materiali cineforum 2014

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materiali cineforum 2014
LICEO CLASSICO F.SCADUTO –BAGHERIA
MATERIALI INFORMATIVI SUL CINEFORUM 2013.14
IN DARKNESS
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Sinossi:
In Darkness” racconta la storia vera di Leopold Socha, operaio del sistema
fognario e ladruncolo a Lvov, nella Polonia occupata dai Nazisti. Dopo
essersi imbattuto in un gruppo di ebrei nelle fogne della città, Socha accetta
di nasconderli per denaro. Quello che inizia come un mero accordo
“economico” prende, però, una piega inaspettata. Tutti dovranno trovare un
modo per scampare alla morte nei 14 mesi vissuti in un continuo stato di
allerta.
Polonia, Lvov nel 1943, sotto l’occupazione nazista: il debole opprime il più debole, il povero ruba al meno povero. Non
ci si può fidare di nessuno.
Leopold Socha, operaio nelle fognature e ladruncolo, si industria per sbarcare il lunario e mantenere moglie e figlia. Il
suo amico Bortnik, un alto ufficiale ucraino, avanza la promessa di una vita migliore: tutto quello che Socha deve fare è
trovare gli ebrei nascosti nelle fogne. Dopotutto, nessuno conosce il sistema meglio di lui che lo utilizza per nascondere
la refurtiva.
Ben presto Socha si imbatte in un gruppo di ebrei che vuole nascondersi nelle fognature per tentare di fuggire
all’imminente rastrellamento del ghetto. I fuggiaschi gli offrono denaro in cambio di protezione. Sebbene Socha sia
pienamente consapevole che aiutare un ebreo potrebbe voler dire fucilazione immediata per lui e la sua famiglia,
considera la proposta come un modo per ottenere soldi facili, così stringe un accordo.
Nel gruppo Mundek Margulies non si fida per niente di lui. Ciononostante, quando i Nazisti battono in perlustrazione,
Socha aiuta gli ebrei, tra cui due bambini, a rifugiarsi nelle fogne.
Iniziano le difficoltà per Socha, che deve fugare i sospetti di Bortnik sempre più convinto che l’amico abbia un segreto.
Socha valuta la situazione: da una parte il denaro (non sufficiente) che riceve, dall’altra la minaccia di morte certa per lui
e la sua famiglia. Sopraffatto dalla pressione, decide di abbandonare il gruppo al suo destino.
Tuttavia, capita qualcosa di assolutamente imprevisto. Socha salva la vita di Mundek aiutandolo a uccidere un miliziano
ucraino e, imbattutosi nei due bambini che vagano senza meta nelle fogne, sconvolti, si rende conto che non può
abbandonare queste persone.
Le prove per Socha e il gruppo sono incessanti. Una donna è costretta a partorire lì nelle fogne con conseguenze
tragiche. Mundek si innamora della giovane e risoluta Klara e decide di cimentarsi in una missione disperata: penetrare
nell’orrore, nel cuore di tenebra di Janowska, il campo di concentramento dove si trova la sorella dell’amata, e liberarla.
Convince Socha ad aiutarlo, salvo poi scappare dal campo costringendolo ad affrontare rischi ancora peggiori.
Inevitabilmente, i soldi degli ebrei finiscono, ma a questo punto non è possibile tornare indietro. Socha acquista loro del
cibo con i propri risparmi, li sposta da un condotto all’altro, li protegge mentre fuori la guerra si trascina e Bortnik è vicino
come non mai a smascherarlo. E poi, la catastrofe. Un’alluvione improvvisa e devastante inonda le fognature. Bortnik
scopre l’effettivo tradimento del suo amico e Socha è costretto a un ultimo, disperato atto di coraggio.
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Genere:drammatico
Regia:Agnieszka Holland
Titolo Originale:In darkness
Distribuzione:Good Films
Produzione:Wojciech Danowski, David F. Shamoon, Dr. Carl Woebken, Christoph Fisser
Data di uscita al cinema:24 gennaio 2013
Durata:145'
Sceneggiatura:Erwin Prib
Direttore della Fotografia:Jolanta Dylewska
Montaggio:Michal Czarnecki
Scenografia:Erwin Prib
Costumi:Katarzyna Lewinska, Jagna Janicka
Attori:Robert Wieckiewicz, Benno Furmann, Agnieszka Grochowska
Destinatari:Scuole Secondarie di II grado
Approfondimenti:
L'Agiscuola comunica che, in occasione del 27 gennaio 2013, la "Giornata della memoria" in cui si ricorda, in
tutto il mondo, la tragedia della Shoah, il film di Agnieszka Holland “In Darkness” è stato posto a disposizione
delle scuole dalla Good Filmanche prima dell'uscita nelle sale.
Per informazioni e per prenotazioni:
Antonella Montesi
cell. 349/77.67.796
E-mail: [email protected]
Numero Verde per proiezioni scolastiche 800038461
Note di regia
Il 2009 ha portato una quantità di storie nuove sull’Olocausto attraverso libri e film. Viene da chiedersi se
non sia stato detto tutto sull’argomento. Eppure, secondo me, il mistero principale non è stato ancora
rivelato e nemmeno analizzato completamente. Com’è stato possibile questo crimine (l’eco del quale
risuona ancora in diverse parti del mondo, dal Ruanda alla Bosnia)? Dove si trovava l’Uomo in quel periodo
critico? Dov’era Dio? Tali vicende e azioni rappresentano l’eccezione nella storia umana o rivelano piuttosto
una verità oscura, intima sulla nostra natura?
Esaminare le molte storie di questo periodo mostra un’incredibile varietà di destini e vicissitudini, spiegate
in un ricco tessuto di trame e drammi, con personaggi che affrontano scelte morali e umane difficili dando
prova sia del meglio che del peggio della nostra natura.
Tra le varie storie c’è quella di Leopold Socha che nasconde il gruppo di ebrei del ghetto nelle fognature di
Lvov. Il protagonista è ambiguo: apparentemente un brav’uomo di famiglia, però anche un ladruncolo e un
truffatore, religioso e immorale allo stesso tempo, forse solo un uomo qualunque, che vive tempi terribili.
Nel corso della narrazione, Socha cresce in diversi modi come essere umano. Non c’è nulla di semplice o
sentimentale nel suo percorso. È questa la cosa affascinante, il motivo per cui facciamo questo viaggio
insieme con lui.
Le persone che Leopold salva non sono angeli. La paura, le condizioni terribili, l’innato egoismo le rendono
complesse e difficili, a tratti sono esseri umani insopportabili, ma sono reali e vivi, e le imperfezioni
avvalorano la loro rivendicazione per il diritto alla vita più di quanto farebbe una qualsiasi versione
idealizzata delle vittime.
La storia mi è piaciuta da subito, ne ho apprezzato il potenziale, i personaggi e la sceneggiatura.
La sfida più grande, ma anche la più eccitante per me come regista era l’oscurità (darkness). Vivono al buio,
nel fetore e nell’umidità, in isolamento per oltre un anno. Sapevamo di dover esplorare il mondo sotterrano
in una maniera molto speciale, realistica, umana. Volevamo che il pubblico avesse una percezione
sensoriale dello stare lì, per mantenere viva la tensione, man mano che lo spettatore si concentra sulla
storia. La dinamica del film è costruita alternando il mondo dei due leader, Socha e Mundek. I due universi
si uniscono e diventano uno, il mondo nel quale devono collaborare per sopravvivere.
Agnieszka Holland
La “soluzione finale”: cenni storici
di L.D.F.
Nel 1933, Adolph Hitler divenne padrone della Germania e nonostante che i tedeschi, alla fine della I
Guerra Mondiale, fossero stati ridotti sul lastrico dalle decisioni prese dai paesi vincitori nel trattato di
Versailles, ritornò in loro una sorta di revanscismo.
L’avvento di Hitler e la presa di potere del partito nazista sostenuti dal popolo tedesco che troppo aveva
patito dal 1919, determinò, nei paesi europei, una sorta di timore nei riguardi di questa "nuova" Germania
che non li fece intervenire quando Hitler si impadronì di Danzica togliendola alla Polonia e annesse al
proprio paese i Sudeti (dove la maggioranza della popolazione era di lingua tedesca) e l'Austria.
Nel 1938 a Monaco ci fu una conferenza internazionale dove vennero firmati patti in cui Hitler, su specifica
richiesta di Francia e Inghilterra, annettendo alla Germania, il cosiddetto corridoio di Danzica, i Sudeti e
l'Austria dichiarava che non avrebbe più invaso o annesso altri paesi. Specificatamente, anche se non
ufficialmente, si parlava della Polonia.
Il 23 agosto 1939, la Germania firmava un accordo segreto con la Russia la cui base era l'invasione e la
spartizione della Polonia.
Il 1° settembre 1939 l'esercito tedesco entrava nel territorio da ovest e il 17 settembre la Russia invadeva la
Polonia da est. Nonostante la strenua difesa, l'esercito polacco fu costretto ad arrendersi e a Katyn veniva
privato dei suoi ufficiali con un tremendo eccidio la cui responsabilità venne palleggiata, per anni, tra
Germania e Russia. Il territorio polacco rimase suddiviso tra i due paesi fino a che, il 22 giugno 1941, Hitler
ruppe l'accordo e invase la Polonia, in mano ai russi, costringendoli alla ritirata.
Fino a quel momento gli ebrei polacchi anche se in condizioni miserevoli erano in parte sopravvissuti; con
l'arrivo dei tedeschi si applicò anche contro di loro la "soluzione finale" nazista che mirava alla scomparsa al
popolo ebraico.
Il Ghetto di Lvov (1939-1943)
La città di Lvov (in polacco Lwow, in tedesco Lemberg) che oggi si trova in Ucraina fu parte dell'Impero
Austroungarico sino al 1918. Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale entrò a far parte della Polonia. Allo
scoppio della Seconda guerra mondiale contava 340.000 abitanti di cui ben 110.000 di fede ebraica. I
sovietici entrarono nella città tre settimane dopo l'inizio della guerra. Nell'accordo tra nazisti e sovietici per
la spartizione della Polonia infatti Lvov ricadeva nella sfera di influenza sovietica. I sovietici avviarono
immediatamente una azione di immediata e brutale comunistizzazione della vita economica e sociale della
città. Contemporaneamente affluivano in città più di 100.000 ebrei in fuga dalla Polonia occupata dalla
Germania. I Sovietici reagirono a questa "invasione" espellendo un notevole numero di ebrei in Siberia.
Quando, il 22 giugno 1941, i tedeschi attaccarono l'Unione Sovietica circa 10.000 ebrei fuggirono insieme
con le truppe russe in ritirata. Il 30 giugno i tedeschi entravano in città. L'Einsatzgruppe C organizzò
immediatamente un pogrom. Gli ebrei vennero accusati di aver collaborato con i russi nell'uccisione di
alcuni prigionieri politici ucraini. Si realizzò una spaventosa caccia all'ebreo. Per quattro giorni gli ebrei
vennero massacrati dagli ucraini e dai tedeschi, morirono 4.000 ebrei. Dopo che l'8 luglio venne imposto
agli ebrei di portare un bracciale con la stella di David la situazione diventò ancora peggiore. Tra il 25 ed il
27 luglio 1941 scoppiò un secondo pogrom nel quale vennero uccisi altri 2.000 ebrei. Nell'agosto 1941 i
tedeschi ordinarono la costituzione di uno Judenrat e la consegna di 20 milioni di rubli, una cifra enorme.
