e si
sostiene il bambino nelle sue prime e incerte esplorazioni musicali fino
all’elaborazione creativa del suono. Da qui è nata la voglia di mettermi in
gioco e di creare un percorso sonoro in grado di incentivare nel bambino
la voglia di fare, di scoprire, di giocare con i suoni e con la musica.
L’obiettivo principale che mi sono proposta è stato quello di avvicinare
i bambini alla musica, creando un’attività che fosse in grado di stimolarli
all’esplorazione del suono. In particolare, il mio intervento è stato
finalizzato all’osservazione delle”condotte” sonoro-musicali, è stato
concentrato, quindi, non tanto sul comportamento, quanto sulla finalità
sonoro-musicale che motiva l’azione del bambino. Il mio intento è
41
stato quello di creare le condizioni favorevoli per garantire al bambino
la piacevole scoperta del suono, nella consapevolezza che il modo
migliore per motivare il suo interesse musicale, fosse quello di basarlo
sull’esperienza diretta. Proponendo occasioni per sperimentare, mi sono
prefissata lo scopo di stimolare la curiosità dei bambini, accompagnandoli
all’esplorazione del suono, nel tentativo di rendere possibile il passaggio
dall’esplorazione dell’“oggetto materiale” all’esplorazione dell’”oggetto
sonoro”, base dell’invenzione musicale.
Il progetto, realizzato nella sezione medi del nido “18 Aprile” del Comune
di Bologna, si struttura in cinque incontri consecutivi a “piccolo gruppo”
(quattro bambini di età compresa tra i 16 e 18 mesi) durante i quali ho
pensato di proporre un materiale semplice e di uso quotidiano come
cucchiai e cucchiaini, capace di stimolare i bambini alla ricerca creativa
del suono e della musica. Come strumento di osservazione ho scelto
l’utilizzo della videocamera. Il mio ruolo è stato attivo e partecipe sia
nella fase di allestimento del contesto e dei materiali, sia nella fase di
sperimentazione (dove attraverso azioni mirate di rilancio, si incoraggia
il bambino nell’esplorazione musicale, aiutandolo nel delicato passaggio
che porta dalla scoperta spontanea del suono alla creazione musicale),
sia, infine, nell’analisi a posteriori del percorso sonoro.
Per la realizzazione del progetto mi sono procurata circa una settantina
di cucchiai e cucchiaini in metallo, spago e corda elastica che mi sono
serviti per costruire una sorta di “tenda sonora” che ho appeso da una
parete all’altra della stanza della motricità (precedentemente svuotata
per l’occasione) ad un’altezza tale da consentire la facilità del gioco e
dell’esplorazione. Le fasi del percorso sono state: l’esplorazione da
parte dei bambini, l’osservazione delle condotte da parte dell’adulto e
l’intervento dell’adulto attraverso i rilanci e le strategie di promozione
dall’interno. Durante i cinque incontri i bambini venivano invitati ad
entrare nella stanza debitamente allestita per esplorare in piena libertà
il materiale proposto; essi guardavano, toccavano, portavano alla bocca,
tiravano, sbattevano, lanciavano cucchiai e cucchiaini. Inizialmente i gesti
42
compiuti erano casuali e ripetitivi, per diventare pian piano sempre più
intenzionali e finalizzati non più alla conoscenza delle caratteristiche
tecniche e morfologiche del materiale proposto, ma alla ricerca del
suono. Riporto a scopo maggiormente esplicativo la descrizione dl primo
incontro.
Primo incontro: esplorazione - I bambini vengono accompagnati nella
stanza, mentre io, già all’interno, osservo il comportamento dei piccoli
riprendendoli con la videocamera. Dopo qualche minuto di osservazione,
i bambini si avvicinano alla “tenda sonora” e iniziano l’esplorazione. Lelo
gioca attivamente con l’arredo sonoro tirando i cucchiai verso il basso
e lasciandoli oscillare in un concerto tintinnante; ripete svariate svolte la
medesima azione, e quando l’attenzione non è più incentrata sul gesto
prodotto, ma sul suono che ne risulta, capisco che siamo di fronte ad
una “condotta” sonoro-musicale. Su imitazione, Asia ricalca la “condotta”
del bambino, apportando variazioni che consentono l’esplorazione di
nuove modalità di gioco, realizzando una nuova tipologia di “condotta”:
sbattere i cucchiai appesi l’uno contro l’altro. Alice si allontana dalla
“tenda” per raccogliere alcuni cucchiaini dal suolo; dopo averli guardati e
portati più volte alla bocca, li raggruppa in un mazzo e li lascia cadere a
terra, ripetendo più volte la sequenza per diversi minuti; la sua attenzione
progressivamente si concentra solo sul suono prodotto, riproducendo
l’azione per ascoltare ciò che ode (ulteriore “condotta sonora”). Arrivati
al diciassettesimo minuto, l’attività volge al termine; i piccoli sono ormai
stanchi e il rumore del carrello del pranzo induce anche l’ultimo bambino
rimasto ad abbandonare ogni attività per raggiungere l’educatrice perché
giunto il momento del pasto.
