Clicca per scaricare il pdf - Osservatorio sul federalismo e la finanza

Transcript

Clicca per scaricare il pdf - Osservatorio sul federalismo e la finanza
26 NOVEMBRE 2014
Il futuro politico della Catalogna
Antoni Abat i Ninet
Enoch Albertí Rovira
Xavier Arbós Marín
Marc Carrillo
Víctor Ferreres Comella
Jordi Matas Dalmases
Carles Viver i Pi-Sunyer
a cura di
Laura Cappuccio
Ricercatore di Diritto costituzionale
Università di Napoli Federico II
Gennaro Ferraiuolo
Professore associato di Diritto costituzionale
Università di Napoli Federico II
Sommario
Introduzione. La lunga e accidentata marcia della Catalogna verso
una consultazione popolare sull’indipendenza
di Laura Cappuccio ………………………………………………….... p. 3
Il questionario ……………………………………………………… p. 33
Antoni Abat i Ninet ……………………………………………….... p. 35
Enoch Albertí Rovira ………………………………………………. p. 50
Xavier Arbós Marín ……………………………………………….... p. 59
Marc Carrillo ……………………………………………………….. p. 70
Víctor Ferreres Comella ……………………………………………. p. 80
Jordi Matas Dalmases ………………………………………………. p. 87
Carles Viver i Pi-Sunyer …………………………………………….. p. 94
Notazioni conclusive
di Gennaro Ferraiuolo ………………………………………………… p. 101
2
federalismi.it
|n. 22/2014
Introduzione
La lunga e accidentata marcia della
Catalogna verso una consultazione
popolare sull’indipendenza*
di Laura Cappuccio
Ricercatore di Diritto costituzionale
Università di Napoli Federico II
Sommario: 1. Il 9 novembre: si è votato? 2. Il primo passo: la legge catalana n. 4 del 2010
sul referendum. 3. L’indipendenza catalana tra autodeterminazione, diritto a decidere e
secessione. 4. Le “cinque vie” per l’indipendenza secondo il Consiglio per la transizione
nazionale. 5. La legge catalana sulle consultazioni popolari non referendarie: un tertium
genus?
1. Il 9 novembre: si è votato?
Il 9 novembre 2014, venticinquesimo anniversario della caduta del muro di Berlino, a
partire dalle 8 della mattina, sono state poste delle urne in diversi locali pubblici della
Catalogna e oltre 40mila volontari hanno consentito lo svolgimento di una consultazione
popolare sull’indipendenza. Nessun atto di convocazione ufficiale, né le garanzie giuridiche
che assistono i referendum sono state previste e messe in opera per questa votazione, cui
hanno scelto comunque di partecipare più di due milioni di catalani (su oltre sei milioni di
aventi diritto)1.
Articolo sottoposto a referaggio.
I mezzi di comunicazione riferiscono, come esito della votazione, che circa l’80% dei votanti si è espresso a
favore dell’indipendenza. I commentatori si sono divisi sul significato di questa giornata; cfr. le posizioni
radicalmente diverse espresse sul giornale El País (F. DE CARRERAS, El día de la deslealtad, del 9 novembre
2014 e C. JIMÉNEZ VILLAREJO, Una consulta antidemocrática, del 7 novembre 2014, e su ABC (Farsa y
desobedienia, 10 novembre 2014) rispetto a quelle che si ritrovano nella portata de La Vanguardia, El 9-N masivo
reclama una salida política, del 10 novembre 2014, e l’editoriale de l’Ara, L’ultim avís de Catalunya en un 9-N masiu i
cívic, del 10 novembre 2014.
*
1
3
federalismi.it
|n. 22/2014
Il c.d. “diritto a decidere” del popolo catalano si è manifestato così in assenza delle forme
auspicate dai diversi rappresentanti della Comunità Autonoma e da una larga parte della
società civile. Il Tribunal Constitucional, infatti, ha ammesso il ricorso del Governo, prima, nei
confronti della legge e del decreto di convocazione della consultazione popolare non
referendaria2, e, poi, verso ogni attività pubblica legata allo svolgimento della votazione
gestita dai volontari. In quest’ultimo caso, il Tribunal ha accettato il ricorso anche in
mancanza di un atto ufficiale di convocazione, considerando rilevanti alcuni elementi: le
dichiarazioni del Presidente Artur Mas in una conferenza stampa successiva alla prima
sospensione del TC; l’attivazione di una pagina web informativa; la pubblicità destinata a
promuovere la partecipazione popolare 3 . Il Tribunal non è entrato nel merito delle
questioni, ha solo applicato l’art. 161, comma due, della Costituzione che connette
automaticamente la sospensione all’impugnazione 4 . I tempi di intervento dei giudici
costituzionali e del Consiglio di Stato, tuttavia, quanto mai rapidi ed unici per la storia
spagnola, hanno attirato molte critiche 5. Il braccio di ferro tra il Governo centrale e le
istituzioni catalane ha raggiunto così il punto di maggiore tensione.
La data della consultazione e la domanda da porre agli elettori sono state indicate dal
Presidente della Generalitat di Catalogna, Artur Mas, il 12 dicembre 2013 con il sostegno dei
partiti di Convergència Democràtica de Catalunya (CDC), Unió Democràtica de Catalunya (UDC),
Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), Iniciativa per Catalunya Verds – Esquerra Unida i
Alternativa (ICV-EUiA), Candidatura d’Unitat Popular (CUP) (un totale 87 membri del
Parlamento catalano su 135). La domanda è divisa in due parti: solo se si risponde in senso
Ricorso n. 5829 -2014 del 29 settembre 2014. Nel comunicato dello stesso giorno del Tribunal si legge: “En
el presente caso, la decisión del Pleno de no demorar su resolución -limitada a comprobar la concurrencia de las condiciones
procesales de admisibilidad de los recursos, sin consideración alguna respecto al fondo de los mismos- obedece a que el Tribunal
Constitucional es consciente de la trascendencia constitucional y política de las cuestiones planteadas, para la sociedad española en
su conjunto y, en particular, para la catalana”.
3 Ricorso n. 6540-2014, del 4 novembre 2014.
4 Questo articolo, al comma due, sancisce: “Il Governo potrà impugnare davanti al Tribunale Costituzionale
le disposizioni e le decisioni adottate dagli organi delle Comunità autonome. L'impugnazione produrrà la
sospensione della disposizione o della decisione impugnata, ma il Tribunale, da parte sua, dovrà ratificarla o
annullarla entro un periodo non superiore a cinque mesi”.
5 Il Consiglio di Stato si è riunito di domenica per emettere il parere previo all’impugnazione del Governo ed
il Tribunal Constitucional ha deliberato di riunirsi in seduta straordinaria il lunedì successivo, decidendo in quello
stesso giorno.
2
4
federalismi.it
|n. 22/2014
affermativo al primo interrogativo, “Vuole che la Catalogna sia uno Stato?”, si può votare
anche per il secondo, “Vuole che questo Stato sia indipendente?”6.
L’idea di rimettere a una votazione popolare la decisione sull’indipendenza possiamo farla
risalire all’Acord per a la transició nacional i per garantir l’estabilitat parlamentària del Govern de
Catalunya, ossia al piano di governo concordato tra Artur Mas, di Convergència i Unió (CiU), e
Oriol Junqueras, di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) il 19 dicembre 2012, a seguito
delle elezioni anticipate. Il Presidente della Comunità Autonoma Artur Mas aveva deciso di
accorciare di due anni la durata della legislatura e di andare a votare in un momento
considerato favorevole al suo partito. Convergència i Unió, ritenendo presente in Catalogna
una larga maggioranza a sostegno dell’indipendenza (all’esito della manifestazione dell’11 di
settembre, giornata della festa nazionale catalana), credeva possibile ottenere una consenso
più amplio, in grado di dare maggiore supporto al cosiddetto procés sobiranista (i parlamentari
CiU erano 62 su 135). Il risultato elettorale, tuttavia, delude le aspettative del Presidente:
CiU passa dai 62 seggi a 50, il Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC), da 28 a 20, mentre
Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) ottiene un gran risultato, passando da 10 a 21
deputati.