Vennero presi ostaggi che furono uccisi perché il pagamento non fu puntuale. Per tutta l'estate del 1941 le
proprietà ebraiche vennero saccheggiate e confiscate, le sinagoghe incendiate, i cimiteri distrutti. A
settembre venne creata una polizia ebraica destinata ad eseguire gli ordini dei tedeschi. Il presidente dello
Judenrat Joseph Parnes venne assassinato alla fine di ottobre perché si era rifiutato di collaborare alla
evacuazione degli ebrei trasferiti nel campo di concentramento di Janowska. Al suo posto venne nominato
Abraham Rotfeld. L'8 novembre 1941 venne istituito il ghetto e gli ebrei vennero spostati in quest'area
entro il 15 dicembre successivo. Lo spostamento ebbe luogo tra inenarrabili violenze: 5.000 ebrei vecchi o
malati vennero uccisi. Durante l'inverno i tedeschi organizzarono squadre di lavoro ebraiche che
cominciarono ad essere inviate in campi di lavoro coatto. Nel febbraio 1942 il capo del ghetto Rotfeld morì
e i tedeschi nominarono Henry Landsberg al suo posto. Nel marzo 1942 venne ordinato allo Judenrat di
preparare una lista di ebrei da inviare all'est. Benché una delegazione di rabbini chiedesse che fosse
rifiutata ogni forma di collaborazione Landsberg sostenne che se non si fosse collaborato i tedeschi
avrebbero fatto da soli causando per di più altri lutti. Così vennero consegnati 15.000 ebrei che vennero
immediatamente deportati verso il campo di concentramento di Belzec. Alcuni mesi dopo, con il pretesto di
non avere permessi di lavoro, altri 8.000 ebrei vennero deportati nel campo di concentramento di
Janowska dove vennero uccisi. Il 10 agosto 1942 venne lanciata una seconda Aktion di rastrellamento che
proseguì sino al 23: altri 50.000 ebrei vennero inviati a Belzec. Nel settembre 1942 tutti gli ebrei vennero
concentrati in un'area più piccola, Landsberg e altri impiegati dello Judenrat vennero impiccati. I tedeschi
nominarono capo del ghetto Eduard Eberson. A novembre si svolse un'altra Aktion: circa 6.000 ebrei "inabili
al lavoro" vennero inviati ai campi di sterminio. Nel gennaio del 1943 il ghetto venne ufficialmente
trasformato in Julag (Judenlager, "campo di lavoro ebraico") e altri 10.000 ebrei vennero uccisi perché privi
di permessi di lavoro. Alla fine di gennaio venne sciolto lo Judenrat e numerosi componenti furono
assassinati. Il 17 marzo altri 15.000 ebrei vennero uccisi sul posto e 8.000 inviati ad Auschwitz. Il 1° giugno
1943 i nazisti decisero di liquidare definitivamente il ghetto. Quando le SS e i collaborazionisti ucraini
entrarono nel ghetto furono accolti dal lancio di bottiglie incendiarie. Nove tra ucraini e tedeschi vennero
uccisi. I tedeschi reagirono incendiando uno ad uno i palazzi del ghetto. Nel corso dell'operazione vennero
catturati 7.000 ebrei ed altri 3.000 furono uccisi sul posto. Il 2 giugno l'operazione era già terminata ed il
ghetto era stato distrutto.
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Spunti di Riflessione:
di Elena Mascioli
1.
Il titolo è rimasto quello originale, in inglese, cioè “In darkness”. Quale è il significato letterale di queste
due parole, traducendole in italiano? Si riferiscono, ovviamente, alla specificità della vicenda raccontata nel film, ma c'è
anche un significato metaforico rispetto alla vicenda raccontata e alla sua epoca? Secondo voi è giusta la scelta di non
tradurre il titolo? Provate a scegliere un titolo, in italiano, per il film.
2.
Il protagonista del film è sicuramente Leopold Socha che nasconde il gruppo di ebrei del ghetto nelle
fognature di Lvov, ma l'aspetto che lo caratterizza, per buona parte del film, è l'ambiguità. Non è infatti un buono senza
macchia e senza paura, nettamente definito come possono esserlo, a volte, i protagonisti dei film. La sua ambiguità si
manifesta solo nella vicenda raccontata o è qualcosa che lo caratterizzava anche nella vita precedente al racconto che
vediamo? Da quali elementi della narrazione deduciamo che tipo di uomo fosse e quale vita conducesse? Potremmo
dire che il suo personaggio rappresenti “l'uomo qualunque”, che si trova a vivere tempi terribili? Quale la sua evoluzione
nel film, come personaggio nella narrazione e come uomo? Trovate che il suo sia un percorso semplice, scontato,
sentimentale? Seguire la sua vicenda vi ha coinvolto?
3.
L'ambiguità del protagonista è confermata dal fatto che il suo antagonista, nel film, non è, come
potremmo immaginare, uno dei persecutori, ma Mundek, uno degli ebrei nelle fogne, con cui Socha si trova a scontrarsi
per il ruolo di leader del gruppo. Vi siete schierati, almeno da un punto di vista emozionale, assistendo ai loro scontri?
4.
Dalla parte di chi e perché, se è successo? Cos'è che li divide? Quali le ragioni dell'uno e dell'altro?
Anche gli altri personaggi messi in scena, soprattutto quelli del gruppo di ebrei che Leopold nasconde
nelle fogne, non sono angeli, e il film ce li mostra con tutte le loro paure, gli egoismi, i difetti che le condizioni di vita
oppressive rendono ancora più esasperati. Cosa pensate della scelta di raccontare questi personaggi senza
nasconderne i difetti, le piccolezze, gli egoismi? Trovate che raccontare la storia di “vittime” senza per questo farne degli
angeli sia più rispondente al vero?
5.
Il gruppo di ebrei rifugiato nelle fogne prega, ma uno di loro, Janek, in quel momento ha una crisi
isterica, prende una pistola e urla: “Basta con queste preghiere, Dio non esiste.” La domanda che echeggia su tutta la
vicenda dell'Olocausto, dal suo interno, dalle sue vittime, o da osservatori esterni, da coloro che hanno cercato di
raccontare, come la regista Holland, queste vicende è la seguente: “ Dove si trovava l'uomo in quel periodo critico?
6.
Dov'era Dio?”. È una domanda che secondo voi può trovare risposta?
La maggior parte del film, ed il centro cruciale della storia, è rappresentano dalle fogne di Lvov
(Leopoli) “Le fogne non sono un posto buono per vivere.” - “Nessun posto è buono per noi” è un dialogo che ascoltiamo
all'inizio del film. Così come i protagonisti, anche l'ambiente è ambiguo: le fogne sono un luogo infimo, sporco, buio,
rappresentano il punto più basso di una città, in questo caso, anche il luogo più in basso, nel senso fisico e non, in cui
vivere. Ma, contemporaneamente, con tutta la sua negatività, rappresenta, in questo caso, anche il luogo che permette
la salvezza. Come ha esplorato, la regista, questo mondo sotterrano? Ne ha dato, secondo voi, una rappresentazione
realistica?
7.
Quale episodio, tra quelli ambientanti nelle fogne, vi ha maggiormente colpito? La regista ha dichiarato
di aver effettuato le riprese nelle fogne con l'intento che “il pubblico avesse una percezione sensoriale dello stare lì, per
mantenere viva la tensione, man mano che lo spettatore si concentra sulla storia.” È riuscita nel suo intento? Quali
aspetti tecnici del film contribuiscono a rendere questa percezione sensoriale, e a mantenere viva la tensione?
8.
Certamente l'alternanza della luce e del buio sono una delle caratteristiche fondamentali del film. Ma
se il buio delle fogne ha un immediata rispondenza con la vicenda che avvolge e ci immerge, immediatamente, nel clima
dell'epoca e di ciò che si stava vivendo, la luce della superficie, nel suo essere così accecante, con la neve nella scena
al cimitero, o nella piazza nelle scena dell'impiccagione, potrebbe sembrare stridente con l'oscurità delle vicende umane
9.
che racconta. Qual è l'effetto che una luce così bianca, così accecante, e dei colori così netti, restituiscono al pubblico?
Non vi sembra che tanto è realistica l'oscurità sotto le fogne quanto irrealistico, nei colori, ciò che
accade in superficie? E quale è il messaggio dietro una tale scelta stilistica, secondo voi? Quale l'effetto di un simile
contrasto? Potremmo dire che l'irrealtà di una simile luce testimonia l'assurdità di una vicenda che la mente umana non
dovrebbe arrivare a concepire ma che, purtroppo, è accaduta, rivelando “piuttosto una verità oscura, intima sulla nostra
natura di uomini?”
10.
Un contrasto che trova riscontro anche in altri aspetti di questi due mondi a confronto: il ghetto vuoto,
le fogne piene, la chiesa, piena di fedeli in preghiera, la fogna piena di ebrei che si hanno difficoltà a fare i conti con il
loro Dio. Provate a rintracciare altri elementi, mettendoli a confronto, che rappresentino la dualità di questi mondi, quello
della superficie, della luce, della persecuzione e della morte, e quello delle fogne, dell'oscurità, ma anche della crescita,
11.
della nascita, della salvezza.
Un altro particolare: la presenza della musica nel film. Non è una presenza costante, ma particolare la
scelta dei momenti in cui, sia nella forma diegetica che extradiegetica, si inserisce nel film. Se non ne conoscete il
significato, fate una ricerca sulla differenza tra musica diegetica ed extradiegetica. Qual è il filo rosso che accomuna
questi momenti di apparizione della musica? Perché tale scelta?
12.
Dalle note di regia: “Il 2009 ha portato una quantità di storie nuove sull’Olocausto attraverso libri e film.
Viene da chiedersi se non sia stato detto tutto sull’argomento. Eppure, secondo me, il mistero principale non è stato
ancora rivelato e nemmeno analizzato completamente. Com’è stato possibile questo crimine (l’eco del quale risuona
13.
ancora in diverse parti del mondo, dal Ruanda alla Bosnia)?”
Il film è uscito nelle sale il 24 gennaio, pochi giorni prima del 27 Gennaio, data in cui ricorre la Giornata
della memoria. Come detto dalla regista, molti i libri e i film che vengono pubblicati e realizzati per raccontare
l'Olocausto. Quali i testi e i film che vi hanno fatto conoscere l'Olocausto, le tante storie? Pensate davvero che è stato
già detto tutto sull'argomento? Se così fosse, sapreste spiegare perché accadono ancora episodi come quello del 26
gennaio 2013, in cui scritte antisemite quali “Shoa menzogna” sono apparse sul muro del Museo della Liberazione di via
Tasso, a Roma? Sapete chi ospitavano i locali del museo durante l'occupazione tedesca a Roma? Scrivete la vostra
riflessione sul senso e sul perchè del “far memoria” e provate a rispondere alla domanda, posta dalla regista: “Com'è
stato possibile questo crimine?”.
14.