Nel corso di questa esperienza ho potuto osservare la comparsa di
numerose “condotte musicali” e l’evolversi di un percorso sonoro che,
partendo da un’esplorazione un po’ timida e incerta, si è arricchito
giorno dopo giorno, per approdare all’invenzione musicale, considerando
il bambino non come individuo in grado solamente di ripetere la musica
proposta dall’adulto, ma come soggetto attivo, al centro dell’attività perché
43
capace di esplorare, produrre e creare egli stesso suoni e musica.
L’idea del progetto non è stata subitanea, anzi, inizialmente ho analizzato
percorsi ricchi e complessi e considerato diversi materiali con cui
certamente i bambini avrebbero manifestato diversi atteggiamenti, ma
come ho potuto notare in prima persona, anche oggetti semplici e di
uso quotidiano hanno stimolato i piccoli alla ricerca del suono. Prima
di iniziare la sperimentazione, avendo limitate esperienze con i bambini,
relative solo ai precedenti tirocini, temevo di non riuscire a cogliere
pienamente i desideri dei soggetti, e che dunque l’attività proposta non
avrebbe stimolato e avvicinato i piccoli alla ricerca e all’esplorazione delle
potenzialità musicali dell’allestimento sonoro. Dopo il primo incontro,
invece, mi sono immediatamente accorta che le mie perplessità erano
del tutto infondate perché i bambini sono stati completamente attratti
dalla “tenda sonora”, scoprendo numerose ed inimmaginabili modalità di
gioco, che sono andate ben oltre le mie iniziali aspettative.
Sicuramente questa esperienza mi ha dato l’opportunità di mettermi in
gioco in prima persona sia come educatrice che come osservatrice e
ricercatrice, permettendomi di maturare una profonda consapevolezza
sull’importanza di un’educazione musicale precoce. Inoltre il contributo di
Delalande e in particolare l’osservazione della “condotte” sonoro-musicali,
mi ha donato un ulteriore strumento di osservazione che, diventato
patrimonio del mio curricolo formativo, sarà spendibile e utilizzabile in
campo lavorativo.
44
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50
L’educazione musicale
a Monte Quemado in Argentina
di Caterina Telari
Relatrice Prof.ssa Anna Rita Addessi
M
onte Quemado è la
capitale del Copo, uno dei
27 dipartimenti della regione di
Santiago del Estero, situato nel
territorio del Chaco al centronord dell’Argentina. Il sole
cocente, il costante vento del
nord e le piogge scarse fanno di
questa zona una delle più calde
dell’intero paese. In questa terra
arida e ostile, la povertà economica e culturale è ancora oggi una realtà che
accomuna gran parte delle persone, come di conseguenza il loro forte legame
con la religione, la superstizione, le tradizioni e la famiglia.
L’ipotesi della ricerca
La musica è uno degli elementi principali che rimane impresso a chi si
appresta a conoscere questa società, sia per l’alto valore che riveste nella
cultura sia per la sua continua presenza nella vita delle persone.
La particolarità è che il repertorio ascoltato, suonato e ballato è
costituito principalmente da musica folklorica locale, con l’esclusione di
altri generi come ad esempio la musica internazionale, classica, ma anche
quella folklorica di altre regioni argentine. Sono tre i punti fondamentali
51
attraverso i quali è possibile sintetizzare la mia ipotesi di ricerca ed è
possibile riassumerli nelle seguenti considerazioni:
a causa della forte presenza della musica folklorica all’interno della
società, i bambini sono maggiormente influenzati ad apprendere ed
apprezzare questo specifico repertorio musicale;
nei contesti informali i bambini sono incoraggiati ed invogliati ad
apprendere a suonare e ballare la musica folklorica locale sia dalla
società sia dalla famiglia indirettamente attraverso la presenza così
frequente di questo tipo di musica, direttamente attraverso le
stimolazioni fornite dai genitori che suonando o ballando in casa
incoraggiano il bambino ad imitarli;
nei contesti formali l’insegnamento musicale avviene oralmente
e non attraverso la musica scritta. Normalmente non vengono
incoraggiate l’improvvisazione o l’esplorazione libera degli oggetti
sonori, ma si punta soprattutto all’imitazione e alla riproduzione
sonora “ad orecchio”.
Metodo di ricerca
Come metodologia di ricerca sia nei contesti formali (nella scuola di
musica, nelle scuole materne, ecc…) sia nei contesti informali (in famiglia,
nelle feste popolari, ecc…) ho utilizzato l’osservazione partecipante, con
rilevazione dei dati «carta e matita» e attraverso la videocamera.
Molto utili si sono rivelate anche le conversazioni di tipo informale che
mi capitava quotidianamente di intrattenere con le educatrici delle scuole
materne o con i genitori dei bambini.