In questo quadro nasce il ricordato patto di governo tra CiU e ERC, che si basa sul
processo indipendentista 7 . Dopo circa un mese, il 23 gennaio 2013, il Parlamento
autonomico, con l'obiettivo di dichiarare il popolo catalano come soggetto politico e
giuridico sovrano, adotta, con 85 voti favorevoli, 41 contrari, e 2 astensioni, la
“Dichiarazione di sovranità e del diritto di decidere del popolo della Catalogna” che
afferma: «D'accordo con la volontà democratica manifestata dalla maggioranza del popolo
catalano, il Parlamento della Catalogna inizia il processo per promuovere il diritto dei
cittadini della Catalogna di decidere collettivamente il proprio futuro politico» 8. Con questo
La doppia domanda esprime le diverse conseguenze che possono derivare dalla votazione su una Catalogna
indipendente. Questo aspetto mostra come la separazione, creando due unità, può poi diversamente
configurane la relazione; cfr D. PETROSINO, Democrazie di fine secolo. L’epoca delle secessioni?, in C. DE
FIORES - D. PETROSINO, Secessione, Roma, 1996, p. 35 ss., in cui sottolinea che “l’unità frutto della
separazione può andare a formare un proprio Stato da sola o unificandosi con altre unità provenienti da altri
Stati o preesistenti, oppure può essere incorporata in uno Stato esistente. L’unità da cui il territorio si distacca
può a sua volta costruire uno Stato diverso o mantenere una continuità con lo Stato precedente la
separazione. È evidente come ciascuna di queste configurazioni generi situazioni molto diverse”.
7 Per una ricostruzione della complessa vicenda catalana, G. FERRAIUOLO, La via catalana. Vicende dello Stato
plurinazionale spagnolo, in Federalismi.it, n.18/2013. Sul tema anche S. RAGONE, Il risultato delle elezioni (anticipate)
in catalogna e il referendum indipendentista, in www.dirittiregionali.org, 2012.
8 La prima risoluzione in cui il Parlamento afferma un diritto all’autodeterminazione della Catalogna è del
1989, Risoluzione 98/III del 12 di dicembre. Questa risoluzione parte dall’affermazione che la “Catalogna
6
5
federalismi.it
|n. 22/2014
atto di indirizzo comincia formalmente il processo politico-giuridico che, nelle intenzioni
della
maggioranza
parlamentare,
doveva
portare
ad
una
pronuncia
popolare
sull’indipendenza (il valore simbolico della Dichiarazione di sovranità, e le sue possibili
ricadute sistemiche, non sfuggono al Governo centrale, che decide di impugnarla dinnanzi
al Tribunal Constitucional).
Il 9 novembre, tuttavia, non si è svolta una votazione ufficiale, seguendo le regole previste
dalla Costituzione, dallo Statuto e dalla legge, ma solo una manifestazione spontanea,
espressione della volontà dei catalani di andare a votare e di decidere sul proprio futuro
politico. Le strade per consentire una consultazione popolare, infatti, si sono
progressivamente chiuse, ed hanno lasciato aperta la porta solo a una soluzione informale,
priva di un concreto valore giuridico. La storia di questa pronuncia è lunga e trova le sue
radici nelle tensioni che attraversano attualmente lo Stato spagnolo, tensioni che risalgono
allo stesso patto costituente9.
2. Il primo passo: la legge catalana n. 4 del 2010 sul referendum
La possibilità di votare attraverso un referendum consultivo, che, nelle intenzioni dei
rappresentanti del Governo catalano, era la strada maestra da percorrere per dare sostanza
giuridica alla pronuncia popolare, si basava sulla legge catalana 4/2010, del 17 marzo del
2010, “Legge sulle consultazioni popolari per via di referendum”10.
La legge n. 4 del 2010 disciplina l’istituto del referendum consultivo, avente ad oggetto le
questioni politiche di maggiore importanza, all’interno delle competenza della Generalitat.
Prima della sua adozione, il referendum era già previsto nell’ordinamento spagnolo in
forma parte di una realtà nazionale differenziata all’intermo dello Stato”. Sull’attività del Parlamento catalano
in tema di richieste di maggiore autogoverno e di diritto a decidere, cfr. VIVER PI-SUNYER, M. GRAUS
CREUS, La Contribució del Parlament al procés de consolidació i d’desenvolupament de l’autogover de Catalunya i a la defensa
de la seva idetitat nacional, in Reaf, 2013, p. 88 ss.
9 Per tutti, cfr. V. FERRERES COMELLA, The Constitution of Spain, Oxford, Oregon, Portland, 2013, p. 162 e
ss.; in particolare, l’Autore ricorda che “When the new constitutional text was discussed in 1977-1978,
political parties and public were aware that one of the most challenging questions the national faced was how
to channel the aspirations of Catalonia and the Basque Country – and to a lesser existent Galicia - where
nationalist sentiment was quite deep, while keeping Spain united around some common structures and
principles. The framers knew that this was the hardest task they confronted”, p. 163.
10 Nel Preambolo della legge si dichiara la volontà di incrementare la qualità della vita democratica in
Catalogna, attraverso meccanismi di partecipazione cittadina alle decisioni prese dall’amministrazione. La
legge si fonda sull’art. 23, comma uno, della Costituzione spagnola, che riconosce ai cittadini il diritto di
partecipare agli affari pubblici, direttamente o tramite rappresentanti liberamente eletti; e sugli artt. 29 e 122
dello Statuto Catalano, relativi, il primo, al diritto di partecipazione, il secondo, alla competenza della
Generalitat in ordine al regime giuridico ed alle modalità di svolgimento delle consultazioni popolari.
6
federalismi.it
|n. 22/2014
diverse ipotesi11; innanzitutto, nell’art. 92 Cost., che prevede un referendum consultivo per
le decisioni di “especial trascendencia”. Tale referendum è indetto dal Re, mediante proposta
del Presidente del Governo, previa autorizzazione del Congresso dei deputati. Poi ci sono i
referendum previsti dagli artt. 167 e 168 Cost., all’interno del procedimento di revisione
costituzionale; ed i referendum collegati all’ambito autonomico (art. 151, comma uno, e
comma due ed 152, comma due)12. Infine, vi è il referendum sulle modificazioni territoriali
di Navarra (disposizione transitoria quarta)13.
La legge n. 4 del 2010 distingue tra gli strumenti di partecipazione, destinati a conoscere la
posizione e le opinioni della cittadinanza in relazione a qualsiasi aspetto della vita pubblica
(che possono assumere la forma di forum di dibattito, di partecipazione, di udienze
pubbliche), dai veri e propri referendum. Il confronto sull’ammissibilità di una pronuncia
popolare sull’indipendenza della Catalogna si è concentrato a lungo sulla possibilità di
distinguere tra una consultazione referendaria e una consultazione “partecipativa”: mentre
la prima chiama in causa il corpo elettorale, ed è assistita dalle garanzie necessarie per
rendere legittimo il risultato del voto, la seconda viene riferita ai gruppi, variamente
configurati, che di volta in volta risultano interessati dalla decisione.
L’iniziativa del referendum, delineato come uno strumento per conoscere l’orientamento
dei cittadini su questioni politiche rilevanti, è rimessa al popolo, al Parlamento, al Governo,
ed ai municipi 14 . L’art. 13 della legge richiede, per lo svolgimento del referendum,
l’autorizzazione del Governo centrale, in conformità a quanto sancito dall’art. 149.1.32
Sul referendum nella Costituzione spagnola cfr. A. RUIZ ROBLEDO, Teoría y práctica del referéndum en el
ordenamiento constitucional español, in E. SÁEZ ROYO, M. CONTRERAS CASADO (a cura di), La participación
política directa. Referéndum y consultas populares, Zaragoza, 2013, p. 33; E. MARTÍN, Notas sobre el referéndum
autonómico en España, in L. CAPPUCCIO, M. CORRETJA TORRENS (a cura di), El derecho a a decidir. Un
diálogo italo-catalán, Barcellona, 2014, p. 77 ss.
12 Sui referendum previsti da questi articoli si vedano i commenti di AGUADO RENEDO, Artículo 151, in
M. E. CASAS BAAMONDE, M. RODRÍGUEZ-PIÑERO, M. BRAVO FERRER (a cura di), Comentarios a
la Constitución Española, Madrid, 2008, .p. 2159 ss.; ID., Artículo 152.2, p. 2539 ss.; J. A. ALONSO DE
ANTONIO, Artículo 151. Procedimiento de acceso a la autonomía plena, in O. ALZAGA VILLAAMIL (a cura di),
Comentarios a la Constitución Española, Madrid, 1999, XI, p. 359 ss.; J. RODRÍGUEZ-ZAPATA PÉREZ,
Artículo 152. Estructura institucional de las Comunidades Autónomas, ivi, p. 391 ss.