Nel film viene raccontato un aspetto che difficilmente compare nei film sull'Olocausto, cioè quello della
vita sessuale, anche nelle condizioni di vita più estreme. Non è un caso che il film, in apertura, sia dedicato a Marek
Edelman. Il ventenne Edelman guidò la rivolta del ghetto di Varsavia, tenendo in scacco, con pochi mezzi, la strapotenza
nazista, per circa un mese, nella primavera del 1943, e in un bellissimo libro, intitolato “C'era l'amore nel ghetto” (ed.
Sellerio), raccontava proprio del fatto che, anche in condizioni disumane, dove c'era la vita c'era anche l'amore. Dopo
aver incontrato persone per raccontare la sua testimonianza, Edelamn diceva spesso : “ Ma perché nessuno mi chiede
se nel ghetto c'era l'amore? Perché questo non interessa a nessuno? Sull'amore nel ghetto qualcuno dovrebbe fare un
film. È l'amore che permetteva di sopravvivere.” Provate a rispondere alle domande di Edelman...ed esprimete le vostre
considerazioni in merito a questo particolarissimo aspetto, che ha trovato una sua narrazione nel film della Holland.
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L’occasione fa l’uomo eroe
di Gaetano Vallini
In occasione della Giornata della Memoria giunge anche nelle sale italiane l’intenso film In
Darkness, diretto dalla regista Agnieszka Holland, che racconta la storia vera di Leopold Socha,
operaio del sistema fognario e ladruncolo di Lvov (Leopoli), nella Polonia occupata dai Nazisti, il
quale, spinto dagli eventi, si ritrovò a salvare la vita di alcuni ebrei. Una piccola luce nel buio
della Shoah che questo bel film riaccende senza cadere nella retorica e senza indulgere alla
facile commozione. La regista, infatti, pur risparmiandoci l’orrore che ben conosciamo,
restituisce con bravura la durezza di quel periodo di barbarie, mostrandoci l’umanità del
tempo, con le sue ambiguità, con i suoi alti e bassi. Uomini e donne capaci di gesti orribili ma
anche di atti di generosità e di coraggio. Eroici, si potrebbe dire; di quell’eroismo che può
nascere dal caso, da una circostanza inattesa, che pone di fronte a una scelta di vita o di
morte.
Leopold Socha ogni giorno s’industria per sbarcare il lunario e mantenere moglie e figlia, non
disdegnando piccoli furti. Nessuno meglio di lui conosce il sistema fognario, che utilizza anche
per nascondere la refurtiva. Un giorno s’imbatte in un gruppo di ebrei: vogliono nascondersi
nelle fognature per fuggire all’imminente rastrellamento del ghetto. Gli offrono denaro in
cambio di aiuto. Socha sa che questo potrebbe significare la fucilazione per lui e la sua
famiglia; ma la proposta è allettante, i soldi servono, e così accetta. Li nasconde, porta loro
cibo, vestiti; li salva dalla cattura. Ma non tutto è semplice. Deve fugare i sospetti di un amico
ufficiale ucraino convinto che celi un segreto. Inoltre col passare del tempo i soldi degli ebrei
non sono più sufficienti. Non riuscendo più a reggere la pressione, decide di abbandonarli al loro
destino. Ma alcuni fatti lo spingeranno a confrontarsi con la propria coscienza.
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Grazie a una sceneggiatura misurata, senza cadute né eccessi, e a una fotografia livida e
claustrofobica, che dà conto dell’oscurità del titolo e delle impossibili condizioni di
sopravvivenza tra sporcizia e topi, il film parla dunque di un piccolo gruppo di persone alle
prese con una situazione disperata. Tutti sono presentati nella loro umanità imperfetta. Anche
le persone che Leopold salva. La paura, un innato egoismo che le circostanze accentuano, le
rendono complesse e difficili, talora insopportabili e pericolose. Ma sono persone reali, donne,
uomini e bambini. E molto più efficacemente di quanto avverrebbe attraverso una loro
idealizzazione in quanto vittime, sono proprio le imperfezioni a dare valore alla loro disperata
rivendicazione a rimanere vive.
Anche Leopold Socha è imperfetto. Apparentemente è un brav’uomo, un padre di famiglia come
tanti, ma è anche un ladruncolo e un truffatore, religioso (cattolico non privo di pregiudizi
verso gli ebrei) e immorale allo stesso tempo; forse — come dice la regista — è solo un uomo
qualunque, che vive tempi terribili. Non c’è nulla di sentimentale nel suo itinerario. Ed è questo
aspetto che In Darkness — candidato all’Oscar nel 2012 per la Polonia come miglior film
straniero — riesce a rendere in maniera chiara e credibile. Tanto che alla fine non meraviglia il
suo gioioso grido liberatorio, di fronte alla piccola folla radunatasi in strada a ridosso del
tombino dal quale escono, dopo 14 mesi trascorsi nelle fogne, le persone che ha salvato:
«Questi sono i miei ebrei. Il mio lavoro».
Leopold Socha morì il 12 marzo 1945, nel tentativo di salvare la figlia da un mezzo militare
russo impazzito. Al funerale qualcuno commentò: «Dio lo ha punito per aver salvato gli ebrei».
Gli ebrei oggi lo onorano nel giardino dei Giusti, insieme con la moglie Wanda che lo aiutò
nell’impresa.
(©L'Osservatore Romano – 29 gennaio 2013)
• Postato 28th January 2013 da Gaetano Vallini
In Darkness
di Agnieszka Holland
drammatico, storico, Francia/Germania/Canada/Polonia (2011)
di Diego Capuano
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Nella Hollywood degli anni d'oro buona parte di registi e sceneggiatori, pur con passaporto
americano, avevano puro sangue ebreo; erano il più delle volte nati in Europa. Mascherando ma
non nascondendo le proprie origini, in lasciti scritti piuttosto che in frammenti audiovisivi nascosti
nelle proprie opere, l'orrore dell'Olocausto era sempre e comunque una conseguenza che emergeva
imperterrita.
Successivamente se il tempo ha parzialmente ma ingannevolmente assorbito certe scorie, il
dipanarsi di uno sporco secolo si è impiantato nelle menti e nello sguardo di noi tutti. Le vergogne
della Storia hanno fatto da monito per una coscienza collettiva che, comunque, non sempre ha
saputo sedersi, riflettere, vedere. Hanno visto però bene cineasti in grado di coniugare moralità,
dignità e una forma artistica alta ad una materia tanto rischiosa. E' accaduto nel corso del nuovo
secolo con il polacco apolide Roman Polanski (Il pianista) e, soprattutto, nel 1993 con
l'americanissimo
ebreo
Steven
Spielberg
(Schindler's
List).
Nata a Varsavia nel 1948, Agnieszka Holland dopo un inizio di carriera casalingo, restituì la Shoah
per due volte sul grande schermo: "Raccolto amaro" (1985) e il più noto "Europa Europa" (1991,
coproduzione franco-tedesca), immersione nella Germania nazista, vista attraverso gli occhi e le
peripezie
di
un
ragazzino
ebreo.
Se per la regista il salto nel cinema americano è stato infelice, nel corso del nuovo millennio la
Holland ha instaurato un rapporto stretto e alto con la serialità americana, dirigendo episodi di "The
Killing" e, soprattutto "The Wire", una delle più grandi serie tv della storia (con l'ideatore David
Simon ha lavorato anche per il più recente "Treme"). Nonostante le mille insidie di Baltimora, resta
ampio
il
passo
tra
la
criminalità
contemporanea
e
gli
orrori
dell'Olocausto.
Quando lo sceneggiatore David F. Shamon le proposte di realizzare "In Darkness", la regista rifiutò.
Dopo varie versioni, la sceneggiatura prese forma e la regista accettò la sfida. Il dolore
nell'approcciarsi alla Storia con le sue laceranti storie resta intatto, ieri come oggi. C'è sempre
bisogno di ricordarlo ma al contempo è man mano più difficile fornire al pubblico nuovi stimoli,
inediti spunti di riflessione. E' indubbiamente sterminata la quantità di storie, di destini, infinita la
tela che li raccoglie e fa da libro da rendere alle future generazioni; ma resta un limite, una soglia
invalicabile, un impervio tragitto la cui buona volontà non può rappresentare, come mirabilmente
suggeriva il più grande film sull'Olocausto mai realizato: il fluviale documentario "Shoah" di Claude
Lanzmann.
"In Darkness" è tratto dal libro "In The sewers of Lvov" di Robert Marshall, basato sulla vera storia
di Leopold Socha (1909-1946) e ha come numi tutelari due precedenti pellicole: "I dannati di
Varsavia" di Andrzej Wajda e, per l'appunto, "Schindler's List" di Steven Spielberg.
Il protagonista è un impiegato comunale addetto al controllo delle fogne e lo si vede descritto da più
contraddizioni: buon marito ma furbastro, discreto padre ma ladruncolo. Nel 1943, a Lvov (città
all'epoca polacca, successivamente aggregata al territorio sovietico), salvò dalle stragi e le
deportazioni naziste un gruppo di ebrei, nascondendoli per anni nelle fogne. Da una parte la storia
di questo piccolo grande Schinler polacco, dall'altra parte una buia ambientazione fognaria che
ricorda da vicino quella del film di Wajda (che però riusciva ad essere al contempo più
appassionante e più politico), contrapposta ad una cloaca (l'esterno) certamente più pericolosa e
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non meno grigia.
La Holland si affida a uno stile mobile, di nervoso realismo psicologico, scosso sovente da momenti
che evitano quasi sempre il melodramma ricattatorio, ma raramente trovano una strada davvero
urgente e originale. Alcuni simbolismi sono risaputi: i topi delle fogne che sfiorano gli ebrei sono
meno lesivi e fetidi dei tedeschi, il buio delle fogne è meno oscuro di quello che aleggia alla luce di
uno spento sole, il parto e una nuova vita che un giorno subirà le ferite della Storia, il sesso
(sequenze non sempre richieste) come valvola di uno sfogo impossibilitato in date circostante di
trovare amore. Se nella sua antinomia, grazie a una prova davvero convincente di Robert
Wieckiewicz, quella di Socha è una variazione riuscita di Schindler, la globalità dell'umanita sullo
sfondo (tedeschi ed ebrei) è decorosa. Anche se, dopo una prolissa parte centrale, il film trova un
colpo di coda nell'immersione acquatica delle fogne dove indubbiamente, pur essendo lontani dal
Pianista polanskiano, la lotta dell'uomo per la sopravvivenza acquisisce finalmente un interesse che
va al di là della più ovvia - ma comunque doverosa - indignazione.
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Itaker
Il pressbook completo del film si può scaricare all’indirizzo
http://www.mymovies.it/filmclub/2012/11/065/mymovies.pdf
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Sinossi:
“Itaker” è la storia di un viaggio dall'Italia alla Germania, nel 1962. A compierlo è Pietro, un bambino di 9 anni orfano di
madre, partito per ritrovare il padre emigrato, di cui da tempo non si hanno notizie. Ad accompagnarlo in questa ricerca,
Benito, un giovane uomo dai trascorsi dubbi che nella terra tedesca è in cerca di un riscatto personale. Sul loro cammino
Pietro e Benito incontrano mondi diversi: quello della fabbrica di Bochum, la comunità italiana in città (gli itaker,
"italianacci", uno dei tanti appellativi degli emigrati italiani in Germania); il mondo dei magliari, del contrabbando - fatto di
valigie ed espedienti - quello del confronto non sempre pacifico tra italiani e tedeschi. Diverse piccole patrie in cerca
delle loro identità.