Infine, per le educatrici delle otto scuole materne presenti nella città, ho
utilizzato un questionario a risposta aperta attraverso il quale ho cercato di
indagare come veniva organizzato il tempo a scuola e che ruolo rivestivano,
se erano previste, le attività di educazione al sonoro. Inoltre, ogni giorno,
avevo cura di compilare un diario in cui riportavo tutti i fatti accaduti o le
informazioni che riuscivo a raccogliere durante l’arco dell’intera giornata
52
(Mantovani, 1998, Rossi, 2003). I luoghi in cui ho svolto gran parte della
ricerca sono stati la scuola materna, Mis Primeros Passos, costituita da
tre classi di bambini di 3, 4 e 5 anni, e la scuola municipale di musica
frequentata prevalentemente da ragazzi e ragazze tra i 6 e i 17 anni. Per
quanto riguarda i contesti informali invece, la raccolta dei dati si è svolta
prevalentemente durante le feste pubbliche o all’interno delle famiglie.
Analisi dei dati raccolti e conclusioni
Dal 22 settembre al 24 dicembre 2007 ho svolto la ricerca sul campo.
Ritornata in Italia, mi sono dedicata all’analisi e alla traduzione dei dati
raccolti evidenziando in particolare quegli elementi utili per la discussione
dell’ipotesi iniziale.
Come riportato all’inizio, il repertorio musicale con cui vengono a
contatto gli abitanti di Monte Quemado ed in particolare i bambini ha
apparentemente due caratteristiche: di essere onnipresente in gran parte
delle circostanze e dei momenti della vita delle persone ma allo stesso
tempo di essere limitato e chiuso verso qualsiasi altro tipo di musica.
Un repertorio con queste caratteristiche gioca un ruolo da protagonista
nell’apprendimento e nell’insegnamento musicale influenzando i gusti
e le capacità di chi si appresta ad entrare nel mondo della musica. La
conferma di ciò è praticamente evidente in tutte le esperienze che ho
osservato nei tre mesi di permanenza, soprattutto all’interno della scuola
di musica dove gli allievi non conoscono la musica scritta ma riproducono
le canzoni ad orecchio o imitando altri che suonano, rendendo così la
trasmissione orale il metodo d’insegnamento più efficace.
Per quanto riguarda l’apprendimento e l’insegnamento musicale nei
contesti informali sia in famiglia che nella società i bambini subiscono un
forte incoraggiamento, sia direttamente che indirettamente, ad avvicinarsi
alla musica tipica della loro regione. Dai questionari infatti è emerso che
la maggior parte dei bambini e delle bambine sanno ballare le danze
folkloriche. Inoltre durante una conversazione con Julio, il maestro della
scuola di musica, ho avuto la conferma di come siano molti i bambini
53
che apprendono a suonare in casa imitando i propri genitori. Ciò che
viene continuamente evidenziato e che è facilmente rintracciabile nei dati
raccolti ed analizzati, è la marcata divisione dei ruoli musicali a seconda
del genere, per cui i maschi vengono maggiormente spinti a suonare e
a cantare mentre le femmine soltanto a cantare. Entrambi i sessi invece
vengono incoraggiati a ballare in quanto tutte le danze folkloriche locali
vengono eseguite in coppia.
Nella scuola materna viene poco valorizzata l’attività esplorativa degli
oggetti sonori e al contrario le educatrici spronano i bambini a suonare
gli strumenti nel modo convenzionale, a cantare con il sottofondo di
un CD o a ballare nel modo in cui si balla in televisione. Una conferma
di questo è rintracciabile anche nei questionari, dove la maggior parte
delle educatrici considera «attività musicale» solo ciò che presuppone
canto, ballo o pratica di uno strumento musicale, senza considerare che
anche i giochi sonori spontanei dei bambini potrebbero essere favoriti
e non sottovalutati in quanto rappresentano uno dei linguaggi espressivi
attraverso il quale il bambino comunica. Infine, nella scuola municipale di
musica si apprende a suonare attraverso le note delle canzoni folkloriche,
anche se ho potuto rilevare una certa volontà di cambiamento, soprattutto
in quelle persone che sono costrette a viaggiare fuori dalla città e a venire
a contatto con altri tipi di cultura e di conseguenza di repertori musicali.
Nelle parole di Julio si rileva proprio la consapevolezza che rendere più
ricco il repertorio musicale possa essere considerato un aiuto in più
nell’apprendimento e nell’accrescimento delle capacità sonore dei futuri
musicisti.