13 A questo elenco vanno aggiunti i referendum municipali. Cfr. E. MARTÍN, El Referéndum y la consulta
populares en las Comunidades Autónomas y municipios, in Revista Vasca de Administración Pública, 94, 2012, p. 95 ss.
14 La legge 4 del 2010 si divide in 5 titoli; il primo si occupa della definizione della consultazione popolare per
via di referendum come uno strumento di partecipazione diretta ad individuare la volontà popolare su di un
tema di particolare importanza, attraverso le modalità e le garanzia proprie del procedimento elettorale. Il
secondo, che si divide in tre capitoli, riguarda l’ambito, l’oggetto e le modalità della consultazione, a seconda
che l’iniziativa provenga dalle istituzioni o dal popolo. Su questa legge E. MARTÍN, La ley catalana de consulta
popular por vía de referéndum, in Deliberación. Revista para la mejora de la calidad democrática, 3, 2013, p. 59 ss.
11
7
federalismi.it
|n. 22/2014
della Costituzione, che attribuisce allo Stato la competenza esclusiva ad indire le
consultazioni referendarie15. La legge prevede anche altri due tipi di controlli; uno giuridico,
mediante l’intervento del Consiglio di garanzia statutaria, chiamato a verificare la
compatibilità costituzionale e statutaria della consultazione; uno politico, attraverso la
votazione del Parlamento catalano che deve approvare la proposta di consultazione.
L’intervento preventivo del Consiglio di garanzia statutaria, peraltro, è stato esercitato
anche sulla legittimità dell’intera legge 4/2010 16. Con il dictamen 3/2010, il Consiglio ha
affermato la legittimità della disciplina del referendum autonomico, in quanto strumento di
partecipazione, collegato all’autonomia delle istituzioni territoriali17.
Il Governo centrale, dal suo canto, non aveva condiviso questa interpretazione,
proponendo ricorso al Tribunal Constitucional contro la legge 4/2010, ricorso che aveva
determinato in modo automatico la sospensione della legge. Il Tribunal, pur non
pronunciandosi nel merito, è intervenuto, con l’ordinanza n. 87/2011 del 9 giugno,
rimuovendo la misura cautelare, in base all’art. 161, comma due, Cost. A difesa della
sospensione, l’Avvocato dello Stato aveva sottolineato la presenza di un grave ed
irreparabile pregiudizio che derivante dalla vigenza della disciplina autonomica. La sola
possibilità che venisse proposto un referendum, in grado di innescare una grande
mobilitazione popolare ed una radicalizzazione delle posizioni politiche in campo, era
ritenuto in grado di danneggiare il Paese, soprattutto se, in un contesto di grave crisi
economica, il referendum avesse avuto ad oggetto un nuovo patto fiscale tra la Catalogna e
lo Stato spagnolo. Il Tribunal ricorda che il mantenimento della sospensione deriva dalla
ponderazione degli interessi in gioco, che sono, da una parte, quelli generali e pubblici, o
L’art. 13 prevede: “una volta che il parlamento ha approvato la proposta di consultazione popolare, il
presidente o il presidente della Generalitat trasmette la richiesta di autorizzazione al Governo dello Stato”.
Questa autorizzazione è prevista, oltre che dalla Costituzione, anche dall’art. 2 della legge organica 2/1980,
del 18 di gennaio, che è la legge che disciplina le diverse modalità di referendum.
16 L’art. 76 dello Statuto catalano e la legge 2/2009 di sua attuazione, infatti, delineano il Consiglio di garanzia
statutaria come un organo indipendente che valuta la congruenza, alla Costituzione ed allo Statuto, dei
progetti di legge, di decreto legge, di decreto legislativo, e di riforma dello Statuto, attraverso l’adozione di
pareri, “dictámenes”, previ all’entrata in vigore degli atti A norma dell’art. 17, comma tre, della legge 2/2009 (
come modificata dalle leggi 17/2009 e 27/2010), i pareri del Consiglio, che derivano sempre da una formale
richiesta da parte dei soggetti legittimati, non sono vincolanti, almeno che non riguardino la Carta dei diritti e
dei doveri del cittadini della Catalogna, o i progetti di legge che sviluppano o incidono sui diritti previsti nei
capitoli I, II, II del Titolo Primo dello Statuto. Inoltre al Consiglio viene attribuita anche una funzione di
difesa dell’autonomia locale, attraverso pareri resi sui ricorsi da proporre al Tribunal Constitucional.
17 Parere 3/2010, del 1 marzo, p. 14.Successivamente la STC 31/2010 sullo Statuto catalano interpretava l’art.
122 dello stesso in senso tale da escludere la sua riferibilità all’istituto referendario, la cui integrale disciplina (e
non soltanto l’autorizzazione) rientra nella competenza statale (FJ 69).
15
8
federalismi.it
|n. 22/2014
delle persone coinvolte, e dall’altro, il pregiudizio derivante dalla applicazione della legge.
Per i giudici costituzionali, il semplice riferimento alla crisi economica non è in grado di
fondare la richiesta di sospensione. La legge, infatti, disciplina l’istituto del referendum,
senza indicare una richiesta referendaria specifica, per cui non è possibile individuare un
pericolo concreto derivante delle disposizioni oggetto di impugnativa. Allo stesso tempo, lo
Stato viene garantito da eventuali pregiudizi derivati dal consultazione popolare attraverso il
potere di concedere l’autorizzazione, che funge da controllo politico preventivo18.
Venuta meno la sospensione cautelare della legge, l’impossibilità giuridica di indire un
referendum, a causa dell’assenza di questa autorizzazione, ha aperto il dibattito sulle vie
percorribili per giungere comunque ad una pronuncia popolare. Prima di affrontare le
molteplici soluzioni offerte dalla dottrina alla richiesta del popolo catalano di decidere sul
proprio futuro politico, ad al fine di seguire il confronto tra le diverse posizioni sul punto, è
opportuno ricordare la giurisprudenza del Tribunal Constitucional che ha avuto modo di
intervenire su alcune questioni collegate al “caso catalano”.
Nella sentenza n. 103 del 2008, ad esempio, il Tribunal si occupa del ricorso sollevato dal
Governo statale contro la legge dei Paesi Baschi n. 9 del 2008, del 27 giugno, avente ad
oggetto “la regolazione e la convocazione di una consultazione popolare sull’apertura di un processo di
negoziazione per raggiungere la pace e la normalizzazione politica”. Tale legge, diversamente da
quella catalana, regola ed, allo stesso tempo, indice uno specifico referendum consultivo 19.
Questa normativa viene impugnata perché considerata in contrasto con la Costituzione
sotto più profili; da un lato, violerebbe gli artt. 1, secondo comma, 2, e 168 Cost., perché
riconosce un soggetto politico sovrano distinto dal popolo spagnolo, senza aver attivato il
processo di revisione costituzionale; dall’altro lato, eluderebbe gli artt. 149.1.32 e 92 Cost.
Il Tribunal afferma: “Así pues, ante la existencia de un pleno control directo por parte del Estado, expresado en la
necesidad de obtener la mencionada autorización, no es posible apreciar los perjuicios que según el Abogado del Estado sufriría el
interés general, pues, sin entrar ahora en el problema competencial planteado acerca de si la Comunidad Autónoma de Cataluña
tiene o no competencia para regular los «referenda», es claro que, en todo caso, la viabilidad de tales consultas depende
directamente de la decisión que el Estado adopte al respecto en ejercicio de la competencia de autorización que no está puesta en
cuestión en el presente proceso constitucional. Consultas respecto a las cuales, por lo demás, tampoco se ha aportado dato alguno
que permita constatar que se hayan iniciado o pretendan iniciarse los trámites conducentes a su convocatoria”.
19 Su questa decisione cfr. la inchiesta: ¿Sería constitucional el referéndum vasco?, in Teoría y realidad constitucional, 23,
2009, p. 15 e ss. con interventi dei professori A. BAR CENDÓN, F. DE CARRERAS SERRA, M.