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Genere:Drammatico
Regia:Toni Trupia
Titolo Originale:Itaker
Distribuzione:Luce Cinecittà
Produzione:Goldenart Production e Mandragora Movies
Data di uscita al cinema:novembre 2012
Durata:90' ca
Sceneggiatura:Leonardo Marini, Toni Trupia, Michele Placido
Direttore della Fotografia:Arnaldo Catinari
Montaggio:Consuelo Catucci
Scenografia:Nino Formica
Costumi:Andrea Cavalletto
Attori:Francesco Scianna, Michele Placido, Tiziano Talarico, Monica Birladeanu, Nicola Nocella, Andrea
Trovato, Pietro Bontempo
Destinatari:Scuole Secondarie di I grado, Scuole Secondarie di II grado
Approfondimenti:
Note di Regia
È un luogo comune, oggi, paragonare la vicenda storica degli italiani emigrati nel mondo con quella dei tanti immigrati
extracomunitari che, nella speranza di riuscire a riscattare una vita fatta di stenti e difficoltà nei paesi di origine, sono
arrivati in Italia negli ultimi quindici anni. Eppure quelle che realmente sono state le difficoltà dei nostri connazionali
all'estero, in un periodo in cui il nostro paese cercava faticosamente di risollevarsi dalle rovine della guerra, raramente
sono state affrontate dal nostro cinema.
La storia di Itaker (ovvero “italianacci”, uno dei tanti appellativi attribuiti agli emigrati italiani in Germania), anche se si
svolge negli anni sessanta, vuole, in tal senso, porsi come il riflesso di una situazione di instabilità culturale e di estrema
insicurezza, attualissima nell’Italia dei nostri giorni e in molti altri paesi europei.
Pietro ha nove anni e deve trovare suo padre, che conosce a malapena visto che fa l’operaio in Germania e da ormai
troppo tempo non da sue notizie. Non ha nessuno e la regola vuole che un bambino abbia sempre qualcuno che si
occupi di lui. Ad accompagnarlo in questa ricerca, attraverso una terra difficile e apparentemente ostile come la
Germania, trova Benito, un uomo con l’animo e l’ingenuità di un bambino.
II nostro racconto parla del tentativo di recuperare un’identità: l’approdo a cui giunge
Pietro, il piccolo protagonista, sta nel comprendere quanto tale identità non consista solo nel ritrovare un legame con le
proprie origini ma sia, innanzitutto, il frutto di uno scambio di esperienza e di vissuto.
Pietro e Benito, alla fine del percorso, maturano un’idea della vita più compiuta e aperta rispetto a quella che avevano
all’inizio.
C’è un elemento in questa storia che mi ha attratto particolarmente e che vorrei venisse fuori per gli spettatori che
vedranno il film: raccontare il dramma dell’emigrazione attraverso la vicenda di un bambino restituisce al fatto storico
tutta la profondità di una metafora cristallina e chiarissima. Quell’esperienza, per chi l’ha vissuta – e per chi, direi,
continua a viverla – rappresenta certo un’esperienza drammatica dal punto di vista sociale e umano, ma è anche una
sorta di prova di iniziazione attraverso cui passare per maturare una visione dell’esistenza più definita e precisa. Mi piace
pensare che lo sguardo del piccolo Pietro rifletta quello di tanti emigranti che sono partiti dalla loro terra ingenui e
sprovveduti come bambini e hanno maturato un percorso umano che li ha predisposti al confronto e alla complessità
della vita.
Gli sviluppi della vicenda raccontata nel film sono il frutto della commistione tra elementi inventati e sintesi di storie
realmente accadute, sentite o lette nel corso di una approfondita documentazione. La scelta stessa di ambientare la
storia tra il Trentino e la baraccopoli operaia di Bochum Wattenscheid, nella regione della Nord-Westfalia, ovvero in
quella che al tempo in cui il racconto si svolge, era la Germania Occidentale, proviene dai suggerimenti di testimoni
diretti, utilissimi per chiarire e arricchire importanti nodi narrativi. La scrittura della sceneggiatura ha comportato dunque,
al fine di assicurare al film una maggiore solidità narrativa e un approfondimento delle dinamiche e del contesto spaziotemporale in cui la storia si svolge (siamo nel 1962, negli anni che seguono di un soffio il boom economico), di una
documentazione dettagliata e analitica, attraverso la consultazione di materiali museali, fotografici e audiovisivi legati al
contesto da rappresentare, dell’ascolto di testimoni diretti e della visita ai luoghi in cui è ambientato il racconto.
Riguardo alle questioni più specifiche di messa in scena, mi sono sforzato di dare al film un apparente carattere
realistico, che si lascia però squarciare da quella leggerezza e da quella sospensione che solo il punto di vista di un
bambino che osserva il mondo può assicurare.
Ho cercato di avere un gran rispetto, filmando questa storia, del tempo dei personaggi, del loro modo di essere al
mondo: il mio è stato un percorso di progressivo avvicinarmi ad essi, nel tentativo di aderire emotivamente al loro
sguardo sulle cose. In tal senso fondamentale è stato il lavoro degli attori, con i quali abbiamo cercato di restituire, oltre
all'aderenza fisica, l'interiorità dei personaggi, uomini e donne impreparati al distacco, ma decisi a conservare una dignità
che potesse riscattarli dai compromessi che la vita li ha portati a fare. Francesco Scianna ha dato al personaggio di
Benito tutta la sua umanità e simpatia, percorrendo strade decisamente nuove rispetto a quelle che aveva percorso fino
al momento in cui abbiamo iniziato a girare. Coraggiosamente ha accettato di interpretare – lui, siciliano – un giovane
napoletano un po' guitto, senza mai risparmiarsi davanti e dietro alla macchina da presa. A lui devo gran parte del
piacere di questa esperienza creativa e
umana. Accanto a Francesco, il piccolo Tiziano Talarico, scelto dopo un lunghissimo casting, che si è lasciato
accompagnare lungo il complesso percorso della lavorazione del film, con lo spirito di chi scopre la vita nel suo
dispiegarsi, senza mai complicare il lavoro e far pesare la sua condizione di bambino in mezzo a degli adulti. Il film è
impregnato della sua presenza discreta e incantata e nel suo sguardo ho avuto la possibilità, senza troppo sforzo, di
trovare quella pulizia e quella consapevolezza con cui i bambini si rapportano alla complessità della vita. Sono stato
davvero molto fortunato a poter condividere l'esperienza di questo film con un gruppo di attori straordinari e generosi
come Monica Birladeanu, Michele Placido, Nicola Nocella e tutto il resto del gruppo, che mi hanno aiutato a raggiungere
un risultato importante anche quando pensavo fosse irraggiungibile.
L’apparato tecnico è stato essenziale, ma l’intenzione era di ricercare un particolare carattere visivo, lavorando in
particolar modo sul colore e sul taglio delle inquadrature, costruite tenendo conto della necessità di rapportare la vicenda
individuale dei protagonisti di questa storia allo sfondo, sempre definito, mobile, vivo. Un risultato importante è stato
raggiunto anche in questo caso, anche grazie all'apporto di Arnaldo Catinari, il quale non ha mai sovrastato, con la sua
perizia ed esperienza, la misura che speravo di riuscire a dare alle immagini del film.
Particolare cura è stata riservata al sonoro, essendomi posto la necessità di tener conto di un pastiche linguistico
basilare in un racconto come quello in questione: i personaggi parlano in italiano, ma si sentono il tedesco, le cadenze
dialettali, oltre che le parlate dei personaggi secondari di provenienza straniera.
Un’ultima nota riguardo all’ambientazione storica: siamo negli anni sessanta, ma l’idea era di non voler fare un film in
costume (ovvero un film di semplice ricostruzione storica). Ho cercato l’essenzialità nella rappresentazione, spogliando
la messa in scena di tutti gli orpelli che avrebbero caricato il racconto di compiacimento formale ed estetismo.
Nonostante la vicenda si svolga nel passato, la mia idea era di fare un film agile e moderno, senza sbavature, adatto ai
ritmi e alla visione del pubblico contemporaneo. Spero di esserci riuscito.
Toni Trupia
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Spunti di Riflessione:
di Angelisa Castronovo
1.
2.
Il film inizia con un doloroso distacco tra madre e figlio. Perché, secondo voi, il regista e gli
sceneggiatori hanno scelto di iniziare in questo modo un racconto che parla di emigrazione e di riscatto sociale?
L'ondata emigratoria, avvenuta tra la fine degli anni quaranta e gli anni settanta, pur essendosi svolta
in maniera più ordinata e controllata, ha avuto per molti italiani lo stesso risvolto tragico di quella, ormai entrata nel mito,
avvenuta all'inizio del novecento. Provate a porre attenzione alle differenze e alle affinità che legano i due fenomeni
migratori.
3.
Benito Stigliano, il protagonista adulto del film, emigra in Germania con l'idea di cambiare le proprie
condizioni sociali. Secondo voi, cosa si lascia alle spalle partendo dall'Italia, un paese che, negli anni in cui è ambientato
il film, cominciava a proiettarsi verso uno sviluppo e un boom economico che ne avrebbe definitivamente cambiato la
4.
facciata e le strutture sociali. Perché Stigliano non se ne è reso conto?
n una scena del film, il gruppo di operai italiani di cui si racconta la storia, insieme al piccolo Pietro,
viene deriso da un gruppo di tedeschi mentre tenta di entrare in un locale sulla porta del quale è apposto un cartello:
“Vietato entrare agli italiani”. E' una situazione ancora possibile, oggi?
5.
Provate a rapportare la situazione narrata nel film con la condizione degli emigrati e degli immigrati
nell'Europa contemporanea.
6.
L'esperienza dell'emigrazione è comune in molte famiglie italiane, in particolare in quelle meridionali.
Avete parenti che abbiano vissuto un'esperienza del genere? Raccogliete le loro storie, riflettendo su eventuali materiali
7.
(foto, documenti, ecc.) che potrebbero mettervi a disposizione.
Il personaggio di Carlo Sgrò è ossessionato dalla paura che la moglie, a causa della distanza, possa
dimenticarsi di lui. Provate a riflettere su quanto l'esperienza dell'emigrazione abbia influito sui rapporti familiari di chi ne
è stato protagonista.
8.
Nelle intenzioni del regista, Benito Stigliano è un adulto bambino che si illude di poter migliorare la
propria condizione economica percorrendo scorciatoie. All'inizio della sua avventura è cinico, incattivito dalla vita. Non si
fa scrupoli a usare un bambino per raggiungere il suo scopo. Ma paga duramente queste sue ingenuità e illusioni.
Analizzate il cambiamento che interessa il protagonista del film, nel corso del racconto, ponendo particolare attenzione al
9.
10.
rapporto con il piccolo Pietro.
Pietro viene portato in Germania per incontrare suo padre. Ma non sembra averne voglia. Perché?
La figura del padre è nominata molte volte nel corso del film ma non arriva mai a comparire. E' un
personaggio assente che condiziona però la vita del piccolo protagonista. Esprimetevi sui modi in cui ciò viene
raccontato nel film.
11.
Pietro Zanon lascia il Trentino per la Germania. L'emigrazione dal nord Italia è meno legata ai luoghi
comuni di quanto lo sia quella meridionale. Partendo da tale constatazione, approfondite questo aspetto del fenomeno
migratorio.