Infine, dall’analisi dei dati è emerso un elemento interessante che ha
catturato la mia attenzione. Nella società santiagueña inizia a prendere
campo la televisione come “oggetto” da imitare, marcando così un forte
contrasto tra una società ancora contadina, legata alle tradizioni e alla loro
conservazione, e l’entrata prepotente di questo apparecchio elettronico,
portatore di un nuovo stile di vita, corrispondente a quello delle
società industrializzate, desiderato ed emulato soprattutto dalle nuove
generazioni. Un esempio di questo passaggio così rapido è rappresentato
da una situazione osservata al Jardin in cui le bambine ballavano le canzoni
di un telefilm indirizzato prevalentemente ad un pubblico femminile
mentre i bambini non venivano coinvolti e nemmeno chiedevano di
poter partecipare. Questa divisione tra i due sessi per quanto riguarda
la danza è una novità tra i santiagueñi, visto e considerato che quando si
tratta di ballare le danze folkloriche regionali nessun bambino o bambina
si rifiuta di farlo.
Per concludere, questa esperienza in Argentina si è dimostrata importante
ed altamente formativa sia per la mia vita in generale, sia per la mia
professione di educatrice in particolare. Con il loro esempio di vita
quotidiana, gli abitanti di Monte Quemado mi hanno dimostrato come sia
possibile vivere e lavorare dignitosamente anche in condizioni di estrema
povertà, quando i materiali sono scarsi o non sono “all’ultima moda”. Ciò
che ho imparato qui è il sapersi arrangiare con quel poco che si possiede,
consapevoli che sarà poi il bambino con la sua fantasia a creare giochi
meravigliosi.
BIBLIOGRAFIA
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55
Il maschile nell’educazione della prima infanzia
di Carlo Gualini
Relatrice Prof.ssa Silvia Leonelli
L
a scelta del tema Il maschile nell’educazione della prima infanzia
nasce dalla mia esperienza di educatore in alcuni nidi d’infanzia in
tre regioni italiane. Poiché nel tempo ho sperimentato come, a partire
dalla semplice presentazione della domanda di assunzione, l’elemento
di genere assumeva un peso notevole, ora in positivo ora in negativo,
ho voluto mettere a confronto la mia esperienza e le mie valutazioni,
con le riflessioni disponibili sul tema. La limitatezza della letteratura sul
caso italiano mi ha spinto a cercare analisi condotte in altri paesi (ad es.
Cameron, 2001; Peeters, 2007; Rolfe, 2005; Sumsion, 2005). La diffusione,
anche a livello di senso comune, di modelli educativi paterni/maschili,
caratterizzati da un più ampio coinvolgimento nella totalità degli aspetti di
cura, si scontra con pratiche istituzionali e individuali spesso in contrasto
con tali orientamenti. Il confronto fra l’esperienza personale e queste
immagini ha suscitato il mio interesse per un’analisi delle aspettative sociali
sul ruolo maschile nell’educazione della prima infanzia e delle profonde
contraddizioni ad esse connesse.
Punti salienti
Nel primo capitolo l’attenzione della tesi, traendo spunto dalla riflessione
sullo stretto legame esistente fra i concetti di paternità e maschilità, si
concentra sulla costruzione sociale della paternità e sulla conseguente
interpretazione di “naturalità” della cura materna. Tale determinazione di
senso limita la donna nel ristretto confine del domestico e lascia all’uomo
il dominio del mondo costringendolo però, dopo quella corporea della
57
gravidanza, ad una nuova forma di (auto)esclusione dalla vita nella sua
veste più intima e profonda (Lo Russo, 1995). Allo scopo di analizzare le
nuove figure paterne emergenti, con particolare riferimento alla realtà
italiana contemporanea, la tesi approfondisce il tema della maschilità nella
sua evoluzione storica e sociologica. Emerge un modello di genitorialità
caratterizzato da un’accresciuta valenza del ruolo materno e da un
parallelo depotenziamento del ruolo paterno che, a fronte di una più
ampia dimensione comunicativa e ludica, assume la forma primaria
del disimpegno (Maggioni, 2000). All’interno dell’analisi del percorso
di costruzione di una scienza della maschilità assume rilevanza l’idea
del corpo come agente sociale capace di originare e modellare linee
di condotta sociali: una dimensione corporea imprescindibile ma non
strettamente determinata in senso biologico (Connell, 1996).
Il secondo capitolo affronta il tema delle ragioni a sostegno dell’aumento
della presenza maschile nei servizi alla prima infanzia e degli ostacoli che
vi si frappongono. L’idea di fondo è rappresentata dal riconoscimento del
positivo influsso sulle future generazioni rappresentato dalla presenza di
un modello di ruolo maschile (male role model) al di fuori della famiglia e
la conseguente possibilità che i servizi all’infanzia concorrano attivamente
alla creazione di una nuova cultura della cura svincolata da barriere
di genere. Le differenti convinzioni espresse da ricercatori, genitori,
operatori del settore, assumono a volte il carattere di una vera e propria
contrapposizione fra chi sostiene la naturale, quasi ovvia differenza fra
maschile e femminile e chi ne sottolinea invece l’origine essenzialmente
culturale ed esperienziale. Una posizione intermedia assumono i
sostenitori della predominanza dell’abilità e del valore professionale
dell’educatore/trice, a prescindere dalla componente di genere, e coloro
i quali affermano che solo un’intensa e costante interazione fra personale
maschile e femminile può produrre effetti positivi in educazione. Viene
descritta una situazione complessa, caratterizzata da forti motivazioni
verso la professione educativa e dal desiderio di esprimere una “nuova”
mascolinità, ma anche da numerosi condizionamenti e ostacoli, sia materiali
58
sia culturali, alla creazione di un maggior equilibrio di genere nel settore.
