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26 NOVEMBRE 2014 Il futuro politico della Catalogna Antoni Abat i Ninet Enoch Albertí Rovira Xavier Arbós Marín Marc Carrillo Víctor Ferreres Comella Jordi Matas Dalmases Carles Viver i Pi-Sunyer a cura di Laura Cappuccio Ricercatore di Diritto costituzionale Università di Napoli Federico II Gennaro Ferraiuolo Professore associato di Diritto costituzionale Università di Napoli Federico II Sommario Introduzione. La lunga e accidentata marcia della Catalogna verso una consultazione popolare sull’indipendenza di Laura Cappuccio ………………………………………………….... p. 3 Il questionario ……………………………………………………… p. 33 Antoni Abat i Ninet ……………………………………………….... p. 35 Enoch Albertí Rovira ………………………………………………. p. 50 Xavier Arbós Marín ……………………………………………….... p. 59 Marc Carrillo ……………………………………………………….. p. 70 Víctor Ferreres Comella ……………………………………………. p. 80 Jordi Matas Dalmases ………………………………………………. p. 87 Carles Viver i Pi-Sunyer …………………………………………….. p. 94 Notazioni conclusive di Gennaro Ferraiuolo ………………………………………………… p. 101 2 federalismi.it |n. 22/2014 Introduzione La lunga e accidentata marcia della Catalogna verso una consultazione popolare sull’indipendenza* di Laura Cappuccio Ricercatore di Diritto costituzionale Università di Napoli Federico II Sommario: 1. Il 9 novembre: si è votato? 2. Il primo passo: la legge catalana n. 4 del 2010 sul referendum. 3. L’indipendenza catalana tra autodeterminazione, diritto a decidere e secessione. 4. Le “cinque vie” per l’indipendenza secondo il Consiglio per la transizione nazionale. 5. La legge catalana sulle consultazioni popolari non referendarie: un tertium genus? 1. Il 9 novembre: si è votato? Il 9 novembre 2014, venticinquesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, a partire dalle 8 della mattina, sono state poste delle urne in diversi locali pubblici della Catalogna e oltre 40mila volontari hanno consentito lo svolgimento di una consultazione popolare sull’indipendenza. Nessun atto di convocazione ufficiale, né le garanzie giuridiche che assistono i referendum sono state previste e messe in opera per questa votazione, cui hanno scelto comunque di partecipare più di due milioni di catalani (su oltre sei milioni di aventi diritto)1. Articolo sottoposto a referaggio. I mezzi di comunicazione riferiscono, come esito della votazione, che circa l’80% dei votanti si è espresso a favore dell’indipendenza. I commentatori si sono divisi sul significato di questa giornata; cfr. le posizioni radicalmente diverse espresse sul giornale El País (F. DE CARRERAS, El día de la deslealtad, del 9 novembre 2014 e C. JIMÉNEZ VILLAREJO, Una consulta antidemocrática, del 7 novembre 2014, e su ABC (Farsa y desobedienia, 10 novembre 2014) rispetto a quelle che si ritrovano nella portata de La Vanguardia, El 9-N masivo reclama una salida política, del 10 novembre 2014, e l’editoriale de l’Ara, L’ultim avís de Catalunya en un 9-N masiu i cívic, del 10 novembre 2014. * 1 3 federalismi.it |n. 22/2014 Il c.d. “diritto a decidere” del popolo catalano si è manifestato così in assenza delle forme auspicate dai diversi rappresentanti della Comunità Autonoma e da una larga parte della società civile. Il Tribunal Constitucional, infatti, ha ammesso il ricorso del Governo, prima, nei confronti della legge e del decreto di convocazione della consultazione popolare non referendaria2, e, poi, verso ogni attività pubblica legata allo svolgimento della votazione gestita dai volontari. In quest’ultimo caso, il Tribunal ha accettato il ricorso anche in mancanza di un atto ufficiale di convocazione, considerando rilevanti alcuni elementi: le dichiarazioni del Presidente Artur Mas in una conferenza stampa successiva alla prima sospensione del TC; l’attivazione di una pagina web informativa; la pubblicità destinata a promuovere la partecipazione popolare 3 . Il Tribunal non è entrato nel merito delle questioni, ha solo applicato l’art. 161, comma due, della Costituzione che connette automaticamente la sospensione all’impugnazione 4 . I tempi di intervento dei giudici costituzionali e del Consiglio di Stato, tuttavia, quanto mai rapidi ed unici per la storia spagnola, hanno attirato molte critiche 5. Il braccio di ferro tra il Governo centrale e le istituzioni catalane ha raggiunto così il punto di maggiore tensione. La data della consultazione e la domanda da porre agli elettori sono state indicate dal Presidente della Generalitat di Catalogna, Artur Mas, il 12 dicembre 2013 con il sostegno dei partiti di Convergència Democràtica de Catalunya (CDC), Unió Democràtica de Catalunya (UDC), Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), Iniciativa per Catalunya Verds – Esquerra Unida i Alternativa (ICV-EUiA), Candidatura d’Unitat Popular (CUP) (un totale 87 membri del Parlamento catalano su 135). La domanda è divisa in due parti: solo se si risponde in senso Ricorso n. 5829 -2014 del 29 settembre 2014. Nel comunicato dello stesso giorno del Tribunal si legge: “En el presente caso, la decisión del Pleno de no demorar su resolución -limitada a comprobar la concurrencia de las condiciones procesales de admisibilidad de los recursos, sin consideración alguna respecto al fondo de los mismos- obedece a que el Tribunal Constitucional es consciente de la trascendencia constitucional y política de las cuestiones planteadas, para la sociedad española en su conjunto y, en particular, para la catalana”. 3 Ricorso n. 6540-2014, del 4 novembre 2014. 4 Questo articolo, al comma due, sancisce: “Il Governo potrà impugnare davanti al Tribunale Costituzionale le disposizioni e le decisioni adottate dagli organi delle Comunità autonome. L'impugnazione produrrà la sospensione della disposizione o della decisione impugnata, ma il Tribunale, da parte sua, dovrà ratificarla o annullarla entro un periodo non superiore a cinque mesi”. 5 Il Consiglio di Stato si è riunito di domenica per emettere il parere previo all’impugnazione del Governo ed il Tribunal Constitucional ha deliberato di riunirsi in seduta straordinaria il lunedì successivo, decidendo in quello stesso giorno. 2 4 federalismi.it |n. 22/2014 affermativo al primo interrogativo, “Vuole che la Catalogna sia uno Stato?”, si può votare anche per il secondo, “Vuole che questo Stato sia indipendente?”6. L’idea di rimettere a una votazione popolare la decisione sull’indipendenza possiamo farla risalire all’Acord per a la transició nacional i per garantir l’estabilitat parlamentària del Govern de Catalunya, ossia al piano di governo concordato tra Artur Mas, di Convergència i Unió (CiU), e Oriol Junqueras, di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) il 19 dicembre 2012, a seguito delle elezioni anticipate. Il Presidente della Comunità Autonoma Artur Mas aveva deciso di accorciare di due anni la durata della legislatura e di andare a votare in un momento considerato favorevole al suo partito. Convergència i Unió, ritenendo presente in Catalogna una larga maggioranza a sostegno dell’indipendenza (all’esito della manifestazione dell’11 di settembre, giornata della festa nazionale catalana), credeva possibile ottenere una consenso più amplio, in grado di dare maggiore supporto al cosiddetto procés sobiranista (i parlamentari CiU erano 62 su 135). Il risultato elettorale, tuttavia, delude le aspettative del Presidente: CiU passa dai 62 seggi a 50, il Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC), da 28 a 20, mentre Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) ottiene un gran risultato, passando da 10 a 21 deputati. In questo quadro nasce il ricordato patto di governo tra CiU e ERC, che si basa sul processo indipendentista 7 . Dopo circa un mese, il 23 gennaio 2013, il Parlamento autonomico, con l'obiettivo di dichiarare il popolo catalano come soggetto politico e giuridico sovrano, adotta, con 85 voti favorevoli, 41 contrari, e 2 astensioni, la “Dichiarazione di sovranità e del diritto di decidere del popolo della Catalogna” che afferma: «D'accordo con la volontà democratica manifestata dalla maggioranza del popolo catalano, il Parlamento della Catalogna inizia il processo per promuovere il diritto dei cittadini della Catalogna di decidere collettivamente il proprio futuro politico» 8. Con questo La doppia domanda esprime le diverse conseguenze che possono derivare dalla votazione su una Catalogna indipendente. Questo aspetto mostra come la separazione, creando due unità, può poi diversamente configurane la relazione; cfr D. PETROSINO, Democrazie di fine secolo. L’epoca delle secessioni?, in C. DE FIORES - D. PETROSINO, Secessione, Roma, 1996, p. 35 ss., in cui sottolinea che “l’unità frutto della separazione può andare a formare un proprio Stato da sola o unificandosi con altre unità provenienti da altri Stati o preesistenti, oppure può essere incorporata in uno Stato esistente. L’unità da cui il territorio si distacca può a sua volta costruire uno Stato diverso o mantenere una continuità con lo Stato precedente la separazione. È evidente come ciascuna di queste configurazioni generi situazioni molto diverse”. 7 Per una ricostruzione della complessa vicenda catalana, G. FERRAIUOLO, La via catalana. Vicende dello Stato plurinazionale spagnolo, in Federalismi.it, n.18/2013. Sul tema anche S. RAGONE, Il risultato delle elezioni (anticipate) in catalogna e il referendum indipendentista, in www.dirittiregionali.org, 2012. 8 La prima risoluzione in cui il Parlamento afferma un diritto all’autodeterminazione della Catalogna è del 1989, Risoluzione 98/III del 12 di dicembre. Questa risoluzione parte dall’affermazione che la “Catalogna 6 5 federalismi.it |n. 22/2014 atto di indirizzo comincia formalmente il processo politico-giuridico che, nelle intenzioni della maggioranza parlamentare, doveva portare ad una pronuncia popolare sull’indipendenza (il valore simbolico della Dichiarazione di sovranità, e le sue possibili ricadute sistemiche, non sfuggono al Governo centrale, che decide di impugnarla dinnanzi al Tribunal Constitucional). Il 9 novembre, tuttavia, non si è svolta una votazione ufficiale, seguendo le regole previste dalla Costituzione, dallo Statuto e dalla legge, ma solo una manifestazione spontanea, espressione della volontà dei catalani di andare a votare e di decidere sul proprio futuro politico. Le strade per consentire una consultazione popolare, infatti, si sono progressivamente chiuse, ed hanno lasciato aperta la porta solo a una soluzione informale, priva di un concreto valore giuridico. La storia di questa pronuncia è lunga e trova le sue radici nelle tensioni che attraversano attualmente lo Stato spagnolo, tensioni che risalgono allo stesso patto costituente9. 2. Il primo passo: la legge catalana n. 4 del 2010 sul referendum La possibilità di votare attraverso un referendum consultivo, che, nelle intenzioni dei rappresentanti del Governo catalano, era la strada maestra da percorrere per dare sostanza giuridica alla pronuncia popolare, si basava sulla legge catalana 4/2010, del 17 marzo del 2010, “Legge sulle consultazioni popolari per via di referendum”10. La legge n. 4 del 2010 disciplina l’istituto del referendum consultivo, avente ad oggetto le questioni politiche di maggiore importanza, all’interno delle competenza della Generalitat. Prima della sua adozione, il referendum era già previsto nell’ordinamento spagnolo in forma parte di una realtà nazionale differenziata all’intermo dello Stato”. Sull’attività del Parlamento catalano in tema di richieste di maggiore autogoverno e di diritto a decidere, cfr. VIVER PI-SUNYER, M. GRAUS CREUS, La Contribució del Parlament al procés de consolidació i d’desenvolupament de l’autogover de Catalunya i a la defensa de la seva idetitat nacional, in Reaf, 2013, p. 88 ss. 9 Per tutti, cfr. V. FERRERES COMELLA, The Constitution of Spain, Oxford, Oregon, Portland, 2013, p. 162 e ss.; in particolare, l’Autore ricorda che “When the new constitutional text was discussed in 1977-1978, political parties and public were aware that one of the most challenging questions the national faced was how to channel the aspirations of Catalonia and the Basque Country – and to a lesser existent Galicia - where nationalist sentiment was quite deep, while keeping Spain united around some common structures and principles. The framers knew that this was the hardest task they confronted”, p. 163. 10 Nel Preambolo della legge si dichiara la volontà di incrementare la qualità della vita democratica in Catalogna, attraverso meccanismi di partecipazione cittadina alle decisioni prese dall’amministrazione. La legge si fonda sull’art. 23, comma uno, della Costituzione spagnola, che riconosce ai cittadini il diritto di partecipare agli affari pubblici, direttamente o tramite rappresentanti liberamente eletti; e sugli artt. 29 e 122 dello Statuto Catalano, relativi, il primo, al diritto di partecipazione, il secondo, alla competenza della Generalitat in ordine al regime giuridico ed alle modalità di svolgimento delle consultazioni popolari. 6 federalismi.it |n. 22/2014 diverse ipotesi11; innanzitutto, nell’art. 92 Cost., che prevede un referendum consultivo per le decisioni di “especial trascendencia”. Tale referendum è indetto dal Re, mediante proposta del Presidente del Governo, previa autorizzazione del Congresso dei deputati. Poi ci sono i referendum previsti dagli artt. 167 e 168 Cost., all’interno del procedimento di revisione costituzionale; ed i referendum collegati all’ambito autonomico (art. 151, comma uno, e comma due ed 152, comma due)12. Infine, vi è il referendum sulle modificazioni territoriali di Navarra (disposizione transitoria quarta)13. La legge n. 4 del 2010 distingue tra gli strumenti di partecipazione, destinati a conoscere la posizione e le opinioni della cittadinanza in relazione a qualsiasi aspetto della vita pubblica (che possono assumere la forma di forum di dibattito, di partecipazione, di udienze pubbliche), dai veri e propri referendum. Il confronto sull’ammissibilità di una pronuncia popolare sull’indipendenza della Catalogna si è concentrato a lungo sulla possibilità di distinguere tra una consultazione referendaria e una consultazione “partecipativa”: mentre la prima chiama in causa il corpo elettorale, ed è assistita dalle garanzie necessarie per rendere legittimo il risultato del voto, la seconda viene riferita ai gruppi, variamente configurati, che di volta in volta risultano interessati dalla decisione. L’iniziativa del referendum, delineato come uno strumento per conoscere l’orientamento dei cittadini su questioni politiche rilevanti, è rimessa al popolo, al Parlamento, al Governo, ed ai municipi 14 . L’art. 13 della legge richiede, per lo svolgimento del referendum, l’autorizzazione del Governo centrale, in conformità a quanto sancito dall’art. 149.1.32 Sul referendum nella Costituzione spagnola cfr. A. RUIZ ROBLEDO, Teoría y práctica del referéndum en el ordenamiento constitucional español, in E. SÁEZ ROYO, M. CONTRERAS CASADO (a cura di), La participación política directa. Referéndum y consultas populares, Zaragoza, 2013, p. 33; E. MARTÍN, Notas sobre el referéndum autonómico en España, in L. CAPPUCCIO, M. CORRETJA TORRENS (a cura di), El derecho a a decidir. Un diálogo italo-catalán, Barcellona, 2014, p. 77 ss. 12 Sui referendum previsti da questi articoli si vedano i commenti di AGUADO RENEDO, Artículo 151, in M. E. CASAS BAAMONDE, M. RODRÍGUEZ-PIÑERO, M. BRAVO FERRER (a cura di), Comentarios a la Constitución Española, Madrid, 2008, .p. 2159 ss.; ID., Artículo 152.2, p. 2539 ss.; J. A. ALONSO DE ANTONIO, Artículo 151. Procedimiento de acceso a la autonomía plena, in O. ALZAGA VILLAAMIL (a cura di), Comentarios a la Constitución Española, Madrid, 1999, XI, p. 359 ss.; J. RODRÍGUEZ-ZAPATA PÉREZ, Artículo 152. Estructura institucional de las Comunidades Autónomas, ivi, p. 391 ss. 13 A questo elenco vanno aggiunti i referendum municipali. Cfr. E. MARTÍN, El Referéndum y la consulta populares en las Comunidades Autónomas y municipios, in Revista Vasca de Administración Pública, 94, 2012, p. 95 ss. 14 La legge 4 del 2010 si divide in 5 titoli; il primo si occupa della definizione della consultazione popolare per via di referendum come uno strumento di partecipazione diretta ad individuare la volontà popolare su di un tema di particolare importanza, attraverso le modalità e le garanzia proprie del procedimento elettorale. Il secondo, che si divide in tre capitoli, riguarda l’ambito, l’oggetto e le modalità della consultazione, a seconda che l’iniziativa provenga dalle istituzioni o dal popolo. Su questa legge E. MARTÍN, La ley catalana de consulta popular por vía de referéndum, in Deliberación. Revista para la mejora de la calidad democrática, 3, 2013, p. 59 ss. 11 7 federalismi.it |n. 22/2014 della Costituzione, che attribuisce allo Stato la competenza esclusiva ad indire le consultazioni referendarie15. La legge prevede anche altri due tipi di controlli; uno giuridico, mediante l’intervento del Consiglio di garanzia statutaria, chiamato a verificare la compatibilità costituzionale e statutaria della consultazione; uno politico, attraverso la votazione del Parlamento catalano che deve approvare la proposta di consultazione. L’intervento preventivo del Consiglio di garanzia statutaria, peraltro, è stato esercitato anche sulla legittimità dell’intera legge 4/2010 16. Con il dictamen 3/2010, il Consiglio ha affermato la legittimità della disciplina del referendum autonomico, in quanto strumento di partecipazione, collegato all’autonomia delle istituzioni territoriali17. Il Governo centrale, dal suo canto, non aveva condiviso questa interpretazione, proponendo ricorso al Tribunal Constitucional contro la legge 4/2010, ricorso che aveva determinato in modo automatico la sospensione della legge. Il Tribunal, pur non pronunciandosi nel merito, è intervenuto, con l’ordinanza n. 87/2011 del 9 giugno, rimuovendo la misura cautelare, in base all’art. 161, comma due, Cost. A difesa della sospensione, l’Avvocato dello Stato aveva sottolineato la presenza di un grave ed irreparabile pregiudizio che derivante dalla vigenza della disciplina autonomica. La sola possibilità che venisse proposto un referendum, in grado di innescare una grande mobilitazione popolare ed una radicalizzazione delle posizioni politiche in campo, era ritenuto in grado di danneggiare il Paese, soprattutto se, in un contesto di grave crisi economica, il referendum avesse avuto ad oggetto un nuovo patto fiscale tra la Catalogna e lo Stato spagnolo. Il Tribunal ricorda che il mantenimento della sospensione deriva dalla ponderazione degli interessi in gioco, che sono, da una parte, quelli generali e pubblici, o L’art. 13 prevede: “una volta che il parlamento ha approvato la proposta di consultazione popolare, il presidente o il presidente della Generalitat trasmette la richiesta di autorizzazione al Governo dello Stato”. Questa autorizzazione è prevista, oltre che dalla Costituzione, anche dall’art. 2 della legge organica 2/1980, del 18 di gennaio, che è la legge che disciplina le diverse modalità di referendum. 16 L’art. 76 dello Statuto catalano e la legge 2/2009 di sua attuazione, infatti, delineano il Consiglio di garanzia statutaria come un organo indipendente che valuta la congruenza, alla Costituzione ed allo Statuto, dei progetti di legge, di decreto legge, di decreto legislativo, e di riforma dello Statuto, attraverso l’adozione di pareri, “dictámenes”, previ all’entrata in vigore degli atti A norma dell’art. 17, comma tre, della legge 2/2009 ( come modificata dalle leggi 17/2009 e 27/2010), i pareri del Consiglio, che derivano sempre da una formale richiesta da parte dei soggetti legittimati, non sono vincolanti, almeno che non riguardino la Carta dei diritti e dei doveri del cittadini della Catalogna, o i progetti di legge che sviluppano o incidono sui diritti previsti nei capitoli I, II, II del Titolo Primo dello Statuto. Inoltre al Consiglio viene attribuita anche una funzione di difesa dell’autonomia locale, attraverso pareri resi sui ricorsi da proporre al Tribunal Constitucional. 17 Parere 3/2010, del 1 marzo, p. 14.Successivamente la STC 31/2010 sullo Statuto catalano interpretava l’art. 122 dello stesso in senso tale da escludere la sua riferibilità all’istituto referendario, la cui integrale disciplina (e non soltanto l’autorizzazione) rientra nella competenza statale (FJ 69). 15 8 federalismi.it |n. 22/2014 delle persone coinvolte, e dall’altro, il pregiudizio derivante dalla applicazione della legge. Per i giudici costituzionali, il semplice riferimento alla crisi economica non è in grado di fondare la richiesta di sospensione. La legge, infatti, disciplina l’istituto del referendum, senza indicare una richiesta referendaria specifica, per cui non è possibile individuare un pericolo concreto derivante delle disposizioni oggetto di impugnativa. Allo stesso tempo, lo Stato viene garantito da eventuali pregiudizi derivati dal consultazione popolare attraverso il potere di concedere l’autorizzazione, che funge da controllo politico preventivo18. Venuta meno la sospensione cautelare della legge, l’impossibilità giuridica di indire un referendum, a causa dell’assenza di questa autorizzazione, ha aperto il dibattito sulle vie percorribili per giungere comunque ad una pronuncia popolare. Prima di affrontare le molteplici soluzioni offerte dalla dottrina alla richiesta del popolo catalano di decidere sul proprio futuro politico, ad al fine di seguire il confronto tra le diverse posizioni sul punto, è opportuno ricordare la giurisprudenza del Tribunal Constitucional che ha avuto modo di intervenire su alcune questioni collegate al “caso catalano”. Nella sentenza n. 103 del 2008, ad esempio, il Tribunal si occupa del ricorso sollevato dal Governo statale contro la legge dei Paesi Baschi n. 9 del 2008, del 27 giugno, avente ad oggetto “la regolazione e la convocazione di una consultazione popolare sull’apertura di un processo di negoziazione per raggiungere la pace e la normalizzazione politica”. Tale legge, diversamente da quella catalana, regola ed, allo stesso tempo, indice uno specifico referendum consultivo 19. Questa normativa viene impugnata perché considerata in contrasto con la Costituzione sotto più profili; da un lato, violerebbe gli artt. 1, secondo comma, 2, e 168 Cost., perché riconosce un soggetto politico sovrano distinto dal popolo spagnolo, senza aver attivato il processo di revisione costituzionale; dall’altro lato, eluderebbe gli artt. 149.1.32 e 92 Cost. Il Tribunal afferma: “Así pues, ante la existencia de un pleno control directo por parte del Estado, expresado en la necesidad de obtener la mencionada autorización, no es posible apreciar los perjuicios que según el Abogado del Estado sufriría el interés general, pues, sin entrar ahora en el problema competencial planteado acerca de si la Comunidad Autónoma de Cataluña tiene o no competencia para regular los «referenda», es claro que, en todo caso, la viabilidad de tales consultas depende directamente de la decisión que el Estado adopte al respecto en ejercicio de la competencia de autorización que no está puesta en cuestión en el presente proceso constitucional. Consultas respecto a las cuales, por lo demás, tampoco se ha aportado dato alguno que permita constatar que se hayan iniciado o pretendan iniciarse los trámites conducentes a su convocatoria”. 19 Su questa decisione cfr. la inchiesta: ¿Sería constitucional el referéndum vasco?, in Teoría y realidad constitucional, 23, 2009, p. 15 e ss. con interventi dei professori A. BAR CENDÓN, F. DE CARRERAS SERRA, M. CARRILLO LOPEZ, E. FOSSAS ESPADALLER, J. A. MONTILLA MARTOS, I. TORRES MURO. Si vedano anche i commenti di A. LÓPEZ BASAGUREN, Sobre el referéndum y Comunidades autónomas. La ley vasca de la “consulta” ante el Tribunal Constitucional (consideraciones con motivo de la STC 103/2008), in REAF, 9, 2009, p. 202 ss.; A. IBÁÑEZ MACÍAS, Los referendos regional y local en el Estado autonómico. Sus bases y límites constitucionales, in Revista Vasca de Administración Pública, 97, 2013, p. 97 ss. 18 9 federalismi.it |n. 22/2014 in quanto indice un referendum senza aver ottenuto l’autorizzazione statale. Il Governo Basco, invece, risponde alle censure di illegittimità sottolineando che la consultazione popolare non è da considerare un referendum, ma uno strumento di partecipazione, per cui non necessita dell’autorizzazione da parte dello Stato. La domanda posta agli elettori, poi, non mette in questione l’attuale ordine costituzionale, né vuole dare inizio ad una riforma costituzionale, essendo diretta unicamente a conoscere l’orientamento dei cittadini su di un tema di grande importanza nel territorio. Il Tribunal concentra tutta la prima parte della decisione nell’individuare la differenza tra una consultazione referendaria ed una non referendaria. Il referendum viene definito come «uno strumento di partecipazione diretta dei cittadini nelle questioni pubbliche, per l’esercizio di un diritto fondamentale riconosciuto nell’art. 23.1. Cost.». Il referendum, quindi, non è espressione della «mera manifestazione del fenomeno partecipativo che tanta importanza ha avuto e segue avendo nelle democrazie attuali, a cui fu sensibile il nostro costituente, che lo ha formalizzato in un mandato di ordine generale ai poteri costituiti perché promuovano la partecipazione nei distinti ambiti (artt. 9.2 e 48 CE)»20. Le principali differenze tra referendum e strumenti di partecipazione vengono così individuate in due aspetti: nel diritto che viene esercitato e nel soggetto che viene chiamato a pronunciarsi. Per i giudici costituzionali, il referendum è il mezzo per veicolare solo la partecipazione politica che manifesta la volontà generale imputabile al corpo elettorale, e non qualunque altro diritto di partecipazione 21 . Le altre forme di intervento, invece, esprimono solo volontà particolari o collettive. Se il referendum può essere considerato una specie all’interno del genere “consultazioni popolari”, se ne distingue perché si riferisce al corpo elettorale e viene assistito dalle regole proprie del procedimento elettorale (il censo, la gestione ad opera della pubblica amministrazione, l’intervento degli organi giurisdizionali). La legge dei Paesi Baschi, quindi, identificando come votanti i cittadini e le cittadine che hanno il diritto di suffragio attivo, chiama in causa il corpo elettorale della Comunità Autonoma, ossia il soggetto che elegge il Parlamento basco. Seguendo questa linea interpretativa, la consultazione viene ritenuta un referendum, essendo determinante Sentenza n. 103 del 2008, FJ2. Il Tribunal afferma che “in quanto strumento di partecipazione diretta nelle questioni pubbliche, il referendum è, insieme con l’istituto della rappresentanza politica, uno dei canali di conformazione ed espressione della volontà generale”, FJ2. 20 21 10 federalismi.it |n. 22/2014 l’applicazione di un criterio sostantivo e non formale nella esatta qualificazione dell’istituto. La legge basca 9/2008, inoltre, disciplina un referendum in assenza di una competenza esplicita della Comunità autonoma su questa materia. La mancanza di una base legale viene censurata dal Tribunal perché non rientra nell’«ordinamento costituzionale, in materia di referendum, nessuna competenza implicita, dal momento che in un sistema, come quello spagnolo, in cui la regola è la democrazia rappresentativa, solo si possono convocare e celebrare i referendum che espressamente sono previsti nelle norme dello Stato, inclusi gli Statuti di Autonomia, in conformità della Costituzione». I giudici costituzionali, infine, si soffermano sull’esistenza del “derecho a decidir del pueblo vasco” in merito all’apertura di un negoziato per fondare una nuova relazione tra la Comunità Autonoma e lo Stato spagnolo. Questa nuova relazione, che mette in discussione l’ordine costituzionale esistente, è considerata illegittima sotto il profilo formale, non rispettando le regole sulla revisione costituzionale. Nell’ordinamento iberico, infatti, la procedura di revisione costituzionale – stando alla giurisprudenza costituzionale - non incontra limiti materiali, purchè si realizzi attraverso un’attività che non vulneri i principi democratici ed i diritti fondamentali22. La Costituzione cioè viene considerata «una cornice sufficientemente amplia perché al suo interno rientrino opzioni politiche tra loro molto differenti» 23 . In questo quadro, solo il rispetto dei procedimenti previsti è un limite invalicabile, che non può essere eluso attraverso vie di fatto 24 . La legge basca, invece, ritenendo esistente un soggetto, il popolo basco, che è titolare di un diritto a decidere in merito alla nuova configurazione dei rapporti con lo Stato, mette in discussione l’ordine costituito, attraverso l’apparizione di un nuovo titolare della sovranità, il popolo basco, e di uno strumento, la consultazione, che non rappresentano le modalità costituzionalmente adeguate. Un’eventuale riscrittura della relazione tra lo Stato e le Comunità Autonome, Si veda, in tal senso, STC 48/2003, del 12 marzo, FJ 7. Cfr. STC 11/1981, dell’ 8 di aprile, FJ 7. 24 F. SANTAOLALLA LÓPEZ, Artículo 169, in F. GARRIDO FALLA (a cura di), Comentarios a la Constitución, Madrid, 2001, p. 2749 ss.; J. PÉREZ ROYO, La reforma de la Constitución, Madrid, 1987; più di recente, AA.VV., La reforma constitucional ¿Hacia un nuevo pacto constituyente?, Actas de las XIV Jornadas de la Asociación de Letrados del Tribunal Constitucional, Madrid, 2009. Tra i vari interventi raccolti, si segnala, in particolare, F. DE CARRERAS SERRA, Reformar la Constitución para estabilizar el modelo territorial, p. 47 ss.; G. JÁUREGUI, Algunas reflexiones sobre la reforma del modelo territorial del Estado, p. 145 ss.; B. ALÁEZ CORRAL, La Reforma Constitucional como motor de las transfromaciones actuales del estado Español, in Constitución y democracia: ayer y hoy, Libro homenaje a Antonio Torres Del Moral, Madrid, 2012, p. 413 ss. J. MANUEL VERA SANTOS, Sobre el Título X de la Constitución Española de 1978: de la reforma constitucional, in Constitución y desarrollo político. Estudios en homenaje al profesor Jorge de Esteban, Valencia, 2013, p. 1397 ss. 22 23 11 federalismi.it |n. 22/2014 secondo il Tribunal, non può che coinvolgere tutto il popolo spagnolo nelle forme sancite per la revisione costituzionale, in base all’art. 168 Cost., che vede l’intervento sia delle Cortes Generales, sia del popolo, mediante un referendum di ratifica. Questa pronuncia ricorda, seppur con le dovute differenze, la sentenza della nostra Corte costituzionale n. 496 del 2000, avente a oggetto la legge della Regione Veneto sul “Referendum consultivo in merito alla presentazione di proposta di legge costituzionale per l’attribuzione alla Regione Veneto di forme e condizioni particolari di autonomia”. La Corte, accogliendo la questione, afferma che «nel nostro sistema le scelte fondamentali della comunità nazionale, che ineriscono al patto costituzionale, sono riservate alla rappresentanza politica, sulle cui determinazioni il popolo non può intervenire se non nelle forme tipiche previste dall’art. 138 della Costituzione». Il popolo chiamato a partecipare attraverso il referendum dell’art. 138 «non é disegnato dalla Costituzione come il propulsore della innovazione costituzionale»25. La legge regionale, inoltre, configura una sorta di scissione: come se «non esistesse un solo popolo, che dà forma all’unità politica della Nazione e vi fossero invece più popoli; e quasi che, in particolare, al corpo elettorale regionale potesse darsi l’opportunità di una doppia pronuncia sul medesimo quesito di revisione: una prima volta, preventivamente, come parte scorporata dal tutto, in fase consultiva, ed una seconda volta, eventuale e successiva, come componente dell’unitario corpo elettorale nazionale, in fase di decisione costituzionale» (punto 5 del considerato in diritto) 26 . La natura consultiva del referendum non ha inciso sul ragionamento della Corte, non essendo in grado di “depotenziare” l’impatto sistemico della consultazione, dal momento che la rappresentanza Inoltre, ricorda la Corte, “l’intervento del popolo non é a schema libero, poiché l’espressione della sua volontà deve avvenire secondo forme tipiche e all’interno di un procedimento, che, grazie ai tempi, alle modalità e alle fasi in cui é articolato, carica la scelta politica del massimo di razionalità di cui, per parte sua, é capace, e tende a ridurre il rischio che tale scelta sia legata a situazioni contingenti” (punto 4.2. del considerato in diritto). 26 Una questione diversa, ma che comunque richiama la nozione costituzionale di popolo la ritroviamo nella decisione n. 170 del 2010 in cui la Corte costituzionale italiana valuta la legittimità costituzionale della legge della Regione Piemonte 7 aprile 2009, n. 11, recante “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico del Piemonte”. In questa pronuncia la Corte afferma che non si può “consentire al legislatore regionale medesimo di configurare o rappresentare, sia pure implicitamente, la “propria” comunità in quanto tale – solo perché riferita, sotto il profilo personale, all’ambito territoriale della propria competenza – come “minoranza linguistica”, da tutelare ai sensi dell’art. 6 Cost.: essendo del tutto evidente che, in linea generale, all’articolazione politico-amministrativa dei diversi enti territoriali all’interno di una medesima più vasta, e composita, compagine istituzionale non possa reputarsi automaticamente corrispondente – né, in senso specifico, analogamente rilevante – una ripartizione del “popolo”, inteso nel senso di comunità “generale”, in improbabili sue “frazioni” (punto 5 del considerato in diritto). Cfr. A. MORRONE, Avanti popolo….regionale!, in Quad. Cost., 3, 2012, p. 615 ss. 25 12 federalismi.it |n. 22/2014 regionale sarebbe stata comunque «astretta ad un vincolo politico», preordinato «contro la Costituzione vigente, ponendone in discussione le stesse basi di consenso»27. Ricordiamo brevemente queste affermazioni nella ricostruzione della vicenda catalana, non solo per evidenziare alcune affinità nel ragionamento delle due Corti costituzionali, ma anche per la loro attualità: non solo in Catalogna si pone in modo pressante, e oramai quasi ineludibile, il tema della consultazione sull’indipendenza, ma anche in Italia è all’esame della Corte la legittimità della legge veneta che indice un referendum sull’indipendenza della Regione (legge veneta n. 16/2014, del 19 giugno). I fenomeni indipendentisti in Europa assumono, com’è evidente dal confronto tra queste due vicende, tratti tra loro non omogenei, non riconducibili ad una matrice storica, sociale e politica comune. Il tema della secessione in Europa richiede, quindi, lo studio e l’analisi dei singoli casi, con un’attenta valutazione delle diverse matrici che sottostanno alle singole vicende28. 3. L’indipendenza catalana tra autodeterminazione, diritto a decidere e secessione In Catalogna, nell’impossibilità di indire un referendum autonomico, a causa della mancanza di autorizzazione da parte dello Stato, il dibattito non solo giuridico si è progressivamente concentrato sugli strumenti a disposizione della Generalitat per realizzare comunque una pronuncia popolare. La discussione sul “diritto a decidere” si è progressivamente focalizzata sulla ricerca dei mezzi per consentire ai cittadini di manifestare democraticamente il proprio orientamento sul loro futuro politico. Nel 2013, viene istituito il Consiglio per la transizione nazionale, chiamato a coadiuvare, dal punto di vista tecnico, la Generalitat nel cammino verso l’indipendenza e nello svolgimento della consultazione29. Il Consiglio è presieduto dal prof. Carles Viver i Pi-Sunyer, ordinario Cfr. anche l’ordinanza n. 403 del 2001, relativa ad un giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito della delibera del Consiglio regionale del Piemonte n. 23-27186 del 3 ottobre 2000, concernente “Referendum consultivo ai sensi dell'art. 60 dello Statuto”. Il referendum avrebbe ad oggetto una proposta di legge da presentare alle Camere ai sensi dell'art. 121 della Costituzione, sul "trasferimento alle Regioni delle funzioni statali in materia di sanità, polizia locale, formazione professionale e di maggiori competenze in materia di organizzazione scolastica, offerta di programmi educativi, gestione degli istituti scolastici". Per il Governo, che poi rinuncia al ricorso, si avrebbe una violazione del procedimento di revisione costituzionale, “modificando il ruolo del popolo che può operare soltanto quale ‘istanza ultima di decisione’, e comunque tenderebbe a rafforzare inammissibilmente il potere di iniziativa legislativa attribuito a ciascuna regione dall’art. 121 della Costituzione”. 28 Sulle differenze tra il caso catalano e quello veneto si veda, ad esempio, G. FERRAIUOLO, Due referendum non comparabili, in Quaderni costituzionali, 3, 2014, p. 703 ss. 29 Cfr. Decreto 113/2013, del 12 febbraio, pubblicato in DOGC, num. 6315 del 14 di Febbraio del 2013. 