CARRILLO LOPEZ, E. FOSSAS ESPADALLER, J. A. MONTILLA MARTOS, I. TORRES MURO. Si
vedano anche i commenti di A. LÓPEZ BASAGUREN, Sobre el referéndum y Comunidades autónomas. La ley vasca
de la “consulta” ante el Tribunal Constitucional (consideraciones con motivo de la STC 103/2008), in REAF, 9, 2009, p.
202 ss.; A. IBÁÑEZ MACÍAS, Los referendos regional y local en el Estado autonómico. Sus bases y límites
constitucionales, in Revista Vasca de Administración Pública, 97, 2013, p. 97 ss.
18
9
federalismi.it
|n. 22/2014
in quanto indice un referendum senza aver ottenuto l’autorizzazione statale. Il Governo
Basco, invece, risponde alle censure di illegittimità sottolineando che la consultazione
popolare non è da considerare un referendum, ma uno strumento di partecipazione, per cui
non necessita dell’autorizzazione da parte dello Stato. La domanda posta agli elettori, poi,
non mette in questione l’attuale ordine costituzionale, né vuole dare inizio ad una riforma
costituzionale, essendo diretta unicamente a conoscere l’orientamento dei cittadini su di un
tema di grande importanza nel territorio.
Il Tribunal concentra tutta la prima parte della decisione nell’individuare la differenza tra
una consultazione referendaria ed una non referendaria. Il referendum viene definito come
«uno strumento di partecipazione diretta dei cittadini nelle questioni pubbliche, per
l’esercizio di un diritto fondamentale riconosciuto nell’art. 23.1. Cost.». Il referendum,
quindi, non è espressione della «mera manifestazione del fenomeno partecipativo che tanta
importanza ha avuto e segue avendo nelle democrazie attuali, a cui fu sensibile il nostro
costituente, che lo ha formalizzato in un mandato di ordine generale ai poteri costituiti
perché promuovano la partecipazione nei distinti ambiti (artt. 9.2 e 48 CE)»20.
Le principali differenze tra referendum e strumenti di partecipazione vengono così
individuate in due aspetti: nel diritto che viene esercitato e nel soggetto che viene chiamato
a pronunciarsi. Per i giudici costituzionali, il referendum è il mezzo per veicolare solo la
partecipazione politica che manifesta la volontà generale imputabile al corpo elettorale, e
non qualunque altro diritto di partecipazione 21 . Le altre forme di intervento, invece,
esprimono solo volontà particolari o collettive. Se il referendum può essere considerato una
specie all’interno del genere “consultazioni popolari”, se ne distingue perché si riferisce al
corpo elettorale e viene assistito dalle regole proprie del procedimento elettorale (il censo,
la gestione ad opera della pubblica amministrazione, l’intervento degli organi
giurisdizionali).
La legge dei Paesi Baschi, quindi, identificando come votanti i cittadini e le cittadine che
hanno il diritto di suffragio attivo, chiama in causa il corpo elettorale della Comunità
Autonoma, ossia il soggetto che elegge il Parlamento basco. Seguendo questa linea
interpretativa, la consultazione viene ritenuta un referendum, essendo determinante
Sentenza n. 103 del 2008, FJ2.
Il Tribunal afferma che “in quanto strumento di partecipazione diretta nelle questioni pubbliche, il
referendum è, insieme con l’istituto della rappresentanza politica, uno dei canali di conformazione ed
espressione della volontà generale”, FJ2.
20
21
10
federalismi.it
|n. 22/2014
l’applicazione di un criterio sostantivo e non formale nella esatta qualificazione dell’istituto.
La legge basca 9/2008, inoltre, disciplina un referendum in assenza di una competenza
esplicita della Comunità autonoma su questa materia. La mancanza di una base legale viene
censurata dal Tribunal perché non rientra nell’«ordinamento costituzionale, in materia di
referendum, nessuna competenza implicita, dal momento che in un sistema, come quello
spagnolo, in cui la regola è la democrazia rappresentativa, solo si possono convocare e
celebrare i referendum che espressamente sono previsti nelle norme dello Stato, inclusi gli
Statuti di Autonomia, in conformità della Costituzione».
I giudici costituzionali, infine, si soffermano sull’esistenza del “derecho a decidir del pueblo
vasco” in merito all’apertura di un negoziato per fondare una nuova relazione tra la
Comunità Autonoma e lo Stato spagnolo. Questa nuova relazione, che mette in discussione
l’ordine costituzionale esistente, è considerata illegittima sotto il profilo formale, non
rispettando le regole sulla revisione costituzionale. Nell’ordinamento iberico, infatti, la
procedura di revisione costituzionale – stando alla giurisprudenza costituzionale - non
incontra limiti materiali, purchè si realizzi attraverso un’attività che non vulneri i principi
democratici ed i diritti fondamentali22. La Costituzione cioè viene considerata «una cornice
sufficientemente amplia perché al suo interno rientrino opzioni politiche tra loro molto
differenti» 23 . In questo quadro, solo il rispetto dei procedimenti previsti è un limite
invalicabile, che non può essere eluso attraverso vie di fatto 24 . La legge basca, invece,
ritenendo esistente un soggetto, il popolo basco, che è titolare di un diritto a decidere in
merito alla nuova configurazione dei rapporti con lo Stato, mette in discussione l’ordine
costituito, attraverso l’apparizione di un nuovo titolare della sovranità, il popolo basco, e di
uno strumento, la consultazione, che non rappresentano le modalità costituzionalmente
adeguate. Un’eventuale riscrittura della relazione tra lo Stato e le Comunità Autonome,
Si veda, in tal senso, STC 48/2003, del 12 marzo, FJ 7.
Cfr. STC 11/1981, dell’ 8 di aprile, FJ 7.
24 F. SANTAOLALLA LÓPEZ, Artículo 169, in F. GARRIDO FALLA (a cura di), Comentarios a la
Constitución, Madrid, 2001, p. 2749 ss.; J. PÉREZ ROYO, La reforma de la Constitución, Madrid, 1987; più di
recente, AA.VV., La reforma constitucional ¿Hacia un nuevo pacto constituyente?, Actas de las XIV Jornadas de la
Asociación de Letrados del Tribunal Constitucional, Madrid, 2009. Tra i vari interventi raccolti, si segnala, in
particolare, F. DE CARRERAS SERRA, Reformar la Constitución para estabilizar el modelo territorial, p. 47 ss.; G.
JÁUREGUI, Algunas reflexiones sobre la reforma del modelo territorial del Estado, p. 145 ss.; B. ALÁEZ CORRAL,
La Reforma Constitucional como motor de las transfromaciones actuales del estado Español, in Constitución y democracia: ayer
y hoy, Libro homenaje a Antonio Torres Del Moral, Madrid, 2012, p. 413 ss. J. MANUEL VERA SANTOS, Sobre el
Título X de la Constitución Española de 1978: de la reforma constitucional, in Constitución y desarrollo político. Estudios en
homenaje al profesor Jorge de Esteban, Valencia, 2013, p. 1397 ss.
22
23
11
federalismi.it
|n. 22/2014
secondo il Tribunal, non può che coinvolgere tutto il popolo spagnolo nelle forme sancite
per la revisione costituzionale, in base all’art. 168 Cost., che vede l’intervento sia delle Cortes
Generales, sia del popolo, mediante un referendum di ratifica.
Questa pronuncia ricorda, seppur con le dovute differenze, la sentenza della nostra Corte
costituzionale n. 496 del 2000, avente a oggetto la legge della Regione Veneto sul
“Referendum consultivo in merito alla presentazione di proposta di legge costituzionale per l’attribuzione
alla Regione Veneto di forme e condizioni particolari di autonomia”. La Corte, accogliendo la
questione, afferma che «nel nostro sistema le scelte fondamentali della comunità nazionale,
che ineriscono al patto costituzionale, sono riservate alla rappresentanza politica, sulle cui
determinazioni il popolo non può intervenire se non nelle forme tipiche previste dall’art.
138 della Costituzione». Il popolo chiamato a partecipare attraverso il referendum dell’art.