Il terzo capitolo, infine, presenta un quadro del dibattito pedagogico in
atto, riguardo al maschile nell’educazione della prima infanzia, secondo
una prospettiva di genere. Particolare attenzione viene riservata alla
narrazione delle esperienze dirette da parte di educatori, dalle quali
emergono forti contraddizioni fra il desiderio di rappresentare un modello
alternativo di maschilità e la frequente inconsapevole riproposizione di
modelli stereotipati che rafforzano le rigide divisioni fra i sessi inscritte
nell’ordine sociale. L’analisi delle modalità di relazione all’interno di
gendered organizations evidenzia come il tipo di mascolinità messa in atto
dagli uomini nei servizi alla prima infanzia sia di tipo complice, una forma di
mascolinità che beneficia della sistematica sottomissione femminile nella
società senza però parteciparvi direttamente. Questo tipo di mascolinità,
secondo alcune analisi (Sargent, 2005), non sarebbe tanto uno strumento
maschile di organizzazione del proprio ambiente lavorativo quanto un
artefatto, una costrizione a cui sarebbero spinti dalla gendered organization
di cui fanno parte. Gli uomini si rifugerebbero in modelli comportamentali
stereotipicamente maschili, finendo per confermare la presunta essenza
materna attribuita alla cura, perché messi sotto esame proprio quando si
comportano in modo troppo “femminile”, suscitando sospetti e timori di
abusi o di inadeguatezza. D’altra parte, in modo paradossale, gli uomini che
cercano di mantenere condotte non sessiste, anticonformiste, subiscono
la diffidenza da parte di molti uomini e donne.
Conclusioni
La riflessione sul maschile nell’educazione pone il problema se sia
ancora possibile basarsi su un’idea essenzialista delle attitudini maschili e
femminili, teorizzando di conseguenza la presenza di uomini nei servizi
alla prima infanzia che contrappongano maschilità a femminilità o se sia
auspicabile il pieno superamento delle opposizioni nella direzione di una
pedagogia di genere neutra. In un’ottica problematicista, che rifugga da
59
eccessive polarizzazioni, i temi della costruzione sociale della paternità,
del potere maschile, della paternità androgina, del paradigma di cura,
delle forme di maschilità, emersi dai diversi percorsi di analisi proposti,
vanno messi in relazione all’interno di una pedagogia che riconosca
e valorizzi la differenza sia a livello di genere sia a livello individuale.
Gli uomini, attraverso una rielaborazione cognitiva e personale del
paradigma di cura materno ed il recupero del valore della generatività
femminile, possono divenire pienamente partecipi del gesto di cura
in una dimensione professionale non più caratterizzata da barriere
di genere. E’ dalla creazione di uno spazio aperto al confronto che
è possibile sostituire all’ordine gerarchico della differenza un ordine
ugualitario nel quale gli elementi femminili e maschili rappresentino due
aspetti diversi e uguali, dotati cioè di pari dignità e valore se costitutivi
di un concetto più ampio di cura che nell’esercizio della responsabilità
verso l’altro pone il suo fondamento.
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60
Uomini e lavoro di cura al nido
di Nicola Ragazzini
Relatrice Prof.ssa Paola Manuzzi
R
isulta evidente come i servizi educativi rivolti ai piccolissimi, sono attualmente
abitati e curati professionalmente da personale femminile.
Questa realtà mi ha stimolato ad indagare quali motivi spingono gli uomini
a non intraprendere tale carriera, quali strategie potrebbero incrementare
il numero di educatori di sesso maschile, ed in quale modo questa figura
professionale potrebbe risultare complementare al lavoro di cura delle
donne.
Il primo capitolo della tesi prende in considerazione alcuni aspetti
della cura educativa. Dopo aver analizzato il termine dal punto di vista
semantico, ho cercato di delineare quelle che sono le pratiche di cura
svolte nell’ambito domestico-familiare e quelle dell’ambito professionale,
facendo emergere caratteristiche comuni e divergenti. Queste ultime,
non intendono evidenziare una scissione tra i due ambiti, ma sottolineare
l’importanza di una continuità educativa tra famiglie e servizi. In termini
più concreti ed operativi possiamo affermare che dal domestico e dal
professionale emergono due approcci diversi alle pratiche di cura, ma
l’uno dovrebbe richiamare caratteristiche, modalità, elementi dell’altro e
viceversa; in questo modo la cura ed educazione dei piccoli può essere
più ricca e globale.