27 13 federalismi.it |n. 22/2014 di diritto costituzionale ed ex membro del Tribunal Constitucional 30. Il Consiglio ha elaborato 18 rapporti (Informes), racchiusi ora nel “Llibre blanc de la Transició Nacional de Catalunya”, che affrontano i diversi aspetti coinvolti nella creazione di uno nuovo Stato, che vanno dall’amministrazione tributaria, alle tecnologie dell’informazione, alla politica monetaria, alla gestione dell’acqua e dell’energia, alle relazioni internazionali31. Il primo rapporto del 25 luglio del 2013 è intitolato: “La consultazione sul futuro politico delle Catalogna” 32 . In questo testo, in cui si analizzano diversi aspetti del processo indipendentista, vengono riferiti anche i dati di alcune inchieste condotte negli anni 20002013, che mostrano un cambiamento nell’atteggiamento assunto dalla cittadinanza catalana, dopo la sentenza del Tribunal n. 31 del 2010 sullo Statuto. Tale decisone, infatti, segna un punto decisivo nella storia delle relazioni tra la Catalogna e lo Stato spagnolo33. A partire da I membri del Consiglio sono quasi tutti professori universitari: Carles Viver i Pi-Sunyer, Presidente, Cattedratico di “Dret” nella Universitat Pompeu Fabra; Núria Bosch i Roca, Vicepresidente, Cattedratica di “Hisenda Pública” della Universitat de Barcelona; Enoch Albertí i Rovira, Cattedratico di “Dret Constitucional”, della Universitat de Barcelona; Germà Bel i Queralt, Cattedratico di “Economia” della Universitat de Barcelona; Carles Boix i Serra, Cattedratico di “Ciència Política” della Universitat de Princeton (EUA); Salvador Cardús i Ros, dottore in “Ciències Econòmiques” e professore di “Sociologia” della Universitat Autònoma de Barcelona; Àngel Castiñeira i Fernández, direttore della Cattedra “Lideratges i Governança Democràtica de l'Escola Superior d'Administració i Direcció d'Empreses”; Francina Esteve i Garcia, professoressa associata di “Dret Internacional” della Universitatà di Girona; Joan Font i Fabregó, impresario; Rafael Grasa i Hernández, professore di “ Relacions Internacionals” della Universitat Autònoma de Barcelona; Pilar Rahola i Martínez, laureata in “Filologia” e scrittrice; Josep Maria Reniu i Vilamala, professor di “Ciència Política” della Universitat de Barcelona; Ferran Requejo i Coll, Cattedratico di “Ciència Política” della Universitat Pompeu Fabra; Joan Vintró i Castells, Cattedratico di “Dret Constitucional” della Universitat de Barcelona 31 I Rapporti elaborati dal Consiglio sono i seguenti: “Informe 1. La consulta sobre el futur polític de Catalunya; Informe 2, L'administració tributària de Catalunya; Informe 3,Les relacions de cooperació entre Catalunya i l'estat espanyol;Informe 4, Internacionalització de la consulta i del procés d'autodeterminació de Catalunya; Informe 5, Les tecnologies de la informació i de la comunicació a Catalunya; Informe 6, Les vies d'integració de Catalunya a la Unió Europea; Informe 7, La distribució d'actius i passius; Informe 8, Política monetària (euro), Banc Central i supervisió del sistema financer; Informe 9, L'abastament d'aigua i energia; Informe 10, El procés constituent; Informe 11, Les relacions comercials entre Catalunya i Espanya; Informe 12, Autoritats reguladores; Informe 13, Integració a la comunitat internacional; Informe 14, Poder judicial; Informe 15, Seguretat Social catalana; Informe 16, Successió d'ordenaments i administracions; Informe 17, Seguretat interna i internacional de Catalunya; Informe 18, Viabilitat fiscal i financera d'una Catalunya independent”. Sul tema della relazione tra la Catalogna e l’Europa, cfr. A. GALÁN GALÁN, Secesión de Estados y pertenencia a la Unión europea: Cataluña en la encrucijada, in Le istituzioni del Federalismo, n. 1, 2013, p. 95; M. MEDINA ORTEGA, El derecho de secesión en la Unión Europea, Madrid, Barcelona, Buenos Aires, 2014. 32Questo rapporto si può leggere anche nel sito http://www.ara.cat/politica/inf_ARAFIL20140414_0002.pdf 33 Su questa sentenza cfr. la Encuesta: la STC 31/2010, sobre el Estatuto de Autonomia de Cataluña, in Teoría y Realidad Constitucional, 27, 2011, p. 11 ss, con interventi dei professori R. BLANCO VALDÉS, R. CANOSA USERA, F. DE CARRERAS SERRA, J. CORCUERA ATIENZA, M. CARRILLO LOPEZ, J. GARCÍA ROCA, L. PAREJO ALONSO; si veda anche il Número Extraordinario de la Revista catalana de dret públic, Especial Sentencia 31/2010 del Tribunal Constitucional sobre el Estatuto de Autonomía de Cataluña de 2006, 2010, che si apre con “Valoración general de la Sentencia 31/2010 del Tribunal Constitucional”, con interventi dei prof. E. ALBERTÍ ROVIRA, M. ANGEL APARICIO PÉREZ, X. ARBÓS I MARÍN, M. BARCELÓ, J. FERRET I JACAS, J. TORNOS MAS, J. VINTRÓ I CASTELLS, C. VIVER I PI-SUNYER. 30 14 federalismi.it |n. 22/2014 questo momento, comincia a crescere, nell’opinione pubblica, la richiesta di una consultazione popolare sull’indipendenza. In molti hanno visto nella decisione di incostituzionalità di molte disposizioni statutarie l’inizio di una fase di crescente tensione, caratterizzata da un confronto sempre più polarizzato, in cui le vie di mediazione, tra le domande di maggiore autonomia da parte della Catalogna e la rivendicazione dei limiti alle competenze locali da parte dello Stato, sembrano essersi esaurite. L’elaborazione del nuovo Statuto aveva incanalato e tradotto in termini giuridici l’esigenza di rivedere le condizioni e le forme dell’autogoverno territoriale. La parziale bocciatura da parte del Tribunal ha innescato una reazione da parte delle forze politiche catalane, sostenute da una mobilitazione cittadina in costante aumento, che hanno visto nella celebrazione della consultazione lo strumento adeguato a manifestare la volontà popolare a favore di una maggiore indipendenza. In mancanza di un tavolo, di una trattativa, all’interno della quale le istituzioni politiche nazionali e locali si facessero carico delle domande provenienti da una parte del Paese, predisponendo un accordo su quali e quanti aspetti dell’attuale configurazione autonomica potessero essere modificati, è cresciuto un movimento cittadino che ha fatto del “diritto a decidere” la propria bandiera. I fondamenti di questo diritto vengono analizzati nel Rapporto n. 1 del Consiglio di transizione nazionale sulla consultazione popolare, tra cui, in primo luogo, viene riportata la configurazione della Catalogna come una delle collettività nazionali «più antiche d’Europa»34. Dopo una ricostruzione della storia catalana, si ricorda che la Costituzione spagnola, con la creazione dello Stato delle autonomie e l’inclusione ed il riconoscimento delle nazionalità storiche, comincia un processo di recupero dell’autonomia catalana, delle sue istituzioni politiche e della sua lingua. La Costituzione, tuttavia, mostra molte ambiguità nella configurazione territoriale, dal momento che il riferimento alla nazionalità non è poi accompagnato da precise conseguenze giuridiche, e la peculiarità storica della Catalogna e dei Paesi Baschi non conducono ad una compiuta forma di autogoverno locale, «congruente con la realtà fattica del pluralismo nazionale dello Stato»35. In questo quadro, la bocciatura da parte del Tribunal Constitucional del tentativo di riforma dello Statuto catalano, teso a dotare di maggiori poteri la Comunità Autonoma, viene definita come «la rottura 34 35 Per questo aspetto si veda l’informe n. 1, p. 31 ss. Cfr Informe n.1, p. 37 15 federalismi.it |n. 22/2014 dello spirito di consenso che aveva fondato la Costituzione del 1978»36. Consenso che, ricordiamolo, si era manifestato nell’approvazione dello Statuto in tre momenti distinti: con la votazione da parte del Parlamento catalano, con l’approvazione, con emendamenti, da parte della Cortes Generales, con la votazione referendaria. Il Consiglio per la transizione individua un prima e un dopo nelle relazioni politiche tra lo Stato e la Catalogna, e lo spartiacque è rappresentato dalla sentenza n. 31 del 201037. A queste considerazioni si associano poi quelle riferite alla legittimità politica della consultazione in una democrazia liberale. La consultazione, si legge nel Rapporto, «rappresenta la risposta democratica ad una domanda con costanza proposta da un settore rilevante della società catalana e dai suoi rappresentanti politici che è divenuta chiaramente maggioritaria: potersi esprimere democraticamente sul futuro politico del paese». La consultazione non è un «capriccio di una minoranza, ma il risultato di una mobilitazione popolare continua», oltre che di un mandato chiaramente espresso dagli elettori nelle ultime elezioni38. Il diritto a decidere, infatti, lo ritroviamo, già dal 1989, in diverse risoluzioni del Parlamento catalano, che, prima in una forma molto generica, poi in termini sempre più stringenti richiamano il diritto della Catalogna a scegliere il proprio futuro. Successivamente, esso accompagna le rivendicazioni legate al lungo processo di approvazione dello Statuto di autonomia. Una caratteristica del diritto a decidere, non a caso, viene considerata la sua provenienza dal basso, dai movimenti sociali, accolta, solo in un secondo momento, dalle istituzioni politiche 39 . Molto probabilmente, tale espressione viene preferita a quella di autodeterminazione perché più congeniale a definire dei processi che si sviluppano all’interno di contesti democratici, caratterizzati dalla presenza di una minoranza nazionale, senza che venga in rilievo la liberazione dal giogo coloniale, propria dei fenomeni di autodeterminazione40. Cfr. Informe n.1, p. 37 Si legge a pag. 38 dell’Informe n.1 che “la Catalogna ha mantenuto la sua personalità collettiva, nazionale e culturale durante tre secoli. In questo periodo sono falliti tutti i tentativi di arrivare ad accordi con lo Stato spagnolo in termini giusti e stabili per un riconoscimento nazionale e per un’accomodazione politica, così come quelli tesi ad ottenere un potere politico di qualità ed una finanzi azione sufficiente in funzione della ricchezza che il paese genera”. 38 Informe n. 1, p. 41 39 J.M. VILAJOSANA, Principi democràtic i justificació constitucional del dret de decidir, in Reaf, 19, 2014, p. 181 ss. 40 J.M. VILAJOSANA, Principi democràtic, p. 182 36 37 16 federalismi.it |n. 22/2014 Il principio di autodeterminazione, per come si è affermato nell’ordinamento internazionale, infatti, esprime il diritto di un popolo di decidere liberamente il proprio statuto politico (art. 1 e 55 della Carta delle Nazioni Unite, del 1945 e art. 1 dei Patti sui diritti Civili, politici, economici e sociali del 1966)41. Tale diritto può confliggere con altri due principi fondamentali del diritto internazionale classico: quello di integrità territoriale e quello di non ingerenza negli affari interni. Nell’ordinamento internazionale il rispetto dell’autodeterminazione si presume fino a prova contraria; è un diritto cioè definito in negativo, attraverso le ipotesi della sua violazione (dominio coloniale, occupazione straniera, governo razzista). Le teorie maggioritarie sulla secessione (Remedial right theories), infatti, collegano le richieste di indipendenza alla presenza di una giusta causa, come una conquista militare, l’annessione del territorio con la forza, la violazione dei diritti umani, il genocidio. Nel panorama scientifico, tuttavia, si stanno progressivamente affermando ricostruzioni diverse, che prescindono dalla presenza di una ingiustizia subita e valorizzano il carattere originario del diritto, indipendentemente dal comportamento dello Stato (Primary right teorie)42. Il “derecho a decidir”, dunque, se può essere considerato una variante del concetto di autodeterminazione, non deve del tutto confondersi con esso43. La peculiarità, dal punto di vista del diritto internazionale, dei processi indipendentisti che attraversano l’Europa, di cui la Scozia e la Catalogna rappresentano le punte più avanzate, risiede proprio nella diversità del ‘contesto’ in cui si collocano. Non ci troviamo, infatti, dinanzi alla creazione di nuovi G. ARANGIO RUIZ, Autodeterminazione (diritto dei popoli alla), in Enc. Giur. Treccani, IV, Roma, 1988; F. LATTANZI, Autodeterminazione dei popoli, in Digesto disc. pubbl., Torino, 1987, vol. II, 4 ss. 42 Su questa distinzione cfr. D. HALJAN, Constitutionalising secession, Oxford, Portland, 2014, p. 81 ss.; anche la voce Secession, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2013 consultabile in http://plato.stanford.edu/entries/secession/; A. BUCHANAN, Theories of Secession, in http://philosophyfaculty.ucsd.edu/FACULTY/RARNESON/BuchananTheoriesofSecession.pdf; C. MUELLER, Secession and self-determination – Remedial Right Only Theory scrutinized, in http://www.polis.leeds.ac.uk/assets/files/students/student-journal/ug-summer-12/charlotte-mueller.pdf 43 J.M. VILAJOSANA, Principi democràtic, p. 183 ss. sottolinea che, anche se il diritto a decidere ingloba alcuni elementi dell’autodeterminazione, si possono tracciare alcune differenza tra questi due concetti; il primo, il diritto a decidere, viene qualificato come un diritto individuale, mentre il secondo, l’autodeterminazione, fa riferimento ad una collettività, ad un popolo; il primo si sviluppa in ambito nazionale, il secondo in ambito internazionale; il primo si concreta nella richiesta di una consultazione, il secondo in una dichiarazione unilaterale di indipendenza. Sul rapporto tra secessione ed autodeterminazione S. MACEDO, A. BUCHANAN (a cura di), Secession and self-determination, New York, 2003, in particolare D. F. ORENTLICHER, International responses to separatist claims: are democratic principles relevant?, p. 19 ss. 41 17 federalismi.it |n. 22/2014 Stati frutto dei processi di liberazione coloniale, ma all’interno di Stati democratici 44 . L’analisi storica mostra come il tentativo di costruire un idealtipo di secessione sia destinato a scontrarsi con la prassi, apparendo «contraddittorio ed inadeguato»45. All’interno del difficile equilibrio tra unità e diversità, si collocano anche le teorie dell’accomodazione politica proprie degli Stati plurinazionali, degli Stati al cui interno vi sono delle minoranze nazionali, la cui tutela rappresenta un fattore di legittimazione 46 . L’accomodazione diviene un modo per evitare la disgregazione politica, la secessione, attraverso pratiche di riconoscimento della diversità nazionale47. Le richieste, provenienti dalla Catalogna, di disegnare in maniera plurinazionale lo Stato spagnolo, invece, non hanno trovato eco, così come il riconoscimento di una identità nazionale differenziata. L’idea di un patto volontario tra differenti entità nazionali, che è la base del federalismo plurinazionale, non è stato accolto dalle istituzioni statali48. Allo stesso tempo, il federalismo non dissolve di per sé le tendenze alla separazione, se non è accompagnato da un forte senso di appartenenza. Anche gli Stati federali sono attraversati da spinte secessioniste, cui solo una forte identità nazionale, come avviene nel caso tedesco, funge da effettiva barriera. Il riconoscimento di maggiore autonomia, a volte, apre le porte all’ingresso delle domande di separazione. In Spagna, il rifiuto di modificare le condizioni dell’autogoverno della Catalogna può essere letto anche in questa chiave: il timore di dischiudere l’uscio a domande di vera e propria divisione territoriale. Sulla secessione nelle democrazie avanzate, cfr. J. SORENS, Secessionism. Identity, Interest and strategy, Montreal & Kingston, 2012, p. 74 ss. Una panoramica dei movimenti secessionisti nel mondo si ritrova in A. PAVKOVI´c, P. RADAN (a cura di), The ashgate research companion to secession, Surray, 2011, p. 455 e ss. 45 C. DE FIORES, Secessione e forma di Stato, in Secessione, cit., p. 96. 46 A. G. GAGNON, Más allá de la nación unificadora: alegato a favor del federalismo multinacional, Oñati, 2009, in cui si riflette anche sul ruolo del federalismo asimmetrico, p. 47 ss.; Id., Época de incertidumbre. Ensayo sobre el federalismo y la diversidad nacional, Valenzia, 2013, specialmente p. 25 ss.; R. MAIZ, F. REQUEJO (a cura di), Democracy, Nationalism and Multiculturalism, Londra, 2005. 47 Cfr. A. G. GAGNON, Época de incertidumbre. Ensayo sobre el federalismo y la diversidad nacional, cit., p. 153 ss.; M. CAMINAL, El federalismo pluralista. Del federalismo nacional al federalismo plurinacional, Barcellona, 2002. 48 Sulla relazione tra federalismo e democrazie plurinazionali cf. M. BURGESS, A. G. GAGNON (a cura di), Democràcies federals, Barcellona, 2013; in particolare i contributi di M. BURGESS, A. G. GAGNON, Introducció: federalisme i democrácia, p. 19 ss.; D. KARMIS, “Unió” en democràcies federals plurinacionals: Toqueville, Proudon i el buit teòric en la tradició federal moderna, p. 79 ss.; F. REQUEJO, Federalisme i democràcia. El cas de les nacions minoritàries: un dèfict federalista, p. 387 ss. Su nazionalismo, autodeterminazione e federalismo, W. NORMAN, Negotiating nationalism, nation-building, federalism, and secession in the multinational state, Oxford, 2008. Sul caso catalano, M. GUIBERNAU, El Nacionalisme català: franquisme, transició i democràcia, Barcellona, 2002; M. KEATING, Naciones contra el Estado: el nacionalismo de Cataluña, Quebec, y Escocia, Barcellona, 1996. 44 18 federalismi.it |n. 22/2014 In Europa, la crisi economica ha certamente acuito «la diffusione di spirali secessioniste»49. Non solo in Scozia ed in Catalogna, ma anche in Galles ed in Belgio alcune formazioni politiche mettono in discussione l’unità nazionale. L’apparizione nel vecchio continente di un federalismo centrifugo viene collegato anche ai processi di integrazione economica sovranazionale. Le attuali rivendicazioni secessioniste, non a caso, fanno dell’adesione all’Unione europea un elemento importante del progetto indipendentista, vedendo nella partecipazione alle istituzioni comunitarie un elemento determinante per la costruzione del nuovo Stato. Il ruolo svolto dai fattori economici, però, senza una base culturale ed identitaria forte non sembra in grado di fondare un nuovo ordinamento. È la combinazione di questi elementi (etnici, culturali, identitari ed economici) che funge da detonatore della secessione. In alcuni Paesi si è già manifestato in maniera problematica il rapporto tra la «democrazia come insieme di procedure di legittimazione di decisioni pubbliche e lo Stato come fattore geopolitico», al cui interno convivono diversi gruppi etnici (si pensi al Montenegro, al Kosovo, e, in generale, alla dissoluzione della Repubblica Jugoslava)50. In altri casi, pur in mancanza di una radicalizzazione etnica, la natura plurinazionale (Canada) o storico-culturale (Scozia) dell’ordinamento ha condotto allo svolgimento di referendum sull’indipendenza51. Se guardiamo alla Catalogna, la richiesta di un nuovo patto fiscale con lo Stato spagnolo ha animato il confronto centro-comunità autonoma per lungo tempo. Nel 2012, il rifiuto da parte del Presidente del Governo spagnolo di aprire una trattativa su di un nuovo patto fiscale, è tra i fattori che hanno condotto il partito di Convergencia i Unió alla scelta delle elezioni anticipate. Tuttavia, i dati riportati da una serie di indagini mostrano come le richieste di indipendenza non verrebbero oramai meno se si giungesse ad un nuovo accordo fiscale più favorevole alla Catalogna. Le motivazioni economiche cioè vengono dopo quelle politiche. Il “patto fiscale” non è il cuore delle rivendicazioni catalane; se si dividono i cittadini a favore dell’indipendenza in due gruppi (uno di preferenza forte ed C. DE FIORES, “Remettre les Régions a leur place”. Dall’Europa delle Regioni alle Regioni senza Europa?, in Le istituzioni del federalismo, 1, 2013, p. 57 ss. 50 D. PETROSINO, Democrazie di fine secolo, cit., p. 27 51 In Spagna, ad esempio, viene in rilievo la nozione di federalismo plurinazionale, ossia un federalismo «che persegue la sistemazione, in un medesimo spazio politico-costituzionale, di differenti comunità che reclamano una propria identità nazionale e rivendicano un livello di autogoverno tale da garantire loro la sopravvivenza e lo sviluppo», E. FOSSAS ESPADALER, Estado autonómico: plurinacionalidad y asimetría, in A. MASTROMARINO, J. M. CASTELLÀ ANDREU (a cura di), Esperienze di regionalismo differenziato. Il caso italiano e quello spagnolo a confronto, Milano, 2009, p. 93 ss. 49 19 federalismi.it |n. 22/2014 uno debole) si vede l’incidenza solo sul secondo del fattore fiscale52, laddove il primo risulta impermeabile a questo dato, segno della natura complessa della rivendicazione indipendentista. Il nazionalismo catalano, quindi, non si può ridurre soltanto all’emergere di istanze egoistiche ed antisolidaristiche53 in un’epoca in cui si intreccia la crisi economica con quella politico-rappresentativa54, ma porta con sé anche aspirazioni di rinnovamento politico e di riconoscimento identitario. 4. Le “cinque vie” per l’indipendenza secondo il Consiglio per la transizione nazionale Il “derecho a decidir”, come formulato in Catalogna, mette in questione l’attuale struttura territoriale e giuridica dello Stato spagnolo. La dottrina spagnola si è divisa tra coloro che ritengono ammissibile una pronuncia popolare di questo tipo e coloro che la ritengono illegittima. La possibilità che una Comunità autonoma decida in merito alla sua appartenenza allo Stato di origine, infatti, coinvolge una serie di questioni centrali del diritto costituzionale, come la spettanza della sovranità, la nozione di popolo, la visione della Costituzione come limite alle decisioni politiche della maggioranza e come fattore di integrazione e tutela delle minoranze. Il dibattito attualmente presente in Spagna vede contrapposti coloro che inquadrano il diritto a decidere tra gli strumenti di partecipazione democratica e di esercizio delle virtù civiche, e coloro che ne sottolineano la pericolosità e la contrarietà alla Costituzione. Il diritto a decidere, infatti, si pone al crocevia di diverse norme costituzionali; da un lato, appare in linea con gli articoli 1, primo comma e 23 della Costituzione, in cui si definisce come democratico lo Stato spagnolo e si riconosce il diritto di partecipazione dei cittadini agli affari pubblici; dall’altro, sembra contraddire gli articoli 1, secondo comma, e 2 della Costituzione, che affermano l’appartenenza della sovranità al popolo spagnolo e l’indissolubile unità della nazione spagnola. Per una ricostruzione di questo aspetto cfr. M. CORRETJA TORRENS, El derecho a decidir en clave económica, in L. CAPPUCCIO, M. CORRETJA TORRENS, El derecho a decidir, cit., p. 206 ss. 53 Si veda il dibattito suscitato dall’intervento del prof. WEILER sul caso catalano in Catalonian Independence and the European Union, in http://www.ejiltalk.org/catalonian-independence-and-the-european-union a cui ha fatto seguito la replica del prof. N. KRISH, Catalonia’s Independence: A Reply to Joseph Weiler sullo stesso sito. 54 Fa riferimento alla presenza di tre crisi, finanziaria, politico-rappresentativa e nazionale-territoriale, J.M. CASTELLÀ ANDREU, Democracia, reforma constitucional y referéndum de autodeterminación en Cataluña, in E. ÁLVAREZ CONDE, C. SOUTO GALVÁN ( a cura di), El Estado autonómico en la perspectiva del 2020, Madrid, 2013, p. 172. 52 20 federalismi.it |n. 22/2014 Al fine di seguire la discussione, a tratti accesa e polemica, che si sta sviluppando in Catalogna, possiamo partire dal “Rapporto sui procedimenti legali attraverso cui i cittadini e le cittadine della Catalogna possono essere consultati sul loro futuro politico collettivo”, redatto dall’Institut d’Estudis Autonòmics di Barcellona, nel marzo del 2013. In questa relazione, l’Institut ha ritenuto di poter individuare cinque modalità, nell’attuale contesto costituzionale e statutario, per giungere ad una pronuncia popolare sull’indipendenza: un referendum consultivo regolato e convocato dallo Stato in base all’art. 92 Cost; la delega o il trasferimento di competenze in base all’art. 152 Cost; il referendum previsto dalla legge catalana n. 4 del 2010; la consultazione popolare non referendaria, oggetto della legge n. 10 del 2014; la riforma della Costituzione55. Su queste strade, sulla loro effettiva percorribilità e compatibilità con la Costituzione, il dibattito in ambito scientifico e sociale è ancora molto animato. Seguendo il ragionamento dell’Institut d’Estudis Autonòmics, sostanzialmente ripreso dal Rapporto n. 1 del Consiglio per la Transizione nazionale, i principi costituzionali che fanno da sfondo al diritto a decidere sono lo Stato di diritto e il principio democratico. Se lo Stato di diritto valorizza il rispetto delle regole che sanciscono limiti all’esercizio del potere; il principio democratico impone di selezionare, interpretare ed applicare quelle stesse regole in modo che diano la «maggiore espansione possibile al diritto costituzionale di partecipazione politica dei cittadini» 56. L’applicazione di questa opzione interpretativa al referendum previsto dall’art. 92 della Costituzione serve ad allontanare le tesi che vogliono gli istituti di democrazia diretta oggetto di una lettura restrittiva, in base alla volontà dei costituenti. Questa impostazione, che valorizza le virtù del principio democratico, viene aspramente criticata da una parte della dottrina, perché viziata da una sorta di trasformazione retorica, ben rappresentata dall’Umwertung di Nietzsche, che consiste nel convertire la «difesa particolarista della secessionismo in una missione universale e storica di lotta per la libertà, i diritti fondamentali». Conversione che impedisce un discorso alternativo e conferisce Questo rapporto dell’Institut è intitolato: “Informe sobre los procedimientos legales a traves de los que los ciudadanos y las ciudadanas de Catalunya pueden ser consultados sobre su futuro político colectivo” e lo si può leggere all’interno della pubblicazione Tres informes de l’institut d’estudis autonòmics sobre el pacte fiscal, les duplicitats, i les consultes populars, Barcellona 2013, consultabile anche al sito http://www.gencat.cat/governacio/pub/sum/iea/Tres_informes_IEA.pdf. 56 Rapporto dell’ Institut d’Estudis Autonómics, p. 402. Inoltre a pag. 404 si afferma che “non si tratta, insistiamo, di far dire ai precetti che regolano le consultazioni quello che non dicono, né possono dire, né di creare procedimenti contrari ai principi costituzionali, si tratta semplicemente di interpretare i precetti vigenti alla luce delle esigenze del principio democratico”. 55 21 federalismi.it |n. 22/2014 legittimità alla posizione di una sola parte, proprio perché titolare della lotta democratica57. Il principio democratico cioè non può prescindere dal rispetto dei limiti previsti in Costituzione, che rappresentano una garanzia per tutte le parti, e non solo per una di esse; un principio democratico, in sostanza, che si sviluppa dentro e non al di là della Costituzione. Tornando al referendum, l’art. 92 Cost. prevede la possibilità di indire una consultazione popolare “de todos los ciudadanos”. Allo stesso modo, la legge organica, adottata per la sua concretizzazione (legge 2 del 1980, del 18 gennaio), omette la disciplina di un referendum parziale, a cui partecipano solo i cittadini di una Comunità Autonoma. In base alla lettura offerta di queste disposizioni, la dottrina si è divisa tra coloro che ritengono ammesso o precluso un referendum consultivo diretto ai soli cittadini catalani. I primi, ad esempio, sottolineano che l’art. 92 Cost. non contiene un espresso divieto di referendum parziale: l’art. 92 chiama a votare tutti i cittadini, e non di tutti i cittadini spagnoli58. A favore di questa ricostruzione militerebbe anche la scelta costituzionale di imporre l’autorizzazione statale per l’indizione del referendum (art. 149.1.32 Cost.). Il controllo politico sul referendum acquista senso se riferito alle richieste provenienti dalle autonomie. Lo Stato cioè viene investito di questo controllo, inusuale nel diritto comparato59, perché l’iniziativa può essere assunta anche dalle Comunità Autonome. Seguendo questa prospettiva, si potrebbe modificare la legge organica per inserire anche il referendum consultivo autonomico e dare copertura legale allo svolgimento della consultazione. L’Institut prende in considerazione anche le argomentazioni sviluppate dal Tribunal Constitucional nella sentenza n. 103 del 2008, per negare la legittimità della legge basca sulla consultazione popolare (supra par. 2). Nel Rapporto si sostiene che l’unità della nazione e la sovranità del popolo spagnolo non verrebbero toccati dalla pronuncia dei cittadini catalani, ma solo eventualmente da una successiva riforma costituzionale a cui parteciperebbero tutte le istituzioni statali e l’intero popolo60. Diversamente, la soluzione che vuole che tutti cittadini dello Stato siano chiamati ad esprimersi sul futuro della Catalogna, attraverso un Così C. UNGUREANU, Las dos caras del nacionalismo independentista, in El País, del 31 ottobre 2014. Tra gli autori che ritengono possibile un referedum territorale in base all’art. 92 Cost, cfr. A. LÓPEZ BASAGUREN, La secesión de territorios en la Constitución española, in Revista de Derecho de la Unión Europea, 25, 2013, p. 102; una posizione di apertura la ritroviamo anche in alcuni articoli di stampa, cfr. F. RUBIO LLORENTE in “Un referéndum para Cataluña”, in El País. 8 ottobre 2012; F. DE CARRERAS Un referéndum?, in La Vanguardia. 20 settembre 2012. 59 E. MARTÍN, Notas sobre el referéndum autonómico en España, cit., p. 86. 60 Rapporto, p. 408-409. 57 58 22 federalismi.it |n. 22/2014 referendum consultivo generale, non sembra particolarmente gradita perché porrebbe in maniera «aperta ed inevitabile» il problema di chi è il «soggetto politico legittimato ad adottare la decisione»61. La seconda via è rappresentata dall’art. 150, comma due, che consente allo Stato di trasferire o delegare alle Comunità autonome, mediante legge organica, determinate facoltà in materie di competenza statale. Il vantaggio di questa soluzione è che la delega può essere messa in atto per la convocazione di una specifica consultazione; i problemi derivano dalla stessa possibilità di considerare la facoltà di convocare un referendum come una materia suscettibile di essere trasferita. Fino ad oggi le diverse iniziative tese all’adozione di una legge organica ex art. 150, provenienti sia da gruppi presenti nella Camera dei Deputati, sia dal Parlamento catalano, non sono state accolte62. Su questo aspetto, il Rapporto ricorda il diverso atteggiamento assunto dalle istituzioni inglesi. Il referendum indipendentista è stato il frutto dell’accordo del 15 ottobre 2012 tra il Governo del Regno Unito ed il Governo scozzese. Anche se la competenza, in termini generali, a promuovere i referendum apparteneva allo Stato, l’accordo politico si è tradotto in una modifica normativa ed in un ampliamento delle competenze scozzesi63. Altra possibilità è l’indizione di un referendum consultivo autonomico, disciplinato dalla legge catalana n. 4 del 2010, di cui già ci siamo occupati (supra par. 2). Il referendum sul futuro politico della Catalogna, infatti, viene considerato, da molti autori, come eccedente le competenze territoriali; da altri, compatibile con i distinti poteri e facoltà rimessi dalla Costituzione alle Comunità Autonome, tra cui il potere di dare impulso al procedimento di revisione costituzionale. Questa via viene ritenuta comunque impraticabile perché lo svolgimento del referendum dipende dall’autorizzazione dello Stato, autorizzazione difficile da immaginare, visto le possibili obiezioni legate all’oggetto della consultazione. La possibilità di convocare un referendum consultivo che preceda l’iniziativa di revisione costituzionale è stata già analizzata dal Consiglio di garanzia statutaria. Con il parere n. 15 Questa espressione la ritroviamo Informe n.1 del Consiglio per la transizione nazionale, p. 52. Si possono ricordare diverse iniziative svolte nel corso degli anni tra cui, ad esempio, la “Proposició de llei orgànica, per via de l'article 150.2 de la Constitució, de transferència a la Generalitat de Catalunya de les competències en matèria d'autorització per a la convocatòria de referèndum”, presentata dal Parlamento catalano (Bulletí Oficial de les Corts Generals, num. 12-1, del 16 aprile del 2004), cfr. il Rapporto a p. 44. 63 Cfr. M. GOLDONI, Il referendum sull’indipendenza scozzese, in Quaderni costituzionali, 3, 2012, p. 632 ss.; J.O. FROSINI, L’indipendenza della Scozia: l’uscita da due unioni?, in Quad. cost., 2, 2013, p. 442; A. TORRE, Scozia: devolution, quasi-federalismo, indipendenza?, in Le istituzioni del federalismo, 1, 2013, p. 137 ss.; E. MAINARDI, Il Referendum in Scozia: tra devolution ed indipendenza, in Federalismi, 17/2014. 61 62 23 federalismi.it |n. 22/2014 del 2010 del 6 luglio, il Consiglio ha valutato la compatibilità costituzionale di una richiesta di referendum, in cui la domanda posta agli elettori era la seguente: «Con la finalità che il Parlamento della Catalogna porti a termine le iniziative necessarie per rendere effettiva la volontà popolare, è d’accordo che la Nazione Catalana diventi uno Stato di diritto, indipendente, democratico e sociale integrato nell’Unione europea?» 64 . Il Consiglio risponde con un parere di segno negativo, perché non si può «forzare il Parlamento a fare uso delle sue prerogative (anche se il referendum formalmente mantiene il suo carattere consultivo, art. 12 LCR)» e, pertanto, «l’attività dei promotori si deve limitare all’ambito stretto delle competenze della Generalità, che, con carattere generale, si stabiliscono nel titolo IV dello Statuto» 65 . Solo il Parlamento catalano, in sostanza, senza una previa iniziativa referendaria provenente dal popolo, può decidere se cominciare il procedimento di revisione costituzionale. Il referendum autonomico sulla proposta di revisione costituzionale unisce pertanto due istituti, tenuti distinti dalla Costituzione, che non attribuisce al popolo l’iniziativa della revisione66. La modifica della Carta fondamentale viene considerata da diversi autori come possibile soluzione alla questione catalana, poiché, ricordiamolo ancora una volta, non incontra limiti sostanziali. Come ha affermato il Tribunal Consitucional «la Costituzione spagnola, a differenza di quella francese o tedesca, non esclude la possibilità di riforma di nessuno dei suoi precetti, né sottomette il potere di revisione costituzionale a maggiori limiti espressi che quelli strettamente formali o procedimentali»67. La riforma della Costituzione, non a caso, è inserita dall’Institut tra le possibili vie legali per raggiungere l’indipendenza, anche se, l’evidente mancanza di un accordo politico tra lo Stato spagnolo e la Catalogna, rende questa strada difficilmente percorribile. Allo stesso tempo, l’avvio di un processo di riforma, attraverso la presentazione di un progetto, avrebbe il merito di incanalare il dibattito all’interno delle istituzioni nazionali su di una proposta concreta. Le diverse forze politiche sarebbero così chiamate a intervenire ed a contribuire a delineare il futuro dello Stato spagnolo, entrando nel merito dei problemi sollevati e delle possibili soluzioni, che L’art. 24 della legge 4 del 2010, infatti, attribuisce ad un decimo dei deputati o a due gruppi parlamentari la possibilità di chiedere un parere al Consiglio di garanzia sulla compatibilità costituzionale e statutaria di una consultazione di iniziativa popolare. 65 Parere 15 del 2010, p. 17. 66 J. M. CASTELLÀ ANDREU, Democracia, reforma constitucional, cit., p. 198. 67 STC 48/2003, del 12 di marzo, FJ 7. 64 24 federalismi.it |n. 22/2014 non necessariamente dovrebbero condurre alla rottura, potendosi giungere alla riforma dello Stato delle autonomie. La revisione costituzionale, peraltro, è stata valorizzata anche dall’intervento del Tribunal Constitucional. In un momento di grande tensione e aperto contrasto, i giudici costituzionali si sono pronunciati sulla Risoluzione del Parlamento catalano sul diritto a decidere (“Declaración de soberanía y del derecho a decidir del pueblo de Cataluña”, supra par.1) 68 . Nella sentenza n. 42 del 2014 hanno ritenuto incompatibile con la Costituzione l’affermazione di un soggetto sovrano (il popolo catalano) diverso dal popolo spagnolo, che ne è unico titolare, in maniera “esclusiva ed indivisibile”, ex art. 1, secondo comma, Cost. 69 . La Risoluzione, invece, conferisce ad un soggetto parziale il potere di rompere quello che la Costituzione dichiara come suo fondamento, ossia “la indissolubile unità della nazione spagnola”. Nella sua pregressa giurisprudenza, il Tribunal aveva già avuto modo di affermare che gli artt. 1 e 2 della Costituzione partono dalla unità della Nazione spagnola «che si costituisce in stato sociale e democratico di diritto, i cui poteri emanano dal popolo spagnolo in cui risiede la sovranità nazionale» 70 . Lo Stato autonomico cioè «non è il risultato di un patto tra istanze territoriali storiche che conservano dei diritti anteriori alla Costituzione e superiori ad essa, ma una norma del potere costituente che si impone con Per una critica a questa decisione, E. FOSSAS ESPADALER, Interpretar la política. Comentario a la STC 42/2014, de 25 de marzo, sobre la Declaración de soberanía y el derecho a decidir del pueblo de Cataluña, in Revista española de derecho constitucional, 2014, p. 273 ss. La sentenza è stata esaminata anche dalla dottrina italiana cfr. R. IBRIDO, “In nome del popolo spagnolo”. Il Tribunale costituzionale e la Dichiarazione si sovranità del Parlamento catalano, in www.diritticomparati.it; S. RAGONE, Il Tribunale costituzionale spagnolo e la “dichiarazione di sovranità” del Parlamento catalano dopo l’impugnazione del Governo, in www.dirittiregionali.it; L. FROSINA, Il c.d. derecho a decidir nella sentenza 42/2014 del Tribunale Costituzionale spagnolo sulla dichiarazione di sovranità della Catalogna, in Federalismi.it, 10/2014. 69 STC n. 42 del 2014 del 25 marzo, FJ3. Si può anche in questo caso fare un parallelismo con la sentenza 375 del 2007 sulla legge della Regione autonoma della Sardegna 23 maggio 2006, n. 7 (Istituzione, attribuzioni e disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo), della nostra Corte costituzionale. In questa pronuncia i giudici costituzionali sottolineano che “ancora preliminare è la constatazione che la legge in parola utilizza il termine “sovranità” per connotare la natura stessa dell’ordinamento regionale nel rapporto con l’ordinamento dello Stato, nella diversa accezione del necessario riconoscimento alla Regione interessata di un ordinamento adeguato ad una situazione anche di sovranità (implicitamente asserita come esistente o comunque da rivendicare)”. Mentre “la sovranità interna dello Stato conserva intatta la propria struttura essenziale, non scalfita dal pur significativo potenziamento di molteplici funzioni che la Costituzione attribuisce alle Regioni ed agli enti territoriali. Del resto, quanto alle Regioni a statuto speciale, l’art. 116 Cost. non è stato modificato nella parte in cui riconosce alle stesse «forme e condizioni particolari di autonomia secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale»”. La legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, quindi, non ha inserito nell’ordinamento un’innovazione “tale da equiparare pienamente tra loro i diversi soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali” (considerato in diritto punti 6-8). 