138 «non é disegnato dalla Costituzione come il propulsore della innovazione
costituzionale»25. La legge regionale, inoltre, configura una sorta di scissione: come se «non
esistesse un solo popolo, che dà forma all’unità politica della Nazione e vi fossero invece
più popoli; e quasi che, in particolare, al corpo elettorale regionale potesse darsi
l’opportunità di una doppia pronuncia sul medesimo quesito di revisione: una prima volta,
preventivamente, come parte scorporata dal tutto, in fase consultiva, ed una seconda volta,
eventuale e successiva, come componente dell’unitario corpo elettorale nazionale, in fase di
decisione costituzionale» (punto 5 del considerato in diritto) 26 . La natura consultiva del
referendum non ha inciso sul ragionamento della Corte, non essendo in grado di
“depotenziare” l’impatto sistemico della consultazione, dal momento che la rappresentanza
Inoltre, ricorda la Corte, “l’intervento del popolo non é a schema libero, poiché l’espressione della sua
volontà deve avvenire secondo forme tipiche e all’interno di un procedimento, che, grazie ai tempi, alle
modalità e alle fasi in cui é articolato, carica la scelta politica del massimo di razionalità di cui, per parte sua, é
capace, e tende a ridurre il rischio che tale scelta sia legata a situazioni contingenti” (punto 4.2. del considerato
in diritto).
26 Una questione diversa, ma che comunque richiama la nozione costituzionale di popolo la ritroviamo nella
decisione n. 170 del 2010 in cui la Corte costituzionale italiana valuta la legittimità costituzionale della legge
della Regione Piemonte 7 aprile 2009, n. 11, recante “Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico del
Piemonte”. In questa pronuncia la Corte afferma che non si può “consentire al legislatore regionale medesimo
di configurare o rappresentare, sia pure implicitamente, la “propria” comunità in quanto tale – solo perché
riferita, sotto il profilo personale, all’ambito territoriale della propria competenza – come “minoranza
linguistica”, da tutelare ai sensi dell’art. 6 Cost.: essendo del tutto evidente che, in linea generale,
all’articolazione politico-amministrativa dei diversi enti territoriali all’interno di una medesima più vasta, e
composita, compagine istituzionale non possa reputarsi automaticamente corrispondente – né, in senso
specifico, analogamente rilevante – una ripartizione del “popolo”, inteso nel senso di comunità “generale”, in
improbabili sue “frazioni” (punto 5 del considerato in diritto). Cfr. A. MORRONE, Avanti popolo….regionale!,
in Quad. Cost., 3, 2012, p. 615 ss.
25
12
federalismi.it
|n. 22/2014
regionale sarebbe stata comunque «astretta ad un vincolo politico», preordinato «contro la
Costituzione vigente, ponendone in discussione le stesse basi di consenso»27.
Ricordiamo brevemente queste affermazioni nella ricostruzione della vicenda catalana, non
solo per evidenziare alcune affinità nel ragionamento delle due Corti costituzionali, ma
anche per la loro attualità: non solo in Catalogna si pone in modo pressante, e oramai quasi
ineludibile, il tema della consultazione sull’indipendenza, ma anche in Italia è all’esame della
Corte la legittimità della legge veneta che indice un referendum sull’indipendenza della
Regione (legge veneta n. 16/2014, del 19 giugno). I fenomeni indipendentisti in Europa
assumono, com’è evidente dal confronto tra queste due vicende, tratti tra loro non
omogenei, non riconducibili ad una matrice storica, sociale e politica comune. Il tema della
secessione in Europa richiede, quindi, lo studio e l’analisi dei singoli casi, con un’attenta
valutazione delle diverse matrici che sottostanno alle singole vicende28.
3. L’indipendenza catalana tra autodeterminazione, diritto a decidere e secessione
In Catalogna, nell’impossibilità di indire un referendum autonomico, a causa della
mancanza di autorizzazione da parte dello Stato, il dibattito non solo giuridico si è
progressivamente concentrato sugli strumenti a disposizione della Generalitat per realizzare
comunque una pronuncia popolare. La discussione sul “diritto a decidere” si è
progressivamente focalizzata sulla ricerca dei mezzi per consentire ai cittadini di
manifestare democraticamente il proprio orientamento sul loro futuro politico.
Nel 2013, viene istituito il Consiglio per la transizione nazionale, chiamato a coadiuvare, dal
punto di vista tecnico, la Generalitat nel cammino verso l’indipendenza e nello svolgimento
della consultazione29. Il Consiglio è presieduto dal prof. Carles Viver i Pi-Sunyer, ordinario
Cfr. anche l’ordinanza n. 403 del 2001, relativa ad un giudizio per conflitto di attribuzione sorto a seguito
della delibera del Consiglio regionale del Piemonte n. 23-27186 del 3 ottobre 2000, concernente “Referendum
consultivo ai sensi dell'art. 60 dello Statuto”. Il referendum avrebbe ad oggetto una proposta di legge da presentare
alle Camere ai sensi dell'art. 121 della Costituzione, sul "trasferimento alle Regioni delle funzioni statali in
materia di sanità, polizia locale, formazione professionale e di maggiori competenze in materia di
organizzazione scolastica, offerta di programmi educativi, gestione degli istituti scolastici". Per il Governo,
che poi rinuncia al ricorso, si avrebbe una violazione del procedimento di revisione costituzionale,
“modificando il ruolo del popolo che può operare soltanto quale ‘istanza ultima di decisione’, e comunque
tenderebbe a rafforzare inammissibilmente il potere di iniziativa legislativa attribuito a ciascuna regione
dall’art. 121 della Costituzione”.
28 Sulle differenze tra il caso catalano e quello veneto si veda, ad esempio, G. FERRAIUOLO, Due referendum
non comparabili, in Quaderni costituzionali, 3, 2014, p. 703 ss.
29 Cfr. Decreto 113/2013, del 12 febbraio, pubblicato in DOGC, num. 6315 del 14 di Febbraio del 2013.
27
13
federalismi.it
|n. 22/2014
di diritto costituzionale ed ex membro del Tribunal Constitucional 30. Il Consiglio ha elaborato
18 rapporti (Informes), racchiusi ora nel “Llibre blanc de la Transició Nacional de Catalunya”, che
affrontano i diversi aspetti coinvolti nella creazione di uno nuovo Stato, che vanno
dall’amministrazione tributaria, alle tecnologie dell’informazione, alla politica monetaria,
alla gestione dell’acqua e dell’energia, alle relazioni internazionali31.
Il primo rapporto del 25 luglio del 2013 è intitolato: “La consultazione sul futuro politico delle
Catalogna”
32
. In questo testo, in cui si analizzano diversi aspetti del processo
indipendentista, vengono riferiti anche i dati di alcune inchieste condotte negli anni 20002013, che mostrano un cambiamento nell’atteggiamento assunto dalla cittadinanza catalana,
dopo la sentenza del Tribunal n. 31 del 2010 sullo Statuto. Tale decisone, infatti, segna un
punto decisivo nella storia delle relazioni tra la Catalogna e lo Stato spagnolo33. A partire da
I membri del Consiglio sono quasi tutti professori universitari: Carles Viver i Pi-Sunyer, Presidente,
Cattedratico di “Dret” nella Universitat Pompeu Fabra; Núria Bosch i Roca, Vicepresidente, Cattedratica di
“Hisenda Pública” della Universitat de Barcelona; Enoch Albertí i Rovira, Cattedratico di “Dret Constitucional”,
della Universitat de Barcelona; Germà Bel i Queralt, Cattedratico di “Economia” della Universitat de
Barcelona; Carles Boix i Serra, Cattedratico di “Ciència Política” della Universitat de Princeton (EUA); Salvador
Cardús i Ros, dottore in “Ciències Econòmiques” e professore di “Sociologia” della Universitat Autònoma de
Barcelona; Àngel Castiñeira i Fernández, direttore della Cattedra “Lideratges i Governança Democràtica de l'Escola
Superior d'Administració i Direcció d'Empreses”; Francina Esteve i Garcia, professoressa associata di “Dret
Internacional” della Universitatà di Girona; Joan Font i Fabregó, impresario; Rafael Grasa i Hernández,
professore di “ Relacions Internacionals” della Universitat Autònoma de Barcelona; Pilar Rahola i Martínez,
laureata in “Filologia” e scrittrice; Josep Maria Reniu i Vilamala, professor di “Ciència Política” della Universitat
de Barcelona; Ferran Requejo i Coll, Cattedratico di “Ciència Política” della Universitat Pompeu Fabra; Joan
Vintró i Castells, Cattedratico di “Dret Constitucional” della Universitat de Barcelona
31 I Rapporti elaborati dal Consiglio sono i seguenti: “Informe 1. La consulta sobre el futur polític de Catalunya;
Informe 2, L'administració tributària de Catalunya; Informe 3,Les relacions de cooperació entre Catalunya i l'estat
espanyol;Informe 4, Internacionalització de la consulta i del procés d'autodeterminació de Catalunya; Informe 5, Les tecnologies
de la informació i de la comunicació a Catalunya; Informe 6, Les vies d'integració de Catalunya a la Unió Europea; Informe 7,
La distribució d'actius i passius; Informe 8, Política monetària (euro), Banc Central i supervisió del sistema financer; Informe 9,
L'abastament d'aigua i energia; Informe 10, El procés constituent; Informe 11, Les relacions comercials entre Catalunya i
Espanya; Informe 12, Autoritats reguladores; Informe 13, Integració a la comunitat internacional; Informe 14, Poder judicial;
Informe 15, Seguretat Social catalana; Informe 16, Successió d'ordenaments i administracions; Informe 17, Seguretat interna i
internacional de Catalunya; Informe 18, Viabilitat fiscal i financera d'una Catalunya independent”. Sul tema della
relazione tra la Catalogna e l’Europa, cfr. A. GALÁN GALÁN, Secesión de Estados y pertenencia a la Unión
europea: Cataluña en la encrucijada, in Le istituzioni del Federalismo, n. 1, 2013, p. 95; M. MEDINA ORTEGA, El
derecho de secesión en la Unión Europea, Madrid, Barcelona, Buenos Aires, 2014.