12.
La madre di Pietro è una donna rimasta sola in Italia, mentre il marito è all'estero. Il fenomeno delle
“vedove bianche” è stato molto diffuso in Italia nel periodo delle grandi migrazioni. Approfondite l'argomento con una
ricerca.
13.
L'emigrazione italiana della seconda metà del novecento ha certo avuto a che fare con la questione
del lavoro, ma è stata caratterizzata da un'attività parallela come quella del contrabbando e del commercio clandestino.
Già nel 1959 il regista Francesco Rosi, nel suo film “I magliari” aveva raccontato una storia di napoletani in Germania,
dediti al contrabbando. Rivedete il film e provate a confrontarlo con “Itaker”. Quindi approfondite questo argomento con
una ricerca.
14.
La condizione in cui si trovano a vivere gli operai all’interno degli alloggi a loro riservati nelle fabbriche
viene definita da Benito con l’espressione “Siamo come dei cani dentro un canile”. Vi viene in mente un altro periodo
storico che, in qualche modo, ricordi questa frase?
15.
Negli anni ’60 il movimento femminista è in auge. Il personaggio di Monica Birladeanu,
apparentemente secondario, contribuisce a creare, nelle vite di Pietro e Benito, una certa stabilità. Una donna sola e
dalla forza indubbia che nonostante sia circondata da disonesti riesce a far emergere tutta la sua indipendenza e onestà.
Siete d’accordo? Esprimete la vostra opinione in merito.
16.
La “paternità ritrovata” nel film ha una doppia valenza. Approfondite questo concetto.
ITAKER - VIETATO AGLI ITALIANI - RECENSIONE
Inviato il 26/11/2012 da Elena Pedoto
Mentre ancora vagano per la mente le voci e le immagini di un festival capitolino che ha premiato
(inondato dalle critiche) il cinema nostrano più controverso, ecco arrivare nelle sale Itaker - Vietato
agli Italiani, un prodotto esattamente agli antipodi. Itaker è una coproduzione italo-rumena e il primo
film che subirà gli effetti benefici di quello che oramai può essere ufficialmente definito come il postfranchismo (cinematografico), un fenomeno che senza ombra di dubbio rileggerà il cinema italiano
ancora da venire (ma a buon bisogno anche quello passato) con un termine di paragone così basso da
illuminare anche le produzioni più mediocri. E, infatti, l'opera prima di Toni Trupia (un lavoro sotto tutti i
punti di vista onesto) è stata accolta all'anteprima stampa con un lungo e vigoroso applauso che premia
il gusto della sobrietà di un racconto storico e sociale che non brilla per originalità, ma che è intriso di
quella dignità e di quel rispetto che andrebbero sempre riconosciuti alla Settima Arte. Itaker, termine
che in Germania indica gli ‘italianacci', da un gioco di parole tra Italia e Itaca, e che rimanda a un
popolo di giramondo, di vagabondi, è una storia ambientata a cavallo tra l'Italia e la Germania degli anni
'60 e che segue quel flusso migratorio che vide molti cittadini italiani trasferirsi nella vicina terra tedesca
in cerca di prospettive di vita migliori (o diverse). Il punto di vista è (come spesso accade in questo
genere di film) portato ad altezza bambino, e sfrutta gli occhi ancora ingenui e tutto sommato sognanti
di un piccolo italiano di soli nove anni che (ormai senza madre) si ritroverà in Germania in cerca di un
padre di cui sembrano essersi perse le tracce. Ad affiancarsi al viaggio personale di Pietro, ci sarà la
figura del giovane Benito Stigliano(anch'egli emigrato e in cerca di un riscatto personale) divenuto
padre occasionale prima e vocazionale poi, in un breve ma intenso percorso di formazione attraverso il
quale sia il piccolo sia il grande uomo riusciranno a carpire un piccolo frammento della loro (multipla)
identità. http://www.everyeye.it/cinema/articoli/itaker-vietato-agli-italiani_recensione_18293
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MONSIEUR LAZHAR
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Sinossi:
In una scuola elementare di Montreal un’insegnante muore tragicamente. Dopo aver letto la notizia sul giornale, Bachir
Lazhar, un immigrato algerino di 55 anni, si presenta nella scuola per offrirsi come supplente. Immediatamente assunto
per sostituire la maestra scomparsa, si ritrova in una scuola in crisi, mentre è costretto ad affrontare un dramma
personale.
Bachir impara a conoscere il suo gruppo di bambini scossi ma attenti, tra i quali ci sono Alice e Simon, due ragazzini
svegli, particolarmente turbati dalla morte della loro insegnante. Mentre la classe ritorna lentamente alla normalità,
nessuno nella scuola è a conoscenza del passato doloroso di Bachir; nessuno sospetta che è a rischio di espulsione dal
paese in qualsiasi momento.
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Genere:drammatico
Regia:Philippe Falardeau
Titolo Originale:Monsieur Lazhar
Distribuzione:Officine Blu
Produzione:Luc Dery, Kim McCraw
Data di uscita al cinema:31 agosto 2012
Durata:94’
Sceneggiatura:tratto dall’opera teatrale Bachir Lazhar di Evelyne De la Chenelière
Direttore della Fotografia:Ronald Plante
Montaggio:Stephane Lafleur
Scenografia:Emmanuel Fréchette
Costumi:: Francesca Chamberland
Attori:Fellag, Sophie Nélisse, Emilien Néron, Brigitte Poupart
Destinatari:Scuole Secondarie di II grado
Approfondimenti:
INTERVISTA CON IL REGISTA PHILIPPE FALARDEAU
Dopo IT’S NOT ME, I SWEAR!, MONSIEUR LAZHAR è il secondo film di adattamento da un’ opera letteraria.
Cosa ti piace di questo approccio?
Mi piacciono gli adattamenti perchè il lavoro si è già affermato nella sua forma iniziale a livello emozionale, per me o per
il pubblico. Una cosa mi preoccupa sempre quando faccio un film: sarò in grado di convivere con questo soggetto per un
periodo di tre o quattro anni? Interesserà a qualcuno quanto ha interessato me? È molto importante capire i limiti del
proprio mezzo di espressione e non tentare di riproporre ciò che il mezzo originale ha ottenuto con successo.
Per IT’S NOT ME, I SWEAR era chiaro che l’umorismo della scrittura di Bruno Hèbert nasceva dalla discrepanza trovata
nella narrazione ingenua di un ragazzino di 10 anni i cui riferimenti sono quelli di una persona di 40 anni. Per
MONSIEUR LAZHAR, la rappresentazione teatrale di Evelyne de la Chenelière’s ruota arttorno ad un unico personaggio.
Ciò che mi ha particolarmente interessato è stata la sua forza evocativa. Sapevo anche che sarebbe stato un rischio
riproporre ed emulare lo stile poetico di Evelyne, semplicemente perchè io non sono un poeta e il cinema, come mezzo,
non possiede la stessa poetica.
Così è stata la forza di Bachir a suscitare il tuo interesse e farti immaginare il resto?
Mi è piaciuto immediatamente il soggetto dell’opera e la sua intenzione. Mentre guardavo la sua messa in scena a
teatro, ho immediatamente immaginato il film: ho visto la classe, i bambini... il tocco di Daniel Brièr e la sua direzione
essenziale probabilmente mi hanno aiutato a visualizzare il lavoro cinematografico. Il personaggio Alice è tratteggiato
leggermente, e quello di Simon a malapena, era una storia tutta da inventare. Sapevo che c’era spazio per la creazione.
Mi ha anche colpito il fatto che la tragica storia di Bachir, la sua condizione di immigrato, non fosse la parte centrale della
trama. Egli si trova di fronte a qualcosa che è molto radicato all’interno della società in cui si è stabilito, ma questo
confronto potrebbe avvenire ovunque. La storia doveva stare in piedi da sola, al di là dell’evento traumatico dell’esilio. Il
suo dramma influisce su ciò che sta per accadere: lo rende uno straniero che sta per sconvolgere il nostro punto di vista
sul mondo, ma io non credo che sia questo il vero soggetto del film. Durante la rappresentazione teatrale ho pensato:
“Qui c’è un personaggio ricco”. Non è un personaggio inventato giusto per farci chiedere quale potrebbe essere la sua
caratteristica e la sua funzione. Niente di tutto questo. Bachir ha una propria storia alle spalle, la sua storia personale,
prima che il film inizi.
Era importante per te rendere plausibile ciò che stava vivendo Bachir?
Ho fatto molte ricerche per arrivare a quel punto. Un anno dopo aver iniziato l’adattamento, nel maggio 2008, sono stato
in Algeria per vedere da dove proveniva Bachir, per sentire e capire perchè egli aveva immaginato qualcosa di molto
elaborato, che non è nel film, ma che mi ha aiutato a capire il personaggio. Molto tempo prima avevo visitato diversi
paesi come la Syria, la Libia, l’Egitto e la Tunisia. Ho sempre pensato che queste terre offrissero molte storie da
raccontare al cinema. Perchè Bachir è venuto a Montreal? Perchè non aveva scelta. Nonostante siano passati anni dalla
guerra civile, l’Algeria sta ancora affrontando molti problemi.
Il personaggio di Bachir, sarebbe potuto provenire da un altro paese?
Credo di si, ma il problema, probabilmente, sarebbe poi stato la lingua. Avevo pensato ad un libanese. Il personaggio
non avrebbe dovuto solo padroneggiare la lingua francese, ma anche amarla. Perchè nella mia testa il processo di
guarigione accade attraverso il linguaggio, l’insegnamento e l’amore per la lingua e la letteratura francese. L’Algeria
poteva funzionare poichè lì ci sono molti intellettuali, grandi scrittori. Una volta entrato nella scuola del Quebec, Bachir è
catapultato in un sistema che non conosce, egli deve cercare di trarre da se stesso quello che gli è stato insegnato
durante la sua infanzia.
Cosi il suo unico riferimento è il metodo di insegnamento francese considerato ormai superato. Non dimentichiamo che
Bachir è un immigrato nord-africano profondamento laico. Io ne ero consapevole.
Egli rappresenta “l’altro” alla ricerca di soluzioni non nella religione o nella morale e nemmeno nei riferimenti culturali
francesi nel senso etnico del termine, ma in relazione all’insegnamento, nei comuni rapporti con la lingua e la letteratura
francese e poi negli atti elementari della comunicazione. C’è anche dell’ironia nel fatto che egli è andato ad insegnare in
un ex colonia che ha un legame particolare con la lingua francese, proprio quando anche egli proviene da un ex colonia
francese.
Perché ha scelto Fellag per il ruolo di Bachir?
Sapevo sin da subito, a meno che non fosse accaduto un miracolo, che non sarebbe stato facile trovare un attore in
Quebec, poichè li non c’è una grande comunità di attori magrebini. Visto il contesto della storia, ho optato per la Francia
e la sua quantità di bravi attori. Avevo poche persone in mente, ma alla fine li ho trovati tutti troppo parigini per il ruolo.
E’stata Evelyne a propormi Fellag in quanto aveva già recitato nella sua rappresentazione in Francia. Io non lo
conoscevo prima, ma era una scelta sensata in quanto egli stesso è stato esiliato durante la guerra civile algerina.