70 STC, 4/1981, FJ 3; ripresa successivamente anche nella sentenza 247/2007, FJ 4 a. 68 25 federalismi.it |n. 22/2014 forza vincolante generale nel suo ambito, senza che rimangano fuori di essa situazioni storiche anteriori»71. L’ordinamento iberico, quindi, basandosi sul principio fondamentale per cui la sovranità appartiene al popolo spagnolo, vieta alle Comunità autonome di convocare unilateralmente un referendum per decidere la loro integrazione nello Stato72. Il “derecho a decidir de los ciudadanos de Cataluña”, invece, viene configurato non tanto come un diritto all’autodeterminazione, o una manifestazione di sovranità, ma come una «aspirazione politica a cui solo si può giungere attraverso un procedimento conforme alla legalità costituzionale e con il rispetto dei principi di legittimità democratica, pluralismo e legalità». In questo quadro, il Tribunal ricorda che la superiorità della Costituzione non deve essere confusa con la richiesta di una adesione positiva ai suoi contenuti, perché l’ordinamento spagnolo non accoglie un modello di “democrazia militante”, ossia «un modello in cui si impone non già il rispetto, ma l’adesione positiva all’ordinamento e, in primo luogo, alla Costituzione»73. I giudici costituzionali, infatti, ribadito che il potere di revisione non incontra limiti materiali assoluti, richiamano i principi di lealtà e di reciproco ausilio da parte dei pubblici poteri, che impongono al Parlamento spagnolo, nel caso in cui una Comunità Autonoma, nell’esercizio della competenza attribuitagli dalla Costituzione, dia impulso al processo di riforma della Costituzione, di prendere in considerazione la proposta avanzata. Il Tribunal, una volta riportato il diritto a decidere all’interno delle aspirazioni politiche che possono essere legittimamente perseguite all’interno della Costituzione, ritiene che la Dichiarazione del parlamento catalano, almeno per questa parte, non sia in contrasto con la Carta fondamentale. Questa sentenza, se, da un lato, respinge le affermazioni collegate alla sovranità del popolo catalano, dall’altro, valorizza la revisione costituzionale come sede di dialogo e di confronto, necessario per uscire dall’attuale situazione di stallo, che vede un constante scontro tra i rappresentati politici nazionali e locali, senza una chiara via d’uscita. Il STC 76/1988, del 26 aprile, FJ 3; STC 247/2007, FJ 4 a. Il Tribunal, quindi, conclude affermando: “La cláusula primera de la Declaración, que proclama el carácter de sujeto político y jurídico soberano del pueblo de Cataluña debe ser considerada inconstitucional y nula. En efecto, su texto literal va más allá de las apelaciones de legitimidad histórica y democrática que se hacen en el Preámbulo. En su contenido se incluyen con carácter global los aspectos político y jurídico de la soberanía. Se redacta en términos de presente, en contraste con el resto de los principios de la Resolución, que aparecen redactados como mandatos de futuro o en forma deóntica”. 73 Sentenza 42/2014, FJ4 c, in cui si cita la sentenza 48/2003, FJ 7; successivamente richiamata nelle sentenze 5/2004, del 16 gennaio, FJ 17; 235/2007, FJ 4; 12/2008, FJ 6; 31/2009, del 29 gennaio, FJ 13. 71 72 26 federalismi.it |n. 22/2014 processo di revisione condotto con metodo democratico, lealtà e reciproco appoggio sembra un orizzonte a cui tendere, anche se attualmente difficile da raggiungere74. 5. La legge catalana sulle consultazioni popolari non referendarie: un tertium genus? Dopo circa cinque mesi dalla sentenza del Tribunal sulla “Dichiarazione di sovranità”, il Parlamento catalano ha adottato la legge 10 del 2014, del 26 di settembre sulle “Consultazioni popolari non referendarie e altre forme di partecipazione cittadina”. La strada prescelta, quindi, non è stata la riforma costituzionale, ma, ancora una volta, la convocazione di una consultazione diretta del popolo75. Nell’impossibilità di svolgere un referendum, nazionale o autonomico, lo strumento in concreto individuato dalle istituzioni catalane per portare avanti il procés sobiranista è stata una “consultazione popolare non referendaria”76. La possibilità di distinguere tra consultazioni referendarie e non referendarie si basa sull’art. 122 dello Statuto e sulla interpretazione fornitane dalla sentenza del Tribunal Constitucional n. 31 del 2010 77 . L’art. 122 dello Statuto, come ricordato, attribuisce alla Generalitat la competenza a disciplinare le varie forme di consultazione popolare, con eccezione di quanto previsto nell’art. 149.1.32. Secondo il Tribunal, tale disposizione, escludendo l’applicazione della norma costituzionale sul referendum, esclude la competenza Sulle tensioni attualmente presenti nel modelo terrioriale spagnolo e sulle riforme A.A.V.V. El Estado autonómico, Actas de las XI jornadas de la asociación de letrados del Tribunal Constitucional, Madrid, 2006; E. ÁLVAREZ CONDE, C. SOUTO GALVÁN (a cura di), El Estado autonómico en la perspectiva del 2020, cit., in particolare M. Vivancos Comes, “Efecto Lampedusa” y estado autonómico. La reforma racionalizadora que no llega, p. 263 ss.; E. SÁENZ ROYO, Desmontando mitos sobre el estado autonómico: para una reforma constitucional en serio, Madrid, Barcelona, Buenos Aires, 2014, E. Aja, Estado autonómico y reforma federal, Madrid, 2014. 75 La legge n. 10 del 2014 stabilisce il regime giuridico ed il procedimento per la convocazione di consultazioni popolari e di altri meccanismi di partecipazione, considerati strumenti di conoscenza della posizione e delle opinioni della cittadinanza in relazione a qualsiasi aspetto della vita pubblica, nell’ambito delle competenze della Generalitat. La legge si configura come applicazione degli artt. 29, comma sei, e 122 dello Statuto che fanno riferimento, il primo, alla competenza della Generalitat a promuovere la convocazione di consultazioni popolari; il secondo, agli strumenti di partecipazione democratica come le inchieste le udienze pubbliche, i forum di partecipazione e “qualsiasi altro strumento di consultazione popolare”. Anche altri Statuti, peraltro, hanno previsto una competenza in materia di consultazioni popolari, che non richiedono l’autorizzazione statale (questo è il caso, ad esempio, di Andalucía, Aragón ed Extremadura). 76 Sulla distinzione tra questi due tipi di consultazione popolare, cfr. J.M. CASTELLÀ ANDREU, ¿Consulta populares no referendarias en Cataluña Es admisible constitucionalmente un tertium genus entre referéndum e instituciones de participación ciudadana?, in Revista Aragonesa de Administración Pública, XIV, Zaragoza, 2013, p. 121 ss. 77 Cfr. J. M. CASTELLÀ ANDREU, Las consultas populares en la Sentencia 31/2010 sobre el Estatuto de Autonomía de Cataluña, in E. ÁLVAREZ CONDE, C. ROSADO VILLAVERDE (a cura di), Estudios sobre la Sentencia 31/2010, de 28 de junio, del Tribunal Constitucional sobre el Estatuto de autonomía de Cataluña, Madrid, 2011, p. 197 ss. 74 27 federalismi.it |n. 22/2014 autonomica su questa materia, che rimane saldamente nelle mani dello Stato, mentre rimette tutto ciò che non è da ascrivere a tale istituto alla competenza territoriale78. La differenza tra la consultazione prevista dalla legge 10 del 2014 e il referendum consultivo disciplinato dalla legge catalana n. 4 del 2010 è stata oggetto di un acceso dibattito tra i costituzionalisti, che si sono interrogati sulle differenze esistenti tra queste due modalità di intervento diretto dei cittadini. La divergenza di vedute è ben rappresentata dal parere 19/2014 del Consiglio di garanzia statutaria, che ha analizzato la compatibilità costituzionale e statutaria del disegno di legge sulle consultazioni non referendarie 79. In questo parere sono presenti ben 4 voti discordanti, segno della discussione e della divisione della comunità scientifica su questo tema80. Gli argomenti portati a favore della possibilità di differenziare i due istituti sono i seguenti: il referendum è espressione del diritto di partecipazione politica ex art. 23 della Costituzione e chiama in causa al corpo elettorale; la consultazione, invece, si inscrive all’interno dei fenomeni partecipativi, e non interroga il corpo elettorale. Questi elementi erano già stati elaborati dal Tribunal Consitucional all’interno della sentenza n. 103 del 2008, sulla consultazione popolare indetta dai paesi Baschi sul processo di negoziazione politica con lo Stato spagnolo. Come abbiamo già ricordato (supra par. 2), in quella pronuncia il Tribunal ha sottolineato che il referendum è una specie del genere consultazione popolare, anche se non serve a raccogliere «l’opinione di qualunque collettività su qualsiasi questione di interesse pubblico mediante qualunque tipo di procedimento», ma si configura come una «consultazione il cui oggetto si riferisce strettamente all’apparizione del corpo elettorale […] conformato ed esteriorizzato attraverso un procedimento elettorale, basato cioè sul censo, gestito dall’amministrazione elettorale e tutelato con garanzie giurisdizionali specifiche, sempre in relazione con questioni pubbliche la cui gestione, diretta o indiretta, mediante esercizio del potere politico da parte dei cittadini costituisce l’oggetto del diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione all’art. 23»81. Per il Consiglio di garanzia statutaria, d’accordo con la posizione assunta dal Tribunal Constitucional, la legge basca, che regolava un caso specifico, convocando la consultazione, ed includendo al suo interno anche la forma concreta che assumeva la domanda al corpo STC 31/2010 del 28 giugno, FJ 69. Parere 19 /2914 del 19 di agosto. 80 I voti discordanti sono di P. JOVER PRESA, E. AJA, M. CARRILLO, C. JAUME FERNANDEZ. 81 STC 103/2008, FJ2, che richiama la sentenza 119 del 1995, del 17 luglio. 78 79 28 federalismi.it |n. 22/2014 elettorale, disciplinava in realtà un referendum. La legge catalana, invece, non fa riferimento al corpo elettorale, perché attribuisce il diritto di voto in maniera più estesa. In particolare, la legge include tra i soggetti potenzialmente legittimati a partecipare alla consultazione anche coloro che hanno più di 16 anni e che hanno la condizione politica di catalani, anche residenti all’estero; le persone che hanno più di 16 anni e che sono cittadini di uno Stato membro dell’Unione europea, o di Stati terzi e che hanno risieduto in modo legale e continuativo in Catalogna almeno per tre anni e risultano inscritti nel Registro della popolazione catalana. La platea della consultazione può essere modulate a seconda del contenuto della domanda, in base ad un modello flessibile, che si basa su di una «tipologia molto amplia dell’universo di persone legittimate ad esprimere la propria opinione» 82 . Secondo il Consiglio di garanzia statutaria, la legge distingue i possibili votanti alla consultazione dal corpo elettorale, che è composto diversamente, facendovi parte solo i cittadini spagnoli di più di 18 anni, residenti in Catalogna ed inscritti al censo elettorale. Questi elementi sono considerati determinati per escludere che vengano in rilievo i diritti elettorali e la volontà generale. Dal punto di vista sostanziale, poi, il Consiglio ritiene che le “decisioni politiche di speciale importanza” non sono sottratte alle consultazioni popolari e rimesse esclusivamente al referendum. Ritroviamo, nel parere del Consiglio di garanzia statutaria, una linea argomentativa già presente sia nel Rapporto n. 1 del Consiglio di transizione nazionale, sia nel rapporto dell’Institut de Estudis Autonòmics. L’esclusione materiale dei temi centrali della vita costituzionale dalle consultazioni popolari appare al Consiglio come una eccessiva restrizione del principio democratico e dell’autonomia politica. L’art. 92 Cost. cioè, nel momento in cui afferma che le questioni rilevanti possano essere rimesse ad un referendum consultivo, «non si deve tradurre nella costruzione di una dottrina che trasforma la titolarità della competenza (dello Stato sul referendum) nella previsione di un divieto assoluto di domandare l’opinione dei cittadini su determinate questioni che, in base ad una interpretazione più duttile e flessibile, formano parte anche dell’ambito di azione di altri poteri politici, dotati di autonomia e riconosciuti dalla stessa Costituzione, che aspirano a disporre dei propri mezzi di consultazione diversi dal referendum» 83 . Per il Consiglio, quindi, non esistono temi che sono “vietati” all’opinione dei cittadini, anche perché le 82 83 Parere del Consiglio di garanzia statutaria, p. 60. Parere del Consiglio di garanzia statutaria, p. 32. 29 federalismi.it |n. 22/2014 conseguenze derivanti dalla consultazione sarebbero comunque da incanalare all’interno degli strumenti previsti dalla Costituzione 84 . La competenza materiale della Comunità Autonoma, poi, non è solo quella espressamente elencata nello Statuto all’interno del Capitolo II del Titolo IV, ma comprende anche le facoltà di iniziativa e di impulso politico che sono attribuite alle istituzioni catalane all’interno del complesso delle norme statutarie. La Generalitat può decidere di conoscere l’opinione cittadina su di un tema, come premessa o come supporto alle iniziative che competono alle istituzioni catalane. Non a caso, il parere fa espresso riferimento alla sentenza del Tribunal Constitucional 42/2014 in cui si ribadisce, nella valutazione della risoluzione del Parlamento catalano sul diritto a decidere, l’assenza di limiti alla revisione costituzionale ed il ruolo di impulso che ai fini dell’attivazione di questo procedimento viene attribuito dalla Costituzione alle Comunità autonome. Questa interpretazione della legge non è stata condivisa da alcuni membri del Consiglio, che, nei voti particolari, hanno sottolineato, seppur con diverse sfumature, che la consultazione presenta in realtà tutte le caratteristiche del referendum, per i soggetti consultati, l’oggetto, e le conseguenze giuridiche ad essa collegate. La legge cioè ha cambiato solo il nomen iuris dell’istituto, senza cambiarne i tratti fondamentali, allo scopo di eludere la necessaria autorizzazione statale richiesta dalla Costituzione per lo svolgimento del referendum. Nei pareri si legge, ad esempio, che l’art. 92 Cost., rimettendo al referendum consultivo la possibilità di conoscere l’orientamento popolare su materie di importanza costituzionale, esclude qualsiasi forma parallela di intervento dei cittadini. Una diversa interpretazione, infatti, giungerebbe al paradosso di consentire che i limiti formali e procedurali previsti dalla Costituzione potrebbero essere, per le stesse questioni, facilmente elusi, in base alla sola volontà dei promotori, che, scegliendo di indire una consultazione anziché un referendum, potrebbero aggirare la necessaria autorizzazione statale. La legge catalana, inoltre, riconoscendo il diritto di voto ad una collettività più amplia di quella elettorale, costruisce una sorta di referendum mascherato attraverso l’escamotage dell’estensione del voto. Le forme partecipative diverse dal referendum, invece, sono ammesse purchè non si realizzino attraverso l’esercizio del suffragio, inteso come voto 84 Parere, p. 33. 30 federalismi.it |n. 22/2014 libero, uguale, diretto e segreto85. L’art. 122 dello Statuto, infatti, evocando le inchieste, le udienze pubbliche, i forum di dibattito, fa riferimento a forme di partecipazione collettiva e non individuale, che non chiamano in causa la volontà generale. L’attribuzione del diritto di voto a più persone, quindi, non è in grado di alterare la natura del soggetto che viene consultato (il corpo elettorale). Infine, non cambia la sostanza della votazione il riferimento ad un registro di partecipazione, creato appositamente per la consultazione, e non al censo elettorale. Questa legge, entrata in vigore il 26 settembre, e subito seguita da un decreto del Presidente della Generalitat di convocazione della consultazione 86 , è stata con la stessa celerità impugnata dinanzi al Tribunal Constitucional, che si è pronunciato, sempre in tempi rapidissimi, concedendo la sospensione dell’efficacia della legge87. Il Tribunal ha sottolineato che la decisione di non ritardare […] deriva dal fatto che «il Tribunal Constitucional è cosciente della trascendencia constitucional y política delle questioni sollevate, per la società spagnola nel suo insieme e, in particolare, per quella catalana»88. Si è giunti così alla votazione spontanea del 9 novembre in cui le operazioni di voto sono state gestite da volontari, senza le procedure e le garanzie giuridiche richieste per dare consistenza legale alla pronuncia popolare. Il passo successivo a disposizione delle istituzioni catalane dopo questa votazione si ritrova sempre all’interno dei rapporti del Consiglio di transizione nazionale e dell’Institut d’Estudis Autonòmics, che individuano un’ultima ratio: le elezioni plebiscitarie. Seguendo questa “ultima via”, il Presidente della Generalitat scioglie in maniera anticipata il Parlamento e convoca le elezioni. Alle elezioni i partiti si presentano al corpo elettorale ponendo come elemento centrale del proprio programma la questione dell’indipendenza catalana. I risultati elettorali vengono letti come una indiretta pronuncia popolare sull’indipendenza; nel caso in cui la maggioranza degli elettori abbia votato a favore, il nuovo Parlamento potrebbe adottare anche una dichiarazione unilaterale di indipendenza che è l’inizio dei processi di secessione. L’elezioni plebiscitarie sono inserite da Duverger tra le caratteristiche delle dittature, essendo spesso collegate alla presenza di un candidato unico, accettato o respinto dal voto Nel suo voto particolare, ad esempio, il prof. CARRILLO sottolinea che il referendum chiama in causa il corpo elettorale attraverso il voto, mentre le altre forme di partecipazione (deliberazioni, inchieste, udienze pubbliche ecc) sono una “manifestazione dell’opinione della cittadinanza per vie diverse dal voto”, p. 126. 86 Decreto 129/2014 del 27 settembre, pubblicato in DOGC, num. 6715°, del 27 Settembre de 2014 87 Ricorso n. 5829-2014. 88 Comunicato del Pleno del Tribunal Constitucional, del 29 settembre 2014 85 31 federalismi.it |n. 22/2014 popolare, con cui si ratifica una posizione di comando89. Anche Pasquino le definisce come elezioni totalmente personalizzate in cui un capo, un leader mira a rafforzare il proprio ruolo90. Nella sua ricostruzione, però, si distinguono i plebisciti che prendono la forma del referendum (sulla forma di Stato, sull’approvazione della Costituzione, sulla secessione)91. Come le elezioni plebiscitarie, che sono destinate alla scelta di un soggetto, di un capo, la votazione catalana verterebbe su di un solo punto del programma dei partiti, da accettare o respingere. In Catalogna, però, le elezioni plebiscitarie, nell’intento dei promotori, sarebbero sostitutive del referendum, una forma di decisione diretta attraverso uno strumento previsto per la democrazia indiretta. Non si tratta cioè di ratificare una leadership, o un partito unico, ma di un espediente per permettere comunque un voto da parte dei cittadini, con le garanzie ed i controlli del procedimento elettorale, sull’indipendenza. Questo imporrebbe a tutti i partiti di prendere una posizione chiara sul tema e consentirebbe di poter avere dei numeri chiari in merito al sostegno popolare al procés sobiranista. M. DUVERGER, I sistemi politici, Roma-Bari, 1978, p. 509 ss., in cui sottolinea, quando parla delle elezioni plebiscitarie, che nei paesi socialisti “le elezioni si svolgono in modo molto diverso da quelle delle democrazie occidentali: gli elettori non possono scegliere un candidato, ma devono dire se sono o meno d’accordo sull’unico candidato presentato”. 90 P. PASQUINO, Plebiscitarismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, 1996, versione on-line http://www.treccani.it/enciclopedia/plebiscitarismo_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali)/ 91 P. PASQUINO, Plebiscitarismo, cit., afferma “se si esula dal problema dell'insediamento, della conferma ovvero del rafforzamento della leadership politica personale, il plebiscitarismo come tecnica elettorale, che sarebbe comunque meglio analizzare sotto forma di referendum popolare, viene abitualmente utilizzato in tre casi” che sono quelli ricordati nel testo. Come esempi vengono riportati il plebiscito del 2 giugno 1946 in Italia e quello del dicembre 1974 in Grecia, sulla forma di Stato; i referendum costituzionali francesi, con i quali venne rigettata la prima Costituzione della Quarta Repubblica nel maggio 1946, sulla riforma costituzionale; il referendum sull’indipendenza del Québec, del 31 ottobre 1995, sulla secessione. Per l’Autore “In tutti questi casi, il termine plebiscito è usato in maniera intercambiabile con quello di referendum”. 89 32 federalismi.it |n. 22/2014 Il questionario Le vicende ricostruite nell’introduzione denotano un quadro complesso e ricco di incognite. Si è chiesto a osservatori privilegiati della realtà catalana di rispondere alle tre domande riportate di seguito, che toccano questioni a nostro avviso cruciali per l’analisi delle dinamiche in atto. A questo dibattito virtuale sono intervenuti costituzionalisti (in prevalenza), comparatisti e politologi, per favorire un inquadramento multidisciplinare del tema. Si è cercato inoltre di coinvolgere studiosi (alcuni dei quali ricoprono - o hanno ricoperto - importanti incarichi istituzionali) con sensibilità e impostazioni diverse, al fine di offrire una visione il più possibile plurale: le loro risposte mostrano, in effetti, valutazioni non coincidenti, in taluni casi contrapposte. È doveroso esprimere un ringraziamento agli interpellati che, accettando il nostro invito e mantenendo il loro impegno con rigore e puntualità, hanno permesso di portare a termine l’iniziativa. La loro disponibilità al dibattito è tanto più preziosa perché si manifesta su un tema difficile e potenzialmente assai divisivo. Laura Cappuccio Gennaro Ferraiuolo *** 1) Esistono, allo stato, strumenti giuridici in grado di consentire lo svolgimento di una consultazione popolare sull’indipendenza della Catalogna, nel rispetto della legalità costituzionale? In caso di risposta affermativa, quale modalità avrebbe, a suo avviso, maggiori possibilità di concretizzazione? Se ritiene non sussista alcuna via legale, che tipo di risposte pensa debbano offrirsi alle rivendicazioni manifestate da gran parte dei partiti e dei cittadini catalani? Come valuta la posizione di chiusura del Governo spagnolo? 33 federalismi.it |n. 22/2014 2) Di recente sono emerse, in differenti Stati, rivendicazioni di natura secessionista, che vanno dunque ben oltre le aspirazioni di autogoverno e di decentramento. Accanto ai noti casi della Catalogna e della Scozia, anche in Italia tornano ad esempio a manifestarsi progetti che guardano nella medesima direzione: è il caso della legge della regione Veneto n. 16/2014 (“Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto”). È possibile affermare una specificità della realtà catalana e delle rivendicazioni ad essa legate? Come si manifesta questa specificità sul piano storico, politico, culturale e costituzionale? Questa specificità può riflettersi, in qualche modo, anche sull’inquadramento giuridico dei processi in atto? 3) In Europa sono sorti, negli ultimi anni, movimenti politici in radicale contrapposizione ai partiti tradizionali, che si fanno portatori di nuove istanze partecipative. La controversa nozione di “diritto a decidere”, spesso utilizzata con riferimento alle vicende catalane, può iscriversi nel quadro delle tensioni tra democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa? Su tali aspetti, sono sufficienti le consolidate categorie di analisi o è necessario ripensarne di nuove? 34 federalismi.it |n. 22/2014 Antoni Abat i Ninet* Professor of comparative constitutional Law Centre for Comparative and European Constitutional Studies (CECS) University of Copenhagen 1) Nella breve storia costituzionale spagnola si è detto fino alla nausea che l’unica risposta vincolante, in un sistema accentrato di giustizia costituzionale, si basa esclusivamente sul Tribunal constitucional (TC). Questa impostazione deve essere intesa oramai diacronicamente, dal momento che l'integrazione spagnola nell'Unione europea e l'impatto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) non potevano essere previste verso la fine degli anni Settanta; e, tuttavia, rappresentano oggi un fattore determinante nel caso che ci riguarda. La sentenza Del Rio Prada contro Spagna del Tribunale di Strasburgo dimostra l'importanza di questo organismo sulle questioni che possono essere definite come “politicamente trascendenti”. Nella sentenza, la CEDU condanna la Spagna, che di conseguenza deve cambiare diversi aspetti della sua politica penitenziaria, incidendo così sul processo di pace nei Paesi Baschi. Ora, se la risposta alla domanda dipende esclusivamente dalle decisioni del TC, essa non può che essere di segno negativo. Ciò significa che l’organo che esercita un'unica ed esclusiva giurisdizione speciale affermerà che, per come è impostato il quadro giuridicocostituzionale spagnolo allo stato attuale, non esiste nessuna modalità che permetta lo svolgimento del referendum per l'indipendenza della Catalogna. Pertanto, il TC si limiterà a dire che, se si desidera eseguire una consultazione sul futuro politico della Catalogna, è necessario innanzitutto riformare la Costituzione. La mia previsione negativa si fonda su diversi aspetti, tra cui: i recenti precedenti del TC; la strumentalizzazione politica dell’organo e dell'interpretazione della Costituzione; la manifesta ostilità con cui il giudice risolve sbrigativamente alcune questioni sensibili politicamente; e, infine, il modo in cui il TC ha agito nel cosiddetto (e poco felicemente definito) “problema catalano”. Questi aspetti però non trasformano il pronostico in certezza e, lo riconosco in anticipo, contraddicono alcune letture più ottimistiche del ruolo assunto dal TC. Ottimismo * Testo consegnato il 14 ottobre 2014. Traduzione dal castigliano di Laura Cappuccio. 35 federalismi.it |n. 22/2014 recentemente espresso da colleghi catalani e che ha rappresentato la base giuridica delle memorie che le istituzioni della Generalitat hanno presentato a sostegno della rimozione della sospensione sia della legge catalana sulle consultazioni non referendarie, sia del decreto di convocazione della consultazione sul futuro politico della Catalogna. Più specificamente, per quanto riguarda i precedenti che sono alla base del carattere negativo del mio pronostico, viene in rilievo la sentenza del 25 marzo 2014 del TC, in merito alla risoluzione del Parlamento della Catalogna 5/X del 23 gennaio 2013. In tale sentenza il TC ha dichiarato: «la proclamazione della Catalogna come soggetto politico e giuridico sovrano dovrebbe essere considerata incostituzionale e nulla in quanto contraria agli artt. 1.2 e 2 CE e agli artt. 1 e 2.4 dello Statuto di autonomia della Catalogna, così come in relazione agli artt. 9.1 e 168 CE». Con la stessa decisione l’interprete supremo della Costituzione aggiunge: «si può dare una interpretazione valida del “diritto a decidere” sempre e quando sia inteso come un’aspirazione politica, a cui solo si può giungere attraverso un processo conforme all'ordine costituzionale, con rispetto dei principi di “legittimità democratica”, “pluralismo” e “legalità”, espressamente proclamati nella Dichiarazione in stretta relazione con il "diritto a decidere"»; e, continua, «la proposizione di concezioni che pretendono di cambiare le basi stesse dell'ordinamento trova posto nel nostro sistema, sempre che se non si prepari o difenda attraverso un’attività che violi i principi democratici, i diritti fondamentali, o gli altri precetti costituzionali, e il tentativo della sua effettiva realizzazione si persegua nel quadro delle procedure di modifica della Costituzione». In breve, se si vuole realizzare una consultazione popolare come quella proposta in Catalogna si deve riformare la Costituzione con le procedure ordinarie previste per questo caso. Va sottolineato, innanzitutto, che tale sentenza ha per oggetto una dichiarazione politica (senza cioè effetto giuridico) del Parlamento catalano. La giustificazione offerta dal TC fa riferimento ai possibili effetti giuridici che comunque questa Dichiarazione potrebbe produrre. A mio avviso, l'ammissione del ricorso e la successiva sentenza dimostrano il ruolo politico che il TC ha sviluppato e continua a esercitare. Nel diritto costituzionale spagnolo, dopo l'adozione della legge organica sul TC (LOTC) del 1979, fino alla riforma del 1985 era previsto un ricorso previo di costituzionalità che consentiva un controllo a priori delle leggi organiche e degli Statuti di autonomia. Tale controllo preventivo è stato superato con la riforma del 1985, perché come recita la stessa 36 federalismi.it |n. 22/2014 legge organica «l'esperienza accumulata in più di più di tre anni di giustizia costituzionale ha dimostrato che questo ricorso previo si è configurato come un fattore costituzionale di distorsione della purezza del sistema di relazione dei poteri costituzionali dello Stato, con conseguenze inaspettate e meta-costituzionali nell’ultima fase del processo di formazione della legge». Ebbene, questi argomenti non sono stati di ostacolo ad una decisione del Tribunal in merito ad una dichiarazione senza effetti giuridici e senza forma di legge. In effetti, dopo l'ondata di riforme degli Statuti di Autonomia iniziata in Catalogna e seguita da Andalusia, Aragona, Isole Baleari, Castilla y León, Valencia, Extremadura e Madrid, i principali partiti politici in Spagna hanno pensato di recuperare il ricorso preventivo, trascurando il fattore di distorsione nei rapporti tra i diversi poteri costituiti. Nemmeno è risultato un ostacolo per il TC, quando ha ammesso la propria giurisdizione su questa dichiarazione, il limite materiale di cui all'articolo 31 del LOTC, secondo cui il ricorso di incostituzionalità è previsto contro leggi, atti normativi o atti con forza legge. In nessun caso, il legislatore ha previsto la possibilità di impugnare atti che prevedibilmente non sono destinati a produrre effetti giuridici. In definitiva, a mio parere, il TC ha perso un'altra grande opportunità di mettere in pratica qualcosa che in Spagna sembra essere ignorata quando si tratta di questioni politicamente sensibili in ambito costituzionale: il judicial restraint in luogo dell’attivismo giudiziario. Altro esempio di questo orientamento, lo troviamo nella sentenza del TC n. 31/2010 del 16 giugno 2010, sullo Statuto di autonomia della Catalogna. In questa sentenza, la posizione del TC è evidente sin dall’inizio, quando afferma che il termine nazione è privo di effetti giuridici dal momento che si ritrova nel Preambolo. In questa decisione, il TC contraddice la dottrina sul valore orientativo e interpretativo dei preamboli, sostenuta da gran parte dei commentatori, e dalle decisioni del giudice costituzionale tedesco e francese. Il secondo degli argomenti sui quali si basa la mia previsione negativa sulla possibilità di considerare costituzionale la consultazione è la evidente strumentalizzazione politica del TC da parte dei principali partiti politici spagnoli. Per dirla in altro modo, il TC in Spagna, nonostante la definizione legale di esso come organo di giurisdizione unico e speciale, è chiaramente un organo ibrido politico-legale; quando le pronunce hanno un carattere altamente politico, il TC gioca un ruolo decisivo per far pendere la bilancia a favore di alcuni specifici interessi di partito. In casi come quello della consultazione, in richieste di 37 federalismi.it |n. 22/2014 tipo identitario o che possono influire sulla struttura territoriale dello Stato, il TC non solo non evita di pronunciarsi (come ci si aspetterebbe da un organo giurisdizionale neutrale su questioni politiche), ma svolge un ruolo politicamente determinante. La soluzione offerta dal TC nelle decisioni come quelle richiamate in precedenza è motivata esclusivamente da fini politici; la prevedibilità della maggior parte delle sue decisioni "politiche" dimostrano questo fine. La riluttanza ad ammettere un gran numero di ricorsi di amparo è completamente alterata in caso di decisioni relazionate con gli interessi politici dei partiti di maggioranza. Pertanto, si può concludere che il TC soffre di una palese mancanza di imparzialità quando si tratta di conflitti tra la sfera del potere statale e quella autonomica. La stessa composizione e nomina inficia ab initio l’imparzialità del TC, in quanto dipende esclusivamente dai maggiori partiti spagnoli, cui consegue una naturale presa di posizione a favore degli interessi fondamentali centrali e non autonomici (che sono anch’essi parte dello Stato). In ogni caso, la "quota catalana" (così denominata a Madrid) - una norma di "soft law" per la quale, dei dodici membri del TC, uno deve essere catalano - non è garanzia di imparzialità, come è stato più volte dimostrato. Sulla base di tali premesse, non è allora difficile immaginare con quale neutralità si pronuncerà il TC su di un caso che, per quanto possa caratterizzarsi in senso democratico, è inteso a Madrid come potenzialmente in grado di determinare non solo l'indipendenza della Catalogna, ma addirittura la disgregazione della Spagna, o la sua condanna economica per decenni. È ben noto, e la prassi costituzionale più recente lo dimostra, che il costituente concepì il TC come l’ultima espressione della sovranità sulle questioni territoriali, assicurando così che la lettura della Costituzione ricadesse sempre nelle mani di coloro che garantiscono una certa concezione dello Stato. In Germania, dove pure ritroviamo un controllo di costituzionalità unico e accentrato da parte del Bundesverfassungsgericht, la nomina dei giudici è effettuata in parti uguali dal Bundestag (Parlamento) e il Bundesrat (Consiglio federale), che è una vera e propria camera di rappresentanza territoriale, diversamente da quanto accade, invece, per il Senato spagnolo. Questo, attualmente, non ha nessuna rilevanza che non sia la sua strumentalizzazione per perpetuare un sistema di controllo dei partiti sulle più importanti istituzioni politiche e giuridiche dello Stato, tra le quali si distingue, per la sua rilevanza, il TC. In questo senso, l'esempio dell'articolo 155 CE, che può portare alla sospensione della autonomia, è paradigmatico: si tratta di una delle rare eccezioni in cui il Senato ha competenza esclusiva. Per intervenire sulla Comunità autonoma che non 38 federalismi.it |n. 22/2014 adempia agli obblighi previsti dalla Costituzione o da altre leggi, o agisca in modo gravemente pregiudizievole per l'interesse generale della Spagna, la Costituzione richiede la maggioranza assoluta, senza prevedere una doppia lettura parlamentare o l'azione del Congresso (la Camera bassa, vero centro nevralgico del potere legislativo in Spagna). Ciò spiega perché le riforme rivolte alla soppressione della Camera alta, o alla sua trasformazione in una vera Camera di rappresentanza territoriale, non riescono mai ad attecchire. Ma la situazione non è sempre stata questa: lo Stato integral repubblicano (1931), ad esempio, contemplava un Parlamento unicamerale e una parte dei motivi offerti dal legislatore repubblicano spagnolo per giustificare l'esistenza di una sola camera era legato all’esistenza del Tribunale di garanzia costituzionale, che esercitava funzioni simili a quelle di un ipotetico Senato per quanto riguarda l'equilibrio istituzionale tra poteri. Inoltre, il Tribunale di garanzia costituzionale è stato più rispettoso rispetto all’attuale TC nei confronti della realtà composita e complessa dello Stato spagnolo. Infatti, a partire dalla riforma del 2007, i giudici proposti dal Senato sono scelti tra i candidati presentati dalle Assemblee legislative delle Comunità autonome; risulta debole, quindi, il filtro che realizza il Senato, in aggiunta al fatto che la Camera alta è organo statale eletto su base provinciale e non di Comunità autonoma. Ne discende una scarsa o nulla influenza delle Comunità autonome nell'elezione dei giudici del TC. Il TC è composto da dodici membri, in carica per un periodo di nove anni, di cui quattro sono nominati dal Congresso, quattro dal Senato, due dal governo dello Stato e gli altri due da parte del Consiglio Generale del Potere Giudiziario (GCPJ), organo che esercita le funzioni di governo della magistratura al fine di garantirne l'indipendenza. Ma la nomina dei membri del GCPJ, tra i giudici e giuristi di riconosciuta esperienza, è svolta anch’essa da Camera e Senato. Il Presidente del GCPJ è nominato dal Consiglio nella sua riunione costitutiva. Ancora: onnipresenza assoluta di partiti di ambito statale e nessun riconoscimento alle Comunità Autonome nella composizione del TC. Si può a ragione affermare che, nel 1978, i rappresentanti politici catalani erano a conoscenza di questi eccessi e che, però - almeno così a me sembra - li giustificava il carattere transitorio e “di transazione” che si attribuiva alla Costituzione: una visione che considerava la Costituzione legge di partenza e non di arrivo. Né si deve dimenticare la reale situazione politica che esisteva in Spagna alla fine degli anni Settanta, e nei primi anni 39 federalismi.it |n. 22/2014 Ottanta, ben rappresentata dal tentativo di colpo di stato con la presa del Congresso dei Deputati del 23 febbraio 1981, da parte del tenente colonnello Tejero e l’occupazione della città di Valencia da parte dei carri armati, ordinata dal generale Milans del Bosch. Una Costituzione redatta e approvata con la tutela del regime di Franco e con la costante minaccia di un possibile colpo di stato non può essere considerata come un documento valido sine die. La Costituzione, si deve insistere, transitoria verso la democrazia, è stata riformata solo in due occasioni dal 1978, il che mostra la diversa interpretazione che viene data alla natura temporanea del testo. La mancanza di un progetto di riforme costituzionali e la paura di concepire la Costituzione come un documento vivo ed aggiornato, si deve in parte alla falsa chiusura del processo transitorio-transazionale spagnolo. Domandare se si vuole una repubblica o una monarchia in Spagna, o domandare quale è la struttura territoriale voluta dagli spagnoli, o autorizzare una consultazione come quella proposta in Catalogna provoca il panico in alcune élites giuridiche, politiche, economiche e sociali che hanno beneficiato dell'eredità di Franco. Il prezzo da pagare è alto e comporta tra gli altri effetti un elevato deficit democratico, la mancanza di dignità istituzionale auspicabile in uno Stato di diritto, in cui non vi è stata alcuna riconciliazione o riparazione e dove ha prevalso, invece, la legge del silenzio, imposta dalla stessa amministrazione che dovrebbe proteggere i cittadini. Per non parlare della violazione dei mandati delle Nazioni Unite, come accade nella questione delle fosse comuni di rappresaglia da parte del regime franchista; o l'esistenza di una legge “de punto final” che impedisce la difesa dei diritti umani dei torturati e degli scomparsi. Con questa realtà di fatto non è sorprendente che coloro che hanno votato contro la Costituzione, perché la consideravano troppo aperta (Partito popolare, erede Alleanza Popolare) utilizzano oggi il testo per bloccare il cammino invece di creare ponti; in questo scenario il TC svolge un ruolo di evidente “seguito politico”. Un altro fattore che sembra far prevedere una certa reazione da parte del TC è l'ostilità che l'interprete ultimo della Costituzione ha mostrato con la sentenza 31/2010 sullo Statuto di autonomia della Catalogna. Come prova di questa ostilità possiamo ricordare che disposizioni simili a quelle considerate illegittime dello Statuto di autonomia della Catalogna non sono state oggetto di pronunce contrarie nel caso di Statuti di altre comunità: una sorta di “opposizione selettiva” per l'assunzione di competenze, a seconda di chi le richiede. Un altro esempio di questa selezione e ostilità è il polveroso e amaro dibattito politico e identitario sul divieto di svolgere la corrida in Catalogna, mentre lo stesso divieto nelle 40 federalismi.it |n. 22/2014 Canarie è passato completamente inosservato. Una forma di ostilità politica da parte del potere legislativo ed esecutivo è comprensibile, ma quando si tratta del TC sembra eccessiva. La ragione di questa ostilità si basa anche sul fatto che il TC si considera parte integrante del blocco dello Stato centrale e non parte del blocco autonomico, ignorando il fatto che anche le autonomie sono parte dello Stato, e che, per esempio, il Presidente della Generalitat è rappresentante dello Stato in Catalogna. Pertanto, non solo la composizione, ma anche la posizione istituzionale del TC rende questo organo insensibile alle domande che provengono da parte delle comunità autonome, non consentendogli di astrarsi dal conflitto istituzionale nel momento della decisione. L'ostilità è a volte latente, ma si manifesta attraverso le forme. In questo senso, l’uso del termine Nazione con la maiuscola per riferirsi agli spagnoli e con la minuscola per la realtà catalana ne è un altro esempio. È poi palese il fatto che per decidere sul decreto che convoca la consultazione popolare, il Consiglio di Stato, per la prima volta nella sua storia, si è riunito di domenica e, sempre per la prima volta, il TC ha convocato una riunione straordinaria e urgente. L'urgenza richiesta dal Governo dello Stato e sostenuta dalle istituzioni, senza che tutto ciò provochi alcun accenno di rossore. Un altro esempio della mancanza di un minimo di forme richieste nello svolgimento dell’attività di un organismo che riveste la posizione istituzionale del TC sono l'ondata di ricusazioni dei giudici costituzionali che si sono verificate nei quattro anni che ci sono voluti per la decisione del TC sullo Statuto catalano; un fatto insolito anche per la giovane storia costituzionale spagnola. Né sembra rispettoso di un minimo di lealtà istituzionale il fatto che i due terzi dei giudici del TC avevano esaurito il loro mandato nel momento di decidere in quel giudizio. Altri esempi sono la riunione del Pleno del TC per sospendere la legge catalana sulla consultazione e il decreto di convocazione. Pleno che è stato convocato in via straordinaria e urgente per la prima volta nella storia del TC; le ricusazioni presentate dal Parlamento catalano contro il presidente del TC Francisco Pérez de los Cobos (per la sua appartenenza al Partito Popolare e la sua collaborazione ripetuta con la Fondazione FAES, fondazione dello stesso partito e guidata dall'ex primo ministro José María Aznar) e del magistrato Pedro Jose Gonzalez-Trevijano (per i suoi molti articoli sui media contro il nazionalismo e l’evoluzione autonomica della Catalogna). 