32Questo rapporto si può leggere anche nel sito http://www.ara.cat/politica/inf_ARAFIL20140414_0002.pdf
33 Su questa sentenza cfr. la Encuesta: la STC 31/2010, sobre el Estatuto de Autonomia de Cataluña, in Teoría y
Realidad Constitucional, 27, 2011, p. 11 ss, con interventi dei professori R. BLANCO VALDÉS, R. CANOSA
USERA, F. DE CARRERAS SERRA, J. CORCUERA ATIENZA, M. CARRILLO LOPEZ, J. GARCÍA
ROCA, L. PAREJO ALONSO; si veda anche il Número Extraordinario de la Revista catalana de dret públic, Especial
Sentencia 31/2010 del Tribunal Constitucional sobre el Estatuto de Autonomía de Cataluña de 2006, 2010, che si apre
con “Valoración general de la Sentencia 31/2010 del Tribunal Constitucional”, con interventi dei prof. E. ALBERTÍ
ROVIRA, M. ANGEL APARICIO PÉREZ, X. ARBÓS I MARÍN, M. BARCELÓ, J. FERRET I JACAS, J.
TORNOS MAS, J. VINTRÓ I CASTELLS, C. VIVER I PI-SUNYER.
30
14
federalismi.it
|n. 22/2014
questo momento, comincia a crescere, nell’opinione pubblica, la richiesta di una
consultazione popolare sull’indipendenza.
In molti hanno visto nella decisione di incostituzionalità di molte disposizioni statutarie
l’inizio di una fase di crescente tensione, caratterizzata da un confronto sempre più
polarizzato, in cui le vie di mediazione, tra le domande di maggiore autonomia da parte
della Catalogna e la rivendicazione dei limiti alle competenze locali da parte dello Stato,
sembrano essersi esaurite. L’elaborazione del nuovo Statuto aveva incanalato e tradotto in
termini giuridici l’esigenza di rivedere le condizioni e le forme dell’autogoverno territoriale.
La parziale bocciatura da parte del Tribunal ha innescato una reazione da parte delle forze
politiche catalane, sostenute da una mobilitazione cittadina in costante aumento, che hanno
visto nella celebrazione della consultazione lo strumento adeguato a manifestare la volontà
popolare a favore di una maggiore indipendenza. In mancanza di un tavolo, di una
trattativa, all’interno della quale le istituzioni politiche nazionali e locali si facessero carico
delle domande provenienti da una parte del Paese, predisponendo un accordo su quali e
quanti aspetti dell’attuale configurazione autonomica potessero essere modificati, è
cresciuto un movimento cittadino che ha fatto del “diritto a decidere” la propria bandiera.
I fondamenti di questo diritto vengono analizzati nel Rapporto n. 1 del Consiglio di
transizione nazionale sulla consultazione popolare, tra cui, in primo luogo, viene riportata
la configurazione della Catalogna come una delle collettività nazionali «più antiche
d’Europa»34. Dopo una ricostruzione della storia catalana, si ricorda che la Costituzione
spagnola, con la creazione dello Stato delle autonomie e l’inclusione ed il riconoscimento
delle nazionalità storiche, comincia un processo di recupero dell’autonomia catalana, delle
sue istituzioni politiche e della sua lingua. La Costituzione, tuttavia, mostra molte ambiguità
nella configurazione territoriale, dal momento che il riferimento alla nazionalità non è poi
accompagnato da precise conseguenze giuridiche, e la peculiarità storica della Catalogna e
dei Paesi Baschi non conducono ad una compiuta forma di autogoverno locale,
«congruente con la realtà fattica del pluralismo nazionale dello Stato»35. In questo quadro, la
bocciatura da parte del Tribunal Constitucional del tentativo di riforma dello Statuto catalano,
teso a dotare di maggiori poteri la Comunità Autonoma, viene definita come «la rottura
34
35
Per questo aspetto si veda l’informe n. 1, p. 31 ss.
Cfr Informe n.1, p. 37
15
federalismi.it
|n. 22/2014
dello spirito di consenso che aveva fondato la Costituzione del 1978»36. Consenso che,
ricordiamolo, si era manifestato nell’approvazione dello Statuto in tre momenti distinti: con
la votazione da parte del Parlamento catalano, con l’approvazione, con emendamenti, da
parte della Cortes Generales, con la votazione referendaria. Il Consiglio per la transizione
individua un prima e un dopo nelle relazioni politiche tra lo Stato e la Catalogna, e lo
spartiacque è rappresentato dalla sentenza n. 31 del 201037.
A queste considerazioni si associano poi quelle riferite alla legittimità politica della
consultazione in una democrazia liberale. La consultazione, si legge nel Rapporto,
«rappresenta la risposta democratica ad una domanda con costanza proposta da un settore
rilevante della società catalana e dai suoi rappresentanti politici che è divenuta chiaramente
maggioritaria: potersi esprimere democraticamente sul futuro politico del paese». La
consultazione non è un «capriccio di una minoranza, ma il risultato di una mobilitazione
popolare continua», oltre che di un mandato chiaramente espresso dagli elettori nelle ultime
elezioni38.
Il diritto a decidere, infatti, lo ritroviamo, già dal 1989, in diverse risoluzioni del Parlamento
catalano, che, prima in una forma molto generica, poi in termini sempre più stringenti
richiamano il diritto della Catalogna a scegliere il proprio futuro. Successivamente, esso
accompagna le rivendicazioni legate al lungo processo di approvazione dello Statuto di
autonomia. Una caratteristica del diritto a decidere, non a caso, viene considerata la sua
provenienza dal basso, dai movimenti sociali, accolta, solo in un secondo momento, dalle
istituzioni politiche 39 . Molto probabilmente, tale espressione viene preferita a quella di
autodeterminazione perché più congeniale a definire dei processi che si sviluppano
all’interno di contesti democratici, caratterizzati dalla presenza di una minoranza nazionale,
senza che venga in rilievo la liberazione dal giogo coloniale, propria dei fenomeni di
autodeterminazione40.
Cfr. Informe n.1, p. 37
Si legge a pag. 38 dell’Informe n.1 che “la Catalogna ha mantenuto la sua personalità collettiva, nazionale e
culturale durante tre secoli. In questo periodo sono falliti tutti i tentativi di arrivare ad accordi con lo Stato
spagnolo in termini giusti e stabili per un riconoscimento nazionale e per un’accomodazione politica, così
come quelli tesi ad ottenere un potere politico di qualità ed una finanzi azione sufficiente in funzione della
ricchezza che il paese genera”.