Dal mio studio emerge tuttora la mancanza di un modello di riferimento
maschile relativamente alle pratiche di cura, in quanto sia nel domestico che
nel professionale, tutto ciò che riguarda le responsabilità in termini di cura
ed educazione di bambini e bambine è ancora affidato sostanzialmente
alle donne.
61
Nonostante i mutamenti socio – culturali degli ultimi decenni1, i quali
mostrano una maggior vicinanza degli uomini – padri ai bambini piccoli,
la situazione sembra tuttora poco cambiata. È ancora forte la presenza
di un condizionamento sociale, che associa tradizionalmente il lavoro
di cura alla donna e indica all’uomo professioni caratterizzate dal
bisogno di emergere per valorizzarsi ed essere valorizzato. Lo scarso
riconoscimento sociale nei confronti dei servizi per l’infanzia, sia in termini
educativi che economici, porta gli uomini a scegliere percorsi professionali
maggiormente riconosciuti.
Il secondo capitolo è incentrato sugli studi fiamminghi condotti da
Jan Peeters su questa problematica. Anche nella comunità fiamminga
del Belgio ci sono pochissimi uomini che lavorano nei servizi rivolti ai
piccolissimi, ma al contrario dell’Italia e di altri paesi, il Belgio ha promosso
delle attività che agevolassero la reciprocità dei sessi in educazione e
l’incremento di figure professionali nei servizi per l’Infanzia. Nella seconda
parte del capitolo ho fornito dei dati numerici sui servizi delle Fiandre
ed ho descritto i passaggi che hanno portato alla realizzazione di una
campagna promozionale finalizzata all’incremento di educatori uomini,
riportando anche i positivi risultati raggiunti grazie a questo progetto
intitolato “Personale Maschile nell’Assistenza all’Infanzia”, promosso da
diverse organizzazioni.
Nell’ultimo capitolo ho illustrato la mia esperienza di tirocinio, durante
la quale ho cercato di indagare se e come la figura di educatore può
completare in maniera positiva il lavoro di cura delle educatrici donne,
consolidato in questi trent’anni di vita dei nidi d’infanzia. Per rendere la
ricerca più interessante e completa ho cercato figure professionali maschili
che potessero raccontarmi la loro esperienza; a questo proposito una
possibilità mi è stata offerta dal nido d’infanzia “Fontanelle” di Imola, dove
ho conosciuto i due educatori che attualmente lavorano nel servizio; questo
In riferimento al cap. I.2. della tesi
1
62
mi ha consentito di osservarli in alcuni momenti della giornata lavorativa,
e di intervistarli facendo loro alcune domande sul mestiere che svolgono.
Le stesse domande le ho rivolte ad altri educatori che sono riuscito a
contattare grazie al coordinatore pedagogico del servizio di Forlì dove ho
svolto tirocinio (nido d’infanzia “Grillo”), il quale ha mostrato fin da subito
interesse per l’argomento della tesi.
Oltre agli educatori, ho intervistato alcune educatrici per conoscere il
livello di gradimento della presenza di personale maschile nei nidi ed
ho infine fatto riferimento al diario auto-valutativo, scritto durante il
tirocinio con l’obiettivo di interrogarmi, osservando i comportamenti
delle educatrici, su come avrei agito in determinate circostanze ed in che
cosa il mio comportamento avrebbe potuto divergere, o meno, dal loro.
A conclusione della ricerca ho riscontrato quanto le ragioni per le quali
sarebbe importante incrementare il numero di uomini nei servizi per la
prima infanzia, sono molteplici, come molteplici risultano essere anche gli
ostacoli per la loro emancipazione nel settore educativo – assistenziale.
Un maggior equilibrio numerico tra i sessi, all’interno dei nidi, potrebbe
costituire un elemento di crescita della qualità di questi servizi, perché
offrirebbe ai bambini una visione del mondo più completa e reale, facendo
loro apprezzare, fin dai primi anni di vita, la diversità come ricchezza.
Altri fattori di beneficio conseguenti all’introduzione di uomini nei servizi
rivolti ai piccolissimi, sono sicuramente rintracciabili nell’apporto che
essi possono offrire al coinvolgimento dei padri durante le attività che il
servizio stesso rivolge ai genitori le quali, secondo alcuni dati, mostrano
una schiacciante partecipazione femminile (madri) rispetto alla maschile
(padri).
Infine tali figure possono risultare dei modelli di riferimento dei bambini
e bambine, soprattutto per i maschi, i quali da sempre hanno come unica
possibilità di confronto all’interno dei servizi, le figure femminili.
Esiste allo stesso tempo la presenza di molte barriere che ostacolano
l’ingresso degli uomini come educatori dei servizi per l’infanzia, prima fra
queste risulta essere ancora legata a stereotipi culturali e sociali che si
63
riferiscono al “mito dell’uomo” come colui che mantiene economicamente
la famiglia, ed il “mito della donna” come colei che è predisposta per
natura ad assumersi la responsabilità della cura.