41 federalismi.it |n. 22/2014 In conclusione, il TC quando si tratta di risolvere i problemi "politici" è pensato per chiudere il sistema a favore degli interessi della partitocrazia maggioritaria spagnola, senza tenere in considerazione il fatto che dovrebbero essere protette le minoranze (nazionali o regionali) a seconda dei casi. Quindi, non dovrebbe sorprendere una posizione parziale ed alla fine limitativa della democrazia, che comporta il rifiuto di consultare il popolo della Catalogna sul suo futuro politico. Il ricorso del Governo contro la legge sulle consultazioni non referendarie può essere sostanzialmente riassunto nella formula "il nome non fa la cosa"; ciò significa che la legge catalana non è veramente una legge sulla consultazione ma, sostanzialmente, una legge sul referendum. Il potere di regolare e autorizzare il referendum è attribuita esclusivamente allo Stato, ai sensi degli articoli 23, 81, 92 e 149.1.32 Cost. La legge catalana, secondo il Governo spagnolo, omette anche la necessaria autorizzazione da parte del Governo spagnolo. Per quanto riguarda l’impugnazione del decreto di convocazione della consultazione sul futuro politico della Catalogna, essa si basa ancora una volta sul fatto che una Comunità autonoma non ha alcun potere di convocare un (reale) referendum; la convocazione è contraria all’attribuzione della sovranità nazionale, che corrisponde al popolo spagnolo, oltre a violare l'unità indissolubile della Nazione spagnola, nei termini contenuti negli articoli 1.2 e 2 della Costituzione. Per quanto riguarda i motivi presentati dal partito di governo (Partito Popolare) contro la legge sulla consultazione e il decreto di convocazione, che confermano la linea sostenuta nel parere del Consiglio di Stato 964/2014 del 28 settembre, bisogna sottolineare che non è l'unica interpretazione giuridica che può essere data alla Costituzione; al contrario è solo una tra le possibili letture. Ci sono diversi argomenti costituzionali che permettono di disciplinare la figura della consultazione non referendaria attraverso la legislazione catalana. Il primo argomento che può essere richiamato si fonda sull’articolo 1.1 CE, in cui si afferma: «La Spagna si costituisce in uno stato sociale e democratico di diritto che propugna come valori superiori del suo ordinamento giuridico la libertà, la giustizia, l'uguaglianza politica e il pluralismo». Sia la Costituzione sia lo Statuto d'autonomia della Catalogna sottolineano il ruolo del principio democratico, da inserire tra i propri valori fondamentali. Il fatto che questo principio appaia nel primo articolo della Costituzione lo rende anche un principio fondamentale e fondativo dello Stato. In questo senso, una 42 federalismi.it |n. 22/2014 rivendicazione che consiste nella richiesta di votare, senza carattere giuridico vincolante, per conoscere il parere dei cittadini, sembra essere coperta da questo principio fondamentale che definisce lo Stato spagnolo. Questa interpretazione appare in linea con la concezione della democrazia espressa dalla decisione del 1998 della Corte Suprema canadese sulla secessione del Québec, in cui si afferma: «Il voto di una maggioranza chiara in Québec su una chiara domanda a favore della secessione conferirebbe legittimità democratica all'iniziativa secessionista che tutti gli altri partecipanti alla Confederazione dovrebbero riconoscere». In Canada, la Costituzione non è stata utilizzata come strumento contro la volontà di uno Stato della Confederazione, ma, al contrario, la Corte Suprema, anche ritenendo che un referendum per l'autodeterminazione non rientrava nel quadro costituzionale canadese, ha trovato un modo per bilanciare Costituzione e democrazia. La posizione "legalista" delle istituzioni spagnole non ha favorito una migliore accettazione della Costituzione. Il risultato è che un testo, che enuncia diritti e libertà fondamentali, viene concepito da un ampio segmento della popolazione catalana come strumento per imporre una visione politica di parte. Un secondo argomento costituzionale che consentirebbe lo svolgimento di una consultazione non referendaria è legato al principio democratico di cui all'articolo 9.2 CE, che prevede un mandato ai poteri pubblici per promuovere le condizioni perché la libertà e l'uguaglianza degli individui e dei gruppi in cui si integrano siano reali ed effettivi; nonché per rimuovere gli ostacoli che impediscono o ostacolano la pienezza della loro realizzazione e la partecipazione di tutti i cittadini alla vita politica, economica, culturale e sociale. Un articolo che non ha precedenti nella storia costituzionale spagnola e dovrebbe essere integrato con l'articolo 23.1 CE relativo al diritto dei cittadini di partecipare, direttamente o attraverso rappresentanti liberamente eletti, negli affari pubblici. Un terzo argomento costituzionale a favore di una consultazione non referendaria, nel quadro costituzionale attuale, è l’iniziativa avviata dal Parlamento catalano nella risoluzione 479/X, che propone di presentare al Parlamento spagnolo un progetto di legge organica per delegare al governo catalano la competenza di indire un referendum sul futuro politico della Catalogna. La risoluzione ha fatto seguito ad una precedente risoluzione sempre del Parlamento catalano del 13 marzo 2013 per l'avvio di un dialogo con il governo spagnolo per rendere possibile lo svolgimento di una consultazione sul futuro della Catalogna. 43 federalismi.it |n. 22/2014 Nella proposta presentata al Parlamento spagnolo, il legislatore catalano ha sottolineato che l’art. 149.1.32 Cost. riserva allo Stato spagnolo l'autorizzazione alla convocazione delle consultazioni pubbliche attraverso referendum. Ma allo stesso tempo, l'articolo 150.2 CE consente allo Stato di trasferire o delegare alle comunità autonome, attraverso la legge organica, alcune competenze dello Stato. La proposta catalana era incentrata sulla richiesta di autorizzazione per celebrare un solo referendum e non il trasferimento della competenza in generale. Tale proposta è stata respinta con il voto contrario di 299 dei 350 deputati. Il Presidente della Catalogna si è più volte dimostrato disposto ad accettare un referendum concordato con il Governo spagnolo, seguendo il modello della Gran Bretagna con la Scozia. Ha anche ribadito la volontà di negoziare la data e la domanda della consultazione, se fosse stata accettata la possibilità di un referendum in Catalogna. L’argomento successivo a favore di una consultazione pubblica all’interno delle regole giuridiche è il riferimento all'articolo 122 dello Statuto di autonomia della Catalogna. Secondo questa norma, il governo della Catalogna ha la competenza esclusiva per quanto riguarda il regime giuridico, le modalità, le procedure, l'esecuzione e la convocazione di sondaggi di opinione, audizioni pubbliche, forum di partecipazione e di qualsiasi altro strumento di consultazione popolare, ad eccezione di quelle di cui all'articolo 149.1.32 CE. Questo articolo è stato sviluppato da due leggi catalane: la n. 4/2010, del 17 marzo, relativa alle consultazioni popolari attraverso referendum; e la legge sulle consultazioni popolari non referendarie e sulle altre forme di partecipazione popolare, oggetto di ricorso dinanzi al TC. Entrambi gli strumenti giuridici sono limitati dalla Costituzione, e di conseguenza, la consultazione non può realizzarsi né contro il testo, né contro i poteri dello Stato. L'argomento costituzionale finale che i rappresentanti della Catalogna possono utilizzare è legato ai trattati internazionali ratificati dalla Spagna. Il preambolo della Costituzione recita: «Proteggere tutti gli spagnoli e i popoli della Spagna nell'esercizio dei diritti umani, delle culture nonché le loro tradizioni, lingue e istituzioni». Anche l'articolo 10.2 CE stabilisce che le «norme relative ai diritti fondamentali ed alle libertà riconosciuti dalla Costituzione devono essere interpretate in conformità con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, dei trattati e degli accordi internazionali sulla stessa materia ratificata dalla Spagna»; mentre l’art. 96 afferma che «i trattati internazionali validamente stipulati, una volta pubblicati ufficialmente in Spagna, formano parte del diritto interno. Le loro disposizioni potranno essere derogate, modificate o sospese con le modalità previste nei trattati stessi o secondo le regole generali del diritto internazionale». 44 federalismi.it |n. 22/2014 In sintesi, la controversia catalano-spagnola non è un conflitto tra la legge (Costituzione) e la democrazia come alcuni postulano, ma una specifica interpretazione della legge costituzionale spagnola, dei trattati internazionali ratificati dalla Spagna, e dell’acquis comunitario; interpretazione contraria ad una diversa lettura della Costituzione, della democrazia e dei diritti umani. Il TC potrebbe perfettamente rifiutarsi di decidere una questione politica; potrebbe seguire l'esempio del Canada o della Danimarca (che hanno scongiurato la contrapposizione Costituzione-democrazia) ed esigere una consultazione concordata tra catalani e spagnoli. Nel caso in cui il TC ritenga non ci siano possibili forme giuridiche nel quadro costituzionale spagnolo, il Governo catalano dovrebbe cercare il coinvolgimento di organizzazioni internazionali, tentare comunque la celebrazione della consultazione per continuare a guadagnare argomenti democratici. In questo senso, la Guardia Civil che chiude, davanti ad osservatori e telecamere di tutto il mondo, collegi elettorali e reprime i cittadini che vogliono depositare una scheda elettorale in un urna è un'immagine che nessuno Stato di diritto dovrebbe essere in grado di permettersi. La Catalogna dovrebbe internazionalizzazione la consultazione e allo stesso tempo cominciare a pensare ad una alternativa, oggi ben rappresentata, a mio avviso, dallo svolgimento di elezioni, definite – infelicemente - plebiscitarie, ed alla successiva dichiarazione unilaterale di indipendenza dopo il referendum. In questo senso è particolarmente interessante il paragrafo 155 del parere della Corte Suprema del Canada in relazione alla secessione del Québec (1998), in cui si legge: “The ultimate success of such a secession would be dependent on recognition by the international community, which is likely to consider the legality and legitimacy of secession having regard to, amongst other facts, the conduct of Quebec and Canada”. La posizione antidemocratica del governo spagnolo e il rifiuto assoluto a dialogare sulla celebrazione di una consultazione non referendaria, non vincolante giuridicamente, devono essere presi in considerazione nel valutare il carattere plebiscitario di una specifica elezione autonomica e la possibile validità ai fini del riconoscimento internazionale. La successiva dichiarazione unilaterale di indipendenza proclamata da parte del Parlamento della Catalogna sarebbe giustificata nell’ambito del diritto internazionale, nel caso in cui il governo spagnolo impedisca la celebrazione della consultazione, o si rifiuti di accettarne l’eventuale risultato. 45 federalismi.it |n. 22/2014 2) La realtà giuridica e politica italiana è diversa da quella spagnola; l'Italia, infatti, non soffre una transizione democratica mal chiusa, la paura di portare alla luce i fantasmi del passato; dunque non chiude allo sviluppo di politiche democratiche prive di complessi. Certo, la democrazia italiana ha i suoi problemi sistemici, ma l’ordinamento costituzionale e democratico è più consolidato che in Spagna e sembra rispondere a determinate rivendicazioni di sovranità in modo più efficiente, affidabile e, soprattutto, meno conflittuale. Pertanto, sorprendono alcune decisioni della Corte costituzionale, come la sentenza. 365/2007 sullo statuto della Sardegna, o la impugnazione da parte del governo alla legge del referendum consultivo per conoscere la volontà degli elettori del Veneto sull’ indipendenza. La rivendicazioni di autodeterminazione di Scozia, Catalogna e Veneto condividono il desiderio di diventare uno Stato, ma differiscono sulla realtà di fatto, culturale, storica, e procedurale. Nella comparazione tra Catalogna e Veneto, nel caso della regione italiana si è approvata una legge regionale (19 giugno 2014) sul "referendum consultivo sull'indipendenza del Veneto", vale a dire, una legislazione ad hoc per celebrare tale referendum, piuttosto che una legge generale per consultare la cittadinanza sui diversi aspetti su cui l'ente sub-statale è competente. I cinque articoli della legge Regionale n. 16 del 19 giugno 2014 sviluppano non solo il quadro giuridico, ma anche gli elementi di fatto necessari per procedere a tale specifica consultazione. Nemmeno si è iniziato, da parte del Veneto, un processo di negoziazione previo all'approvazione della legge con il Governo della Repubblica italiana per portare a termine questa consultazione, nonostante sia consultiva. Non è stata richiesta l'autorizzazione al Governo della Repubblica. Nel caso della Catalogna, inoltre, è stata anche approvata dal Parlamento una dichiarazione di sovranità, e si è votato diverse volte in relazione al diritto a decidere (nel 1989, 1991 e il 1998), a favore della previsione dei mezzi per esercitare questo diritto (nel 1999 e nel 2004) e, infine, per esercitare lo stesso (nel 2010, 2011, 2012 e due volte nel 2013). In tale scenario si riscontrano anche risoluzioni a favore del diritto di autodeterminazione che non sono state dichiarate incostituzionali. Credo che le motivazioni per la secessione siano, nei due casi, diverse e, in quello della Catalogna, si fondano sulla proibizione e persecuzione della sua cultura per 40 anni e sul fatto che, dopo una fase caratterizzata da una certa rivitalizzazione, le attuali politiche educative e linguistiche del Governo spagnolo la pongono sotto tutela. La rivendicazione catalana può 46 federalismi.it |n. 22/2014 anche essere collegata agli eventi del 1931 e del 1934, in cui è stata impedita la proclamazione della Repubblica e dello Stato Catalano. Questo, però, non ridimensiona l'errore del Governo italiano, che ha opposto, anch’esso, la Costituzione alla democrazia; che cerca di mettere a tacere una parte della sua popolazione attraverso uno strumento giuridico e che, nella migliore delle interpretazioni, non sembra interessato alla volontà dei cittadini del Veneto su una questione così importante. La risposta potrebbe essere stata diversa, attraverso la scelta del dialogo con i rappresentanti del Veneto, cercando di rendere attraente la loro appartenenza alla Repubblica ed esaltando i benefici che possono esserci nel restare uniti. Mi sembra contraddittorio che, da Madrid o da Roma, si cedano enormi fette di sovranità ad istituzioni sovranazionali (in particolare alla Unione Europea) che comportano che, de facto, né la Spagna né l'Italia siano indipendenti, e allo stesso tempo si guardi con ostilità alle consultazioni non vincolanti proposte da entità sub-statali. Un altro argomento proprio della situazione catalana è l’involuzione che si è verificata negli ultimi anni ed il trattamento economico che si è dato alla Catalogna da parte delle istituzioni statali. Gli argomenti esposti nell’impugnazione della legge del Veneto da parte del Governo italiano sono la violazione degli articoli 3, 5, 116, 117-119 della Costituzione, che sono (ovviamente in diverso assetto costituzionale) quasi identici a quelli invocati dal Governo spagnolo nel caso della Catalogna. Essi ruotano attorno all'unicità, all'unità e all'indivisibilità della Repubblica, che riconosce l'autonomia ma non la sovranità alle sue parti; oltre che all'uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini. La domanda che ci si dovrebbe porre fare è se catalani e veneti siano stati trattati allo stesso modo dei cittadini canadesi e britannici in occasione del referendum in Québec e in Scozia. Ogni processo di auto-determinazione è unico e la specificità catalana non deriva unicamente dalla realtà politica, giuridica e sociale, ma anche dalla posizione di chiusura assoluta e dalla mancanza di dialogo da parte del governo spagnolo, che alla fine è controproducente per i suoi stessi interessi: nessuno può credere che negando una richiesta non vincolante sulla base di argomenti strettamente giuridici il problema venga risolto. Spariranno, in questo modo, i milioni di catalani che sostengono la consultazione o vogliono l'indipendenza? Non sarebbe opportuno interpretare la Costituzione generosamente, negoziare la consultazione con il Governo catalano (maggioranze 47 federalismi.it |n. 22/2014 necessarie, data, anno, domanda, partecipazione minima) e dimostrare che la Spagna ha fatto crescere democraticamente i cittadini della Catalogna? Da Madrid non si è compreso che in Catalogna non si vive solo un momento costituzionale (Ackerman) in cui i cittadini hanno bisogno di esprimersi e partecipare alla decisione politica direttamente, ma si sta vivendo un momento costituente. 3) Non sono d'accordo con la definizione del diritto di decidere come nozione controversa. Come ho già detto, il Parlamento della Catalogna ha votato dieci volte in merito a questo diritto. Derrida ci ricorda che il potere di decidere, come atto democratico sovrano, appare già nel termine greco Kuroō, essendo il sovrano (Kuros) colui che ha il potere di decidere. Anche la teoria del Dezisionismus in Schmitt evoca in una certa misura l'autorità politica che rilascia la decisione, e non il contenuto della stessa. Ricordiamo che sovrano è colui che decide sullo stato d'emergenza. Così, quando in Catalogna si parla del diritto a decidere, si può pensare anche al diritto di auto-determinazione, dal momento che l’autodeterminazione viene preceduta da una decisione di tipo collettivo; credo, tuttavia, che il diritto a decidere sia più legato al nozione di sovranità. Utilizzando un’analogia un po’ forzata, si potrebbe dire che, nel dibattito sull'aborto, chi decide è sovrano; certe posizioni ritengono che la decisione dovrebbe essere della donna, perché lei è la padrona, l’unica sovrana del suo corpo; altre posizioni considerano che la decisione non dipende esclusivamente dalla madre; infine, ci sono coloro che negano che la madre debba partecipare a tale decisione, dal momento che è il nascituro a dover essere protetto. Nessuno dubita che l'Italia e la Spagna abbiano il diritto di decidere su questioni che rientrano nell'ambito di applicazione della sovranità nazionale. Certo è materia controversa il fatto che questo ambito del potere, che rende sovrano il sovrano, sia un diritto o piuttosto una realtà di fatto. Credo pertanto che non sia controverso il concetto in sé; quello che si vuole negare (come espresso diverse volte dal TC) è che la Catalogna sia un soggetto politico con potere decisionale, con sovranità. Agli occhi delle istituzioni spagnole e della Costituzione, vi è un solo sovrano, per cui chi decide è uno, il popolo spagnolo (nel suo insieme) attraverso i suoi rappresentanti e le sue istituzioni politiche. Questa concezione è minacciata quando la Catalogna aspira a una relazione bilaterale con la Spagna, che la posizionerebbe da pari a pari con lo Stato, dando ad una parte del tutto la capacità di decidere. 48 federalismi.it |n. 22/2014 Pure la tensione tra democrazia partecipativa e democrazia diretta non è una novità. Il dibattito appare chiaramente in Cleistenes e nel sistema di organizzazione tribale, e anche in Ephialtes e la casta politica; riappare nelle diverse classificazioni dei sistemi politici in Platone, Aristotele, Cicerone e Polibio. La tensione torna a proporsi nella fondazione degli Stati Uniti d'America, nel Federalist Papers (10, 37 e 50); o con Tocqueville con la differenza tra "democrazia" e "repubblica democratica"; con la Rivoluzione francese (Condorcet e Carré) e con tutto ciò che ci conduce al concetto di Polyarchy in Dahl o di “democrazie multiple” di Alessandro Ferrara. In definitiva, non si sta proponendo nulla di nuovo. Il problema si presenta quando i rappresentanti contrastano quello che appare come sovrano nei testi costituzionali, il popolo, che si suppone sia sempre più critico, preparato a prendere decisioni per se stesso; e che, nella nuova era tecnologica, ha maggiori possibilità di coinvolgimento nella politica quotidiana. Se a questo aggiungiamo la straordinarietà di un referendum per decidere il futuro politico di una nazione e che il movimento pro-consultazione in Catalogna è fortemente sostenuto (da oltre il 70% della popolazione), non c'è solo il diritto di decidere dei catalani, ma c'è anche un obbligazione dei suoi rappresentanti di canalizzare questa aspirazione legittima e democratica. 49 federalismi.it |n. 22/2014 Enoch Albertí Rovira* Catedràtic de Dret Constitucional Universitat de Barcelona 1) La celebrazione di una consultazione popolare, attraverso la quale la cittadinanza catalana possa esprimere la sua posizione rispetto a una eventuale separazione dello Stato, trova spazio, a mio avviso, nell’attuale assetto costituzionale, se la si concepisce in termini non vincolanti: cioè se si ritenga che, nel caso la posizione favorevole alla separazione ottenga la maggioranza, questo risultato non comporti automaticamente la secessione (così come accadrebbe in un referendum di autodeterminazione). Sono state identificate (Informe del Institut d’Estudis Autonòmics dell’11 marzo 2013 e Informe sobre la consulta sobre el futuro político de Cataluña del Consell Assessor per la Transició Nacional CATN) cinque vie legali per poter celebrare una consultazione: (i) la via del referendum consultivo previsto nell’articolo 92 della Costituzione spagnola (CE) per “decisioni politiche di particolare importanza”; (ii) la delega o il trasferimento della competenza statale per la celebrazione di un referendum non consultivo (art. 150.2 CE); (iii) la celebrazione di un referendum secondo la legge catalana 4/2010, del 17 marzo, sulle consultazioni popolari per via referendaria, con la necessaria autorizzazione statale per la sua convocazione; (iv) la convocazione di una consultazione popolare non referendaria mediante la legge catalana 10/2014, del 26 settembre, sulle consultazioni popolari non referendarie e su altre forme di partecipazione popolare; e, infine, (v) la riforma della stessa Costituzione, se si arrivasse alla conclusione che tutte le altre strade sono vietate dalla stessa. Non si può entrare, in questa sede, in un’analisi dettagliata della percorribilità e dei problemi che, da un punto di vista giuridico-costituzionale, presentano queste vie. Credo però si possa argomentare con convinzione, e su una base solida, che questa consultazione possa aver luogo nel rispetto dell’assetto costituzionale spagnolo, nonostante non sia espressamente prevista. Un’analoga previsione non esisteva nemmeno nei casi del Québec, in Canada, e della Scozia, nel Regno Unito; ciò non è stato di ostacolo allo svolgimento di consultazioni per Testo consegnato il 17 novembre 2014. Traduzione dal castigliano di Luciana Ambrosino e Gennaro Ferraiuolo. * 50 federalismi.it |n. 22/2014 consentire alle popolazioni di quei territori di manifestare la loro volontà. In entrambi i casi non si è trattato di referendum decisori, con effetti giuridici diretti e vincolanti, come si trattasse di referendum di autodeterminazione. Seguendo questa medesima impostazione, credo potrebbe senz’alcun dubbio realizzarsi, in Catalogna, una consultazione non in contrasto con la Costituzione vigente. Allo stesso tempo, la proibizione della stessa per motivi giuridico-costituzionali significa ridurre notevolmente il campo della Costituzione, escludendo dallo stesso le forze politiche che rappresentano una parte importante della popolazione; con la conseguenza di impedire, o almeno complicare, la risoluzione del conflitto politico attraverso percorsi civili e democratici. Obiettivo che, in fondo, rappresenta la missione principale di una Costituzione. In primo luogo, risulta molto difficile giustificare, in maniera convincente e nel quadro di una Costituzione basata sul principio democratico, il rifiuto di convocare o permettere una consultazione popolare sull’autogoverno di un territorio. Questo anche nel caso in cui si contempli l’opzione di una eventuale secessione, specialmente quando la richiesta è sostenuta costantemente nel tempo (le prime dichiarazioni a favore della autodeterminazione della Catalogna si produssero, caduto il regime franchista, già immediatamente dopo la riconquista dell’autonomia, nel 1980) ed è appoggiata da una maggioranza molto ampia del Parlamento di questo territorio (l’80% dopo le elezioni del 2012). Se la Costituzione non contiene clausole di immodificabilità in questa materia – come nel caso della Costituzione spagnola del 1978, che non le prevede in assoluto – tutte le opzioni sono legittime e hanno diritto di trovare espressione, di realizzare attività di promozione e preparazione delle relative proposte, sempre muovendosi dentro percorsi democratici, tanto per la forma in cui si realizzano quanto per il modo in cui pretendano di raggiungere i propri obiettivi. Questo è quanto ha precisamente sostenuto la sentenza del Tribunale costituzionale (STC) n. 42/2014, del 25 marzo, sulla dichiarazione del Parlamento di Catalogna sul diritto a decidere (“Resolución del Parlamento de Cataluña 5/X, de 23 de enero de 2013, por la que se aprueba la Declaración de soberanía y del derecho a decidir del pueblo de Cataluña”). Nella sentenza, il TC nega, in primo luogo, che il popolo di Catalogna possa considerarsi o essere dichiarato sovrano, in quanto ciò contraddice la Costituzione, che attribuisce la sovranità unicamente al popolo spagnolo (art. 1.2 e art. 2). 51 federalismi.it |n. 22/2014 Pertanto, non è possibile attribuire al popolo catalano la facoltà di decidere unilateralmente circa il suo status politico. Proseguendo, lo stesso TC afferma però che la Costituzione spagnola non esige una adesione militante e che i suoi contenuti (compresi i suoi fondamenti, come dice espressamente) possono essere modificati. É legittimo, pertanto, progettare, difendere e promuovere un cambio sostanziale dell’ordine costituzionale vigente, sempre che, sostiene il TC, «non si prepari o difenda attraverso un’attività che leda i principi democratici, i diritti fondamentali o il resto delle prescrizioni costituzionali, e il tentativo della sua realizzazione effettiva si concretizzi nel quadro dei procedimenti di riforma della Costituzione» (FJ 4). Questa posizione, simile - sebbene meno chiara - a quella espressa nel parere del 20 agosto 1998 del Tribunale Supremo del Canada sul Québec (citato espressamente dalla sentenza n. 42), offre, a mio giudizio, base sufficiente per sostenere che la Costituzione non si oppone alla celebrazione di una consultazione popolare, come atto previo o di preparazione di una proposta di cambiamento dello status di autogoverno della Catalogna, che contempli finanche la possibilità di una separazione; sempre che si realizzino determinate condizioni formali e di procedimento: il rispetto dei principi democratici e dei diritti fondamentali e il ricorso al procedimento di riforma costituzionale. È questa, in fin dei conti, l’impostazione del decreto di convocazione della consultazione popolare non referendaria sul futuro politico della Catalogna (Decreto del Presidente della Generalitat de Catalunya 129/2014, del 27 settembre), che nel preambolo cita espressamente la facoltà di iniziativa per la riforma costituzionale di cui dispone il Parlamento catalano (artt. 87 e 166 CE; art. 61 dello Statuto di autonomia), considerando pertanto la consultazione quale atto previo e preparatorio all’esercizio di tale facoltà. Si tratterebbe, dunque, di consultare la cittadinanza catalana (in senso ampio, in quanto si includono anche i maggiori di 16 anni e gli stranieri con un tempo minimo di residenza) prima di esercitare tale iniziativa. La volontà di veicolare la proposta attraverso il procedimento di riforma costituzionale è dunque manifestata esplicitamente nella convocazione della consultazione da parte del Presidente della Generalitat. D’altro canto, non c’è nessun dubbio sul rispetto delle condizioni formali richieste dal TC (rispetto dei principi democratici e dei diritti fondamentali): il processo catalano, per come sviluppatosi, mostra un carattere assolutamente pacifico e civile. 52 federalismi.it |n. 22/2014 In tal senso, come atto preparatorio all’esercizio di una facoltà riconosciuta costituzionalmente, di portata non vincolante e privo si effetti giuridici diretti, la celebrazione della consultazione non tocca la sovranità riconosciuta unitariamente in capo al popolo spagnolo, né tantomeno si colloca fuori dell’insieme delle competenze, in senso ampio, della Generalitat de Catalunya: non sembra possano evocarsi i due principali argomenti utilizzati nel ricorso innanzi al TC. Perciò, considero che la strada di una consultazione popolare della cittadinanza catalana, intesa come passo preliminare all’esercizio della facoltà di iniziativa di riforma costituzionale da parte della Generalitat de Catalunya, risulta percorribile non solo dal punto di vista del principio democratico (a partire dal quale le società moderne devono risolvere i conflitti politici), ma anche dal punto di vista dell’assetto costituzionale spagnolo, inclusa la distribuzione competenze. In secondo luogo, occorre segnalare che, a mio giudizio, il rifiuto di convocare o consentire una consultazione nei termini indicati, facendo leva su motivazioni di carattere legale, conduce ad una interpretazione riduttiva della Costituzione, che esclude dal proprio ambito una parte significativa delle forze politiche della Catalogna e impedisce, o quantomeno rende molto difficile, che il conflitto politico in atto possa risolversi attraverso canali civili e democratici. Le costituzioni devono assolvere una funzione di integrazione dei conflitti, attraendo la risoluzione degli stessi al loro interno mediante i procedimenti contemplati. Quando una Costituzione abdica (o la si fa abdicare) a questa funzione (in particolare in quei casi in cui non esiste alcun ostacolo materiale ad una sua riforma – in quanto o la stessa Costituzione non la impedisce o non sono messi in gioco i valori su cui si basa la convivenza politica) si sta pregiudicando gravemente la capacità della comunità che la Costituzione medesima regge a risolvere pacificamente e democraticamente i propri conflitti interni. Con la conseguenza di ridurre non solo la sua efficacia, ma anche la sua legittimità. Credo che la grande lezione che bisogna trarre dai casi del Québec e della Scozia è che, nonostante i sistemi costituzionali canadese e britannico non prevedessero la possibilità di secessione di un territorio, né tantomeno la celebrazione di referendum a tale scopo, entrambi sono stati sufficientemente duttili e flessibili da permettere di porre tale questione al entro il loro quadro normativo, offrendo una soluzione del conflitto politico esistente. Tali sistemi, individuando questa via d’uscita, non sono né arrivati ad un punto di rottura, 53 federalismi.it |n. 22/2014 né sono risultati danneggiati; al contrario, la capacità di offrire un canale di risoluzione del conflitto politico li ha rafforzati. La domanda che ci si deve porre è cosa accade, o come si evolve il conflitto, quando la Costituzione non offre strade adeguate – ossia accettate dalle parti in causa – per risolverlo. Se non si ammette che possa manifestarsi la volontà popolare attraverso una consultazione celebrata nel quadro della Costituzione e che il suo risultato, a seconda dei casi, si possa realizzare mediante i procedimenti previsti per la sua riforma, questa medesima volontà potrà affermarsi per altre vie, meno adeguate ad esprimerla e a condurre il processo della sua messa in opera. Impedire di celebrare la consultazione non risolve il conflitto sotteso a tale richiesta, ma rischia di determinare una deriva verso mezzi e procedimenti diversi da quelli costituzionalmente previsti. L’alternativa ad una consultazione e alla apertura di un processo di negoziazione (mediante una riforma costituzionale che dia seguito, se del caso, al suo risultato) è l’affermazione di quella medesima volontà attraverso elezioni autonomiche alle quali i partiti che vi concorrono possono conferire carattere plebiscitario in ordine alla secessione della Catalogna. In questo scenario, i dubbi e le incertezze risulteranno molto maggiori e, in ogni caso, la Costituzione potrà perdere la propria capacità di regolare il processo preordinato alla risoluzione del conflitto. 2) Ritengo che ogni caso abbia una sua specificità, presentando caratteristiche peculiari che lo rendono unico e lo differenziano dagli altri. Credo, tuttavia, che possano rinvenirsi alcuni tratti generali che ricorrono in tutti quei casi in cui la rivendicazione della costituzione di uno Stato indipendente si presentano con una speciale forza. Questi tratti si esprimono nella costruzione di una comunità politica propria e differenziata, con specificità storiche, culturali e sociali comuni che la rendono unica e distinta dalle altre. A queste caratteristiche oggettive occorre aggiungere un elemento soggettivo fondamentale: la volontà politica di affermazione in quanto comunità, che deve essere sufficientemente ampia e duratura nel tempo perché possa considerarsi che esista, effettivamente, tale comunità specifica e differenziata. Non basta, dunque, disporre di alcune caratteristiche proprie per affermare la sussistenza di una comunità differenziata, ma è necessario che questa comunità esprima anche una volontà politica chiara che la affermi in quanto tale. Questione diversa è quella relativa al possibile inserimento di questa comunità, con caratteristiche specifiche e una propria volontà di affermazione, in contesti politico- 54 federalismi.it |n. 22/2014 istituzionali superiori o più ampi. Si può constatare con facilità che esistono, nella storia e nel presente, comunità politiche (nazioni, se si vuole utilizzare un termine che rinvia alla nozione richiamata in precedenza) che hanno trovato una integrazione soddisfacente in unità politiche più ampie. Allo stesso modo, si possono rinvenire casi in cui diverse comunità si sono fuse in una unità superiore (in modo da cancellare la volontà politica di affermazione propria, prescindendo dal mantenimento delle caratteristiche oggettive di distinzione). Così come esistono, infine, vicende in cui il tentativo di unificazione con altre (o in altre) comunità è fallito e, di conseguenza, si è ottenuta (o recuperata) la condizione di Stato indipendente. Nel caso della Catalogna, credo che si diano le condizioni per affermare tanto l’esistenza di caratteristiche oggettive che la rendono unica e ne fanno una comunità politica specifica e distinta, quanto la presenza di una volontà politica di affermazione di un’identità propria. Sul primo versante ci si riferisce tanto alla storia politica della Catalogna come entità differenziata, prima e anche dopo l’unificazione delle Corone catalano-aragonese e castigliana e la formazione, nel XV secolo, del Regno di Spagna; quanto all’esistenza e sopravvivenza di una cultura e di una lingua proprie e di alcuni tratti sociali, economici e politici anch’essi specifici, che si sono mantenuti, sotto forme e regimi diversi, nel corso del tempo. Sul secondo versante, emerge una chiara volontà politica di affermazione di questa identità differenziata, che si è manifestata apertamente e nel corso dei secoli, con diversa intensità: a partire dalla guerra di successione per la Corona spagnola del secolo XVIII, nella quale la Catalogna perse le proprie istituzioni di autogoverno, che aveva conservato fino a quel momento anche sotto la Corona spagnola (che costituiva una sorta di unione confederale); fino alla Mancomunidad del 1914; alle effimere proclamazioni della Repubblica Catalana (1931) e dello Stato Catalano (1934); allo Statuto di autonomia del 1932, nella Seconda Repubblica spagnola; alla restaurazione, nel 1977, della Generalitat de Catalunya, dopo la dittatura franchista; agli Statuti di autonomia del 1979 e del 2006, durante la vigenza della Costituzione spagnola del 1978. Il problema attuale si inquadra all’interno della seconda delle questioni sopra indicate: l’inserimento di una comunità propria e differenziata come la Catalogna, che manifesta una volontà politica di affermazione, nell’unità superiore che costituisce lo Stato spagnolo nato della Costituzione del 1978. 