38 Informe n. 1, p. 41
39 J.M. VILAJOSANA, Principi democràtic i justificació constitucional del dret de decidir, in Reaf, 19, 2014, p. 181 ss.
40 J.M. VILAJOSANA, Principi democràtic, p. 182
36
37
16
federalismi.it
|n. 22/2014
Il principio di autodeterminazione, per come si è affermato nell’ordinamento
internazionale, infatti, esprime il diritto di un popolo di decidere liberamente il proprio
statuto politico (art. 1 e 55 della Carta delle Nazioni Unite, del 1945 e art. 1 dei Patti sui
diritti Civili, politici, economici e sociali del 1966)41. Tale diritto può confliggere con altri
due principi fondamentali del diritto internazionale classico: quello di integrità territoriale e
quello di non ingerenza negli affari interni. Nell’ordinamento internazionale il rispetto
dell’autodeterminazione si presume fino a prova contraria; è un diritto cioè definito in
negativo, attraverso le ipotesi della sua violazione (dominio coloniale, occupazione
straniera, governo razzista). Le teorie maggioritarie sulla secessione (Remedial right theories),
infatti, collegano le richieste di indipendenza alla presenza di una giusta causa, come una
conquista militare, l’annessione del territorio con la forza, la violazione dei diritti umani, il
genocidio. Nel panorama scientifico, tuttavia, si stanno progressivamente affermando
ricostruzioni diverse, che prescindono dalla presenza di una ingiustizia subita e valorizzano
il carattere originario del diritto, indipendentemente dal comportamento dello Stato
(Primary right teorie)42.
Il “derecho a decidir”, dunque, se può essere considerato una variante del concetto di
autodeterminazione, non deve del tutto confondersi con esso43. La peculiarità, dal punto di
vista del diritto internazionale, dei processi indipendentisti che attraversano l’Europa, di cui
la Scozia e la Catalogna rappresentano le punte più avanzate, risiede proprio nella diversità
del ‘contesto’ in cui si collocano. Non ci troviamo, infatti, dinanzi alla creazione di nuovi
G. ARANGIO RUIZ, Autodeterminazione (diritto dei popoli alla), in Enc. Giur. Treccani, IV, Roma, 1988; F.
LATTANZI, Autodeterminazione dei popoli, in Digesto disc. pubbl., Torino, 1987, vol. II, 4 ss.
42 Su questa distinzione cfr. D. HALJAN, Constitutionalising secession, Oxford, Portland, 2014, p. 81 ss.; anche la
voce Secession, in Stanford Encyclopedia of Philosophy, 2013 consultabile in http://plato.stanford.edu/entries/secession/;
A.
BUCHANAN,
Theories
of
Secession,
in
http://philosophyfaculty.ucsd.edu/FACULTY/RARNESON/BuchananTheoriesofSecession.pdf;
C.
MUELLER,
Secession
and
self-determination
–
Remedial
Right
Only
Theory
scrutinized,
in
http://www.polis.leeds.ac.uk/assets/files/students/student-journal/ug-summer-12/charlotte-mueller.pdf
43 J.M. VILAJOSANA, Principi democràtic, p. 183 ss. sottolinea che, anche se il diritto a decidere ingloba alcuni
elementi dell’autodeterminazione, si possono tracciare alcune differenza tra questi due concetti; il primo, il
diritto a decidere, viene qualificato come un diritto individuale, mentre il secondo, l’autodeterminazione, fa
riferimento ad una collettività, ad un popolo; il primo si sviluppa in ambito nazionale, il secondo in ambito
internazionale; il primo si concreta nella richiesta di una consultazione, il secondo in una dichiarazione
unilaterale di indipendenza. Sul rapporto tra secessione ed autodeterminazione S. MACEDO, A.
BUCHANAN (a cura di), Secession and self-determination, New York, 2003, in particolare D. F.
ORENTLICHER, International responses to separatist claims: are democratic principles relevant?, p. 19 ss.
41
17
federalismi.it
|n. 22/2014
Stati frutto dei processi di liberazione coloniale, ma all’interno di Stati democratici 44 .
L’analisi storica mostra come il tentativo di costruire un idealtipo di secessione sia destinato
a scontrarsi con la prassi, apparendo «contraddittorio ed inadeguato»45.
All’interno del difficile equilibrio tra unità e diversità, si collocano anche le teorie
dell’accomodazione politica proprie degli Stati plurinazionali, degli Stati al cui interno vi
sono delle minoranze nazionali, la cui tutela rappresenta un fattore di legittimazione 46 .
L’accomodazione diviene un modo per evitare la disgregazione politica, la secessione,
attraverso pratiche di riconoscimento della diversità nazionale47. Le richieste, provenienti
dalla Catalogna, di disegnare in maniera plurinazionale lo Stato spagnolo, invece, non
hanno trovato eco, così come il riconoscimento di una identità nazionale differenziata.
L’idea di un patto volontario tra differenti entità nazionali, che è la base del federalismo
plurinazionale, non è stato accolto dalle istituzioni statali48.
Allo stesso tempo, il federalismo non dissolve di per sé le tendenze alla separazione, se non
è accompagnato da un forte senso di appartenenza. Anche gli Stati federali sono
attraversati da spinte secessioniste, cui solo una forte identità nazionale, come avviene nel
caso tedesco, funge da effettiva barriera. Il riconoscimento di maggiore autonomia, a volte,
apre le porte all’ingresso delle domande di separazione. In Spagna, il rifiuto di modificare le
condizioni dell’autogoverno della Catalogna può essere letto anche in questa chiave: il
timore di dischiudere l’uscio a domande di vera e propria divisione territoriale.
Sulla secessione nelle democrazie avanzate, cfr. J. SORENS, Secessionism. Identity, Interest and strategy,
Montreal & Kingston, 2012, p. 74 ss. Una panoramica dei movimenti secessionisti nel mondo si ritrova in A.
PAVKOVI´c, P. RADAN (a cura di), The ashgate research companion to secession, Surray, 2011, p. 455 e ss.
45 C. DE FIORES, Secessione e forma di Stato, in Secessione, cit., p. 96.
46 A. G. GAGNON, Más allá de la nación unificadora: alegato a favor del federalismo multinacional, Oñati, 2009, in cui
si riflette anche sul ruolo del federalismo asimmetrico, p. 47 ss.; Id., Época de incertidumbre. Ensayo sobre el
federalismo y la diversidad nacional, Valenzia, 2013, specialmente p. 25 ss.; R. MAIZ, F. REQUEJO (a cura di),
Democracy, Nationalism and Multiculturalism, Londra, 2005.
47 Cfr. A. G. GAGNON, Época de incertidumbre. Ensayo sobre el federalismo y la diversidad nacional, cit., p. 153 ss.;
M. CAMINAL, El federalismo pluralista. Del federalismo nacional al federalismo plurinacional, Barcellona, 2002.
48 Sulla relazione tra federalismo e democrazie plurinazionali cf. M. BURGESS, A. G. GAGNON (a cura di),
Democràcies federals, Barcellona, 2013; in particolare i contributi di M. BURGESS, A. G. GAGNON, Introducció:
federalisme i democrácia, p. 19 ss.; D. KARMIS, “Unió” en democràcies federals plurinacionals: Toqueville, Proudon i el buit
teòric en la tradició federal moderna, p. 79 ss.; F. REQUEJO, Federalisme i democràcia. El cas de les nacions minoritàries:
un dèfict federalista, p. 387 ss. Su nazionalismo, autodeterminazione e federalismo, W. NORMAN, Negotiating
nationalism, nation-building, federalism, and secession in the multinational state, Oxford, 2008. Sul caso catalano, M.
GUIBERNAU, El Nacionalisme català: franquisme, transició i democràcia, Barcellona, 2002; M. KEATING,
Naciones contra el Estado: el nacionalismo de Cataluña, Quebec, y Escocia, Barcellona, 1996.
44
18
federalismi.it
|n. 22/2014
In Europa, la crisi economica ha certamente acuito «la diffusione di spirali secessioniste»49.