Un’altra importante questione riguarda i bassi salari; tale barriera, anche se
dovrebbe interessare entrambi i sessi, tende ad allontanare dai servizi per
la prima infanzia soprattutto gli uomini i quali sono maggiormente spinti,
da stereotipi culturali, ad inserirsi in percorsi professionali riconosciuti
maggiormente a livello sociale e con un conseguente ritorno economico
più elevato.
Ipotizzo infine quanto la mancanza di dati italiani inerenti a questo
fenomeno, rimandino ad un sostanziale disinteresse sociale per quanto
concerne l’emancipazione degli uomini nell’assistenza all’infanzia, ma
soprattutto per quanto riguarda il bilanciamento, in termini di genere, del
personale lavorativo in ogni settore.
64
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dimensioni paterne in una prospettiva sistemico- relazionale, Milano, Franco
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seminario internazionale, Ravenna, Italia, 21-22 maggio 1993.
66
Lo sviluppo del linguaggio nella prima infanzia
Indagine con il questionario MacArthur
di Giulia M. Dalla Libera
relatrice Prof.ssa Alessandra Sansavini
H
o scelto lo sviluppo linguistico come argomento di tesi già durante
il tirocinio del secondo anno accademico; in quell’occasione, in
accordo con le educatrici del nido, decisi di proporre ai bambini un
progetto linguistico che consisteva nel leggere loro due libri, nel far
raccontare ai bambini la stessa storia usando parole loro, nell’analizzare,
dopo aver scelto una lista di parole comuni, quali essi comprendessero
e quali no, e se le producessero. L’esperienza mi ha particolarmente
coinvolta e soddisfatta ed è per questo che ho ritenuto opportuno
affrontare il tema dello sviluppo linguistico in maniera più approfondita,
all’interno della tesi di laurea; ciò è stato reso possibile grazie alla prof.ssa
Sansavini (docente di psicologia dello sviluppo e coordinatrice del gruppo
di ricerca dell’Università di Bologna che studia lo sviluppo linguistico del
bambino nei primi anni di vita), che mi ha insegnato a raccogliere i dati
sullo sviluppo del linguaggio, in modo rigoroso e scientifico.
La metodologia scelta per portare avanti la ricerca sullo sviluppo linguistico
nella prima infanzia consiste nell’utilizzo del questionario “MacArthur”,
che è il risultato di un lungo e accurato lavoro metodologico svolto dal
Center for Research in Language - Università della California e dall’Istituto
di Psicologia del Cnr di Roma. I questionari, in generale, permettono
di raccogliere informazioni su un consistente numero di bambini e
di evidenziarne le differenze e i percorsi individuali; il “MacArthur”, in
particolare, consente di valutare la capacità di comprensione e produzione
di parole, di raccogliere informazioni attendibili sul corso dello sviluppo
67
linguistico e comunicativo partendo dai primi segnali non verbali, attraverso
l’espansione del vocabolario, fino all’emergere della grammatica e delle
prime combinazioni nei bambini dagli 8 ai 30 mesi d’età grazie alle sue
due forme “Gesti e Parole” per i bambini tra gli 8 e i 17 mesi e “Parole e
Frasi” per quelli tra i 18 e i 30.
Per quanto riguarda il mio lavoro di ricerca mi sono servita solamente
della forma “Parole e Frasi” composta da tre sezioni:
Sezione 1: “produzione di parole”. 100 parole tra cui nomi, predicati,
funtori, suoni della natura e routines.
Sezione 2: “come i bambini usano le frasi”. 12 item che contengono sia
frasi sintatticamente semplici sia complesse, ulteriormente suddivise in
nucleari, complesse, coordinate e subordinate.
Sezione 3: uso di indicazione comunicativa, richiestiva, dichiarativa, gioco
simbolico, imitazione, comprensione decontestualizzata e modalità di
pronuncia.
La durata del progetto di tesi è stata di 13 mesi, da febbraio 2006 a
febbraio 2007 compresi; al progetto hanno aderito i genitori di 11
bambini dell’asilo nido di Crespellano. Questi bambini, all’inizio della
ricerca, avevano dai 14 ai 25 mesi d’età. Nove fra questi 11 bambini a
febbraio 2006 av evano già compiuto i 18 mesi, per questo motivo i
risultati della ricerca si riferiscono alla fascia d’età che va dai 18 ai 36 mesi;
in particolare i mesi in cui sono stati raccolti un maggior numero di dati
sono quelli dai 20 ai 33. Gli 11 bambini sono di nazionalità italiana e sono
tutti nati a termine; il gruppo era composto da 7 femmine e da 4 maschi
e solamente 1 bambino su 11 era primogenito.
Il “questionario MacArthur” veniva compilato dai genitori; ogni primo
lunedì del mese consegnavo ad ognuno di loro il questionario (forma
“Parole e Frasi”), che doveva essere compilato nella settimana in cui cadeva
il giorno di nascita del bambino, negli ultimi giorni del mese tornavo al
nido per ritirare i questionari compilati e rispondere alle domande e ai
dubbi che i genitori avevano incontrato.