55 federalismi.it |n. 22/2014 La Costituzione del 1978 ha compiuto uno sforzo notevole per sistemare politicamente, nell’ordinamento democratico, le nazionalità e le regioni che esistono al suo interno, tra le quali figura ovviamente la Catalogna, le cui rivendicazioni di autogoverno giocarono un ruolo decisivo nella creazione del modello di Estado autonómico sancito con la Carta del 1978. Insieme al principio di unità si riconobbe il diritto all’autonomia di nazionalità e regioni; diritto che permetteva loro di costituirsi in Comunità autonome dentro lo Stato, con istituzioni di autogoverno e competenze proprie. La Costituzione del 1978 rappresenta pertanto un tentativo molto serio di risolvere la questione territoriale in Spagna (in particolare, la questione catalana e quella basca), attraverso modalità molto diverse rispetto a quelle con cui si era affrontata nella storia costituzionale spagnola, a partire dal 1812. Infatti, con la sola eccezione, molto breve, delle due Repubbliche (1873 y 1931-39), lo Stato spagnolo si è sempre strutturato su basi non solo unitarie, ma anche fortemente centraliste, senza riconoscere la diversità territoriale esistente né, di conseguenza, l’autonomia dei diversi territori. Tuttavia, dopo trentacinque anni, credo si possa dire, almeno a mio avviso, che questo modello sia giunto all’epilogo e anche che sia collassato. Le ragioni vanno ricercate sia in alcuni punti deboli del disegno originario dello Stato delle autonomie (specialmente, da un lato, la creazione di 17 Comunità autonome con identica natura e con competenze tendenzialmente uguali, nonostante la Costituzione prevedesse due tipi diversi di comunità; e, dall’altro, la mancata previsione costituzionale dei meccanismi di raccordo tra i diversi centri di governo); sia nella emersione di alcuni problemi importanti in fase di attuazione, che non sono stati affrontati adeguatamente (si tratta di questioni relative, fondamentalmente, alla delimitazione delle competenze tra Stato e Comunità Autonome, alle relazioni intergovernative e al finanziamento). Il nuovo Statuto della Catalogna del 2006 rappresentò un tentativo (da parte catalana e da parte statale, o almeno del Governo spagnolo di quella fase) di affrontare i problemi emersi nell’evoluzione del assetto autonomistico e di risolverli mediante un nuovo patto, rivitalizzando il consenso costituzionale. Tuttavia lo Statuto (che, non lo si dimentichi, è una legge organica approvata dal Parlamento statale, dal Parlamento autonomico e, infine, dai cittadini con un referendum) fu impugnato innanzi al TC, che lo dichiarò parzialmente illegittimo e, soprattutto, lo privò in larga parte del valore giuridico di norma vincolante anche per lo Stato. Questo annullamento, di fatto, del valore del nuovo Statuto, che si 56 federalismi.it |n. 22/2014 regge su un’interpretazione fortemente restrittiva e riduzionista della Costituzione, determina, a mio parere, la situazione oggi in atto: la maggioranza politica catalana considera fallito non solo lo Statuto del 2006 – e, pertanto, il tentativo di rinnovare il patto costituzionale in tema di autogoverno – ma anche il complessivo modello autonomistico del 1978. L’attuale movimento indipendentista rappresenta, in larga parte, una reazione al fallimento del nuovo Statuto e alla sensazione di scoraggiamento rispetto alla possibilità di raggiungere un livello adeguato di autogoverno della Catalogna all’interno dello Stato spagnolo. Tale movimento, pertanto, mira a dotare la Catalogna degli strumenti propri di uno Stato per preservarne la personalità ed esercitare l’autogoverno in relazione alle esigenze di questa comunità. Ma, allo stesso tempo, si presenta come un movimento europeista, che vuole che il nuovo Stato formi parte dell’Unione Europea e partecipi attivamente al processo di integrazione europea. In questo senso, non è un movimento nazionalista-statalista, di carattere isolazionista, né tantomeno pretende di imporsi sugli altri. Non mostra nessuna resistenza a cedere sovranità ad una entità superiore come la UE né, dunque, a trovare un’integrazione adeguata all’interno un’unità politica ed economica superiore e più ampia, in seno alla quale rinuncia ad essere sovrana. Queste osservazioni portano ad affrontare una questione generale, che concerne la possibile ridefinizione del ruolo degli Stati in un contesto di unificazione politica ed economica europea. Questione che si pone, in particolar modo, per quelli di maggiore estensione e con collettività forti al loro interno, che si verrebbero a trovare in uno spazio indefinito e scomodo: troppo grandi per riuscire a rappresentare adeguatamente la realtà locale e troppo piccoli come attori globali. Non si tratta tanto di riconfigurare l’Unione Europea, costruendo un’Europa delle regioni composta da 90 entità, ma di pensare che il ruolo di alcuni Stati può vedersi minacciato nel nuovo contesto di un’Europa sempre più unita economicamente e politicamente: fattore questo che può determinarne lo schiacciamento tra l’UE e le regioni che esistono al loro interno. 3) Senza dubbio viviamo un processo di cambiamento di dimensioni epocali, nel quale compaiono fenomeni che mostrano una certa resistenza a lasciarsi inquadrare entro le tradizionali categorie di analisi. Questo accade in molti ambiti e istituzioni; il cosiddetto “diritto a decidere” è, in tal senso, un esempio. Non si tratta, senz’altro, del classico diritto 57 federalismi.it |n. 22/2014 di autodeterminazione, rispetto al quale presenta differenze molto evidenti che impediscono un trattamento omogeneo delle realtà sottese alle due nozioni. Tantomeno si tratta del tradizionale diritto di secessione – che le costituzioni moderne quasi mai hanno riconosciuto espressamente - e neanche di una aspirazione alla riforma costituzionale, secondo le sue classiche ricostruzioni. Si tratta di un tema che pone questioni inedite, come quella del diritto delle minoranze territoriali in uno Stato democratico (diversa da quella, classica, delle minoranze – al plurale – che è tema distinto) e del modo in cui oggi possono modificarsi, con mezzi pacifici, le frontiere statali nel contesto di ordinamenti democratici. La questione è sorta con il caso del Québec, è proseguita con la Scozia e, ora, con la Catalogna. Si tratta, in definitiva di provare a individuare categorie che permettano di trattare queste situazioni secondo parametri comunemente accettati nel contesto della comunità degli Stati democratici. Questo sforzo di razionalizzazione non è semplice, ma risulta necessario per poter disporre di un parametro ragionevole per valutare simili situazioni e inquadrarle tanto dal punto di vista costituzionale interno (si tratta di una ulteriore prova della esigenza di un diritto costituzionale universale o globale) quanto da quello del diritto internazionale, che regola le relazioni tra i soggetti della comunità internazionale. In questo senso, credo che un buon punto di partenza sia costituito dal parere del Tribunale Supremo del Canada sul caso della secessione del Québec, la cui dottrina essenziale (incentrata su tre pilastri fondamentali: non esiste un diritto alla secessione; se una maggioranza pronuncia chiaramente la sua volontà di separarsi, si deve attivare una negoziazione tra le parti; questo presuppone la possibilità che si esprima la volontà della popolazione del territorio interessato) offre, a mio avviso, delle buone basi per l’elaborazione di nuove categorie. Ritengo infine che, laddove tali problematiche si pongano in Europa, sia necessario collocarle nel contesto dell’integrazione europea: sebbene si tratti di questioni eminentemente interne agli Stati, esse riguardano senza dubbio l’intera Unione. Pertanto, la riflessione che conduce alla elaborazione delle categorie di analisi e dei parametri di valutazione di queste nuove realtà dovrebbe includere, a mio giudizio, anche il piano dell’integrazione europea, permettendo che i fenomeni richiamati vengano trattati anche da questa prospettiva ed elaborando un parametro di valutazione e trattamento che tenga conto della posizione della UE. 58 federalismi.it |n. 22/2014 Xavier Arbós Marín* Catedràtic de Dret constitucional Universitat de Barcelona 1) Il quadro costituzionale consente, a mio avviso, la consultazione popolare, anche se questo punto di vista è in dottrina controverso. Cominciamo col ricordare che la Costituzione accoglie, tra i diritti fondamentali, il diritto di partecipazione ai pubblici affari (art. 23.1 CE), «direttamente o per mezzo dei rappresentanti». Le consultazioni popolari possono dunque considerarsi un esercizio del diritto di partecipazione nei pubblici affari enunciato nell’art. 23 della Costituzione spagnola (CE), condizionato all’imprescindibile e previa convocazione da parte dell’organo di volta in volta competente. Problematiche diverse concernono il doppio quesito oggetto della consultazione del 9 novembre 2014. Esso è stato concordato, il 12 dicembre 2013, tra il Presidente della Generalitat e i partiti Convergència i Unió, Esquerra Republicana de Catalunya, Iniciativa per Catalunya-Verds i Esquerra Unida i Alternativa e la Candidatura d’Unitat Popular. Queste le parole del presidente Mas: «Il quesito che abbiamo concordato consiste in una domanda, un’unica domanda, con due passaggi. Sono entrambi molto chiari. Primo passaggio: “Vuole che la Catalogna diventi uno Stato?” Sì o no. “Stato” scritto con lettera maiuscola. Secondo passaggio: in caso di risposta affermativa, per coloro che abbiano risposto “sì”, che vogliono che la Catalogna si converta in uno Stato: “Vuole che questo Stato sia indipendente?” Sì o no». Nel primo dossier del Consell Assessor per a la Transició Nacional (CATN) del 25 luglio 2013, le conclusioni sul tipo di quesito preferibile si aprono con le seguenti parole (p. 86): «Dalla prospettiva della chiarezza e semplicità per valutare i risultati, la formula più appropriata è quella di una domanda diretta sul voto, favorevole o contrario, a che la Catalogna diventi uno stato indipendente. Se il Governo o il Parlamento, in considerazione di altri fattori, decidessero di utilizzare una domanda multipla, la formula più adeguata, tra le alternative possibili, è quella che permetta ai cittadini di scegliere tra diverse opzioni, * Testo consegnato l’11 settembre 2014. Traduzione dal catalano di Gennaro Ferraiuolo. 59 federalismi.it |n. 22/2014 generando però, allo stesso tempo, un esito chiaro, come accuratamente evidenziato nel corpo del dossier». A nostro avviso, il quesito nato dall’accordo del 12 dicembre del 2013 non corrisponde alla prima delle raccomandazioni. Non si tratta infatti di una domanda diretta, ma di due quesiti concatenati. La seconda opzione è assolutamente ambigua: è uno “Stato” lo “Stato libero e sovrano di Jalisco”, degli Stati Uniti Messicani, che ha meno capacità di governo della Comunitat Foral de Navarra. L’enfasi “tipografica” del presidente Mas ci appare priva di senso, sebbene si tratti di una questione certamente secondaria. Non lo è invece il fatto che, al 10 settembre 2014, non si abbia ancora un criterio ufficiale per la valutazione dei risultati o, almeno, noi non ne abbiamo notizia. Poiché nella legge sulle consultazioni popolari non referendarie che il Parlamento presumibilmente approverà [ha poi approvato, ndt] il prossimo 19 settembre 2014, è attribuita al Presidente la determinazione del quesito definitivo nel momento in cui convoca una consultazione, tutto ciò che qui affermiamo si colloca in una dimensione ipotetica di cui il lettore farebbe bene a tener conto. Ad ogni modo, quando tratteremo il caso della convocazione da parte della Generalitat, ritorneremo sul punto. Prima, però, mi occuperò della possibilità di convocazione da parte del Governo centrale. Infine, proverò a rispondere ai quesiti sulle risposte da dare ai cittadini e sull’immobilismo del Governo Rajoy. a) La convocazione da parte del Governo centrale. La possibilità più chiara, dal mio punto di vista, è nelle mani del Governo centrale. Questo può utilizzare l’articolo 92, co. 1 e 2, della Costituzione, che gli permette di svolgere una consultazione popolare non vincolante, rivolta all’insieme della popolazione spagnola, su «decisioni politiche di particolare importanza», previa autorizzazione del Congresso dei Deputati. Nel testo della Costituzione, così come non esistono precetti che non possano essere riformati, tantomeno vi sono materie insuscettibili di costituire oggetto di referendum consultivi. A tale affermazioni si può tuttavia rivolgere un’obiezione radicale: quella in base alla quale non si può chiedere un parere su ciò che dovrà essere oggetto di una riforma costituzionale. In altri termini, per fare un esempio, non si potrebbe tenere un referendum consultivo sul passaggio dalla monarchia alla repubblica. Questo tipo di questioni, 60 federalismi.it |n. 22/2014 incompatibili con il vigente assetto costituzionale, non possono che essere prese in considerazione nel procedimento di revisione della Costituzione. L’indipendenza della Catalogna cozza in pieno con l’indissolubilità della nazione spagnola proclamata dall’articolo 2 CE, che dovrebbe essere modificato al fine di rendere costituzionalmente accettabile la secessione catalana. Il fondamento di questa posizione restrittiva si trova nella sentenza del Tribunale costituzionale (STC) 103/2008 (FJ 4). Il passaggio che ci interessa recita: «Il rispetto della Costituzione impone che i progetti di revisione dell’ordine costituito, e in particolare quelli che riguardano il fondamento dell’identità dell’unico depositario della sovranità, si realizzino in maniera trasparente e diretta per l’unica via che la Costituzione ha previsto a questi fini. Non c’è spazio per diverse procedure, né da parte delle Comunità autonome, né di qualsiasi altro organo dello Stato, poiché prevale sempre, come espresso nella decisone costituente, la volontà del popolo spagnolo, titolare esclusivo della sovranità nazionale, fondamento della Costituzione e origine di qualsiasi potere politico. ». Non condividiamo questa dottrina costituzionale. Il TC non è in grado di evocare nessun precetto che limiti l’oggetto di un referendum consultivo: pertanto, restringe arbitrariamente l’ambito potenziale dell’esercizio del diritto di partecipazione, di cui si è detto in precedenza. In ogni caso, esprimere un’opinione politica non equivale a decidere. L’opinione manifestata in una consultazione, quand’anche diversa da quella del titolare della sovranità, non ha carattere vincolante. D’altro canto, vale la pena ricordare la STC 42/2014, del 25 marzo: più per ciò che non dice che per quanto afferma esplicitamente. Questa sentenza si riferisce alla dichiarazione di sovranità approvata dal Parlament de Catalunya il 23 gennaio 2013 (“Resolució 5/X, per la que s’aprova la Declaració de sobirania i del dret a decidir del poble de Catalunya», Butlletí Oficial del Parlament de Catalunya, num. 13, 2013”). Il suo preambolo ricorda che il «27 settembre del 2012, mediante la Resolució 742/IX, il Parlamento ha constatato la necessità che il popolo della Catalogna possa determinare liberamente e democraticamente il proprio futuro collettivo attraverso una consultazione». Se, dunque, la STC 42/2014 dichiara l’incostituzionalità dei riferimenti alla sovranità, per quanto riguarda il “diritto a decidere” la pronuncia afferma che «i richiami al “diritto a decidere dei cittadini della Catalogna” contenuti nel titolo, parte iniziale, e nei principi secondo, terzo, settimo e nono, paragrafo secondo, della Dichiarazione approvata attraverso la risoluzione 5/X del Parlamento di 61 federalismi.it |n. 22/2014 Catalogna, non sono incostituzionali se si interpretano nel senso che si espone nei punti 3 e 4 del considerato in diritto [fundamentos jurídicos, ndt] di questa sentenza». Lì, specificamente nel FJ 4, leggiamo che il “diritto a decidere” è conforme alla Costituzione nella misura in cui «non viene proclamato come manifestazione di un diritto di autodeterminazione non riconosciuto dalla Costituzione, o come un’attribuzione di sovranità non riconducibile alla stessa, ma come aspirazione politica alla quale può giungersi madiante un processo conforme alla legalità costituzionale, in relazione ai principi di “legittimità democratica”, “pluralismo” e “legalità”, espressamente proclamati nella Dichiarazione in stretta correlazione con il “diritto a decidere”». Il riferimento al FJ 4 della STC 103/2008 compiuto dal FJ 4 della STC 42/2014 serve solo a ricordare che le riforme della Costituzione debbono realizzarsi nel quadro dei procedimenti che la stessa prevede; si evita, dunque, di ribadire l’incostituzionalità di qualsiasi consultazione su materie suscettibili di essere oggetto di una riforma della Costituzione. Ammettendo che non vi siano materie escluse da una potenziale consultazione, occorre a questo punto soffermarsi sulla possibilità che chi consulti sia il Governo centrale. Ricordiamo che la via dell’art. 92.2 CE abilita il Governo a realizzare, con l’autorizzazione del Congresso dei deputati, referendum consultivi su «decisioni politiche di speciale importanza», in relazione alle quali devono esprimersi «tutti i cittadini». D’accordo con tale previsione, sembra chiaro che il Governo centrale potrebbe convocare un referendum consultivo su qualunque materia ritenuta di speciale rilievo politico, rivolto a tutti i cittadini spagnoli. In tal modo, ovviamente, si includerebbe la cittadinanza catalana, anche se l’opinione di questa sarebbe diluita nella interpretazione unitaria dei dati su scala spagnola. Senza dimenticare che il popolo spagnolo è, secondo la Costituzione (art. 1.2), il titolare della sovranità e sarebbe pertanto inevitabile considerare questa circostanza nella valutazione del peso politico dei risultati referendari. Resta la possibilità di utilizzare la legge organica 2/1980 del 18 gennaio, recante la disciplina delle diverse forme di referendum. La modifica di questa legge potrebbe introdurre un nuovo modello di consultazione popolare. In ipotesi, si potrebbe addirittura regolare uno specifico caso concreto, attraverso un’unica convocazione, con una disposizione transitoria. Si tratterebbe pur sempre, ricordiamolo, di un referendum consultivo. Non ci sono materie riservate al referendum ma riconoscergli un effetto giuridico vincolante produrrebbe 62 federalismi.it |n. 22/2014 un’alterazione del sistema delle fonti in termini contrari alla Costituzione. È quest’ultima che stabilisce la struttura del sistema delle fonti partendo dai principi di gerarchia e competenza. Riassumendo, ritengo che il Governo centrale avrebbe potuto convocare un referendum consultivo, anche solo in Catalogna, e che ciò sarebbe stato conforme a Costituzione. b) La convocazione da parte della Generalitat. Tra le competenze esclusive dello Stato rientra, ai sensi della Costituzione, la «autorizzazione alla convocazione di consultazioni popolari referendarie» (art. 149.1.32 CE). Possiamo partire da qui. La Costituzione non definisce cosa sia un referendum; la citata STC 103/2008, indica però (FJ 2) che il referendum è un tipo di consultazione popolare che utilizza un procedimento elettorale, si indirizza al censo elettorale ed è dotato di garanzie elettorali. Le Comunità autonome possono assumere competenze in materia di consultazioni popolari ma, secondo quanto stabilito da questa sentenza, solo con riferimento a quelle che non siano qualificabili “referendum”. Nel caso della Catalogna, l’art. 122 dello Statuto prevede che corrisponde alla Generalitat «la competenza esclusiva per stabilire il regime giuridico, le modalità, il procedimento, la realizzazione e la convocazione da parte della Generalitat o degli enti locali, nell’ambito delle relative competenze, di inchieste, audizioni pubbliche, forum di partecipazione e qualunque altro strumento di consultazione popolare, salvo quanto disposto dall’art. 149.1.32 della Costituzione». La STC 31/2010 sullo Statuto catalano, afferma (FJ 69) che il menzionato art. 122 è conforme a Costituzione se «interpretato nel senso che l’eccezione in esso contemplata si estende all’istituto del referendum nella sua integrità e non solo alla autorizzazione statale alla convocazione». In tal modo la Generalitat può solo regolare, convocare e organizzare consultazioni popolari che non siano referendum. È anche possibile mettere in moto il meccanismo previsto dall’art. 150.2 CE. È ciò che ha provato a fare il Parlament de Catalunya utilizzando l’iniziativa legislativa che la Costituzione riconosce alle assemblee legislative delle Comunità autonome (art. 87.2 CE). Nella risoluzione 479/X, del 16 gennaio 2014, la camera catalana decideva di richiedere al Congresso dei deputati di avviare il procedimento per l’approvazione di una legge organica che, a norma dell’art. 150.2 CE, delegasse alla Generalitat «la competenza ad autorizzare, convocare e celebrare un referendum sul futuro politico della Catalogna». La dottrina non è concorde sulla possibilità di delegare ciò che è competenza dello Stato ai sensi dell’art. 63 federalismi.it |n. 22/2014 149.1.32 CE. A nostro modesto avviso, non sussiste nessun limite chiaro per ciò che concerne le materie delegabili. Recita l’art. 150.2 CE: «Lo Stato potrà trasferire o delegare alle Comunità autonome, mediante legge organica, facoltà corrispondenti a materie di titolarità statale che, per loro natura, siano suscettibili di trasferimento o delega. La legge stabilirà, in ogni singolo caso, il corrispondente trasferimento di mezzi finanziari e le forme di controllo che si riserva lo Stato». Ciò che costituisce la “natura” [trasferibile o delegabile, ndt] in ambito giuridico è questione che non può risolversi con un criterio di autorità dottrinale accademica. Manca sul punto giurisprudenza e, così, ritengo che si possa sostenere la validità, a termini di Costituzione, di quella che, in ciascun caso concreto, il legislatore ritenga sia la natura propria di una materia. Per tale motivo, non condividiamo le letture restrittive e riteniamo che sarebbe stata conforme alla Costituzione la via della delega. Via che non è stata percorsa: l’8 aprile 2014 il Congresso vi si e opposto e il Parlament de Catalunya ha proceduto a dar seguito ad una «proposta di legge sulle consultazioni popolari non referendarie». Nel momento in cui si scrive, non si conosce ancora l’esito del voto del Parlament, previsto il 19 settembre [la legge è stata effettivamente approvata, nei termini esposti di seguito, ndt]. Questa iniziativa è stata sottoposta al Consell de Garanties Estatutàries. Il dictamen 19/2014, del 19 agosto, conclude che la stessa è compatibile con la Costituzione e lo Statuto. Ci soffermiamo su due aspetti controversi della questione. Sulla base dei passaggi della STC 103/2008, in precedenza richiamati, sappiamo che un referendum va identificato, tra le altre cose, per l’utilizzo del censo elettorale. Dall’art. 5 della proposta di legge si desume che possono partecipare a questo tipo di consultazione i cittadini maggiori di sedici anni di età e gli stranieri residenti dell’Unione europea. Quest’ambito di partecipazione include inevitabilmente le persone che formano parte del censo elettorale e, per tale motivo, si scontra con la dottrina della STC 103/2008, apparendo di dubbia costituzionalità. In relazione allo Statuto, il dictamen offre un’interpretazione ampia di ciò che è l’ambito competenziale. Mentre nel precedente dictamen 15/2010 il Consell sembra considerare che sono competenze della Generalitat solo quelle enumerate nel Capitolo II del Titolo IV, in quello del 2014 si afferma che sono competenze anche le attribuzioni che, a norma dello Statuto, si riconoscono agli organi della Generalitat. Concordiamo con questa dottrina, anche se è possibile che il TC si orienti per la interpretazione più restrittiva. Ad ogni modo, secondo il dictamen del 2010, non si potevano consultare i cittadini sulla possibilità che il 64 federalismi.it |n. 22/2014 Parlamento catalano proponesse una riforma della Costituzione concernente l’indipendenza della Catalogna. Ricordiamo che non sussistono limiti costituzionali alla revisione e che le assemblee legislative delle comunità autonome possono presentare proposte di riforma della Costituzione (artt. 166 e 87 CE). La motivazione di quel parere si fondava sull’argomento per cui l’oggetto del quesito non corrispondeva ad alcun titolo competenziale enumerato al Capitolo II del Titolo IV dello Statuto. Adesso, il dictamen del 2014 non dice nulla in merito ad una ipotetica domanda; getta però le basi perché le attribuzioni, molto generiche, del Parlamento, del Presidente o del Governo catalani divengano il fondamento competenziale su cui il Presidente potrà giustificare il contenuto di un quesito. In altri termini, la dottrina del 2014 rivede, su questo punto, quella del 2010 e offrirebbe copertura alla domanda che nel 2010 è stata rigettata. La lettura aperta di ciò che si considera “ambito competenziale” è oggetto di discussione; peraltro, una particolare circostanza induce al pessimismo in ordine all’ipotesi di una condivisione della stessa da parte TC. Nel momento in cui il Parlament si è rivolto al Congresso per richiedere la delega di competenze ai sensi dell’art. 149.1.32 CE, ha riconosciuto che la competenza a convocare una consultazione referendaria era statale; adesso non ci si può attendere che si veda qualcosa di diverso da un referendum in una “consultazione non referendaria” utilizzata per fare la medesima cosa per la quale si richiedeva l’autorizzazione. In definitiva, nutro dubbi sul via libera, da parte del TC, alla legge sulle consultazioni non referendarie e, di conseguenza, sul decreto di convocazione che dovesse discenderne. c) Le via d’uscita e lo stallo politico. Nelle nostre previsioni, il Governo centrale impugnerà la legge sulle consultazioni e il decreto di convocazione. Immaginiamo che lo farà rapidamente e, senz’altro, invocherà l’art. 161.2 CE per ottenere automaticamente la sospensione di entrambi gli atti. Ciò genererà una grande frustrazione in Catalogna. Avremmo preferito che il Governo centrale, conformemente a quanto l’ordinamento giuridico gli consente, avesse assunto la responsabilità di convocare un referendum consultivo. Chiaramente d’intesa con le istituzioni catalane e con una domanda chiara, come nel caso della Scozia. In merito alle domande concordate il 12 dicembre 2013, riteniamo che non siano accettabili, neanche nell’ipotesi che potessero essere sottoposte alla cittadinanza in forme 65 federalismi.it |n. 22/2014 pienamente legali. Le ragioni le abbiamo illustrate: non sono formulate in termini chiari e rendono difficile la determinazione dell’opzione vincente. Qualunque soluzione comporti cambiamenti normativi esige l’abbandono di posizioni immobiliste che pietrificano l’ordinamento da parte di chi, grazie alle maggioranze parlamentari, può disporne. Su tale terreno può però muoversi soltanto la politica. Nel quadro odierno occorrerebbe convincere le maggioranze attuali, che non vogliono nessuna consultazione: vale a dire PP, PSOE e tutti coloro che, l’8 aprile 2014, hanno votato al Congresso contro la proposta del Parlament. In alternativa, il cambio di questo “blocco del rifiuto” può arrivare solo se nelle elezioni generali si forma una maggioranza disposta a sostenere l’espressione dell’opinione del popolo catalano. La mancanza di un accordo politico che porti ad un cambio normativo complica molto le cose. Non si può celebrare una consultazione contro la legalità poiché le conseguenze sono il disordine organizzativo e la carenza di credibilità dei risultati. I contrari all’indipendenza boicotteranno il voto, la polizia non collaborerà (come hanno preannunciato alcuni esponenti sindacali). I tribunali non disporrebbero di una base legale per offrire tutela ai diritti pregiudicati dall’applicazione, in via di fatto, di una legge catalana inapplicabile in punto di diritto. D’altra parte, optare per una dichiarazione unilaterale d’indipendenza senza un referendum previo discredita la coerenza di coloro che ora lamentano di non poter votare l’indipendenza, che si mostrerebbero disposti a proclamarla senza verificare la sussistenza di una maggioranza che la supporta. Il surrogato delle elezioni plebiscitarie non ci pare idoneo a prendere il posto del dibattito e del voto in una consultazione incentrata, specificamente e unicamente, sull’indipendenza. Infine, non risulta alcuna evidenza sul fatto che qualche leader internazionale di peso offra sostegno alla secessione. Interpretare l’assenza di critiche dirette come un appoggio tacito riteniamo rappresenti un eccesso di ottimismo. Finché non si dimostri il contrario, gli indipendentisti vogliono la secessione e, pertanto, sono indifferenti ai cambiamenti che può darsi il Regno di Spagna, da cui vogliono staccarsi. Qualunque riforma che intenda far cambiare posizione agli indipendentisti deve indirizzarsi ad essi. Devono essere tenute in conto le loro rivendicazioni e coloro che propongono le più svariate riforme sperando che attraggano gli indipendentisti non possono trattarli, come in alcuni casi accade, come fanatici e ignoranti. I riformisti non risolveranno nulla se evitano il confronto con i fautori dell’indipendenza o se disprezzano 66 federalismi.it |n. 22/2014 le loro ragioni. Le riforme, inoltre, devono essere credibili: è difficile che lo siano se si promette di fare ciò che, quando si poteva, non è stato fatto. Ad ogni modo, le soluzioni le proporranno gli attori politici esistenti. Non ve ne sono altri. Il punto di partenza di qualsiasi riforma dovrebbe essere il contenuto dello Statuto approvato in via referendaria dal popolo catalano. Prospettare innovazioni al ribasso rispetto a quei contenuti (così come configurati prima dei tagli della STC 31/2010) ci sembra inaccettabile. Dar spazio ad un’impostazione bilaterale, con una soluzione costituzionale specifica per la Catalogna (una sorta di quinta disposizione addizionale) può essere una soluzione; crediamo tuttavia preferibile, per evitare reticenze e guadagnare complicità, una riforma di segno federale che consenta a qualsiasi comunità autonoma che lo desideri di arrivare al medesimo livello di competenze riconosciute ai catalani. 2) La realtà catalana ha una sua specificità, come qualsiasi caso concreto. Si può dire, per quanto concerne la Catalogna, che essa mostra una chiara ambizione di autogoverno radicata nella storia. Si sottolinea spesso la peculiarità della società catalana che deriva dal fatto che il sistema dei partiti è sempre stato diverso da quello delle altre comunità autonome, almeno fino ad ora. Sul piano culturale, la lingua è un elemento fortemente definitorio dell’identità catalana. Maggioritaria o meno nell’uso, ciò che colpisce è la sua capacità di conservarsi come lingua minoritaria sebbene priva, fino a non molto tempo fa, di uno Stato e di un sistema educativo che ne facilitassero la sopravvivenza e la funzione integratrice. Anzi lo Stato, in alcune fasi, la ha perseguitata e ne ha bandito l’uso pubblico. Chi difende l’identità catalana non ritiene di imporla ma, piuttosto, di difendere un insieme di elementi simbolici e di strumenti di comunicazione accessibili a tutti, a prescindere dalla provenienza e dalla identità personale. Ovviamente, non tutti la pensano in questo modo: c’è anche chi crede che l’identità catalana provenga da un’imposizione. Costoro potrebbero ritenere a loro volta naturale e non imposta un’identità spagnola in cui la lingua catalana non ha alcun ruolo definitorio. La Costituzione non menziona la Catalogna e, pertanto, non la riconosce esplicitamente. Dal nostro punto di vista, né l’assenza di riconoscimento né il fatto che non le si attribuisca, direttamente, la connotazione nazionale hanno un rilievo significativo. Ci sembra più importante il livello di competenze e la congruità delle risorse necessarie per 67 federalismi.it |n. 22/2014 esercitarle. L’attuale formula costituzionale consente, e ci sembra positivo, che ogni Comunità autonoma si doti, se ritiene, della condizione di “nazionalità”. Qualcuno ritiene che ciò pregiudichi la singolarità della Catalogna e che un analogo effetto derivi dalla circostanza che altre Comunità autonome possano raggiungere il suo medesimo assetto competenziale. Non condividiamo questa opinione. Non riscontriamo sul punto una relazione di causa-effetto e, al contrario, scorgiamo delle opportunità in uno scenario in cui si possano generare alleanze tra Comunità autonome con interessi in comune con la Catalogna. Quanto alla volontà di difendere il carattere preferibilmente bilaterale delle relazioni tra la Catalogna e le istituzioni centrali dello Stato, riteniamo che non occorra né rinunciarvisi né che se ne debba fare una questione di principio. L’esperienza ci porta a pensare che tutti, quando possono, sfruttano le possibilità offerte da una relazione bilaterale. Proclamare quest’ultima come un dogma esclusivo rischia di portare ad una esclusione della Catalogna dal gioco multilaterale. Al di là di queste precisazioni, non avremmo difficoltà alcuna di fronte ad una revisione della Costituzione tesa al riconoscimento della Catalogna e di alcuni tratti definitori della sua identità, soprattutto se questo può contribuire alla funzione integratrice dell’ipotetica riforma. Al contrario, non ci sembra sufficiente che un simile riconoscimento operi quale mero elemento decorativo utilizzato per eludere, senza darvi risposta, le rivendicazioni relative alle competenze e al finanziamento. 3) Sono totalmente d’accordo con la prospettiva valorizzata dalla terza domanda del questionario. Le nuove tecnologie e la diffusione della conoscenza fanno sì che, in teoria, qualsiasi individuo abbia a portata di mano le informazioni necessarie per una valutazione consapevole sulle scelte politiche che si dibattono nei parlamenti. Da questo punto di vista, non si ha differenza qualitativa tra rappresentanti e rappresentati. Dalla prospettiva del funzionamento della democrazia, le nuove tecnologie aprono spazi inediti alla partecipazione diretta, che possono far perdere il senso tradizionale della rappresentanza. La realtà concreta è ovviamente più complessa: non è semplice formarsi un’opinione consapevole proprio per la qualità e la quantità di informazioni che circolano; il carattere istantaneo della decisione, che si può prendere premendo un tasto, deve spingere a ribadire l’importanza dei tempi della deliberazione. 68 federalismi.it |n. 22/2014 Resta comunque viva la percezione di avere a disposizione gli strumenti e dunque, potenzialmente, le conoscenze per decidere su qualsiasi tema. Che si accetti che vi sia un “diritto a decidere” è piuttosto naturale. E il diritto a decidere di una collettività riposa oggi sulla consapevolezza che gli individui che formano parte di un gruppo hanno della propria capacità di decidere. Certamente, dall’ottica che ci interessa, il diritto a decidere non può che intendersi come diritto all’autodeterminazione e come tale dovrebbe essere esplicitato: ciò che in definitiva è oggetto della decisione è l’indipendenza. Potrebbe essere ad ogni modo troppo tardi perché si faccia marcia indietro rispetto ad una formula che ha acquisito una forte popolarità. In questo scenario, negare il diritto a decidere equivale a difendere una causa persa in termini di valori dominanti. Sarebbe assurdo, d’altra parte, prescindere del tutto dai meccanismi istituzionali e dalle regole procedimentali indispensabili per la vita organizzata. Pertanto, è indispensabile incanalare l’aspirazione di tante persone che oggi hanno riempito pacificamente le strade [il riferimento è alla manifestazione tenutasi a Barcellona l’11 settembre 2014, data in cui è stato inviato il presente contributo, ndt]. 69 federalismi.it |n. 22/2014 Marc Carrillo* Catedràtic de Dret Constitucional Universitat Pompeu Fabra de Barcelona 1) In primo luogo, è necessario definire i termini della questione. Una consultazione sull'indipendenza della Catalogna significa attribuire ai cittadini catalani la capacità di decidere, attraverso un referendum, sul tipo di rapporto che vogliono avere con la Spagna; cioè se si desidera rimanere parte dello Stato spagnolo o separarsi da esso e creare un nuovo Stato. E questo non è altro che il diritto all'autodeterminazione. Secondo la Costituzione spagnola del 1978 (CE), le possibilità di referendum, ai sensi della Costituzione, sono tre: quello per la riforma, in alcuni casi, della Costituzione (artt. 167 e 168); quello per la approvazione e per la modifica degli Statuti di autonomia (artt. 151 e 152.2); quelli consultivi, diretti a tutti i cittadini, per le decisioni di particolare rilievo politico (art. 92). Il potere di convocare il referendum risiede esclusivamente nello Stato (art. 149.1.32). La Legge Organica 2/1980, del 18 gennaio, detta la disciplina giuridica di questi tre tipi di referendum. La domanda da porsi è se la Costituzione ammetta solo queste tre modalità o se non ne escluda altre, per quanto non espressamente previste. In questa direzione, si può sostenere che quello che la disposizione costituzionale non vieta esplicitamente non è implicitamente precluso. a) In questi termini, il referendum della Catalogna potrebbe avere una possibile copertura costituzionale, a partire da un'interpretazione estensiva dell'articolo 92 CE, che consenta di leggere la Costituzione nel senso che non esclude un referendum, in un ambito territoriale autonomico (regionale), sempre su proposta del Presidente del Governo statale. Come noto, non si tratta di una possibilità inusuale, dal momento che il diritto comparato mostra casi analoghi (Canada, Stati Uniti, Svizzera, Italia, Messico). Seguendo questo approccio, si dovrebbe modificare la menzionata Legge Organica 2/1980, del 18 gennaio, che disciplina il regime giuridico del referendum, in modo da inserire una quarta modalità di referendum * Testo consegnato il 12 novembre 2014. Traduzione dal castigliano di Laura Cappuccio. 