Mentre era in Tunisia, le autorità gli ordinarono di non tornare, come se ci fosse stata un fatwa contro di lui. Ha vissuto
quello che Bachir ha provato, e credo che quella condanna a morte gli abbia dato più profondità. Anche se le sue
caratteristiche personali non sono del tutto uguali al personaggio del film, egli ha la sensibilità e l’intelligenza, le qualità
che maggiormente mi interessavano. Mi è piaciuto dal primo momento che ci siamo incontrati. Era molto a suo agio con
l’opera e, dopo aver letto la sceneggiatura, ha voluto subito il ruolo. Fellag è molto generoso e ha una grande autenticità.
Sono molto contento di quello che ci ha dato, che tra l’altro è all’opposto del suo solito lavoro.
Dopo IT’S NOT ME. I SWEAR! era tua intenzione lavorare di nuovo con i bambini?
La scelta è insita all’opera teatrale. Il problema che si riscontra quando i ragazzini recitano un ruolo centrale in un film è
che ci si chiede sempre se il film sia per i ragazzi, o per la famiglia, cosa che non succede mai quando a recitare sono
tutti adulti. Nella vita, tuttavia non ci chiediamo mai, quando ci capita qualcosa, se è una situazione da bambini o da
adulti. È la vita. Penso di fare film sulla vita e quindi è assolutamente naturale che ci siano dei bambini.
Come sceneggiatore e regista hai anche dovuto adattare il tuo stile di lavoro ai bambini?
Certamente, ma in generale penso che ciò avvenga per ogni tipologia di attore. Quello che fa la differenza è che quando
si tratta di un attore adulto, non mi preoccupo mai se conosce le battute. Anche il set deve essere gestito in maniera più
giocosa e divertente. Per quanto concerne la recitazione, invece, penso che questi ragazzini siano stati capaci di
cogliere le emozioni in gioco dei loro personaggi, tanto da aver capito che si trattava di lavoro e che non stavo chiedendo
loro di essere quello che sono nella è già molto maturo per la sua età. Ovviamente ci sono dei tratti che sono un po’ più
dal mio punto di vista che non da quello dei bambini. In generale, c’è una grande quantità di lavoro fatto in preproduzione
e devo ringraziare Fèlixe Ross, l’insegnante di recitazione che ha guidato il lavoro dei ragazzini insieme a me. Ha capito
esattamente in che tipo di direzione volessi andare, senza di lei non ci sarei mai riuscito.
E’ anche un film sul lutto?
Non è un film sul lutto, ma sulla complessa entità organica che è la scuola. C’è un inevitabile processo di guarigione, ma
ciò che mi interessava particolarmente era che questa metabolizzazione del lutto avvenisse in un contesto in cui ci fosse
l’incontro tra un immigrato e noi. E così la scuola riesce a superare questa tragedia grazie all’elemento catalizzatore di
uno straniero che sta attraversando il suo lutto personale. Perciò mi piace pensare che il film sia piuttosto una risposta al
diffondersi dei punti di vista su come integrare gli immigrati. A mio parere, non c’è un modo. Cerchiamo di vivere con gli
immigrati, in tutto ciò che possiamo sperimentare: mangiare, bere, ridere, lavorare, vivere... e superare le barriere
insieme. Questa è l’integrazione, nient’altro. Non è una questione da definire esclusivamente con la politica.
Ma c’è anche un’altra dimensione a me cara che emerge nel film, sebbene non ci fosse nella rappresentazione teatrale.
E’ l’intera questione della codifica delle relazioni tra ragazzini ed adulti a scuola. Attraverso gli anni, abbiamo stabilito
regole che proibiscono agli insegnanti di toccare gli alunni, a prescindere dalle circostanze, anche se è solo per
spalmargli la crema solare sulla schiena, come dice il personaggio dell’insegnante di ginnastica. Noi sappiamo molto
bene le ragioni che sono dietro queste regole e quello che c’è in gioco, ma il risultato è che gli insegnanti, genitori e
anche i ragazzi, agiscono in punta di piedi quando si tratta di mostrare una certa forma di affetto o vicinanza.
La questione è estremamente delicata e costituisce un momento cruciale nel film. Penso che il film parli molto di questo,
all’inizio in modo impercettibile, in modo esplicito alla fine.
Durante l’intero film, Bachir è qualcuno che rimane forte e dignitoso...
Qualità che spesso caratterizzano gli immigrati. Egli è discreto quando si tratta di se stesso. Bachir
sente che non è rilevante mostrare le sue emozioni o il suo dolore. In un mondo che incoraggia molto a comunicare le
emozioni, egli sceglie di comunicarle solo a se stesso, e secondo me, questo è un errore.
Specialmente, tra tutti, con la sua collega Claire. Allo stesso tempo, questo è quello che gli conferisce dignità: egli è
molto più interessato ad aiutare la classe e a liberare i ragazzi dal loro dolore; ignorando così se stesso. Ma
inconsciamente io penso che egli stimoli Alice e Simon perchè in realtà vuole stimolare se stesso. Simon è il ragazzino
che porta tutte le colpe della scuola. Alla fine, quando Simon cede alle sue emozioni, la tensione avvertita per tutta la
scuola si scioglie.
Sebbene il film sia drammatico, e il soggetto serio, emergono elementi umoristici
Raramente nella vita una tragedia o un dramma vengono da soli. Spesso è una questione di prospettive.
In IT’S NOT ME, I SWEAR! l’uomorismo era costruito sulla distanza, un umorismo anticonformista e insolito. In
MONSIEUR LAZHAR, l’umorismo è più sottile, più con i “piedi per terra”. L’ingenuità del personaggio algerino sorprende
e fa ridere. Quando si gioca sottilmente su un divario culturale, c’è spesso un ricco potenziale per l’umorismo. Il bidello e
l’insegnante di ginnastica hanno costantemente scambi di battute che fanno ridere. Il bello è che non sono battute. È
semplicemente che la vita è comica e penso che dovremmo saperlo cogliere. Per me i film senza umorismo sono
fantascienza. Non può essere!
Intervista di Marie-Hélène Mello
IL SEGRETO DI "MONSIEUR LAZHAR"
Il 31 agosto arriva nei cinema italiani il film superpremiato del canadese Philippe Falardeau.
“La storia si regge sull’umanità del personaggio, il suo senso del dolore, e sulla varietà dei
temi, la tragedia vissuta dall’uomo, l’insegnamento, l’integrazione”
Philippe Falardeau
di Maria Pia Fusco
APPROFONDIMENTI
PERSONAGGI:
- Philippe Falardeau
FILM:
- Monsieur Lazhar
ROMA - In una scuola elementare a Montreal, in Canada, un’insegnante si suicida in classe
traumatizzando i piccoli allievi che la scoprono; un algerino, Bachir Lazhar, in attesa dello
status di rifugiato politico, si offre come supplente e viene assunto. Il rapporto, difficile e
delicato, che si stabilisce tra lui e i bambini è al centro di “Monsieur Lazhar”, il film del regista
canadese Philippe Falardeau, che, premiato in vari festival internazionali e candidato all’Oscar,
sarà nelle sale dal 31 agosto distribuito dalle Officine Ubu. “Monsieur Lazhar” è un film
semplice e complesso, commovente, sprizza tanta umanità come è raro oggi trovare sullo
schermo. Il testo nasce come monologo teatrale di Evelyne de la Chenelière, che «mi ha
colpito per l’umanità del personaggio, il suo senso del dolore, e per la varietà dei temi, il
mistero della tragedia vissuta da Bachir, il trauma dei bambini, l’insegnamento e la relazione
tra bambini e adulti, l’integrazione. Sono temi sfiorati con pochi tratti essenziali. Nella
sceneggiatura ho avuto la libertà di creare i personaggi, dare loro l’anima», dice il regista al
telefono da Montreal.
Era essenziale la nazionalità algerina del protagonista?
«Avrebbe potuto essere di qualunque altro paese di emigrazione, ma il problema era la
padronanza della lingua francese che Bachir insegna. C’è anche una lieve ironia nel fatto che
un uomo proveniente da un’ex colonia vada ad insegnare nel Quebec, un’altra ex colonia
francese».
Ha avuto esperienze di insegnante?
«No, ma prima del film ho girato documentari in tante scuole di Montreal. In fondo una classe
è un concentrato di diverse umanità, sono bambini con le stesse particolarità e diversità di un
gruppo di adulti, ma senza sovrastrutture».
Nel film ci sono molti momenti di leggerezza…
«Come nella vita. Anche nelle situazioni drammatiche può accadere qualcosa che ci fa
sorridere. Nella scuola canadese, ma forse anche altrove, ci sono regole che, sia pure giuste,
generano momenti grotteschi. Per esempio, come dice nel film l’insegnante di ginnastica, è
proibito toccare gli alunni, anche solo per spalmare una crema solare sulla schiena. La
conseguenza è la difficoltà di esprimere vicinanza o affetto anche in momenti in cui ci sarebbe
bisogno. È una questione delicata che mi interessa molto, uno dei momenti cruciali del film».
Ha scelto come protagonista l’attore Fellag, lo stesso della pièce teatrale?
«Dopo una serie di ricerche, ho capito che era l’unica scelta possibile. Fellag dirigeva un teatro
in Algeria e mentre era in tournée in Tunisia, è scoppiata la guerra civile nel suo paese e non è
potuto rientrare. Ha vissuto in parte il dolore dell’esilio di Bachir, ha la stessa forza e la stessa
dignità nel nascondere il suo dramma».
Quali sono i suoi riferimenti cinematografici?
«I miei autori preferiti sono Ken Loach e Mike Leigh. In realtà non ho mai studiato cinema, ho
studiato scienze politiche. Quasi per gioco, ho partecipato ad un reality televisivo in cui i
concorrenti dovevano fare piccoli film in giro per il mondo. Io ho fatto venti filmini in Siria,
Libia, Egitto, Tunisia e altri paesi del Mediterraneo. Ho vinto il primo premio, ho cominciato
così. Ma la politica mi interessa ancora molto, sto preparando una commedia sulle distorsioni
della democrazia in Canada, un modello è Nanni Moretti, lo ammiro molto».
La situazione dell’emigrazione in Canada?
«Qui è un fenomeno che tocca Montreal e le grandi città e finché l’economia andava bene non
c’erano problemi. Purtroppo dopo l’11 settembre e ora con la crisi si avvertono tensioni, piccole
esplosioni razziali. La politica è importante per l’integrazione, ma è più importante la
conoscenza, mangiare, bere, discutere, ridere insieme. Il personaggio di Bachir è un
esempio».
(25-08-2012)
MONSIEUR LAZHAR
Bashir Lazhar, interpretato da Mohamed Saïd Fellag, nel film di Philippe Falardeau è
un insegnante algerino in attesa di riconoscimento nel Québec francese. Pian piano
emerge la sua storia: è dovuto fuggire dalla sua patria, nella speranza che la moglie con i due
figli potessero poi seguirlo. Essi sono perseguitati in una terra dove la violenza
dell’integralismo religioso ed il potere politico che lo combatte si tendono la mano quando una
donna, la moglie, inizia a scrivere per contestarli.
Ma non è questo il punto. Il film narra di come l’integrazione avvenga in una trama di
rapporti umani che si tessono non in astratto, bensì dinanzi alla vita che urla il suo
dramma.