68
Gli obiettivi del lavoro svolto con gli 11 bambini sono:
• constatare come lo sviluppo sia realmente avvenuto, focalizzando
anche l’attenzione sul fenomeno dell’esplosione del vocabolario;
• osservare se veramente lo sviluppo linguistico segua le tappe descritte
dai manuali di teoria;
• notare le differenze interindividuali, poiché ogni bambino ha uno
sviluppo unico e diverso dagli altri;
• considerare i progressi e le regressioni del singolo bambino mese
per mese, in quanto lo sviluppo non avviene in modo perfettamente
lineare;
• studiare la correlazione tra produzione n° parole e frasi di tipo A
(semplici, telegrafiche) e B (complesse);
• trovare le parole che compaiono prima.
I risultati della ricerca ottenuti con PVB “Parole e Frasi” indicano che:
la produzione di parole varia moltissimo da persona a persona ossia,
benché le tappe dello sviluppo del linguaggio da seguire durante la
prima infanzia siano le medesime, ognuno le percorre con i propri
ritmi d’apprendimento. Ad esempio una bimba all’età di 20 mesi è già
in grado di pronunciare più di 50 parole, mentre la metà dei restanti
bambini arriva allo stesso livello all’età di 27 mesi. La media di parole
prodotte dai bimbi all’età di 20 mesi si aggira intorno alle 25 parole,
tra i 26 e i 27 mesi vengono raggiunte le 50 parole e a 33 mesi si
superano le 70; l’incremento nella produzione di parole è regolare
nell’arco di tempo considerato.
per quanto riguarda la produzione di frasi di tipo A, cioè le frasi
“telegrafiche”, gli andamenti di sviluppo di ogni singolo bambino
sono molto differenti ma, in media, possiamo notare dei picchi nella
produzione all’età di 24 e di 28 mesi, mentre a 31 mesi osserviamo
un evidente calo del loro utilizzo. Il calo riguardante la produzione
delle frasi di tipo A potrebbe essere dovuto al fatto che le capacità
lessicali e morfosintattiche dei bambini aumentano e di conseguenza
69
diminuiscono le frasi definite “telegrafiche” o incomplete.
la produzione di frasi di tipo B evidenzia una netta divisione tra gli
undici bambini; alcuni di loro hanno una produzione di frasi complete
molto bassa o pari a zero per tutto il periodo di tempo preso in
considerazione, mentre gli altri, pur a diverse età, presentano aumenti
drastici nella produzione di questo tipo di enunciati, dovuti appunto
alla maggior presenza di predicati e funtori all’interno del loro
vocabolario.
per ciò che concerne il tipo di pronuncia, a 20 mesi il 60 % dei
bambini parla sostituendo o omettendo alcune lettere e il 40 % viene
compreso solamente dai familiari; al termine del periodo considerato
il 75 % parla sostituendo o omettendo dei suoni e il restante 25 %
dei bimbi parla già da grande.
è interessante vedere come le parole, le frasi A e B siano tra loro
correlate. In tutti i bambini aumenta notevolmente il numero di frasi
di tipo B quando essi sono in grado di produrre più del 50% di parole;
inoltre l’andamento di produzione delle frasi A e delle frasi B risulta
essere simmetrico, questo perché nel momento in cui il bambino
impara ad utilizzare i funtori le frasi A diminuiscono e simmetricamente
le B aumentano.
la tipologia di parole prodotte sottolinea delle tendenze generali
appartenenti a tutti i bambini. I suoni della natura vengono prodotti
da ogni bambino in età precoce, sono tra le prime parole a comparire
e fin dai 20 mesi la percentuale di suoni prodotti supera l’80 % del
totale. Anche per quanto riguarda nomi e routines, già tra i 23 e i 24
mesi, la produzione supera il 50 % ; il perché lo possiamo ritrovare nel
fatto che buona parte di queste parole sia legata alla quotidianità che
il bambino vive e sperimenta.
La produzione di predicati e funtori, invece, supera il 50 % solo dopo
i 30 mesi ( le percentuali si riferiscono al n° di parole presenti nel
questionario).
70
La tabella che segue riporta i dati relativi alle medie calcolate su tutti
i bimbi a quattro diverse età con intervalli di quattro mesi. Possiamo
constatare un crescendo in tot. Parole, tot. Frasi e tot. Frasi tipo B; mentre
il tot. Frasi tipo A evidenzia un culmine tra i 24 e i 30 mesi per poi
scendere sostituita dalle frasi di tipo B ( qui apice a 28 mesi ).
Abilità
MEDIA
20 mesi
MEDIA
24 mesi
MEDIA
28 mesi
MEDIA
33 mesi
Totale
Parole
24.8
49.1
58.75
71.5
Totale
Frasi
2.8
7.6
10
11.25
n° frasi
tipo A
1.4
5.4
6
5.5
n° frasi
tipo B
1.4
2.2
4
5.75
71
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