70 federalismi.it |n. 22/2014 in ambito regionale, attraverso cui il Presidente del Governo possa consultare i cittadini, ad esempio della Catalogna, sul rapporto che desiderano avere con lo Stato. Successivamente, a seconda dei risultati di questo primo referendum, di carattere consultivo e dunque non vincolante, potrebbe essere presa in considerazione una riforma costituzionale affinché il soggetto della sovranità, che è unicamente il popolo spagnolo nella sua integrità, si pronunci, attraverso un altro referendum, su un eventuale modifica costituzionale che permetta di accogliere la decisione del popolo della comunità autonoma previamente consultata. Chiaramente, a seconda della decisione emersa da entrambe le consultazioni, sarebbe poi necessaria una negoziazione politica tra lo Stato e la Catalogna per trovare il modo migliore per implementarla. b) Una seconda possibilità si basa sulla delega della competenza esclusiva dello Stato a convocare un referendum autonomico. Infatti, l'articolo 150.2 CE prevede che lo Stato possa trasferire o delegare alle Comunità Autonome (CCAA), mediante legge organica, le facoltà corrispondenti a materie di competenza statale che per loro natura siano suscettibili di trasferimento o delega1. La questione di rilevanza costituzionale che implica tale possibilità riguarda il limite stabilito dalla Costituzione, relativo alle materie che "per loro natura sono suscettibili di trasferimento o delega". Se l’articolo 150.2 è stato utilizzato più volte per trasferire competenze alle Comunità Autonome, la giurisprudenza del Tribunal Constitucional non ha avuto modo di offrire precise linee interpretative su quali materie non possano in nessun caso essere trasferite o delegate in quanto parte di quelle che potrebbero essere intese come facoltà innate dello Stato, unico soggetto giuridico sovrano. Tuttavia, è più che probabile che tra queste facoltà si trovi la competenza per celebrare un referendum di autodeterminazione in una Comunità Autonoma. Ciò in quanto tale referendum è destinato, per sua natura, a mettere in discussione l'integrità del principio di sovranità. Una situazione diversa si presenterebbe se l’oggetto del referendum (domanda, procedura, ecc.) fosse il risultato di una previa negoziazione politica tra lo Stato e la Comunità autonoma, che prima facie evitasse di mettere in discussione l'unità del principio di sovranità. Questa è una possibilità che è stata già proposta da diversi parlamentari catalani alla Congresso dei deputati, ed è stata da questo respinta. 1 71 federalismi.it |n. 22/2014 c) Le prime due opzioni sono offerte dal diritto costituzionale dello Stato. Una terza possibilità è quella che, formalmente, offre il diritto regionale catalano che, come altre Comunità autonome, ha adottato una legge per le consultazioni popolari da realizzarsi all'interno delle loro competenze. Si tratta della Legge del Parlamento della Catalogna 4/2010, del 17 marzo, sulle consultazioni popolari per via di referendum2; anche in questo caso, trattandosi di referendum, la domanda deve essere autorizzata dallo Stato. Come nell’ipotesi precedente, la possibilità di utilizzare questa legge per una consultazione dei cittadini della Catalogna sul loro futuro rapporto con lo Stato richiederebbe, ovviamente, un accordo preventivo sul tipo di domanda. Dal momento che la richiesta di un referendum di autodeterminazione non è di competenza delle Comunità Autonome, esso sarebbe inoltre possibile solo attraverso una previa modifica della Costituzione. Ma prima di arrivare a questo, la legge catalana - come anche le altre due vie per una consultazione, percorribili in base alla Costituzione - consente soluzioni intermedie per cercare di risolvere un conflitto di carattere puramente politico, come è la questione della posizione della Catalogna all’interno della Spagna dopo più di 35 anni dal ripristino della democrazia. d) Una quarta possibilità, apparsa nel dibattito giuridico catalano, è stata fornita dalla nuova legge regionale sulle consultazioni recentemente approvata. Si tratta della Legge 10/2014, del 26 settembre, sulle consultazioni popolari non referendarie e sulle altre forme di partecipazione dei cittadini 3 . Tuttavia, nonostante il nome utilizzato ("consultazioni popolari non referendarie"), si tratta di un referendum mascherato. Di conseguenza, attraverso questa legge, il Governo catalano non ha il potere di convocare una consultazione per consentire ai cittadini della Catalogna di decidere che tipo di rapporto desiderano avere con la Spagna. Questo, a mio avviso, per le seguenti ragioni4. 2 Questa legge regionale è stata impugnata dal Governo dello Stato mediante un ricorso di incostituzionalità, con effetti sospensivi in virtù della misura cautelare automatica prevista dall’art. 161.2 CE. In seguito, il TC mediante auto 87/2011, del 9 giugno - ha rimosso la sospensione e, pertanto, attualmente la legge è vigente. È ancora pendente, invece, la decisione sulla fondatezza del ricorso. 3 Anche questa legge regionale è stata impugnata dal Governo dello Stato attraverso un ricorso di incostituzionalità, con effetto sospensivo in applicazione della misura cautelare automatica prevista dall'articolo 161.2 CE. Al momento di rispondere a tale questionario, la Corte costituzionale non si è pronunciata sulla misura cautelare né, ovviamente, nel merito del ricorso. 4 I miei argomenti di divergenza sulla costituzionalità di questa legge sono sviluppati nel parere dissenziente che ho formulato nel dictamen del Consell de Garanties Estatutàries de Catalunya 19/2014, del 19 agosto 2014 (www. Cge.cat). 72 federalismi.it |n. 22/2014 L'articolo 3.1 della legge 10/2014, relativa alla nozione e alle modalità di realizzazione delle consultazioni non referendarie, stabilisce: "1. Si intende per consultazione popolare non referendaria la convocazione da parte delle autorità competenti, in conformità alle disposizioni della presente legge, delle persone legittimate in ogni singolo caso a esprimere, attraverso il voto, la propria opinione su una certa azione o decisione pubblica». Vanno innanzitutto sottolineati, nella formulazione letterale di questa disposizione, due elementi essenziali utilizzati per definire la particolarità della consultazione popolare non referendaria: in primo luogo, la manifestazione di una "opinione" su una particolare azione, o decisione pubblica, da parte dei soggetti legittimati a farlo; in secondo luogo, il fatto che la manifestazione di questa opinione venga espressa "con il voto." Formalmente appaiono due concetti di rilevanza giuridica che presentano un significato diverso. Fare conoscere la propria opinione non è altro che la manifestazione del diritto fondamentale alla libertà di espressione. Al contrario, esprimere una posizione personale su un tema attraverso il voto è la manifestazione del diritto di partecipazione. In questo caso, ci troviamo di fronte al diritto fondamentale di partecipazione politica (art. 23 CE), e la partecipazione si articola attraverso le elezioni degli organi rappresentativi o, più raramente, direttamente attraverso referendum. Quindi, una cosa è la libertà di opinione, che è un diritto di libertà che garantisce un’azione del titolare - esprimere opinioni – o, al contrario, la decisione di non farlo (STC 153/2000); cosa molto diversa è la partecipazione politica, che è una forma di partecipazione dei cittadini in cui si manifesta la sovranità popolare e che si esercita, di solito, attraverso le elezioni degli organi di rappresentanza, oppure, in modo meno abituale, con un referendum (STC 119/1995). In base a queste considerazioni preliminari, il paragrafo 1 dell'articolo 3 della legge non sta definendo le consultazioni popolari non referendarie come forma di libertà di espressione, attraverso la quale i cittadini esprimono il loro parere su una certa azione, decisione o politica pubblica. Ciò che viene regolato è il diritto di partecipazione, che è un diritto molto diverso. Non si sta regolando la libertà di espressione, in quanto il diritto fondamentale alla libertà di espressione richiede non solo la volontà imprescindibile del suo titolare, sia per esprimere un opinione o un pensiero, sia per non farlo, ma di solito ha anche bisogno di strumenti, come i mezzi di comunicazione (art. 20 CE), le riunioni, le manifestazioni pubbliche (art. 21 CE), le associazioni (art. 22 CE), etc. Così, quando lo strumento 73 federalismi.it |n. 22/2014 attraverso cui si manifesta l’opinione è il voto, non si sta esercitando la libertà di espressione, ma il diritto di partecipazione attraverso le elezioni. A questo punto, dobbiamo ricordare la giurisprudenza costituzionale (STC 103/2008, FJ 2) su ciò che si intende per referendum. Il TC lo definisce non come una sorta di consultazione popolare, che può essere concepita come un modo per raccogliere i pareri dei cittadini su tutte le questioni di interesse pubblico e con qualsiasi mezzo, ma come “quella consultazione il cui oggetto si riferisce strettamente al corpo elettorale [corpo espressione della volontà del popolo (STC 12/2008, del 29 gennaio, FJ 10)] conformato ed esteriorizzato attraverso un processo elettorale che si basa sul censo, gestito dalla amministrazione elettorale e assicurato da garanzie giudiziarie speciali”. In base a questo parametro giurisprudenziale, che certamente si basa su una concezione organica e procedurale dell'istituto della partecipazione diretta, il paragrafo 1 dell'articolo 3 prescrive una convocazione generale dell'elettorato affinché si manifesti attraverso il voto. Questo convocazione è accompagnata, nelle seguenti sezioni della legge, da un regime giuridico specifico, proprio del processo elettorale, attraverso l’intervento di un’amministrazione creata per questo scopo e, anche se non vengono regolate per mancanza di competenza, non si possono escludere le garanzie giurisdizionali. Pertanto, le differenze rispetto a quello che il TC (sentenza 103/2008) definisce come referendum (convocazione degli elettori perché si pronuncino attraverso il voto, presenza di una amministrazione elettorale per organizzare e controllare il processo, garanzie giurisdizionali) non sono essenziali per distinguere la consultazione non referendaria regolata dalla legge catalana da ciò che la giurisprudenza considera un referendum. Di conseguenza, la legge si discosta dalla giurisprudenza del TC ed è in contrasto con la Costituzione, che stabilisce che quando si tratta di un referendum la competenza appartiene allo Stato (art. 149.1.32 CE). In realtà, ciò che la legge 10/2014 sta regolando è un referendum nascosto, utilizzando semplicemente una diversa denominazione e, dunque, senza avere la competenza per farlo. e) Un’ultima possibilità per organizzare una consultazione sul cosiddetto diritto a decidere dei catalani è, secondo un rapporto pubblicato dal Consiglio consultivo per la transizione nazionale, la convocazione da parte del Presidente della Generalitat di elezioni a carattere plebiscitario. Attraverso questa singolare strada, si trasformerebbero delle normali elezioni 74 federalismi.it |n. 22/2014 regionali in una consultazione della popolazione sull'indipendenza. Questa opzione crea difficoltà teoriche e pratiche. In effetti, da un punto di vista teorico, convertire le elezioni del Parlamento in un plebiscito risulta quanto meno contraddittorio, dal momento che il plebiscito è un referendum nel quale si convocano gli elettori per dare la loro adesione o rifiuto a un leader o dirigente politico. Diversamente le elezioni, in un contesto di pluralismo politico, si sostanziano nell’invito agli elettori a votare su diversi programmi politici. In realtà, la scelta delle elezioni plebiscitarie è una soluzione di carattere strumentale perché tradisce il senso delle elezioni pluralistiche, trasformandole in una scelta binaria. La decisione degli elettori si dividerebbe tra i partiti che inseriscono nel loro programma una futura dichiarazione di indipendenza e tra quelli che la rifiutano. La somma dei voti espressi per entrambe le opzioni sarebbe il risultato dell’ipotetico plebiscito che potrebbe aprire la porta a una dichiarazione unilaterale di indipendenza. Dal punto di vista pratico, la soluzione migliore per questa opzione sarebbe costituire due liste unitarie rispettivamente pro e contro l’indipendenza. Tenendo in considerazione la struttura plurale del sistema partitico, mi sembra una strada molto difficile da realizzare. 2) Le rivendicazioni politiche della Catalogna hanno basi storiche e non possono essere ridotte alla richiesta di un migliore sistema di finanziamento. Il secessionismo catalano non si fonda solo su considerazioni di ordine economico, ma anche storico, politico e culturale. In Spagna, la transizione politica verso la democrazia dopo la caduta di Franco è stata simboleggiata in Catalogna, sin dalle prime elezioni democratiche del 15 giugno 1977, con tre parole, che ricorrevano nelle manifestazioni politiche contro il dittatore svolte dall’opposizione democratica: libertà, amnistia e statuto di autonomia. Dopo il ripristino delle libertà pubbliche e l'amnistia per i prigionieri politici, la conditio sine qua non per la costituzione e il consolidamento della democrazia spagnola è stata la risoluzione della controversia storica relativa all'inclusione della Catalogna e dei Paesi Baschi nel nuovo sistema democratico. Nella costruzione dello Stato spagnolo contemporaneo, agli inizi del XIX secolo, la Catalogna ha sempre espresso una specifica identità politica che viene in realtà da molto lontano, attraverso l’istituzione di autogoverno della Generalitat e l’esistenza di un Parlamento di origine medievale. Una identità politica che si basa su fattori non solo 75 federalismi.it |n. 22/2014 economici, ma anche culturali e linguistici, in particolare attraverso la difesa del catalano come lingua propria. Nel 1977, la domanda di autonomia politica non era pertanto nuova. La personalità politica della Catalogna non è nata con la Costituzione del 1978. Essa ha antecedenti storici che, nel corso del XX secolo, si trovano nella creazione della Mancomunitat de Diputacions del 1914 (una istituzione amministrativa decentrata) e nello Statuto di autonomia del 1932, approvato durante il periodo della Seconda Repubblica spagnola (1931-1939), poi abrogato nel 1938 con l’avvento della dittatura di Franco, nella fase finale della guerra civile (1936-1939). Con l'adozione della Costituzione del 1978, si posero la basi costituzionali dell’autonomia politica. Nel 1979 è stato approvato lo Statuto di autonomia politica dei Paesi Baschi e della Catalogna. Ma se inizialmente l'autonomia regionale ottenuta era significativa, l’indistinta apertura del processo di regionalizzazione, con la creazione di 17 comunità autonome (la maggior parte senza identità politica e tradizioni di autogoverno) ha fatto sì che le possibilità offerte dal titolo VIII della Costituzione fossero ridotte attraverso un'interpretazione molto restrittiva dell’autonomia regionale, assecondata delle leggi approvate dalle Cortes Generales. Per questo motivo, durante gli anni del sistema democratico, il livello di autonomia raggiunto in Catalogna è stato percepito come insufficiente e insoddisfacente, tale da far ritenere che il risultato finale sia quello di una autonomia politica di bassa qualità. Per cambiare questo stato di cose, nel 2006 il Parlamento della Catalogna e il Parlamento statale hanno approvato, congiuntamente, un nuovo Statuto, poi ratificato da un referendum dei cittadini della Catalogna. Si trattava di un nuovo patto politico con la Spagna democratica che, soprattutto, cercava di garantire l'integrità delle competenze rispetto alla vis espansiva mostrata dalla legge dello Stato, che aveva ridotto gli spazi di decisione politica del legislatore regionale. Ma la legge del Parlamento 6/2006 del 19 luglio, che ha approvato il nuovo Statuto, è stata impugnata davanti al TC dal Partido Popular (PP) e da cinque regioni autonome (4 governate dal PP e 1 dal Partito socialista). La STC 31/2010 ha dichiarato incostituzionali alcuni articoli dello Statuto; nel suo complesso, il carattere interpretativo della sentenza ha però comportato una disattivazione generale degli effetti della riforma. Si neutralizzò così il nuovo patto politico. 76 federalismi.it |n. 22/2014 Dal punto di vista giuridico, si noti che, con la STC 31/2010, il TC ha dovuto, per la prima volta, giudicare uno Statuto di autonomia nel suo complesso. E, oltretutto, uno Statuto che era stato approvato in un referendum della popolazione della Comunità autonoma. Il risultato è stato una sentenza formalmente estesa, ma nella sostanza breve, soprattutto per la stringatezza delle argomentazioni. In effetti, gli argomenti sono costruiti con formule perentorie che non tollerano obiezioni; il loro tenore è risulta fortemente apodittico. Aspetti deludenti, soprattutto se si considera che la riforma dello statuto presupponeva una evidente novità giuridica rispetto agli statuti che avevano dato inizio allo Stato delle autonomie. Inoltre, con la logica di attenersi a ciò che è stato già oggetto di interpretazione da parte del TC, la stragrande maggioranza degli argomenti giuridici proposti risultavano basati sul ripetitivo riferimento ai precedenti giurisprudenziale che, così, vengono a rappresentare una sorta di canone codificato. Posto di fronte alle novità giuridico-normative dello Statuto catalano, il TC declina la sfida di interpretarli alla luce del cambiamento espresso dal nuovo atto come parte del blocco di costituzionalità; l’organo preferisce rifugiarsi nei suoi precedenti ma in modo strumentale, dal momento che ha evitato di richiamarli integralmente. Viene così a negare la natura complementare dello Statuto rispetto alla Costituzione, riconosciuto nella STC 247/2007 (LC 6) sulla riforma dello Statuto della Comunità Valenziana. Diversamente, la STC 31/2010 declassa il rango giuridico dello statuto e respinge l’idea che lo stesso possa assurgere a parametro di costituzionalità per la delimitazione delle competenze: questa posizione viene riconosciuta alla sola Costituzione e alla giurisprudenza del TC. Si afferma così la discutibile teoria che concepisce la giurisdizione costituzionale come delegato del potere costituente, dimenticando che essa è pur sempre un potere costituito, con il compito di interpretare la Costituzione e, nel caso della Spagna, il blocco di costituzionalità composto dal binomio Costituzione-Statuti. La sentenza ha anche espresso una sostanziale diffidenza nei confronti della riforma statutaria; diffidenza che appare in maniera evidente sulle questioni relative agli elementi simbolici o della lingua, nei quali si vogliono intravedere obiettivi nascosti. L’esempio più significativo di tale atteggiamento si ritrova senz’altro nella scelta di dichiarare nel dispositivo l'assenza di efficacia giuridica dei riferimenti del preambolo alla "Catalogna come nazione" e alla "realtà nazionale della Catalogna". 77 federalismi.it |n. 22/2014 Un altro aspetto, di ordine processuale, di decisiva importanza è rappresentato dal ricorso alla decisione interpretativa. Come è noto, alcune esiti interpretativi sono stati inserite nel dispositivo in modo esplicito. La verità è che, in una buona parte della sentenza (in particolare quella relativa al cruciale titolo IV, riferito alle competenze) si è risolto il contenzioso relativo a ciascuna disposizione attraverso formule interpretative che, seppure non incorporate nel dispositivo, risultano falsamente o vergognosamente interpretative: il loro effetto pratico, per richiamare un'espressione già utilizzata, non è altro che quello della disattivazione del campo di applicazione della riforma statutaria. Infine, è davvero sorprendente che nella sentenza sulla costituzionalità della riforma statutaria non si tenga conto, in nessun momento, dell’iter previsto dalla Costituzione per l'approvazione: una volta deliberata dal Parlamento, la proposta è stata sottoposta ad un referendum, attraverso cui i cittadini della Catalogna lo hanno ratificato a larga maggioranza. L'impatto che l'esercizio di questo strumento di partecipazione politica diretta, quale fattore aggiuntivo di legittimità politica dello Statuto, non è stato considerato dal TC nella sua sentenza. Cosa che sorprende, dato che il TC non può non tener presente un principio di deferenza verso il legislatore da cui proviene l’atto sottoposto al suo giudizio. In questo particolare caso si ha di fronte una legge organica che ha dato forma allo statuto previamente approvato in via referendaria. Una legge organica, dunque, molto più rigida rispetto a qualsiasi altra. Al di là del maggiore o minore numero di articoli colpiti da una dichiarazione di incostituzionalità o da una formula interpretativa (incorporata o meno nel dispositivo), la realtà dei fatti è che la STC 31/2010 ha snaturato la riforma statutaria nel suo complesso. A partire da questa infelice decisione, la Costituzione del 1978, che era stata approvata con entusiasmo dai cittadini della Catalogna come strumento giuridico per facilitarne l’integrazione nella Spagna democratica, ha smesso di essere un punto di riferimento politico. Ed è da questa sentenza che inizia l’attuale processo "sobiranista" di incerto futuro. 3) Il concetto del c.d. "diritto a decidere" è volutamente ambiguo e di per sé non ha alcun significato costituzionale. Giuridicamente non ha alcun senso. L'uso costante nel dibattito e nelle strategie politiche dei partiti mostra un carattere strumentale. In realtà, ciò che con 78 federalismi.it |n. 22/2014 questo concetto si intende è qualcosa che non è detto espressamente, ma si trova alla base di ogni discussione: l'esercizio del diritto all'autodeterminazione. In questo senso, il "diritto a decidere" è molto legato alle peculiarità del processo politico in atto in Catalogna, essendo diretto a esprimere il desiderio di una parte della popolazione di essere convocata in una consultazione/referendum per pronunciarsi sul futuro di questa Comunità autonoma e sulla sua relazione con lo Stato spagnolo. Per questo motivo, ritengo che la nozione non possa iscriversi in un contesto di tensione tra le diverse forme di partecipazione politica. È chiaro, tuttavia, che la crisi economica ha generato in Catalogna un senso di sfiducia verso i partiti tradizionali e che, secondo recenti sondaggi, possono emergere nuove forze politiche (ad esempio Podemos) che, soprattutto nel campo della sinistra tradizionale, pretendono di occupare il loro spazio. Ribadisco ancora una volta: il tema del "diritto a decidere" obbedisce a mio parere ad una logica peculiare del contesto catalano, che lo pone al margine dalle tensioni tra i modelli di partecipazione democratica. 79 federalismi.it |n. 22/2014 Víctor Ferreres Comella* Professor de Dret constitucional Universitat Pompeu Fabra de Barcelona 1) La Costituzione spagnola afferma chiaramente, all'articolo 149.1.32, che è competenza esclusiva dello Stato l’autorizzazione della "consultazione popolare tramite referendum." Questo significa, senza dubbio, che non è possibile per una Comunità Autonoma organizzare un referendum, sul qualunque tema, senza l'autorizzazione dello Stato. La prima domanda è se lo Stato potrebbe concedere tale autorizzazione per consentire che si svolga in Catalogna un referendum in cui i cittadini catalani diano il loro parere sul futuro status della Catalogna, includendo tra le possibilità l'indipendenza. Su questo tema vi è un dibattito aperto. Se guardiamo la dottrina Tribunal constitucional (TC) nella sentenza 103/2008, la risposta è negativa. Secondo il TC non è possibile indire un referendum il cui oggetto incida sulle fondamenta dell'ordine costituzionale. Infatti, se la decisione che si vuole adottare con un referendum richiede una riforma costituzionale, si deve procedere per questa via, seguendo la procedura di cui agli articoli 166-169 della Costituzione. In base a questi articoli, il processo di riforma si articola essenzialmente in due fasi: una prima, in cui si raggiunge un accordo a maggioranza qualificata; una seconda, in cui si ottiene la ratifica popolare attraverso un referendum. Secondo il TC, non è possibile modificare tale procedura introducendo un referendum iniziale, che precede le due fasi richiamate. Anche se si tratta di un referendum consultivo, non è costituzionalmente corretto convocarlo, in quanto ciò significa aggiungere un elemento non previsto nel processo di riforma regolato dalla Costituzione. Questo approccio del TC può apparire formalistico, ma in realtà non lo è. Dal punto di vista politico, è ovvio che non è la stessa cosa che i rappresentanti politici negozino un accordo (che viene poi rimesso ai cittadini per la ratifica) rispetto all’ipotesi inversa, ossia chiedere prima ai cittadini e, successivamente, negoziare l’accordo. I rappresentanti politici * Testo consegnato l’8 novembre 2014. Traduzione dal castigliano di Laura Cappuccio. 80 federalismi.it |n. 22/2014 hanno poco spazio per negoziare una decisione, se il popolo si è già pronunciato sulla questione di fondo. Tenuto conto di questa tesi negativa, si è sostenuto che la dottrina del TC dovrebbe essere più flessibile nel caso estremo della secessione. Sarebbe irragionevole riformare prima la Costituzione spagnola per consentire la secessione della Catalogna, e chiedere poi ai catalani, in un secondo momento, se vogliono la secessione dalla Spagna. La cosa più sensata sarebbe quella di sentire prima il parere dei catalani, attraverso un referendum consultivo, e solo dopo procedere ai negoziati tra i rappresentanti politici spagnoli e catalani, per affrontare la situazione politica determinata dall’esito della consultazione nel caso di un risultato favorevole all'indipendenza. A tal fine dovrebbe ricorrersi ad una modifica costituzionale, che servirebbe a guidare verso l'indipendenza della Catalogna. Personalmente, penso che questa tesi è difendibile di fronte alla tesi contraria. Una seconda questione sollevata è la seguente: se lo Stato non accorda l’autorizzazione necessaria a convocare un referendum sull'indipendenza della Catalogna, cosa può fare il Governo catalano per conoscere il parere dei cittadini? Come è noto, il Parlamento catalano ha approvato, nel settembre del 2014, una legge sulle "consultazioni non referendarie". Il Presidente della Generalitat ha tilizzato questa legge per convocare una consultazione dei cittadini sull’ indipendenza della Catalogna, da celebrare il 9 novembre 2014. Lo ha fatto, naturalmente, senza autorizzazione statale. Sia la legge sia il decreto di convocazione sono stati impugnati dal Governo dello Stato dinanzi al TC, che ne ha disposto, su richiesta del Governo, la sospensione temporanea. A mio avviso, la "consultazione non referendaria" che il Governo catalano ha inteso portare avanti è chiaramente incostituzionale; e credo che in tal senso si pronuncerà, nel merito, il TC. Risulta chiaro che la "consultazione non referendaria" nasconde un vero e proprio referendum. Se per celebrare un referendum è necessaria l’autorizzazione dello Stato, non si può evitare questo ostacolo con la creazione di una nuova figura, "la consultazione non referendaria", che non avrebbe bisogno di quella medesima autorizzazione. Quale differenza di rilievo esiste tra un referendum e una semplice consultazione sull'indipendenza della Catalogna? Nessuna. Nella consultazione sull'indipendenza si chiede al popolo una opinione su un problema politico di particolare importanza, proprio come in un referendum. La consultazione non è vincolante (è solo "consultiva"), proprio come il referendum ordinario, che la Costituzione qualifica 81 federalismi.it |n. 22/2014 esplicitamente come "consultivo" (art. 92). A garanzia del processo di consultazione, si creano alcuni organismi di controllo indipendenti, simili a quelli che garantiscono un referendum. Gli organi non sono esattamente gli stessi, ma sono molto simili nella struttura e nello scopo. Infine, la consultazione coinvolgerebbe i cittadini maggiorenni, come avviene in un referendum. È vero che, oltre ai cittadini che hanno raggiunto la maggiore età, alla consultazione possono partecipare anche coloro che hanno più di 16 anni, così come i cittadini stranieri che soddisfano determinati requisiti. Ma questa differenza è irrilevante al fine di difendere la costituzionalità della consultazione: è ovvio che, se si richiede l'autorizzazione dello Stato per organizzare un referendum in cui sono coinvolti i cittadini maggiorenni, a maggior ragione tale autorizzazione è richiesta se si intende svolgere una consultazione in cui partecipano questi medesimi cittadini e anche altri gruppi sociali. Ricordiamo che nel referendum per l'indipendenza scozzese (svoltosi nel settembre 2014) hanno potuto votare coloro che avevano raggiunto i 16 anni di età, normalmente esclusi dal voto alle elezioni ordinarie. Nessuno dubita che, nonostante questa singolarità, si sia trattato di un vero e proprio referendum. Alla luce di quanto detto, ritengo che il Governo catalano, per ottenere il parere dei cittadini sulla indipendenza della Catalogna, dovrebbe (nel caso lo Stato si rifiutasse di autorizzare un referendum) ricorrere alle elezioni. La democrazia spagnola non è una democrazia "militante", come ha più volte affermato il TC. Ciò significa, tra le altre cose, che i programmi elaborati dai partiti politici quando si presentano alle elezioni sono validi qualunque sia il loro contenuto, anche se in contrasto con la Costituzione vigente; a condizione, naturalmente, che vi sia l’ impegno a rispettare le regole del gioco, tra cui vi sono quelle che disciplinano la revisione costituzionale. Pertanto, non vi è alcun problema per i partiti politici ad includere nei loro programmi l'opzione pro-indipendenza. Dal ripristino della democrazia spagnola, si sono svolte in Catalogna decine di elezioni (locali, regionali e generali). Sono stati pochi i partiti che hanno incorporato l'indipendenza nelle loro proposte politiche e il sostegno che hanno ricevuto è sempre stato minoritario. Per misurare la forza della corrente indipendentista attualmente presente nella società catalana, la cosa migliore sarebbe che i partiti dichiarassero la loro posizione su questo tema nei programmi elettorali. Attraverso le elezioni si potrebbe sapere con certezza qual è il grado di sostegno popolare su cui può fare affidamento il movimento indipendentista. Simili elezioni possono essere 82 federalismi.it |n. 22/2014 tenute in anticipo, se il presidente della Generalitat catalana scioglie il Parlamento prima della scadenza del suo mandato. Ma si potrebbe anche aspettare la fine della legislatura. I partiti per l’indipendenza possono unirsi in un'unica lista elettorale, oppure possono agire separatamente. Ciò che è importante è che dichiarino in modo chiaro ai cittadini qual è la loro posizione sul tema della secessione. Pertanto, non è corretto dire che, secondo la Costituzione spagnola, i catalani non sono autorizzati a un "voto" su questo aspetto. Se tali elezioni avessero luogo e i partiti politici che, esplicitamente e categoricamente, hanno accolto nei loro programmi l’opzione indipendentista raccogliessero il maggior numero di voti, si aprirebbe allora un tempo politico nuovo. A seguito dei negoziati, il Governo catalano potrebbe accordarsi con lo Stato per un referendum sul futuro status della Catalogna. In quel referendum, le opzioni potrebbero anche non essere soltanto “sì” o “no” all'indipendenza. A mio parere, andrebbe inclusa anche una terza opzione: un nuovo assetto istituzionale che permetta di mantenere comunque la Catalogna all’interno della Spagna. 2) È difficile stabilire quali siano le peculiarità del movimento indipendentista catalano rispetto ad analoghi movimenti di altri paesi. Possiamo richiamare alcuni degli argomenti indipendentisti prospettati in Catalogna. A volte, le forze politiche e sociali che sostengono la secessione affermano che l'indipendenza è l'unica soluzione politica alla "questione catalana", tenendo conto dei "torti" subiti da parte dello Stato spagnolo. L'elenco delle recriminazioni è eterogeneo. Una parte delle critiche riguarda il sistema di finanziamento e il livello di investimenti statali in Catalogna. La denuncia, in sintesi, è che la Catalogna è assoggettata dallo Stato ad un regime finanziario penalizzante; una Catalogna indipendente sarebbe dunque più prospera. È controversa, tuttavia, la misura in cui si può considerare ingiusto il trattamento fiscale della Catalogna; così come non è affatto chiaro quali siano, dal punto di vista economico, i vantaggi e gli svantaggi di una Catalogna indipendente. Non c’è infatti consenso tra gli esperti nel valutare questi aspetti. Grande rilievo assume anche la controversia in ordine alla possibilità, per una Catalogna indipendente, di continuare a far parte dell'Unione Europea. L'indipendenza perde molto sostegno se la secessione della Catalogna comporta la sua fuoriuscita dall'Unione, anche solo per un periodo transitorio. 83 federalismi.it |n. 22/2014 Altre rivendicazioni riguardano la lingua catalana. L’indipendentismo lega la conservazione della lingua catalana alla creazione di uno Stato proprio. Solo uno Stato indipendente, si dice, può garantire il mantenimento del catalano, data l'ostilità mostrata nei suoi confronti dallo Stato spagnolo. Ritengo questa critica molto esagerata. È vero che le autorità statali e gli attori politici potrebbero fare molto di più per riconoscere e coltivare il pluralismo linguistico che esiste in Spagna. Ma non possiamo dimenticare che il TC, ad esempio, ha confermato la legittimità costituzionale, a determinate condizioni, della politica di “'immersione linguistica” che si svolge nelle scuole pubbliche catalane, così come in quelle di altre Comunità Autonome con una propria identità linguistica. Il TC, infatti, ha dichiarato che i genitori non hanno il diritto di rifiutare, per i loro figli, i programmi di immersione linguistica in catalano che viene sviluppato nelle scuole pubbliche. Ha inoltre dichiarato che questa politica può consistere nel fatto che il catalano sia il "centro di gravità" dell’insegnamento, in modo tale che la maggior parte delle materie siano insegnate in catalano. Ciò che non è possibile, secondo il TC, è che non si usi anche il castigliano come lingua di insegnamento, anche se in una percentuale minore. In pratica, nella maggior parte delle scuole pubbliche della Catalogna, tutte le materie sono insegnate in catalano, tranne ovviamente le materie di lingua e letteratura spagnola. In questo momento si discute sull’opportunità che il castigliano sia utilizzato in più materie, mantenendo la centralità del catalano. Non sembra pertanto ragionevole sostenere che lo Stato spagnolo mostri ostilità nei confronti della lingua catalana, semplicemente per il fatto di insistere su una maggiore presenza del castigliano nelle scuole, ma pur sempre in una minoranza di insegnamenti. Un altro argomento addotto a sostegno dell'indipendentismo e quello relativo al riparto delle competenze tra lo Stato e la Generalitat. Si considera che il livello di autogoverno di cui gode oggi la Catalogna non sia sufficiente e che lo Stato tende ad invadere le competenze della Generalitat. In particolare, si sostiene che la Catalogna abbia provato ad estendere i suoi spazi di autogoverno attraverso lo Statuto di autonomia del 2006, un atto che il TC ha parzialmente invalidato perché andava oltre quanto consentito dalla Costituzione (STC 31/2010). A seguito di tale sentenza, secondo i separatisti, non ci sarebbe alternativa alla secessione. Questa critica fa riferimento a un problema reale. Il TC è intervenuto sullo Statuto del 2006 a difesa della Costituzione; è chiaro però che la Costituzione può essere riformata per consentire il grado di autonomia che quel medesimo 84 federalismi.it |n. 22/2014 Statuto avrebbe voluto offrire. La riforma costituzionale, dunque, può essere una valida alternativa politica alla secessione. In alcuni casi, l'indipendentismo non ritiene necessario articolare una lista di rimostranze per giustificare la separazione della Catalogna. Gli indipendentisti fanno riferimento al "diritto a decidere": una comunità politica, sostengono, ha il diritto di decidere se permanere all'interno della comunità più ampia alla quale appartiene o se separarsi da essa. Non c'è bisogno di motivazioni. È una questione di pura volontà (magari legata a questioni identitarie). Questa posizione, a mio parere, minimizza troppo le conseguenze legate ad una ricostruzione del problema in termini di semplice scontro tra identità e sentimenti. Si può discutere, in modo razionale, su un elenco di rivendicazioni; non c'è invece niente di cui parlare quando si pongono in primo piano i sentimenti identitari. Una società tanto complessa come quella catalana, in cui la stragrande maggioranza dei cittadini ritiene di possedere una doppia identità (spagnola e catalana), non può facilmente sopportare un processo di polarizzazione intorno alla questione dell'indipendenza. L'altra questione che solleva l’invocazione del "diritto a decidere" concerne fondamenti di tale diritto. Perché si afferma che la Catalogna ha il diritto di decidere su di una possibile separazione dalla Spagna? Il movimento indipendentista spesso sostiene che la Catalogna ha il diritto di decidere perché è una nazione. Il diritto a decidere viene così collegato al principio di nazionalità, in base al quale le nazioni hanno il diritto ad un proprio Stato. Questa posizione si pone in contrasto con alcune tesi sostenute da un settore importante del movimento per l'indipendenza, che crede che la nazione che rileva siano "I Paesi Catalani", comprendenti (oltre la Catalogna) Valencia, le Isole Baleari e i territori del sud della Francia. Se i Paesi catalani sono la vera nazione, non si dovrebbero pronunciare sull’indipendenza tutti i cittadini che ne fanno parte? Si dovrebbe rispondere che la Catalogna, come frammento della nazione più grande, può decidere la sua indipendenza dalla Spagna anche se non lo fanno gli altri frammenti. Ma allora dovrebbe essere consentito, anche entro la Catalogna, la possibilità di procedere ad una ulteriore frammentazione. E invece si presuppone che una Catalogna indipendente non dovrebbe riconoscere il diritto di secessione di uno dei suoi territori. In altre occasioni, l'indipendentismo catalano dissocia il diritto a decidere dal principio della nazionalità. Si afferma che il diritto a decidere lo ha la Catalogna, non perché la Catalogna 85 federalismi.it |n. 22/2014 sia una nazione, ma per ragioni di democrazia: se la maggioranza dei catalani vuole che la Catalogna sia uno Stato indipendente, occorre rispettare questa volontà. Il problema di un simile argomento è che il diritto di scegliere può essere esteso a molti altri gruppi umani e sottogruppi, senza che sia chiaro quale sia il limite oltre il quale non si deve più riconoscere questo diritto. 