Nella scuola una giovane insegnante si è suicidata ed i bambini/ragazzi vivono
l’angoscia che quella morte getta su tutti. In particolare sono due amichetti, Simon,
interpretato da Emilien Néron, ed Alice L'Écuyer, interpretata da Sophie Nelisse a portare il
perso della tragedia: solo loro hanno il visto la maestra morta. Ma è soprattutto Simon che
sente il peso del dramma: avendo dichiarato di aver ricevuto un bacio dalla maestra,
che un giorno lo aveva abbracciato, si sente colpevole quasi che l’insegnante si sia tolta
la vita per le voci seguite a quel gesto.
Nel film, il quadro si fa pian piano più complesso senza mai risolversi chiaramente - la donna
era sofferente interiormente da tempo e il marito la ignorava, non essendosi presentato
a scuola nemmeno per ritirare i suoi oggetti personali.
Ciò che appare chiaro, invece, è che la scuola ha da tempo abdicato ai suoi contenuti,
privando gli studenti di un insegnamento di qualità, puntando quasi esclusivamente
sull’integrazione e su di una buona convivenza.
I ragazzi non sono più in grado di leggere testi di qualità e sono ormai abituati a sedere con i
banchi in cerchio. Soprattutto, è ormai vietata la comunicazione tattile, l’abbraccio, il
bacio. Nemmeno l’insegnante di educazione fisica può toccare i bambini/ragazzi, per non
destare scandalo, perché le nuove normative della scuola così prevedono.
Parallelamente ed in conformità a questa impostazione, solo alla psicologa è
demandato il compito di affrontare il tema del lutto che, invece, i bambini vivono ad
ogni istante, poiché tutto ricorda loro la loro maestra che si è uccisa.
Bashir Lazhar viene da un mondo che ha maggiormente conservato un’adesione reale
alla vita e perciò riesce ad entrare in un contatto vero, affettuoso ed educativo con i
suoi alunni.
Subito ripristina la disposizione dei banchi in linee verticali, si acquista la stima dei
bambini per la qualità del suo insegnamento che non fa sconti, ma anzi li porta a misurarsi
con i grandi autori francesi - lui, immigrato algerino! – e, soprattutto, non cessa di
avere presente il senso di colpa che i bambini portano in loro per la morte della loro
insegnante.
Solo dinanzi a lui - e non dinanzi alla psicologa - finalmente i piccoli hanno il coraggio
di esprimere il loro dolore, di piangere e sfogarsi, ritrovando brandelli di speranza.
Bashir, soprattutto, ha il coraggio di “toccarli” anche fisicamente, con scappellotti
quando lo meritano ed ancor più con l’abbraccio di cui hanno bisogno nel dolore.
Ma la scuola non è in grado di reggere la prospettiva di educazione reale ed
integrale di cui i bambini hanno bisogno e di cui Bashir è portatore.
Il film esprime l’empasse - monito anche per la catechesi - alla quale il sistema
scolastico si condanna se decide, per essere politicamente corretto, di tenere fuori
dall’orizzonte educativo l’autorità dell’insegnante, se gli vieta di sporgersi a parlare
della colpa, della vita e della morte - ed, in fondo, del senso delle cose e di Dio - se lo
paralizza impedendogli di usare l’affetto fino alla sua comunicazione corporea.
In un’intervista il regista ha dichiarato: «È l’intera questione della codifica delle relazioni
tra ragazzini ed adulti a scuola. Attraverso gli anni, abbiamo stabilito regole che
proibiscono agli insegnanti di toccare gli alunni, a prescindere dalle circostanze,
anche se è solo per spalmargli la crema solare sulla schiena, come dice il
personaggio dell’insegnante di ginnastica. Noi sappiamo molto bene le ragioni che
sono dietro queste regole e quello che c’è in gioco, ma il risultato è che gli
insegnanti, genitori e anche i ragazzi, agiscono in punta di piedi quando si tratta di
mostrare una certa forma di affetto o vicinanza. La questione è estremamente delicata e
costituisce un momento cruciale nel film. Penso che il film parli molto di questo, all’inizio in
modo impercettibile, in modo esplicito alla fine» (da un’intervista di Marie-Hélène Mello al
regista Philippe Falardeau sul sito Agiscuola).
MONSIEUR LAZHAR - RECENSIONE
Inviato il 28/08/2012 da Elena Pedoto
Con Monsieur Lazhar (candidato per il Canada agli Oscar come miglior film straniero) Philippe
Falardeau, già autore di "It's Not Me I swear", affronta (e si confronta) con i temi dell'elaborazione del
lutto e della perdita (qui duplicemente intesi come morte del singolo e/o necessità di abbandonare la
propria terra). Centrale nel racconto sarà infatti il rapporto tra due ‘realtà' accomunate dal medesimo
senso di privazione: l'insegnante Bachir Lazhar (rifugiato algerino con un doloroso e irrisolto passato)
e la classe elementare di giovanissimi studenti canadesi, reduci dall'improvvisa perdita della loro
insegnante. L'incontro di questi due mondi, entrambi mancanti di un loro fondamentale tassello
emotivo, sarà (come spesso accade) funzionale per elaborare un lutto che va oltre la condizione
estemporanea di perdita e che si spinge invece a rappresentare la vita stessa come un insieme
perennemente mutabile in cui sempre (co)esistono dei vuoti. Il contesto scolastico spesso utile
nell'identificazione di un microcosmo societario in cui convergono luci e ombre funge qui, piuttosto, da
luogo rappresentativo in cui la vita (e vitalità) congenite alla scuola stessa, si vanno a contrapporre
all'oscura imprevedibilità dell'evento morte, passando per il fondamentale ponte-umano generato dalla
carismatica presenza di Lazhar. Una storia che racchiude il suo potente senso allegorico nel delizioso
aneddoto finale dell'albero e della crisalide, racconto toccante e poetico sull'esigenza (nel corso della
vita) di figure solide che (al bisogno) possano - e sappiano - ergersi al ruolo di protettori.
Monsieur Lazhar
di Philippe Falardeau
drammatico, Canada (2011)
di Francesca D'Ettorre
Bachir Lazhar ha origini algerine e arriva a Montreal in fuga da quella terra che gli ha strappato
violentemente moglie e figli. Si ritrova a insegnare, non senza l'aiuto di qualche bugia, in una scuola, in
cui tutti (genitori-maestri-bambini) sono sconvolti da una tragica scomparsa. L'insegnante Martine, così
premurosa e candida all'apparenza, ha scelto la morte più inspiegabile e cruenta: suicidarsi in classe.
Violenze che si cedono il passo sono il cuore pulsante di "Monsieur Lazhar". La violenza passiva: quella
subita dal protagonista che vede la sua famiglia distrutta in un incendio dalle finalità, probabilmente,
politiche e quella dei bambini che - proiettati troppo presto tra le contraddizioni del mondo dei grandi cercano di dare un nome alla mancanza di senso. La violenza attiva: quella di Martine che, scegliendo la
scuola come teatro della fine delle sue pene, fa sì che la crudeltà autoinflittasi diventi un vortice da cui
tutti sono travolti e storditi; e quella dell'ambiente scolastico che col suo formalismo sterile, in cui la
morte è argomento tabù per creature troppo acerbe o concesso esclusivamente a professionisti-psicologi,
diventa la campana di vetro in cui le inquietudini implodono e non trovano sollievo. Al mondo dei
burocrati e dei regolamenti -"dare l'aspirina ai bambini è vietato" - si opporrà il metodo più
tradizionalista e un po' conservatore dell'insegnante Lazhar, fino all'idillio finale della favola della
crisalide.
Acclamato ai festival internazionali e sconfitto dal bellissimo "Una separazione" come miglior film
straniero durante l'ultima edizione degli Oscar, "Monsieur Lazhar" è stato apprezzato soprattutto per
l'assenza di buonismo in una storia tanto tenera quanto poetica. Lo stile minimalista e asciutto,
effettivamente, salva il film dall'impasse delle più grevi sdolcinature, hollywoodiane e non. Ma
prosciugare fronzoli e orpelli non basta. Sia perché talune scelte registiche si impantanano in quella
urticante deriva televisiva del visto e ri-visto, sottolineate poi da note musicali accessorie; sia perché lo
stile-aspirapolvere deve quantomeno preservare i sottotesti, che in questo film sono tanti (l'elaborazione
del lutto-l'immigrazione-il sistema scolastico) e sospesi in un corpus centrale che soffre di qualche
lungaggine di troppo - in un film pur breve - che disorienta. L'afflato poetico che percorre il film erompe
nel finale con la favola à la Esopo che rivela il messaggio dell'opera e si suggella in un abbraccio, che
può, da solo, condensare la portata del film: strappacuori, lirico, delicato; ma pleonastico.
IL FILM ESCE OGGI NELLE SALE ITALIANE L' OPERA DI PHILIPPE FALARDEAU, INSERITA
NELL' ULTIMA CINQUINA DEGLI OSCAR PER IL MIGLIOR FILM STRANIERO
MONSIEUR LAZHAR E IL DOLORE
NEGLI OCCHI DEI BAMBINI
IL REGISTA «SE SI VUOLE FARE CINEMA BISOGNA
ANDARE IN PROFONDITÀ, SERVE UNA CULTURA
DELLA CONOSCENZA»
H a studiato scienze politiche e relazioni internazionali, ha seguito corsi di greco antico. Se si vuole fare
cinema - sostiene - bisogna andare in profondità, c' è bisogno di una «cultura della conoscenza».
Philippe Falardeau, nato a Hull nel 1968, non aveva nessuna intenzione di fare il regista. E ancora oggi
non si considera un artista, anche dopo che il suo film «Monsieur Lazhar» è stato inserito nell' ultima
cinquina per l' Oscar al migliore film straniero (la seconda volta consecutiva per un film del Québec,
dopo «Incendies» di Denis Villeneuve). «Ho ancora la sindrome dell' impostore, temo che qualcuno
vada al centro stanza e dica: Sappiamo chi sei, questo non è un affare che ti riguarda!». «Monsieur
Lazhar» - che esce oggi in Italia - è ambientato in una scuola elementare dove i piccoli allievi devono
affrontare il suicidio della loro maestra che si è impiccata nella sua aula. Insegnanti e psicologi cercano
di non parlare della tragedia nella speranza che il tempo possa allontanare il trauma dalla memoria dei
bambini. Non è della stessa idea il nuovo maestro, Bachir Lazhar, immigrato algerino, che si è candidato
alla sostituzione nascondendo di non essere in realtà un insegnante e, in attesa di asilo politico, di
rischiare l' espulsione dal Canada. Ma il suo più terribile segreto è la perdita della famiglia in circostanze
tragiche, nel suo paese sconvolto dalla guerra civile. «Questo è un film sul dolore e il senso di colpa spiega Falardeau - I bambini si sentono in colpa per la morte della maestra, Bachir si sente in colpa per
la morte della sua famiglia. Il tema centrale è il lutto, ma parlare della morte significa parlare di coloro
che rimangono, della vita che necessariamente deve andare avanti. E la scuola, questo incubatore di
piccoli esseri umani, è un laboratorio di vita reale dove tutto può accadere». Il film è tratto dalla pièce
teatrale di Évelyne de la Chenelière. «Mi è subito piaciuto questo personaggio enigmatico che è Bachir dice Falardeau - di un pudore e una dignità. aiuterà i bambini come loro aiuteranno lui; nonostante il
dramma, ho visto della luce». Lazhar è interpretato da Mohamed Fellag, che aveva già affrontato questo
ruolo in teatro, in Francia; anche lui di origine algerina, anche lui costretto a fuggire dal suo paese
durante la guerra civile degli anni ' 90. Inevitabilmente il film affronta anche i problemi dell'
immigrazione e dei rifugiati. «Non sa nulla delle regole della nostra scuola, ha uno stile d' insegnamento
un pò antico, è goffo, e non è nemmeno un insegnante. Pone domande sulla didattica, sul dolore, e dà
fastidio - dice il regista, che come hanno scritto gli americani (entusiasti) rifugge da ogni manipolazione
emotiva e non giudica gli scottanti argomenti che tocca -. Possiamo guardarci attraverso i suoi occhi
candidi: il disagio psicologico dei docenti, l' ingombrante macchina amministrativa, l' eccesso di regole
come il divieto di qualsiasi forma di contatto fisico con i bambini per prevenire atti di violenza sessuale,
ma privandoli forse di gesti affettuosi anche quando ne hanno bisogno. Vogliamo codificare tutto, ma
questo desiderio alla fine rivela una nevrosi. Non possiamo impedire che poi arrivi qualcosa di
spiacevole, perché la vita accade, punto». RIPRODUZIONE RISERVATA
Cervone Paolo
Pagina 9
(31 agosto 2012) - Corriere della Sera
ONSIEUR LAZHAR
Cinema - 10,11,13 novembre
Sala San Luigi
Via Luigi Nanni, 12
Scarica:
MONSIEUR LAZHAR
(Bachir Lazhar, Canada/2011; 94 min.)