3) In termini generali, i processi politici che portano a grandi cambiamenti nelle forme di appartenenza di un territorio a un determinato Stato, o che conducono alla frammentazione del suo territorio, includono di solito dei meccanismi di consultazione popolare. È difficile pervenire ad un cambiamento così profondo dell'architettura di un ordinamento senza il parere favorevole della comunità coinvolta (sempre inteso che parliamo di processi che avvengono in Paesi democratici). In linea di principio, non mi sembra che i movimenti indipendentisti debbano essere considerati, necessariamente, quali esempi di una corrente politica più generale che si oppone ai principi tradizionali della democrazia rappresentativa. Penso, invece, che ciò che accade è che il tipo di decisione a cui tende il movimento indipendentista porta alla necessità di inserire un "momento popolare" nel processo politico. È la particolare importanza politica della questione che richiede il ricorso alla democrazia diretta. Questo "momento popolare" sarà necessariamente accompagnato da paralleli momenti di negoziazione tra i diversi rappresentanti politici. Sia per preparare un referendum sull'indipendenza, sia per assumere le decisioni opportune una volta conosciuti i risultati, è essenziale il ruolo dei rappresentanti politici. È possibile, naturalmente, che le persone coinvolte in un referendum che ha portato alla costruzione di uno Stato indipendente siano particolarmente inclini ad accettare che il nuovo sistema politico includa meccanismi di democrazia diretta. Questo sarebbe però un risultato ottenuto per inerzia: si tratterebbe, in altri termini, di un effetto collaterale al modo in cui si è prodotta l’indipendenza. Esso non significherebbe, pertanto, che il movimento secessionista, di per sé, sia contrario alle forme della democrazia rappresentativa. Su tali aspetti, dovrebbe in ogni caso analizzarsi ciascun caso concreto, in funzione dello specifico contesto. 86 federalismi.it |n. 22/2014 Jordi Matas Dalmases* Catedràtic de Ciència Política Universitat de Barcelona 1) Sullo sfondo della consultazione popolare che si intende svolgere in Catalogna vi sono alcuni concetti chiave imprescindibili per trovare una via d’uscita che consenta di concretizzare, in termini giuridici e politici, la volontà della maggioranza dei catalani. In funzione della definizione e dell’importanza che si attribuisca a concetti quali democrazia, legittimità, sovranità popolare, soggetto politico, le soluzioni potranno essere diverse. I costituzionalisti non sono d’accordo sulle strade che offre la Costituzione spagnola (CE) del 1978 per convocare un referendum o una consultazione popolare. Il Consell Assessor per a la Transició Nacional (CATN), organo consultivo creato dalla Generalitat nel febbraio del 2013 per studiare tutto ciò che concerne il processo da seguire per giungere alla celebrazione di un referendum sull’autodeterminazione della Catalogna, prospetta cinque vie legali. Rispetto allo Stato spagnolo, il CATN individua tre possibilità: la convocazione di un referendum sulla base dell’art. 92 CE, la delega del potere di celebrare un referendum secondo quanto stabilito dall’art. 150.2 e la riforma della Costituzione. Per concretizzare queste soluzioni sono però necessarie maggioranze ampie del Congresso dei deputati: ci si scontra così con la chiusura dei due principali partiti politici spagnoli, PP e PSOE, che insieme sommano l’85% dei deputati del Congresso. In ambito catalano si individuano altre due strade. In primo luogo, la Llei 4/2010 de consultes populars per via de referèndum (consultazioni popolari referendarie), che richiede anch’essa l’autorizzazione del Governo spagnolo. In secondo luogo, la Llei de consultes no referendàries che il Parlamento catalano approverà a fine settembre [legge poi effettivamente approvata, ndt]. Quest’ultima via, rispetto alla quale non vi è unanimità di vedute in ordine alla sua adeguatezza a supportare una consultazione sulle relazioni Catalogna-Spagna, può essere vanificata se, come prevedibile, il Governo centrale la impugna e il Tribunal constitucional la sospende, immediatamente, in via cautelare. In definitiva, quest’ultima strada è quella con * Testo consegnato il 22 settembre 2014. Traduzione dal catalano di Gennaro Ferraiuolo. 87 federalismi.it |n. 22/2014 maggiori possibilità di successo, ma si trova anch’essa di fronte ai soliti ostacoli: la volontà politica del Governo spagnolo di frenare un referendum in Catalogna e la politicizzazione di un Tribunal constitucional che ricercherà ogni sorta di argomento giuridico per soddisfare l’obiettivo politico del Governo spagnolo. Se quest’ultimo chiude tutte le vie legali per celebrare una consultazione popolare, il conflitto si intensificherà e occorrerà capire come soddisfare la richiesta dei catalani di decidere, attraverso il voto, il loro futuro. Una soluzione potrebbe essere la convocazione di elezioni autonomiche in chiave plebiscitaria. Lo stesso CATN prevede questa alternativa in caso di un reiterato “atteggiamento di chiusura delle istituzioni statali”. Si procederebbe a sciogliere il Parlament e a convocare elezioni autonomiche anticipate. Questa strada presenta sia vantaggi sia inconvenienti. Un primo vantaggio è che la competenza a convocare le elezioni spetta al Presidente della Generalitat e, pertanto, non è necessaria l’autorizzazione di alcuna istituzione politica statale. Un secondo vantaggio è che si tratta di un meccanismo che si sostanzia nella consultazione del popolo (in questo caso gli elettori) e che pertanto legittima democraticamente il risultato finale. Il principale inconveniente è che, nel caso risulti la vittoria delle candidature (o della candidatura) favorevoli a che il Parlament dichiari l’indipendenza della Catalogna, lo scontro tra le istituzioni catalane e spagnole sarà più esplicito e magari più difficile da risolvere. In ogni caso, questa contrapposizione è ormai inevitabile, considerando il punto a cui è arrivato il processo sobiranista. Ci troviamo, dunque, di fronte ad uno scenario con molte incognite e la mobilitazione sociale proseguirà fino a quando non si troverà una qualche via d’uscita. Coloro i quali ritengono che, con il passare del tempo, la tensione si raffredderà sbagliano: il movimento popolare si è mantenuto costante e, se non cambia la strategia di disprezzo del Governo spagnolo, mostrerà fin dove è capace di arrivare. La mia valutazione sulla posizione di chiusura del Governo statale è molto negativa. È evidente che il conflitto esiste e ogni Governo dovrebbe operare per cercare di risolvere i conflitti, non per generarli o alimentarli. L’Esecutivo spagnolo dovrebbe tener conto del fatto che in Catalogna c’è una triplice volontà che spinge in una medesima direzione: la celebrazione di una consultazione popolare per decidere il futuro della Catalogna. In effetti, al Governo c’è una formazione politica, CiU, che si è presentata alle elezioni catalane del 2012 con un programma elettorale nel quale si affermava che, in caso di vittoria, avrebbe 88 federalismi.it |n. 22/2014 lavorato alla costruzione di una “maggioranza sociale ampia affinché la Catalogna possa avere un proprio Stato”. Con questo punto essenziale della campagna elettorale, il partito ha vinto nelle quattro circoscrizioni catalane e, secondo la logica democratica, è esigibile che mantenga l’impegno elettorale assunto. Nel Parlamento catalano vi è, inoltre, un’ampia maggioranza, formata da quattro forze politiche (CiU, ERC, ICV-EUiA e la CUP) che raggiungono quasi i due terzi dei seggi, favorevole a svolgere una consultazione popolare il giorno 9 novembre. Ancora, occorre tener presente che nel Parlament de Catalunya già sono state approvate una decina di risoluzioni parlamentari sul diritto di autodeterminazione della nazione catalana (la prima nel 1989, venticinque anni fa). Infine, alle richieste democratiche dell’Esecutivo e del Legislativo va aggiunta la volontà di una grande maggioranza del popolo catalano. I sondaggi indicano che l’80% dei catalani chiedono un referendum (o una consultazione) e che se ne accetti il risultato; le imponenti manifestazioni popolari per rivendicare tale richiesta hanno registrato un successo storico in termini di partecipazione. In definitiva: il sostegno democratico alla rivendicazione della consultazione è indiscutibile e le istituzioni spagnole (Governo, Congresso, Senato) dovrebbero offrire risposte che vadano al di là del disprezzo, dell’indifferenza e del silenzio. 2) Ogni realtà politica presenta una sua specificità; le rivendicazioni dei catalani si producono in un contesto diverso da quello che si riscontra in altre regioni europee. Per analizzare la realtà catalana occorrerebbe considerare molti aspetti: la storia, la cultura, l’economia, la geografia, la lingua, il quadro giuridico, il sistema dei partiti, i movimenti sociali, le ideologie, i mezzi di comunicazione. E si potrebbero analizzare fattori che vengono da lontano e altri più recenti, che hanno messo in moto l’attuale movimento indipendentista. Tutti questi fattori, insieme alla tradizionale cultura catalana del “patto”, hanno generato una concezione della dinamica politica e delle sue grandi rivendicazioni basate sulla trasversalità ideologica e sulla integrazione di diverse sensibilità. Il pluralismo nella composizione del Parlament nella fase democratica (a partire dalla prime elezioni autonomiche del 1980) - con cinque, sei o sette formazioni politiche rappresentate - ha contribuito alla stipula di accordi parlamentari tra partiti ideologicamente eterogenei e al consolidarsi di una cultura politica che oggi facilita lo sviluppo dell’attuale movimento sobiranista. 89 federalismi.it |n. 22/2014 Tutto ciò può riassumersi nella nascita e nella evoluzione di un catalanismo politico che, nonostante le congiunture più o meno favorevoli, ha sempre rivendicato quei caratteri che identificano la “catalanità”. Dalla fine della dittatura del generale Franco fino ad oggi, il contesto politico e le relazioni tra Spagna e Catalogna hanno generato un sentimento di diffidenza reciproca tra i due governi. Persino quando in Spagna e Catalogna erano al potere, rispettivamente, il PSOE e una coalizione di sinistra guidata dal PSC, le relazioni erano di forte tensione. È in quella fase che si colloca la sentenza del Tribunal consititucional sullo Statuto, ottenuto sotto la guida del presidente catalano (socialista) Pasqual Maragall e che il Governo di José Luis Rodríguez Zapatero (PSOE) aveva radicalmente emendato nel corso del procedimento innanzi alle Cortes generales. Quella sentenza, che sfigura ancora di più uno Statuto già approvato in Catalogna per via referendaria, rappresenta la goccia che fa traboccare il vaso della pazienza del catalanismo sociale e politico. Il sentimento indipendentista inizia a crescere a partire da quel momento. Secondo dati del Centre d’Estudis d’Opinió de la Generalitat de Catalunya, quando si interrogavano i catalani, nella prima metà del 2010, sulle relazioni tra Catalogna e Spagna (se la Catalogna dovesse essere una regione della Spagna, una comunità autonoma, uno Stato di una Spagna federale o uno Stato indipendente), solo il 20% indicava l’indipendenza. Si tratta di una percentuale al di sotto di quella che optava per “uno Stato di una Spagna federale” (31%) e per “una comunità autonoma della Spagna” (35%). Da quel momento, fino ad oggi, la soluzione indipendentista è cresciuta, in soli quattro anni, fino al 45% e oltre, mentre l’opzione federale è scesa al 20% e quella del mantenimento dell’attuale Stato delle autonomie al 23%. Si tratta di un cambiamento radicale rispetto ad un andamento delle risposte mostratosi, in passato, costante nel tempo. Una delle caratteristiche del processo sobiranista catalano è la sua trasversalità. La crisi dei grandi partiti tradizionali ha contribuito a far nascere nuovi movimenti sociali che non solo hanno fatto direttamente ingresso nella scena politica, ma hanno anche cercato di cambiare il modo di fare politica e di condizionare l’azione dei partiti. Il movimento indipendentista rappresenta un esempio di tali tendenze. Le imponenti manifestazioni popolari delle ultime tre Diades [la Diada è la festa nazionale della Catalogna, riconosciuta dallo Statuto di autonomia, che si celebra il giorno 11 settembre, ndt] sono un indicatore molto chiaro di questa trasversalità. 90 federalismi.it |n. 22/2014 Anche i dati demoscopici confermano questa connotazione: tutti i sondaggi indicano che coloro che si sentono indipendentisti provengono da elettorati molto diversi (e lo stesso accade se si guarda a coloro che sono contrari all’indipendenza). Ad ogni modo, si può affermare che si tratti di un movimento maggioritariamente di sinistra (il 70% degli indipendentisti catalani si considera di sinistra e due di ogni tre catalani di sinistra vogliono una Catalogna indipendente). Ciò consente di smentire che vi sia un chiaro legame tra il movimento indipendentista e la coalizione che governa in Catalogna: la maggioranza degli indipendentisti catalani (quasi i due terzi) non vota CiU. L’eterogeneità ideologica di questo attivismo politico lo rafforza, lo colloca oltre le organizzazioni partitiche e, addirittura, oltre le istituzioni catalane. Il movimento sobiranista si presenta autonomo rispetto all’azione dei partiti (e dei mezzi di comunicazione) catalani e spagnoli. Un esempio di ciò è rappresentato, da una parte, dalla intensa attività dei partiti che si registra nel 2013 per cercare di influenzare la società e, dall’altra, il persistere della medesima percezione sociale sui temi della consultazione e della indipendenza della Catalogna. In effetti, nonostante la pressione politica e mediatica, la percentuale di catalani favorevoli al referendum si è mantenuta intorno all’80%; anche la percentuale dei sostenitori del voto indipendentista non ha conosciuto particolari variazioni. Per quanto concerne la scelta dei diversi assetti per la Catalogna, le cifre rivelano ancora una certa stabilità: i favorevoli all’indipendenza si situano tra il 46 e il 49%; coloro che sostengono uno Stato federale o che non intendono modificare l’attuale modello autonomico rappresentano il 20%; quelli che chiedono uno Stato regionale non superano il 5%. Questa distanza tra istanze sociali e strutture partitiche, e il fatto che i partiti politici catalani si siano dovuti posizionare in merito alla consultazione e ad una ipotetica indipendenza della Catalogna, ha generato crisi interne in alcune formazioni. In effetti, il dibattito sul cosiddetto “diritto a decidere” ha determinato un allontanamento tra i due partiti che formano l’attuale coalizione di governo: Convergència Democràtica de Catalunya e Unió Democràtica de Catalunya. Il leader di Unió Democràtica ha sempre preso le distanze da qualsiasi forzatura per giungere alla consultazione, dall’attuale patto di legislatura stipulato con ERC e dalla indipendenza catalana. Anche il Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC) è diviso tra coloro che non vogliono una consultazione come quella concordata alla fine del 2013 e coloro che avrebbero voluto sostenere quella iniziativa; tra coloro i quali ritengono che la soluzione del conflitto catalano passi per una riforma, in chiave federale, della Costituzione 91 federalismi.it |n. 22/2014 spagnola del 1978 e coloro i quali non credono in questa riforma; tra coloro i quali vogliono rafforzare il legame con il PSOE e coloro che se ne vogliono distanziare. Così, un’altra caratteristica peculiare di questo movimento è che determinerà, senz’altro, un cambiamento rilevante nel sistema catalano dei partiti. Si tratta, conclusivamente, di un movimento sociale di straordinaria solidità, che guarda con diffidenza i partiti e il Governo di Catalogna, sebbene sia cosciente del fatto che tanto i primi quanto il secondo sono fondamentali per raggiungere l’obiettivo della consultazione e, se del caso, dell’indipendenza. 3) Siamo di fronte a un fenomeno relazionato anch’esso con le poliedriche crisi che attraversano le democrazie rappresentative e, soprattutto, con un deficitario rispetto istituzionale per i valori e i principi democratici. I partiti tradizionali sono in crisi. La corruzione è giunta a livelli intollerabili, le istituzioni sono poco trasparenti, le domande popolari costantemente disattese. I nuovi movimenti sociali, come il movimento sobiranista catalano, si basano, principalmente, sulla difesa dei tradizionali valori democratici e sulla creazione di nuovi. Esso, nonostante le provocazioni e il disprezzo (esibito finanche dal Governo spagnolo), si è mostrato sempre profondamente pacifico e assolutamente rispettoso dei valori democratici. Di fatto, il suo principale obiettivo è favorire la partecipazione democratica attraverso una consultazione, conoscere l’opinione dei cittadini e rispettare il risultato democraticamente espresso dalle urne. La base su cui poggia il movimento sobiranista (che, tenuto conto delle sue dimensioni e della sua attività, è una novità in Europa) dovrebbe spingere le istituzioni europee tenerne conto senza pregiudizi. Storicamente, l’Unione Europea si è mostrata ben disposta nei confronti delle mobilitazioni democratiche e pacifiche, come sono le imponenti manifestazioni tenutesi in Catalogna in occasione delle ultime tre feste nazionali (2012, 2013, 2014). L’UE ha sempre rispettato i risultati di elezioni democratiche, come quelle svoltesi in Catalogna nel 2012, quando 107 dei 135 deputati eletti si sono presentati in liste favorevoli a convocare una consultazione popolare per decidere il futuro della Catalogna. L’UE ha sempre voluto conoscere e rispettare la volontà dei cittadini, allo stesso modo del movimento sobiranista catalano. L’UE ha sempre voluto sostenere il diritto di partecipazione dei cittadini nelle questioni che generano un dibattito sociale, profondo e 92 federalismi.it |n. 22/2014 trasversale, allo stesso modo del movimento favorevole alla consultazione catalana. La UE ha sempre inteso riconoscere e proteggere i diritti delle minoranze, incluse quelle nazionali. Pertanto, se l’Europa vuole essere coerente con la sua traiettoria e con la strenua difesa dei valori democratici, dovrebbe mostrare apertura verso movimenti che si basano sul rispetto delle domande poste dalla maggioranza della popolazione, soprattutto in un contesto istituzionale come quello europeo rispetto al quale si denuncia spesso un deficit di democraticità. 93 federalismi.it |n. 22/2014 Carles Viver i Pi-Sunyer* Catedràtic de Dret constitucional Universitat Pompeu Fabra de Barcelona Director de l’Institut d’Estudis Autonòmics de la Generalitat de Catalunya. 1) A mio parere esistono, nel sistema costituzionale spagnolo, fino a quattro procedure che potrebbero consentire ai cittadini di una Comunità autonoma, in questo caso della Catalogna, di esprimere la loro opinione sul futuro politico della loro comunità, attraverso un referendum o una consultazione, previa all’apertura di un procedimento di riforma costituzionale, in cui venga incluso come possibile opzione la separazione dallo Stato spagnolo. Questi quattro procedimenti sono i referendum convocati dallo Stato ai sensi dell'art. 92.1 della Costituzione (CE); il trasferimento o la delega di competenza da parte dello Stato alle Comunità autonome, disciplinato dall'art. 150.2; la legge del Parlamento della Catalogna 4/2010 sul referendum e la recente legge catalana sulle consultazioni popolari non referendarie e sulla partecipazione dei cittadini. A questi quattro metodi si può aggiungere la via indiretta della riforma costituzionale per inserire esplicitamente nella Costituzione questo tipo di referendum o consultazione. Nel breve spazio a mia disposizione non posso sviluppare, in tutta la loro ampiezza, gli argomenti giuridici su cui baso tale tesi. Mi trovo costretto a farne una breve sintesi, e a scusarmi per fare riferimento ad alcuni lavori in cui ho esposto queste posizioni in modo più dettagliato1. Fino alla sentenza del Tribunal constitucional (TC) 42/2014, i quattro metodi appena menzionati dovevano superare l'ostacolo giuridico posto dalla STC 103/2008 2 sul c.d. Piano Ibarretxe, in cui si affermava che era in contrasto con la Costituzione la convocazione di un referendum per chiedere ai cittadini di una Comunità autonoma di esprimersi sul loro futuro politico collettivo. Questo per due ragioni: perché si tratta di un * Testo consegnato il 29 settembre 2014. Traduzione dal castigliano di Laura Cappuccio. Cfr. il mio lavoro Una reflexión desde Cataluña sobre el ‘derecho a decidir’, in J. O. ARAUJO (a cura di), El futuro territorial del Estado español, Valencia, 2014. 2 Parzialmente “inspirata” ad alcune sentenze della Corte costituzionale italiana, come la 470/1992 e la 496/2000. 1 94 federalismi.it |n. 22/2014 problema che riguarda tutti gli spagnoli; perché, quale che sia la risposta – per esempio favorevole alla separazione - la sua attuazione richiederebbe una modifica costituzionale che si concluderebbe, comunque, con un referendum al quale sono chiamati a partecipare tutti gli spagnoli. Alcuni costituzionalisti avevano messo in discussione la consistenza logico-giuridica della motivazione di questa pronuncia: dal fatto (vero) che la domanda e la risposta riguardano tutti i cittadini e che la sua attuazione può richiedere una revisione costituzionale, non segue come conseguenza logicamente necessaria che le istituzioni dotate della competenza per avviare il processo di riforma costituzionale non possano chiedere, prima di iniziarlo ufficialmente, il parere dei cittadini di una Comunità autonoma circa l'esercizio o meno di tale competenza. La dottrina del TC conduce a negare anche la possibilità di applicare le tesi più moderate che hanno sostenuto che, con una previa riforma della Legge Organica sui referendum, potrebbe essere utilizzata la via dell'art. 92 CE. A mio avviso, la STC 42/2014 ha introdotto un cambiamento radicale nella dottrina del TC sul Piano Ibarretxe. La STC 42/2014 risolve una impugnazione dello Stato contro la Dichiarazione del Parlamento della Catalogna, in cui si proclamava che la Catalogna era un soggetto politico e giuridico sovrano e si decideva di iniziare il processo per l'attuazione del "diritto" dei cittadini della Catalogna "a decidere" il loro futuro politico, in conformità con i principi, tra gli altri, di legalità e democrazia. Nella sentenza, il TC dichiara, inizialmente, l’incostituzionalità della proclamazione del carattere sovrano della Catalogna e di una ipotetica convocazione unilaterale di un "referendum di autodeterminazione", che concepisce, in maniera indiretta e con riferimento alla famosa dichiarazione della Corte Suprema del Canada, come una sorta di referendum dotato di effetti giuridici immediati e vincolanti. Tuttavia, vietata questa eventualità, il TC riconosce la possibilità di realizzare qualunque altra attività volta a preparare l'esercizio del diritto a decidere, che può includere opzioni che mettono in questione "il fondamento stesso dell'ordine costituzionale", a condizione che si realizzino nel rispetto principi democratici, dei diritti fondamentali, e dei restanti precetti costituzionali; e che il raggiungimento effettivo di tali obiettivi si consegua attraverso il procedimento di riforma costituzionale3. Un’analisi più dettagliata di questa sentenza si trova nel rapporto elaborato dall’Institut d’Estduis Autonòmics http://governacio.gencat.cat/web/.content/iea/documents/dret_a_decidir/arxius/informe_sentencia_tc_so birania_parlament_vesp.pdf 3 95 federalismi.it |n. 22/2014 Una volta superata questa obiezione generale e accettato che, in linea di principio, può svolgersi una consultazione dei cittadini circa il loro futuro politico, sempre che poi la concretizzazione del suo risultato, se incide sul "fondamento stesso dell'ordine costituzionale", si realizzi attraverso la riforma costituzionale, si devono superare anche le obiezioni ai quattro procedimenti prima menzionati. Si potrebbe infatti ritenere che nell’ordinamento spagnolo non ci sono canali per poter realizzare una consultazione. Questo è stato sostenuto da una parte importante della dottrina giuspubblicistica spagnola. In particolare, allo svolgimento dei referendum di cui all'art. 92 CE, si obietta, in primo luogo, che i referendum a livello regionale non sono previsti in questo articolo, in cui si contemplano solo i referendum diretti a "tutti i cittadini" (92.1 CE); e, in secondo luogo, che la legge organica sul referendum non può prevederlo, in quanto l'art. 92.3 CE solo consente di disciplinare il referendum previsto dalla Costituzione. Nessuno di questi argomenti mi sembra giuridicamente insormontabile: non quello letterale, perché il riferimento a "tutti i cittadini" può essere interpretato come tutti i cittadini del territorio a cui si riferisce il referendum (si ammettono senza difficoltà referendum locali) e l’inciso "tutti i cittadini” si opporrebbe solo alle consultazioni dirette a settori, sociali o professionali, concreti. Il principio che ciò che non è vietato dalla Costituzione deve considerarsi costituzionalmente legittimo è, credo, perfettamente applicabile per controbattere alla seconda - e anche alla prima - obiezione. L'esistenza già ricordata di referendum locali rappresenta una dato rilevante da tenere in considerazione. La via della delega o trasferimento della competenza per indire un referendum è stata proposta formalmente dal Parlamento catalano attraverso una proposta di legge organica presentata al Congresso nel febbraio 2014. La proposta è stata respinta dalla Camera nel mese di aprile dello stesso anno. L'argomento utilizzato è stato, quasi esclusivamente, l’impossibilità costituzionale di delegare la facoltà in quanto il risultato del referendum riguarda tutti gli spagnoli e può richiedere una riforma costituzionale. La maggior parte del Congresso ha fatto riferimento agli argomenti contenuti nella sentenza sul Piano Ibarretxe, ignorando la recentissima dottrina della STC 42/2014 (o, quantomeno, non hanno interpretato quest’ultima come la interpreto io). Per quanto riguarda la terza via, la legge catalana 4/2010 sulle consultazioni popolari tramite referendum, del 17 marzo 2010, in conformità del paragrafo 32 dell'art. 149.1 CE, 96 federalismi.it |n. 22/2014 che attribuisce allo Stato unicamente la “autorizzazione della convocazione di consultazioni popolari tramite referendum", regola i referendum di ambito territoriale catalano, attribuendo l’autorizzazione degli stessi allo Stato. Il Governo spagnolo ha impugnato la legge, che è stata sospesa automaticamente; successivamente, però, il TC ha rimosso la sospensione e, pertanto, la legge è oggi pienamente vigente, in attesa della sentenza. Dopo l’impugnazione, il TC ha adottato la STC 31/2010 sullo Statuto di Autonomia del 2006. La sentenza afferma che “l'intera regolamentazione” del referendum corrisponde allo Stato in virtù delle riserve costituzionali di legge organica in materia di sviluppo dei diritti fondamentali e dell’art. 92.3 CE. La dottrina maggioritaria non ha criticato l'esistenza di questa riserva, ma l’estensione attribuita alla stessa da tale decisione (“l’intera” regolazione). La dottrina del TC per quanto riguarda il rapporto tra la legge organica dello Stato e le competenze era stata, fino a quel momento, molto più sfumata rispetto all’impostazione contenuta nella STC 31/2010. Ci sono buoni argomenti giuridici per difendere l'esistenza di un ampio margine di regolazione autonomica dei referendum regionali. È possibile che, dinanzi alla reazione quasi unanime della dottrina, il TC adotti una decisione volta a recuperare la sua dottrina tradizionale e a riconoscere questo ambito, non escludendo ovviamente l’intervento dello Stato dai profili ad esso riservati. Ad ogni modo, non può essere dimenticato che, in base alla legge catalana, la convocazione dei referendum deve essere autorizzata dallo Stato. Attualmente questa autorizzazione è improbabile che sia concessa. Infine, c'è la recentissima legge 10/2014 sulle consultazioni popolari non referendarie e sulla partecipazione dei cittadini, del 19 settembre 2010, che, alla fine, è stata la strada scelta dal governo della Catalogna per realizzare la consultazione. Le obiezioni di costituzionalità opposte alla legge sono state spesso dirette al decreto che convoca la consultazione del 9 novembre (o all’insieme legge-decreto) più che a quello che propriamente stabilisce la legge. Le due obiezioni principali sono: che la domanda della consultazione del 9 novembre va al di là dei poteri del Governo della Catalogna; che inoltre, anche se l’atto dichiara di regolare le consultazioni popolari, di fatto regola veri e propri referendum. Per quanto riguarda la prima obiezione, la legge non pone nessun problema perché stabilisce che le consultazioni devono avvenire "nell'ambito delle competenze" della Generalitat o degli enti locali che la convocano. Questa espressione, non contraddetta da nessun’altra disposizione di legge, coincide con quella utilizzata dall'art. 122 dello Statuto di 97 federalismi.it |n. 22/2014 autonomia, ed è stata "convalidata" dalla sentenza 31/2010. Il decreto di convocazione si riferisce, nel suo preambolo e nell'articolo 2 (dedicato all’oggetto della consultazione), alla competenza del Governo e, in particolare, del Parlamento catalano, riconosciuta dagli articoli 166 e 87 CE e dall’art. 61 dello Statuto autonomia, di presentare al Parlamento spagnolo una disegno di legge di modifica della Costituzione. Il dibattito può sorgere per determinare se questa iniziativa legislativa sia da qualificare o meno come una competenza. È vero che essa non figura nell’elenco delle competenze che lo Statuto attribuisce alla Generalitat, ma è anche vero che la nozione di competenza, ai sensi dell'articolo 122 dello Statuto, può essere interpretata in modo tale da includere una facoltà tanto importante come quella di promuovere la riforma costituzionale. Ci sono molti esempi di leggi statali, e persino di sentenze del TC, che hanno usato come titoli di competenza norme che non sono incluse negli elenchi di competenze (per esempio, come abbiamo visto, la riserva di legge organica o di principi guida). Appare eccessivamente formalistico impedire che un Parlamento autonomico possa consultare i cittadini circa la possibilità di avviare una riforma costituzionale per il semplice argomento che questa facoltà non sia formalmente inserita nella lista delle competenze. Per quanto riguarda l'obiezione che si tratta di un "referendum nascosto", si deve partire dall’inquadramento del referendum compiuto nella STC 103/2008, secondo cui una consultazione popolare si ha quando le persone chiamate a partecipare sono le stesse che partecipano alle elezioni del Parlamento statale, autonomico o locale, e, inoltre, quando per effettuarla si utilizza l'amministrazione elettorale e il sistema giudiziario. Si tratta di condizioni cumulative. Nella legge del 19 settembre non si prevede di utilizzare l'amministrazione della giustizia e l'amministrazione elettorale, e non è precisato chi è necessariamente chiamato a partecipare. Quest’ultimo è un aspetto rimesso ai decreti di convocazione di ogni consultazione, dal momento che i votanti dipenderanno dal contenuto (generale o settoriale) della domanda e dall’ambito territoriale coinvolto (tutta la comunità o una parte della stessa). La legge si limita a stabilire, semplicemente, i gruppi che possono essere chiamati a votare alla consultazione, non quelli che necessariamente devono essere coinvolti. Difficilmente si può concludere una simile regolamentazione imponga la partecipazione alle consultazioni delle stesse persone che possono partecipare alle elezioni autonomiche. Il decreto di convocazione della consultazione del 9 novembre chiama a partecipare non solo 98 federalismi.it |n. 22/2014 gli aventi diritto al voto nelle elezioni autonomiche, ma anche i cittadini tra i 16 ei 18 anni e i vari gruppi di residenti stranieri, soggetti questi che non partecipano alle elezioni. Questo insieme non si può dire coincida con il corpo elettorale che in quanto "organo dello Stato", come dice la menzionata STC, esprime la volontà statale. In sintesi, da questo punto di vista, penso si possa affermare che la legge catalana sulla consultazione non pone nessun problema di costituzionalità; si può sostenere anche che ci siano fondati argomenti giuridici per ritenere che nemmeno li presenta il decreto di convocazione. Questo soprattutto se tali precetti sono letti sulla base del principio democratici, che richiede di favorire una interpretazione e un'applicazione delle norme favorevoli alla maggiore estensione possibile della partecipazione dei cittadini, nel rispetto del quadro giuridico vigente4. In sintesi: nel nostro sistema costituzionale ci sono, a mio avviso, cinque modi possibili per poter realizzare un referendum o una consultazione come quella proposta in Catalogna. A parte il processo di riforma costituzionale, le due strade che pongono meno problemi giuridici sono l'art. 92 CE e il già respinto art. 150.2 CE. 2) Non conosco con sufficiente profondità le caratteristiche di altre rivendicazioni simili a quella catalana per poter ragionare con il rigore che meritano i nostri lettori. Per quanto riguarda il caso catalano, deve essere sottolineato che attualmente ci sono due processi diversi, anche se strettamente correlati. Da un lato, la rivendicazione di quello che è stato chiamato il "diritto a decidere", che include la pretesa di votare in un referendum o una consultazione specifica sul futuro della Catalogna, e che l'esito della votazione venga preso in considerazione da parte di coloro esercitano i pubblici poteri. Questa rivendicazione, secondo i sondaggi più affidabili, ha il sostegno attivo di oltre il 75% dei cittadini. Questa richiesta viene da lontano: a partire dal 1989, sono state adottate a tal proposito numerose risoluzioni del Parlamento della Catalogna a questo proposito. Tale richiesta è andata crescendo nella misura in cui i cittadini catalani hanno visto frustrati i tentativi di espandere il potere politico della Generalitat (le sue competenze), di migliorarne il finanziamento e di ottenere il riconoscimento di una identità nazionale differenziata. Accanto a questa rivendicazione c'è anche quella di stampo secessionista che non ha smesso di crescere e consolidarsi, passando in soli cinque anni dal 15 o al massimo al 20% 4 Si veda l’opera citata alla nota 1. 99 federalismi.it |n. 22/2014 a quasi il 50%, secondo alcuni recenti sondaggi. Le cause di questa crescita sono analoghe a quelle identificate in relazione alla crescita del supporto popolare al "diritto di decidere". 3) Penso effettivamente che questi movimenti devono essere situati in un contesto generale di crisi della democrazia, che stiamo vivendo da qualche tempo. Anche se, tuttavia, questa crisi non è la causa prima di questi fenomeni rivendicativi, né credo che questi possano confondersi con la rivendicazione di maggiori spazi di democrazia partecipativa di fronte alla stagnazione della democrazia rappresentativa. A mio parere, democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa non vanno contrapposte. Entrambe devono coesistere in un sistema democratico, rafforzando i meccanismi di democrazia partecipativa, ma coordinandoli in maniera efficace con gli strumenti, insostituibili anche se migliorabili, di democrazia rappresentativa. Il cosiddetto "diritto a decidere", nonostante l'ambiguità del termine, si è voluto esercitare in Catalogna nel rispetto della legge. Lo dimostrano le numerose risoluzioni del Parlamento al riguardo. Ciò è anche testimoniato dalla legge sulle consultazioni popolari non referendarie e dal decreto di convocazione della consultazione del 9 novembre, che si riferisce alla competenza del Governo - quella di dare impulso ad un processo di riforma costituzionale - in conformità “alle regole giuridiche esistenti”. Questione diversa è interrogarsi su che cosa accade se questi canali legali si chiudono del tutto pur in presenza di una rivendicazione così massiccia, crescente e consolidata come quella che si riscontra oggi in Catalogna. Potrebbe essere legittimata dai principi della democrazia partecipativa una rottura dell'ordine costituzionale? Dal punto di vista legale, no. Cosa diversa è la legittimità politica di questa opzione, che si muoverebbe al di fuori della legge. Questo ci conduce alla domanda sul se lo Stato di diritto si difenda più efficacemente incanalando questi fenomeni sociali nei percorsi legali esistenti, interpretandoli, fin dove possibile, in maniera conforme alle esigenze che discendono dai principi democratici; o se sia preferibile utilizzare il diritto come muro di contenimento di tali rivendicazioni. La mia risposta a questa domanda è implicita nelle risposte alle tre domande che mi sono state gentilmente rivolte. 100 federalismi.it |n. 22/2014 Notazioni conclusive* di Gennaro Ferraiuolo Professore associato di Diritto costituzionale Università di Napoli Federico II Il presente questionario guardava alla data del 9 novembre come a quella di un passaggio chiaro, in un senso o in un altro, nell’evoluzione delle vicende catalane. Attraverso un agile strumento, si immaginava di offrire – quasi in presa diretta – una testimonianza di osservatori privilegiati. È emersa una controindicazione di non poco conto: l’incessante mutare dei dati – in parte normativi, in parte fattuali – che avrebbero dovuto costituire lo sfondo, quando non direttamente l’oggetto, dell’analisi degli studiosi interpellati. Di questo dobbiamo forse scusarci: con chi ci legge, che potrebbe trovarsi in presenza di ricostruzioni che, in alcuni punti, potranno apparire già superate dal rapido fluire degli eventi; con gli studiosi che con grande disponibilità hanno accettato di collaborare, posti con ogni probabilità innanzi alla scelta tra il rispetto dei tempi indicati per la consegna delle risposte e la tentazione di prendere tempo, al fine di rendere quanto più attuale possibile la loro riflessione. Dunque il seny (termine catalano di difficile traduzione che, tra le altre cose, indica «il rifiuto di correre dietro alle novità») 1 avrebbe forse consigliato di attendere il decantare delle vicende, di guardarle con maggiore distacco: il recente “processo partecipativo” – o “consultazione illegale”, a seconda dei punti di vista – ha infatti rappresentato soltanto l’ennesimo passaggio di un percorso con ancora molte incognite. Nonostante ciò, oltre il fluire dei fatti, il succedersi delle leggi, dei decreti, delle dichiarazioni e delle loro impugnazioni, le questioni di fondo del cd. procés sobiranista sono * Articolo sottoposto a referaggio. R. HUGHES, Barcellona. Duemila anni di arte, cultura e autonomia, Milano, 2004, p. 27, che continua: «nella concezione tradizionale catalana il seny si avvicina alla “saggezza naturale” ed è trattato quasi come una virtù teologale. […] I catalani sostengono che il seny è la principale caratteristica nazionale. Rappresenta per loro ciò che il duende (letteralmente “folletto”, e per traslato il senso della fatalità o della imprevedibilità tragica) è per gli spagnoli del Sud. […] Nelle Forme della vita catalana (1944) Josep Ferrater Mora disquisisce a lungo sul seny. “L’uomo dotato di seny è, anzi tutto, l’uomo equilibrato, colui che contempla le cose e le azioni umane con una visione serena”». 1 101 federalismi.it |n. 22/2014 tutte chiaramente delineate nelle risposte degli interpellati. Delineate da punti di vista diversi e in forma altamente problematica, come è normale che sia di fronte a un percorso che, chiamando in causa la prospettiva di una rottura del principio unitario, difficilmente si lascia racchiudere nel recinto del costituito. Il questionario mette in luce, innanzitutto, le possibili risposte che, sul piano giuridico, possono darsi al conflitto politico in atto. Sul punto le opinioni degli studiosi risultano variegate. Provando a tirare le somme, le soluzioni cui si riconosce maggiore solidità sono quelle che contemplano un’attivazione da parte del Governo statale (referendum ex art. 92 CE; delega della competenza a convocare un referendum ex art. 150.2 CE); meno consenso suscitano gli strumenti disciplinati in ambito catalano e, in particolare, quello della cd. consultazione non referendaria, non a caso l’ultimo, in ordine di tempo, cui ha fatto ricorso la Generalitat. Forti dubbi sulla conformità a Costituzione dell’istituto sono espressi da Ferreres, Arbós e Carrillo. In tal modo si valorizza (forse da parte di qualcuno si auspica) la prospettiva del dialogo tra istituzioni centrali e periferiche, e dunque la imprescindibilità delle negoziazioni (prima e dopo l’ipotetico referendum). In parallelo, si registrano critiche, formulate con accenti diversi, al modo in cui il Governo spagnolo ha sinora affrontato la questione, denunciando «le posizioni immobiliste che pietrificano l’ordinamento» (Arbós) e quella che appare una vera e propria «strategia del disprezzo» (Matas). Non mancano richiami all’inquadramento delle vicende catalane all’interno delle dinamiche dell’integrazione europea (Albertí, Abat, Matas, Ferreres). Si tratta di un aspetto molto presente nel dibattito pubblico. Occorre infatti ricordare che la Catalogna, così come la Scozia, mostra una spiccata vocazione europeista2; la prospettiva, per un ipotetico nuovo Stato, di una estromissione dall’UE è percepita come uno dei fattori di maggiore criticità dell’opzione indipendentista3: questa «perde molto sostegno se la secessione della Catalogna Si tratta di un aspetto che emerge in maniera anche dalla Declaració de sobirania i del dret a decidir del poble de Catalunya, approvata dal Parlament di Barcellona il 23 gennaio 2013 (risoluzione 5/X). Tra i principi in essa enunciati figura, al punto n. 6, l’europeísmo: «si difenderanno e promuoveranno i principi fondamentali dell’Unione europea, in particolar modo i diritti fondamentali dei cittadini, la democrazia, la garanzia dello Stato sociale, la solidarietà tra i diversi popoli d’Europa e il sostegno al progresso economico, sociale e culturale» 3 Sul punto cfr. A. GALÁN GALÁN, Secesión de Estados y pertenencia a la Unión Europea: Cataluña en la encrucijada, in Le istituzioni del federalismo, n. 1, 2013, p. 95 ss.; in riferimento al dibattito scozzese, v. J. CRAWFORD, A. BOYLE, Referendum on the Independence of Scotland – International Law Aspects, in Scotland analysis: Devolution and the implications of Scottish independece, www.official-documents.gov.uk, febbraio 2013, in particolare p. 92 ss.; J.O. FROSINI, L’indipendenza della Scozia: l’uscita da due unioni?, in Quaderni costituzionali, n. 2, 2013, p. 442 ss. 2 102 federalismi.it |n. 22/2014 comporta la sua fuoriuscita dall'Unione europea, anche se solo per un periodo transitorio» (Ferreres). Albertí vede però nel ruolo dell’Europa anche un elemento, per cosi dire, di sdrammatizzazione delle tensioni in atto: la Catalogna «non mostra nessuna resistenza a cedere sovranità ad una entità superiore come la UE […], in seno alla quale rinuncia ad essere sovrana»4; così, l’azione di processi costituenti concentrici (prima che contraddittori) potrebbe risolversi in una «ridefinizione del ruolo degli Stati» (opportuna, ad avviso dello studioso, quantomeno per alcuni di essi). Nel suo contributo, Víctor Ferreres ridimensiona drasticamente la consistenza delle rivendicazioni in atto, criticandone, su base razionale, i contenuti; e, in ogni caso, ritenendone il percorso di maturazione non ancora giunto ad una fase tale da rivelarne l’effettivo radicamento nella società catalana: «dal ripristino della democrazia, si sono svolte in Catalogna decine di elezioni […]. Sono stati pochi i partiti che hanno incorporato l’indipendenza nelle loro proposte politiche e il sostegno che hanno ricevuto è sempre stato minoritario». In modo coerente, anche tale autore riconosce esplicitamente le potenzialità di un’eventuale elezione autonomica in chiave plebiscitario-referendaria (su cui si tornerà infra): se i partiti che enunciano, in termini inequivoci, il sostegno alla indipendenza conseguissero la maggioranza dei voti, si aprirebbe «un nuovo tempo politico», che metterebbe la Generalitat, in questo caso sì, nelle condizioni di negoziare con lo Stato un referendum sulla questione5. Seguendo tale impostazione, potrebbero in futuro riemergere problematiche di grande complessità e delicatezza: in questo ipotetico tempo nuovo, sorgerebbe, in capo al Governo spagnolo, un obbligo a negoziare? Sulla base di quale fondamento normativo? Sarebbe giuridicamente azionabile (sul piano interno o sovranazionale) o occorrerebbe ragionare sulla base di puri rapporti di forza? È evidente che lo scivoloso crinale lungo il quale ci si muove si colloca sempre a ridosso della dimensione politica e di quella giuridica; e, forse, nessuno dei due punti di osservazione è rinunciabile ai fini dell’inquadramento delle vicende analizzate. Abat, da una prospettiva destinata senz’altro a far discutere, considera nettamente prevalente la concezione della Costituzione come processo politico su quella della Costituzione come norma giuridica; su tali basi (e attraverso una serie di esempi) rinnega In tema possono richiamarsi le tesi di N. MACCORMICK, Questioning Sovereignity. Law, State, and Nation in the European Commonwealth, Oxford, 1999, trad. it. La sovranità in discussione. Diritto, stato e nazione nel «commonwealth» europeo, Bologna, 2003, in particolare p. 325 ss. 5 Nella medesima prospettiva si veda del medesimo autore, con Alejandro Saiz Arnaiz, Una gran conversación colectiva, in El País, 5 febbraio 2014. 4 103 federalismi.it |n. 22/2014 l’imparzialità – e di conseguenza la legittimazione nel sistema – del Tribunal constitucional (d’ora in avanti TC), principale interprete della Carta fondamentale. La generalità dei costituzionalisti interpellati si muove invece alla ricerca di un più solido punto di equilibrio tra le tradizionali categorie di analisi e l’esigenza di offrire risposte ai processi in atto. Non mancano così accenti critici su interventi specifici del TC: la pronuncia sullo Statuto (n. 31/2010; Carrillo, Albertí) – su cui si tornerà tra breve – e quella (n. 103/2008) che ha escluso la possibilità di inserire un referendum previo (per di più nel solo ambito di una Comunità autonoma) in un percorso destinato ad incanalarsi sui binari della revisione costituzionale. Questa impostazione andrebbe “flessibilizzata” con riferimento alla ipotesi particolare della secessione (Ferreres); un “cambio radical” rispetto ad essa è scorto peraltro nella decisione del TC n. 42/2014, dalla quale si desumerebbe «la possibilità di realizzare qualsiasi attività diretta a preparare l’esercizio del diritto a decidere» (Viver; in termini analoghi, Arbós e Albertí). Anche la concreta messa in opera dello Stato autonomico (non il modello astratto prefigurato dalla Costituzione) è oggetto di valutazioni a volte severe. Si contesta nella sostanza (Carrillo, Albertí) la nota tendenza del café para todos, «un processo di simmetrizzazione costante e crescente» dell’assetto autonomistico6 che viene letto come una forzatura della impostazione originaria alla base della Carta del 1978. Una prospettiva simmetrica – almeno potenzialmente – non è vista invece con particolare disfavore da Arbós, il quale però, in un’ottica de iure condendo, indica comunque, quale soluzione per disinnescare il conflitto territoriale, una riforma della Costituzione in senso pienamente federale, che operi sul versante delle competenze e del modello di finanziamento; solo subordinatamente a tali innovazioni potrebbe trovare spazio un esplicito riconoscimento, dalla valenza anche simbolica, della specificità catalana. Il tema della specificità catalana è analizzato approfonditamente in diversi interventi. Sul punto si sofferma ad esempio Marc Carrillo, che ricorda come il «secesionismo catalán no se fundamenta sólo en razones de orden económico, sino también históricas, políticas y culturales»; e, più in generale, che la «personalidad política» della Catalogna non nasce con la Costituzione del 1978. In riferimento ad essa si riscontrano «le condizioni per affermare C. VIVER I PI-SUNYER, El reconeixement de la plurinacionalitat de l’Estat en l’ordenament jurídic espanyol, in F. REQUEJO, A.G. GAGNON (a cura di), Nacions a la recerca de reconeixement: Catalunya i el Quebec davant el seu futur, Barcelona, 2010, p. 225. Per un generale inquadramento del tema, v. pure J. BURGUEÑO, Caffè per tutti: l’autonomia diffusa minaccia lo Stato, in Limes, n. 4, 2012, p. 125 ss. 6 104 federalismi.it |n. 22/2014 tanto l’esistenza di caratteristiche oggettive che la rendono unica e ne fanno una comunità politica specifica e distinta, quanto la presenza di una volontà politica di affermazione di un’identità propria», manifestatasi costantemente nel corso dei secoli (Albertí). In Italia, da una prospettiva speculare, si è osservato invece che «l’identità delle […] regioni non è il risultato di un processo storico, esse non traggono origine da istituzioni a suo tempo fra loro indipendenti ed ancora sensibili a questa tradizione di autogoverno o di governo separato»7. La considerazione di tali aspetti potrebbe permettere di valorizzare quello che è stato definito «approccio istituzionale storicizzato»8. La valutazioni di dati extra giuridici non è d’altra parte estranea agli studi legati alla forma/tipo di Stato. Basti ricordare la risalente proposta di Smend rivolta al superamento delle costruzioni «meramente giuridiche dello Stato federale»9. In tempi recenti, si segnala nella dottrina italiana la posizione di chi, nel tentativo di rivitalizzare la distinzione tra modello regionale e federale, ritiene necessario attribuire rilievo a fattori quali la presenza «di un’opinione pubblica, di una società regionale», verificando «l’esistenza di strutture della società civile, culturale, economica aventi un fondamentale radicamento e collegamento regionale (partiti, giornali, associazionismo economico e imprenditoriale)»10. Seguendo tale impostazione è evidente come la Catalogna mostri un fortissimo radicamento territoriale delle proprie istituzioni (giuridiche, politiche, sociali, culturali). E, d’altra parte, per quanto l’assunto possa essere oggetto di discussione, sono numerose le ricostruzioni scientifiche che collocano l’ordinamento spagnolo (con riferimento alle realtà della Catalogna e dei Paesi Baschi) nella dimensione del federalismo plurinazionale11. S. BARTOLE, L’ordinamento regionale, in S. BARTOLE – F. MASTRAGOSTINO, Le Regioni, II ed., Bologna, 1999, p. 44 e pp. 46-47 (mio il corsivo). Sul punto v. anche S. VENTURA, Asimmetrie, competizione partitica e dinamiche centrifughe nelle nuove forme di Stato decentrate, in S. VENTURA (a cura di), Da Stato unitario a Stato federale. Territorializzazione della politica, devoluzione e adattamento istituzionale in Europa, Bologna, 2008, pp. 203-204, che parla di un decentramento non «avvenuto in seguito alla politicizzazione di nazionalismi substatali», nel quale «il territorio fu comunque organizzato […] simmetricamente in venti regioni; dunque un disegno istituzionale omogeneo emerso all’interno del patto costituente tra forze politiche nazionali». 8 R. SEGATORI, Le debolezze identitarie del regionalismo italiano, in Le istituzioni del federalismo, n. 5/6, 2010, p. 438 ss., che si richiama in particolare agli studi di D. ZIBLATT, Structuring the State. The formation of Italy and Germany and the Puzzle of Federalism, Princeton, 2006. 9 R. SMEND, Verfassung und Verfassungrech, München-Leipzig, 1928, ed. it. Costituzione e Diritto costituzionale, Milano, 1988, p. 186 ss. 10 B. CARAVITA DI TORITTO, Stato federale, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di Diritto pubblico, vol. III, Milano, 2006, pp. 5737-5738. 11 V. F. REQUEJO – M. CAMINAL (a cura di), Federalisme i plurinacionalitat. Teoria i anàlisi de casos, Barcelona, 2009; A. G. GAGNON, Més enllà de la nació unificadora: al·legat en favor del federalisme multinalcional, Barcelona, 7 105 federalismi.it |n. 22/2014 Al di là della utilità a fini classificatori, non è affatto scontato se (e quali) conseguenze giuridiche possano scaturire da un siffatto inquadramento; e, tuttavia, sembra indubbio che esso offra chiavi di lettura fondamentali per comprendere e valutare le tensioni che attraversano gli ordinamenti statuali. Così è, ad esempio, per le tormentate vicende dello Statuto catalano del 2006, culminate nella sentenza del TC 31/2010: in questa pronuncia Carrillo vede il fallimento di «un nuovo patto politico con la Spagna democratica» e il punto d’inizio delle attuali tensioni (nello stesso senso Albertí e Matas). Lo studioso non si sofferma su specifici problemi di costituzionalità di singole disposizioni, ma guarda piuttosto ad una serie di complesse questioni di sistema che denotano, per il modo in cui sono state affrontate, l’idea di una «giurisdizione costituzionale che opera come delegato del potere costituente» e non come potere costituito, chiamato ad attenersi «al blocco di costituzionalità integrato dal binomio Costituzione-Statuto»12. Sempre in riferimento alla riflessione sulla specificità catalana, anche in termini di comparazione con le vicende italiane, si segnalano alcuni passaggi offerti da Abat. L’autore, da una parte, sottolinea le differenze (culturali, storiche, politiche) tra la realtà catalana e quella veneta; dall’altra ritiene però che il “popolo veneto” debba vedersi legittimamente riconosciuto il diritto a pronunciarsi sul proprio futuro politico: si critica, dunque, la scelta del Governo italiano di impugnare, innanzi alla Corte costituzionale, la legge regionale n. 16 del 2014 (“Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto”) 13 per 2008; ID., L’Âge des incertitudes: essais sur le fédéralisme et la diversité nationale, Québec, 2011, ed. it. L’età delle incertezze. Saggio sul federalismo e la diversità nazionale, Padova, 2013. 12 In senso analogo v. J. PÉREZ ROYO, La STC 31/2010 i la contribució de la jurisprudència constitucional a la configuració d’un Estat compost a Espanya: elements de continuïtat i ruptura, i incidència en les perspectives d’evolució de l’Estat autonòmic, in Revista catalana de dret públic, n. 43, 2011 (www.rcdp.cat): la sentenza sullo Statuto catalano avrebbe «provocato una rottura del patto costituente in un elemento essenziale: quello concernente il rinnovamento dell’unità della Spagna mediante l’esercizio del diritto all’autonomia delle nazionalità e regioni che la compongono. […] La Costituzione della STC 31/2010 è una Costituzione mutilata, in cui è assente tutto ciò che il Costituente ha previsto per la costruzione dello Stato autonomico e per il suo successivo rinnovamento attraverso la disciplina giuridica di un processo di negoziazione politica in cui si concretizzi il compromesso tra il principio di unità politica dello Stato e l’esercizio del diritto all’autonomia». Pure in questo caso la tesi viene supportata attraverso un peculiare inquadramento dello Statuto di autonomia nel sistema delle fonti (anche in forza del pronunciamento popolare – previo all’eventuale controllo di costituzionalità - che si ha sullo stesso). Inquadramento verso cui è critico, ad esempio, E. FOSSAS ESPADALER, El control de constitucionalitat dels estatuts d’autonomia, in Revista catalana de dret públic (www.rcdp.cat), n. 43, 2011, p. 21 ss., che riconosce però il carattere fortemente problematico della questione, per la particolare forza che assume, in ragione della conformazione del procedimento statutario, la cd. obiezione democratica. 13 In merito v. D. TRABUCCO, La Regione del Veneto tra referendum per l’indipendenza e richiesta di maggiori forme di autonomia, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2014; F. CLEMENTI, Quel filo di Scozia nel vestito della democrazia europea, in www.confronticostituzionali.eu, 1 ottobre 2014. Sia consentito anche un rinvio al mio Due referendum non comparabili, in Quaderni costituzionali, n. 3, 2014, p. 703 ss. 106 federalismi.it |n. 22/2014 «mettere a tacere una parte della sua popolazione». Non mancano, invero, dati di sistema che potrebbero far dubitare di una piena sovrapponibilità, sul piano considerato, delle due vicende: si pensi alla carica di problematicità che, nell’ordinamento italiano, si riconnette all’idea di un “popolo regionale”14, laddove invece è la stessa Costituzione spagnola che si riferisce, esplicitamente, ai “popoli della Spagna” (preambolo) e al concetto di “nazionalità storiche” (art. 2). E, d’altra parte, se è indubbio che a quest’ultima nozione sia senz’altro riconducibile la realtà catalana (in termini fattuali e giuridici), va segnalato che per la regione italiana il nostro Costituente non ha neanche ravvisato specificità territoriali tali da rendere opportuno un regime speciale di autonomia. Per Abat, la differente posizione della regione italiana e della Comunità autonoma non si lega al diverso sostrato che sorregge le rivendicazioni territoriali (una componente oggettiva che dovrebbe affiancare quella soggettiva, per seguire la ricostruzione di Albertí); sostrato che, dunque, almeno nella prospettiva considerata, è ritenuto privo di ricadute sull’inquadramento giuridico dei fenomeni in atto. Ad avviso dell’autore rileva, piuttosto, un profilo definito “procedurale”: il Veneto non avrebbe compiuto tutta una serie di passaggi (negoziazioni con lo Stato italiano; approvazione di atti, per lo più politici, a sostegno dell’autodeterminazione) da intendersi preliminari alla convocazione unilaterale del referendum. Si tratta di argomenti che, probabilmente, chiamano in causa le varie teorie politico-filosofiche sulla secessione e il differente peso che, in ciascuna di esse, è riconosciuto alla componente volontaristica e a quella identitaria (in merito interessanti spunti critici, da punti di vista diversi, si ritrovano nei contributi di Ferreres e Albertí). Si può qui ricordare come, in passato, parte della dottrina italiana non abbia condiviso le argomentazioni della Corte costituzionale tese a precludere la celebrazione di referendum consultivi regionali, previ alla presentazione di disegni di legge di revisione. Nella pronuncia n. 496 del 2000 si ritiene che una siffatta consultazione regionale alteri la tipicità del procedimento di revisione, innestandovi un passaggio destinato a produrre forti vincoli alle decisioni degli organi rappresentativi. Le principali critiche a questa decisione si sono appuntate sul fatto che essa rinneghi, nella sostanza, la portata consultiva del referendum, risolvendo sul piano giuridico un conflitto che avrebbe dovuto trovare risposte nella dimensione politico-rappresentativa: per riprendere le parole di Arbós, «esprimere un’opinione politica non equivale a decidere». Gli studiosi italiani che ragionano in questi 14 Cfr., in tema, A. MORRONE, Avanti popolo… regionale!, in Quaderni costituzionali, n. 3, 2012, pp. 615 ss. 107 federalismi.it |n. 22/2014 termini ritengono, allo stesso tempo, che la Corte avrebbe potuto risolvere la questione spostando la propria argomentazione su un terreno diverso, sebbene comunque accidentato: quello relativo alla distinzione tra referendum e plebiscito, essendo quest’ultimo precluso nel nostro ordinamento15. Si tratta di un profilo che acquisisce senz’altro rilievo in riferimento alle vicende catalane: che il prossimo passaggio della questione catalana sarà quello di elezioni autonomiche qualificate, appunto, “plebiscitarie” – con formula poco felice (Abat) 16 – è ipotesi, allo stato, tutt’altro che remota. Anche da questo punto vista lo sforzo di contestualizzazione (e in tal senso aiutano i dati forniti da Matas) diviene imprescindibile, se è vero che «sono il clima e l’ambiente politico […] che fanno la differenza […] determinando il […] destino più o meno plebiscitario» di un referendum17. La richiesta di un voto popolare sull’indipendenza proviene da gran parte dei partiti e dei cittadini catalani: le elezioni del 25 novembre del 2012 sono state precedute da una campagna elettorale incentrata su questo specifico punto, sul quale i partiti hanno dovuto assumere un chiaro posizionamento. All’esito di quelle consultazioni, le forze politiche sostenitrici del cd. dret a decidir hanno ottenuto 87 dei 135 seggi del Parlament de Catalunya (quasi il 65%). Così, già quelle elezioni potrebbero considerarsi (nel senso in cui tale formula è utilizzata nel dibattito catalano) “plebiscitarie”: non rispetto all’indipendenza ma alla convocazione di un referendum sulla stesso. In merito due precisazioni paiono opportune. La prima: il richiamo al fronte del dret a decidir include quei partiti disposti a sostenere tale rivendicazione anche oltre un punto di rottura dei rapporti con le istituzioni statali (come accaduto lo scorso 9 novembre). A questi partiti andrebbe aggiunto il PSC (forte di 20 diputats), dichiaratosi in più occasioni favorevole ad una consultazione sull’indipendenza se concordata con il Governo statale. L’oscillazione dei socialisti catalani (su cui si sofferma l’analisi di Matas) emerge, in effetti, in diverse vicende: la fuoriuscita di esponenti del partito in dissenso con la linea moderata sul punto; il sostegno, nel Parlamento autonomico Cfr. M. LUCIANI, I referendum regionali (a proposito della giurisprudenza costituzionale dell'ultimo lustro), in Le Regioni, n 6, 2002, p. 1381 ss.; L. PEGORARO, Il referendum consultivo del Veneto: illegittimo o inopportuno?, in Quaderni costituzionali, n. 1, 2001, p. 126 ss. 16 In tal senso cfr. anche M. DELLA MORTE, Derecho a decidir, representación política, participacíon ciudadana: un enfoque constitucional, in L. CAPPUCCIO – M. CORRETJA (a cura di), El derecho a decidir. Un diálogo italo-catalán, Barcelona, 2014, p. 27 ss. 17 M. LUCIANI, Art. 75. Il referendum abrogativo, in Commentario della Costituzione. La formazione delle leggi, tomo I,2, Bologna-Roma, 2005, p. 138. 15 108 federalismi.it |n. 22/2014 e in quello statale, ad alcune iniziative collocabili nell’orizzonte della consultazione 18 ; l’appoggio alla votazione illegale/processo partecipativo del 9 novembre, manifestato, con un voto in taluni casi decisivo, negli organismi comunali. Può dunque affermarsi che, dei 135 componenti del Parlament, quelli del tutto contrari al referendum siano, sulla base dei risultati delle ultime elezioni, soltanto 28 (19 del PP e 9 di Ciutadans: il 20% circa dell’assemblea). Seconda precisazione (su cui si sofferma Viver): il fronte del diritto a decidere non coincide con quello indipendentista. Al largo favore della società catalana verso il primo non può dirsi che, allo stato, corrisponda un equivalente appoggio alla secessione. La radicalizzazione dello scontro è apparsa a lungo legata (difficile dire se lo sia tuttora) alla rivendicazione, mediante il referendum, di una soggettività politica della Catalogna. Soggettività politica non destinata necessariamente ad orientarsi verso l’indipendenza ma, quantomeno, nella direzione di un rinnovamento del patto costituente sul versante autonomistico19. In questo scenario, non è affatto semplice collocare una consultazione popolare (o la sua trasfigurazione nel momento elettorale) nella dimensione del referendum o del plebiscito. Alla difficoltà di distinguere, sul piano teorico, i due piani si aggiunge quella dell’inquadramento dei fenomeni concreti all’interno delle categorie prefigurate in astratto20. Già con la Resolució 5/X del Parlament de Catalunya, per la qual s’aprova la Declaració de sobirania i del dret a decidir del Poble de Catalunya, approvata il 23 gennaio 2013, si registra la mancata partecipazione alla voto di cinque deputati socialisti (su un totale di 20) in segno di protesta rispetto alla linea (voto contrario) decisa dal partito. Nella sessione del 13 marzo 2013, il Parlament ha approvato, con 104 voti a favore, una risoluzione (la n. 17/X) presentata proprio dal gruppo socialista, con cui si chiede al Governo della Generalitat di «iniziare un dialogo con il Governo statale per rendere possibile la celebrazione di una consultazione attraverso cui i cittadini della Catalogna possano decidere il loro futuro» (Resolució 17/X del Parlament de Catalunya, sobre la iniciació d’un diàleg amb el Govern de l’Estat per a fer possible la celebració d’una consulta sobre el futur de Catalunya). Tale risoluzione faceva seguito a una iniziativa di analogo tenore sostenuta dai partiti catalani al Congreso de los Diputados, nell’ambito del Debate sobre el estado de la Nación. Il 26 febbraio la proposta era stata respinta (60 voti a favore, 270 contrari) facendo però registrare una storica rottura della disciplina di voto all’interno del gruppo socialista: 13 deputati (su 14) del PSC si erano infatti dissociati dalla linea del PSOE. Successivamente (8 maggio), il Parlament ha approvato la risoluzione 125/X, istitutiva di una Comissió d’Estudi del Dret a decidir, preposta a «studiare e dare impulso a tutte le iniziative politiche e legislative che il Parlamento è chiamato ad adottare in relazione al diritto a decidere, e ad analizzare tutte le alternative per poterlo rendere effettivo» (Resolució 125/X del Parlament de Catalunya de creació de la Comissió d’Estudi del Dret a decidir). Anche quest’atto è stato approvato a larghissima maggioranza (106 voti a favore) con il sostegno del PSC. 19 Il catalanismo politico mostra, sin dalle sue origini, una chiara propensione a conciliare «il diritto a decidere in modo libero e sovrano il destino della nazione catalana» e l’esercizio «di questo diritto in una direzione unitarista, regionalista o federale. Il fatto di affermare i diritti nazionali della Catalogna non comportava il fatto di essere partitari della separazione o della indipendenza» (M. CAMINAL, Nacionalisme i partits nacionals a Catalunya, Barcelona, 1998, p. 90). 20 Cfr., sul punto, le osservazioni di M. LUCIANI, Art. 75, op. cit., p. 133 ss., cui si rinvia anche per l’ampia bibliografia citata. 18 109 federalismi.it |n. 22/2014 Difficoltà che emergono, ad esempio, nelle ricostruzioni che provano a conciliare una connotazione negativa del plebiscito e la sua qualificazione sulla base di elementi giuridicoformali (più o meno definiti) da un lato, con, dall’altro, il carattere non plebiscitario predicato in rapporto al referendum istituzionale del 2 giugno 194621. Così, più coerente appare la ricostruzione di chi, distinguendo tra plebisciti e democrazia plebiscitaria, fa rientrare tra i primi sia il referendum del 1946 sia quello sull’indipendenza del Québec; casi nei quali il «termine plebiscito è usato in maniera intercambiabile con quello di referendum»22. Seguendo allora una lettura che fa leva, ai fini della distinzione in parola, sul rilievo del concreto contesto politico, e che configura il plebiscito come rivolto alla legittimazione di una persona o, al limite, di un partito politico o di un organo costituzionale23, le ipotetiche elezioni plebiscitarie catalane sembrano sfuggire all’inquadramento in questo schema. La richiesta del referendum è sostenuta, come visto, da un blocco esteso e ideologicamente trasversale di forze politiche. Per di più, quando con le elezioni anticipate del 2012 Artur Mas ha provato, in qualche modo, a personalizzare il processo, ne è uscito significativamente ridimensionato. Al rafforzamento del blocco favorevole al referendum si è accompagnata una importante perdita di seggi (12) del suo partito: legittimazione personale (o partitica) e legittimazione del processo si sono pertanto, in quella occasione, chiaramente divaricate. Anche recenti sondaggi mostrano che «la maggioranza degli indipendentisti catalani (quasi i due terzi) non vota CiU» (Matas). È pur vero che, proprio mentre si scrivono queste pagine, Artur Mas ha lanciato (25 novembre) una proposta di lista unica con cui correre in elezioni anticipate (a questo punto imminenti: si parla di inizio 2015); qualche attento analista aveva riferito, già nelle scorse settimane, di manovre politiche tese alla creazione di un Partito del Presidente 24 . L’indisponibilità manifestata su tale versante, sino ad oggi, da ERC potrebbe far sì che si conservi un’offerta partitica (pro indipendenza) variegata, che limiterebbe i rischi di personalizzazione. Ad ogni modo, per valutare la connotazione in senso personalepresidenziale di una eventuale lista unitaria, occorrerà analizzarla nella sua concreta strutturazione: modalità di scelta dei candidati, loro ordine di collocazione, contenuti Cfr. M. LUCIANI, Art. 75, op. ult. cit., in particolare pp. 135-136, dove si parla, a tal proposito, di «una vera e propria acrobazia logica». 22 P. PASQUINO, Plebiscitarismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, 1996, (versione online http://www.treccani.it/enciclopedia/plebiscitarismo_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali). 23 Cfr. M. LUCIANI, Art. 75, op. ult. cit., pp. 138-140. 24 Ci si riferisce all’articolo di Enric Juliana Empapelando, in La Vanguardia del 13 novembre 2014. 21 110 federalismi.it |n. 22/2014 programmatici (che dovrebbero definire i passaggi che questo soggetto politico intende compiere, in caso di esito elettorale favorevole, nella direzione dell’indipendenza). In relazione alle questioni sin qui evocate occorre considerare, accanto al ruolo dei partiti, quello della società civile. La mobilitazione in atto si è costruita, infatti, anche attraverso la partecipazione di una larga fetta di cittadinanza. Lo stesso voto del 9 novembre si è mosso sulla linea di confine che corre tra un referendum “encubierto” (Carrillo), smascherabile in virtù del sostanziale appoggio ricevuto dalle istituzioni catalane (da qui la seconda sospensione del TC, disattesa dalla cittadinanza e forse - in una misura che potrebbe essere accertata giudiziariamente - dal Governo della Generalitat), e una manifestazione dimostrativa (una sorta di rappresentazione simbolica del gesto – negato – di votare) amministrata, per ciò che attiene alle operazioni elettorali, integralmente da volontari (oltre 40.000). Indicativo in tal senso il fatto che la Generalitat non abbia preteso di attribuire alcuna rilevanza formale alla votazione (proprio in quanto priva delle necessarie garanzie e controlli) ma semplicemente di considerare i dati sulla partecipazione come (ulteriore) base politica per rinnovare la richiesta di un referendum consultivo in piena regola, concordato con i poteri statali. Questa interazione tra cittadini, partiti e istituzioni – sebbene abbia assunto, in questa fase di inedita tensione territoriale, una portata peculiare – può considerarsi anch’essa espressione, per alcuni versi, di un tratto tipico di una società caratterizzata da un fittissimo tessuto associativo, che «nessun politico può permettersi di ignorare, perché […] alla base della catalanità»25. Va evidenziato, in questa cornice, il ruolo di due organizzazioni: Òmnium cultural e Assemblea Nacional Catalana, che – da una certa fase in poi – hanno operato in strettissima sinergia, condizionando spesso le condotte dei soggetti partitici e istituzionali (in tal senso Matas). La prima, fondata nel 1961, conta oggi oltre 44.000 iscritti; costretta ad operare in clandestinità negli anni del franchismo, si dedica per statuto alla promozione e alla normalizzazione dell’identità nazionale della Catalogna. Dal 2010 – quando ha promosso una manifestazione di protesta contro la sentenza del Tribunal constitucional sullo Statuto – la sua connotazione politica (apartitica) si è chiaramente accentuata. La seconda, dopo una gestazione collocabile tra il 2009 e il 2011 (quando si svolgono una serie di consultazioni non ufficiali sull’indipendenza in numerosi comuni catalani), si 25 R. HUGHES, Barcellona, op. cit., p. 23 ss. 111 federalismi.it |n. 22/2014 costituisce formalmente nel 2012. Oggi conta circa 80.000 iscritti (tra “aderenti” e “simpatizzanti”) e si regge su di una struttura capillare, formata da “assemblee territoriali” (575, di ambito comunale o, per i municipi più piccoli, sovracomunale), “assemblee settoriali” (41: “Bibliotecari e documentalisti per l’indipendenza”, “Immigrazione per l’indipendenza”, “Gay e lesbiche per l’indipendenza”, “Economia sociale e solidale per l’indipendenza”, solo per citarne alcune) e “assemblee estere” (37, che raccolgono i cittadini catalani residenti in altri Paesi: per questi, il 9 novembre, sono stati predisposti nel mondo 17 punti di votazione)26. A ciò si aggiunga la partecipazione attivatasi, istituzionalmente, a livello comunale: il 4 ottobre, 920 sindaci (su 947 municipi catalani: oltre il 97%) hanno consegnato al Presidente della Generalitat le mozioni adottate dagli organismi comunali (in molti casi, come segnalato, con l’appoggio di esponenti del PSC) a sostegno della consultazione del 9 novembre, attestando – nonostante la (prima) sospensione del TC – la disponibilità ad offrire il supporto logistico-organizzativo necessario per la votazione. La Associació de Municipis per la Independència (AMI) riunisce 706 comuni (quasi il 75% del totale): si tenga conto che, ai fini dell’adesione a questa associazione, è richiesta una deliberazione a maggioranza assoluta dell’organo rappresentativo (Ple del Ajuntament) dell’ente locale. Emerge, dunque, uno scenario di grande complessità, che richiederebbe un’analisi approfondita e di taglio multidisciplinare: se esso assume rilievo, principalmente, sul piano politico-sociologico, non può non riflettersi anche sulle dinamiche della rappresentanza e della partecipazione, sul rapporto tra le due dimensioni e su quello tra partiti, cittadini e istituzioni. Qualunque sia la valutazione che si intenda dare dei fenomeni cui si è accennato, la loro considerazione appare indispensabile per il compiuto inquadramento delle vicende in atto. Non mancano, nel dibattito spagnolo, opinioni tese a ridimensionare drasticamente la portata delle istanze di partecipazione e di rivendicazione sociale - oltre che nazionale - che queste realtà ritengono di esprimere. A tal fine si evoca spesso la formula indistinta del populismo; dimenticando, forse, che questo può rappresentare al limite una «manifestazione – la “febbre” – della malattia che colpisce la democrazia, cioè la carenza La mobilitazione civica, parallela o sovrapposta a quella dei partiti nazionalisti (anche nelle fasi storiche in cui viene ancora definendosi la loro precisa fisionomia) è un altro fenomeno piuttosto ricorrente nella storia del catalanismo, soprattutto nelle fasi in cui ritiene minacciato il sentimento nazionale. Si consideri, in tal senso, l’esperienza del Centre Català (1882), di fondamentale impulso per lo sviluppo del movimento catalanista, e di Solidaritat Catalana (1906). Sul punto cfr. M. CAMINAL, Nacionalisme, op. cit., p. 85 ss. 26 112 federalismi.it |n. 22/2014 della presenza popolare in quello che dovrebbe essere il suo habitat naturale»27; e che «gli argomenti del populismo […] non possono rimanere senza risposta. […] La febbre populista è probabilmente un indicatore di una democrazia sofferente»28. Se ciò è vero, può rivelarsi miope una strategia che continui a reprimere il sintomo senza interrogarsi e agire sulla causa del male. Si ritorna, così, ad una delle questioni chiave evidenziate, lucidamente, da alcuni degli interpellati (Albertì e Viver): «se lo Stato di diritto si difenda più efficacemente incanalando questi fenomeni sociali nei percorsi legali esistenti, interpretandoli, fin dove possibile, in maniera conforme alle esigenze che discendono dai principi democratici; o se sia preferibile utilizzare il diritto come muro di contenimento di tali rivendicazioni» (Viver). Y. MÉNY – Y. SUREL, Par le peuple, pour le peuple, Paris, 2000, ed. it. Populismo e democrazia, Bologna, 2004, p. 26. 28 Y. MÉNY – Y. SUREL, Par le peuple, op. cit., p. 60. 27 113 federalismi.it |n. 22/2014