di Philippe Falardeau
con Mohamed Fellag, Sophie Nélisse, Emilien Néron, Danielle Proulx
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Trama
A Montreal, in una scuola elementare un'insegnante viene trovata tragicamente morta
dopo essersi impiccata. Letta la notizia sul giornale, Bachir Lazhar, immigrato algerino di
55 anni, si presenta nell'ufficio della direttrice e chiede di sostituire la maestra scomparsa.
Assunto dopo qualche incertezza, Lazhar comincia il lavoro e capisce ben presto che tutta
la classe (11-12 anni) è ancora scossa per il recente episodio: in particolare Simon e
Claire mostrano ferite psicologiche difficili da rimarginare. Il ruolo di Lazhar allora, pur
partendo da una dimensione educativa e didattica, assume precise valenze pedagogiche.
L'uomo poi, oltre a doversi confrontare anche aspramente con la psicologa dell'istituto, ha
necessità di sistemare la propria posizione di immigrato, che lo obbliga a ricordare ai
giudici il dramma vissuto ad Algeri, con l'uccisione della moglie e dei figli ad opera di
integralisti. A rischio di espulsione dal Paese, Lazhar riesce tuttavia ad ottenere la fiducia
dei piccoli alunni e dei genitori, aiutando tutti ad uscire dal ricordo di quella triste
esperienza.
CNVF Centro Nazionale Valutazione Film
Giudizio: Consigliabile/problematico/dibattiti
Tematiche:Adolescenza; Famiglia; Famiglia - genitori figli; Politica-Società; Rapporto tra
culture; Scuola
Valutazione Pastorale: "E' una storia sulla complessa entità organica che è la scuola (...)
mi interessava che l'elaborazione del lutto avvenisse in un contesto in cui ci fosse
l'incontro tra un immigrato e noi (...) mi piace pensare che il film sia una risposta al
diffondersi dei punti di vista su come integrare gli immigrati(...)". Così il canadese
Falardeau, al quarto lungometraggio, inquadra il proprio copione, ispirato ad un testo
teatrale e riscritto nell'ottica di riproporre un cinema come mezzo "che rappresenta la
realtà, a differenza della letteratura". Il risultato è decisamente apprezzabile, perché la
regia predilige una tonalità media, con un misurato intrecciarsi di sfumature leggere, serie,
impegnative. Le difficoltà del protagonista, in fuga da un Paese islamico; il confronto con
l'episodio del suicidio, che vuol dire mettere in campo delicate capacità psicologiche; la
gestione dei rapporti insegnante/adolescenti, spesso a rischio di incomprensione: tanti forti
snodi dialettici scorrono lungo una narrazione pacata e misurata, attenta più ad esplorare
le sfumature degli affetti, che non a cavalcare la rabbia della denuncia alla Cantet. Un
quadro attento, minuzioso, qua e là poetico, per un film che, dal punto di vista pastorale, è
da valutare come consigliabile, problematico e adatto per dibattiti.
RECENSIONI
Mariarosa Mancuso – Il Foglio
Monsieur Lazhar parla di immigrazione, di scontri ideologici, di radici, di esilio, di società
multiculturale, di clandestini e di insegnanti precari senza farsi prendere dalla retorica,
cosa già abbastanza miracolosa. Così come lo è l'assenza della "scena madre che
qualunque altro regista avrebbe preparato per la rivelazione, chiedendo all'autore della
colonna sonora un brano etnico e funeralizio". Non solo. Il signor Bachir Lazhar,
cinquantacinquenne algerino che arriva dal nulla in una scuola di Montréal, proponendosi
come supplente per una classe di undicenni la cui maestra si è impiccata in aula, ci
sembra semplicemente il maestro che tutti vorremmo per i nostri figli. Di fronte a un mondo
di psicologhe petulanti, di genitori preoccupati o distratti o arroganti, di maestre nel panico
di fronte al trauma dei bambini (due dei piccoli hanno intravisto il cadavere della maestra,
tutti sono scossi e spaventati), di fronte a tutto questo, quell'uomo gentile e un po'
misterioso usa il buon senso. Nel frattempo, spiega agli alunni gli aggettivi possessivi ("ma
non si chiamano più così", precisa la prima della classe), sceglie per il dettato ("ma noi
non abbiamo mai fatto un dettato", lo avverte un altro allievo) una pagina della "Pelle di
zigrino" di Balzac ("le suggerirei di semplificare un po' i dettati", si raccomanderà
naturalmente la direttrice didattica). A ogni passo, il signor Lazhar sembra inciampare in
un problema, in una gaffe, in un'incomprensione. Ma ha sempre ragione lui. Ha ragione
quando, appena arrivato, per prima cosa fa risistemare i banchi in tre file ordinate e non
più nella disposizione circolare che deve alludere a chissà quale repubblica egualitaria; ha
ragione quando dice serenamente al ragazzino arabo, che gli ha rivolto la parola in arabo,
che "in classe parliamo tutti in francese"; ha ragione quando si meraviglia al racconto di
come, da una gita, tutti i ragazzini di una classe fossero tornati con le spalle ustionate. Agli
insegnanti è fatto divieto di toccarli, niente crema antisolare sulla schiena: il codice di
comportamento che dovrebbe tutelare maestri e alunni da ogni sospetto di pedofilia o di
contatti impropri può trasformare una carezza innocente, o il bacio sulla guancia di un
bambino, in un delitto innominabile. La sua forza è quella di un dolore personale e
nascosto, che gli fa capire come affrontare la sofferenza inespressa dei ragazzini (i quali,
comunque, alla fine sapranno anche come usare l'apostrofo e l'accento). Noi, invece,
monsieur Lazhar lo vorremmo all'Istruzione.
Federico Pontiggia – Cinematografo.it
Da Rotterdam a Toronto, fino a Locarno e la candidatura all'Oscar: piovono premi e
riconoscimenti su Monsieur Lazhar, quarto lungometraggio del canadese Philippe
Falardeau. E si può capire: strappalacrime e accorato, dolente e simpatetico, le carte ci
sono davvero tutte, anzi, basterebbero per quattro film. Protagonista è il 55enne Monsieur
Bachir Lazhar (Fellag, fin troppo bravo), algerino richiedente asilo, senza più una famiglia
alle spalle: una maestra di una scuola elementare di Montreal si suicida, e lui ne prende il
posto, tra elaborazione del lutto collettiva - su tutti, gli alunni svegli e problematici Alice e
Simon - e sfighe private. Siamo dalle parti del sopravvalutato La classe di Laurent Cantet
e, più distanti, dal toccante Essere e avere di Nicolas Philibert, ma la misura è colma:
tragedie geopolitiche, immigrazione e i suoi fratelli, i mille pericoli del rapporto maestroalunni, il terremoto verità-finzione, la genitorialità delegata, e chi ne ha più ne metta, tutti
stipati in un piccolo film, dalla regia - sarà il contesto - elementare. Buone intenzioni, esiti a
mezz'asta, Monsieur Lazhar non è buonista, ma l'apologo morale ha fatto scuola. Da
secoli.
Stefano Selleri – Gli Spietati
Un film sul dolore derivato da una perdita improvvisa, inspiegabile, percepita come
ingiusta e contraria alle regole del dialogo, della condivisione, del rispetto reciproco che
dovrebbero caratterizzare il mondo della scuola, microcosmo che il regista ritrae come un
immacolato reclusorio: alunni e professori appaiono immobilizzati da porte, finestre e
banchi che si stagliano a comporre opprimenti geometrie alla Mondrian, mentre il
confronto "adulto" e "costruttivo" all'interno del corpo docente e fra genitori e insegnanti
cela (neppure tanto) derive violente e (auto)distruttive, all'insegna dell'ottusità e della
chiusura reciproca. Quella che emerge dall'opera di Falardeau (candidata agli Oscar come
miglior film straniero) è una visione disillusa, capace di aprirsi a un cauto ottimismo che
però non dimentica la necessità di osservare in maniera lucida e distaccata, e non per
questo meno empatica, le dinamiche (individuali e di gruppo) di elaborazione del lutto, che
permangono per la maggior parte del tempo sottotraccia ed emergono improvvise,
esplodendo con la violenza dei conflitti irrisolti perché irresolubili.
Giulio Sangiorgio – FilmTv
Come fu per La donna che canta di Denis Villeneuve, la canadese micro_scope produce
un'opera basata su un testo teatrale in cui riaffiora, nella quotidianità di Montréal, la ferocia
della Storia. Tratto da Bashir Lazhar di Évelyne de la Chenelière, Monsieur Lazhar
racconta di un immigrato algerino che si offre di sostituire, in una classe elementare,
un'insegnante che ha scelto la scuola come palcoscenico per il proprio suicidio. L'incontro
tra l'uomo e gli alunni è un confronto tra culture e, soprattutto, l'elaborazione di due traumi
che scorrono sottopelle, erompendo a tratti: quello degli studenti di fronte alla morte della
maestra e quello di Lazhar, in fuga dall'Algeria, dalla morte dei suoi cari, dai suoi fantasmi.
Philippe Falardeau ha il merito di abbozzare temi che non ha la tracotanza di disegnare
esattamente, ponendo domande sull'educazione (non solo scolastica) e sulla vita, sulla
Storia e su personaggi che non soffoca mai completamente nella macchietta. E sceglie
una narrazione cauta ma non didascalica, che rivela le sue premesse fluida e garbata,
purtroppo concedendosi, nel linguaggio, ad automatismi televisivi. Fellag, con un
personaggio imploso e opaco, recita in sottrazione, sottraendosi alle proprie origini
comiche.