Non solo in Scozia ed in Catalogna, ma anche in Galles ed in Belgio alcune formazioni
politiche mettono in discussione l’unità nazionale. L’apparizione nel vecchio continente di
un federalismo centrifugo viene collegato anche ai processi di integrazione economica
sovranazionale. Le attuali rivendicazioni secessioniste, non a caso, fanno dell’adesione
all’Unione europea un elemento importante del progetto indipendentista, vedendo nella
partecipazione alle istituzioni comunitarie un elemento determinante per la costruzione del
nuovo Stato. Il ruolo svolto dai fattori economici, però, senza una base culturale ed
identitaria forte non sembra in grado di fondare un nuovo ordinamento. È la combinazione
di questi elementi (etnici, culturali, identitari ed economici) che funge da detonatore della
secessione. In alcuni Paesi si è già manifestato in maniera problematica il rapporto tra la
«democrazia come insieme di procedure di legittimazione di decisioni pubbliche e lo Stato
come fattore geopolitico», al cui interno convivono diversi gruppi etnici (si pensi al
Montenegro, al Kosovo, e, in generale, alla dissoluzione della Repubblica Jugoslava)50. In
altri casi, pur in mancanza di una radicalizzazione etnica, la natura plurinazionale (Canada)
o storico-culturale (Scozia) dell’ordinamento ha condotto allo svolgimento di referendum
sull’indipendenza51.
Se guardiamo alla Catalogna, la richiesta di un nuovo patto fiscale con lo Stato spagnolo ha
animato il confronto centro-comunità autonoma per lungo tempo. Nel 2012, il rifiuto da
parte del Presidente del Governo spagnolo di aprire una trattativa su di un nuovo patto
fiscale, è tra i fattori che hanno condotto il partito di Convergencia i Unió alla scelta delle
elezioni anticipate. Tuttavia, i dati riportati da una serie di indagini mostrano come le
richieste di indipendenza non verrebbero oramai meno se si giungesse ad un nuovo
accordo fiscale più favorevole alla Catalogna. Le motivazioni economiche cioè vengono
dopo quelle politiche. Il “patto fiscale” non è il cuore delle rivendicazioni catalane; se si
dividono i cittadini a favore dell’indipendenza in due gruppi (uno di preferenza forte ed
C. DE FIORES, “Remettre les Régions a leur place”. Dall’Europa delle Regioni alle Regioni senza Europa?, in Le
istituzioni del federalismo, 1, 2013, p. 57 ss.
50 D. PETROSINO, Democrazie di fine secolo, cit., p. 27
51 In Spagna, ad esempio, viene in rilievo la nozione di federalismo plurinazionale, ossia un federalismo «che
persegue la sistemazione, in un medesimo spazio politico-costituzionale, di differenti comunità che reclamano
una propria identità nazionale e rivendicano un livello di autogoverno tale da garantire loro la sopravvivenza e
lo sviluppo», E. FOSSAS ESPADALER, Estado autonómico: plurinacionalidad y asimetría, in A.
MASTROMARINO, J. M. CASTELLÀ ANDREU (a cura di), Esperienze di regionalismo differenziato. Il caso
italiano e quello spagnolo a confronto, Milano, 2009, p. 93 ss.
49
19
federalismi.it
|n. 22/2014
uno debole) si vede l’incidenza solo sul secondo del fattore fiscale52, laddove il primo risulta
impermeabile a questo dato, segno della natura complessa della rivendicazione
indipendentista. Il nazionalismo catalano, quindi, non si può ridurre soltanto all’emergere di
istanze egoistiche ed antisolidaristiche53 in un’epoca in cui si intreccia la crisi economica
con quella politico-rappresentativa54, ma porta con sé anche aspirazioni di rinnovamento
politico e di riconoscimento identitario.
4. Le “cinque vie” per l’indipendenza secondo il Consiglio per la transizione
nazionale
Il “derecho a decidir”, come formulato in Catalogna, mette in questione l’attuale struttura
territoriale e giuridica dello Stato spagnolo. La dottrina spagnola si è divisa tra coloro che
ritengono ammissibile una pronuncia popolare di questo tipo e coloro che la ritengono
illegittima. La possibilità che una Comunità autonoma decida in merito alla sua
appartenenza allo Stato di origine, infatti, coinvolge una serie di questioni centrali del diritto
costituzionale, come la spettanza della sovranità, la nozione di popolo, la visione della
Costituzione come limite alle decisioni politiche della maggioranza e come fattore di
integrazione e tutela delle minoranze. Il dibattito attualmente presente in Spagna vede
contrapposti coloro che inquadrano il diritto a decidere tra gli strumenti di partecipazione
democratica e di esercizio delle virtù civiche, e coloro che ne sottolineano la pericolosità e
la contrarietà alla Costituzione. Il diritto a decidere, infatti, si pone al crocevia di diverse
norme costituzionali; da un lato, appare in linea con gli articoli 1, primo comma e 23 della
Costituzione, in cui si definisce come democratico lo Stato spagnolo e si riconosce il diritto
di partecipazione dei cittadini agli affari pubblici; dall’altro, sembra contraddire gli articoli 1,
secondo comma, e 2 della Costituzione, che affermano l’appartenenza della sovranità al
popolo spagnolo e l’indissolubile unità della nazione spagnola.
Per una ricostruzione di questo aspetto cfr. M. CORRETJA TORRENS, El derecho a decidir en clave económica,
in L. CAPPUCCIO, M. CORRETJA TORRENS, El derecho a decidir, cit., p. 206 ss.
53 Si veda il dibattito suscitato dall’intervento del prof. WEILER sul caso catalano in Catalonian Independence and
the European Union, in http://www.ejiltalk.org/catalonian-independence-and-the-european-union a cui ha fatto seguito la
replica del prof. N. KRISH, Catalonia’s Independence: A Reply to Joseph Weiler sullo stesso sito.
54 Fa riferimento alla presenza di tre crisi, finanziaria, politico-rappresentativa e nazionale-territoriale, J.M.
CASTELLÀ ANDREU, Democracia, reforma constitucional y referéndum de autodeterminación en Cataluña, in E.
ÁLVAREZ CONDE, C. SOUTO GALVÁN ( a cura di), El Estado autonómico en la perspectiva del 2020, Madrid,
2013, p. 172.
52
20
federalismi.it
|n. 22/2014
Al fine di seguire la discussione, a tratti accesa e polemica, che si sta sviluppando in
Catalogna, possiamo partire dal “Rapporto sui procedimenti legali attraverso cui i cittadini e le
cittadine della Catalogna possono essere consultati sul loro futuro politico collettivo”, redatto dall’Institut
d’Estudis Autonòmics di Barcellona, nel marzo del 2013. In questa relazione, l’Institut ha
ritenuto di poter individuare cinque modalità, nell’attuale contesto costituzionale e
statutario, per giungere ad una pronuncia popolare sull’indipendenza: un referendum
consultivo regolato e convocato dallo Stato in base all’art. 92 Cost; la delega o il
trasferimento di competenze in base all’art. 152 Cost; il referendum previsto dalla legge
catalana n. 4 del 2010; la consultazione popolare non referendaria, oggetto della legge n. 10
del 2014; la riforma della Costituzione55. Su queste strade, sulla loro effettiva percorribilità e
compatibilità con la Costituzione, il dibattito in ambito scientifico e sociale è ancora molto
animato.
Seguendo il ragionamento dell’Institut d’Estudis Autonòmics, sostanzialmente ripreso dal
Rapporto n. 1 del Consiglio per la Transizione nazionale, i principi costituzionali che fanno
da sfondo al diritto a decidere sono lo Stato di diritto e il principio democratico. Se lo Stato
di diritto valorizza il rispetto delle regole che sanciscono limiti all’esercizio del potere; il
principio democratico impone di selezionare, interpretare ed applicare quelle stesse regole
in modo che diano la «maggiore espansione possibile al diritto costituzionale di
partecipazione politica dei cittadini» 56. L’applicazione di questa opzione interpretativa al
referendum previsto dall’art. 92 della Costituzione serve ad allontanare le tesi che vogliono
gli istituti di democrazia diretta oggetto di una lettura restrittiva, in base alla volontà dei
costituenti.
Questa impostazione, che valorizza le virtù del principio democratico, viene aspramente
criticata da una parte della dottrina, perché viziata da una sorta di trasformazione retorica,
ben rappresentata dall’Umwertung di Nietzsche, che consiste nel convertire la «difesa
particolarista della secessionismo in una missione universale e storica di lotta per la libertà, i
diritti fondamentali». Conversione che impedisce un discorso alternativo e conferisce
Questo rapporto dell’Institut è intitolato: “Informe sobre los procedimientos legales a traves de los que los ciudadanos y
las ciudadanas de Catalunya pueden ser consultados sobre su futuro político colectivo” e lo si può leggere all’interno della
pubblicazione Tres informes de l’institut d’estudis autonòmics sobre el pacte fiscal, les duplicitats, i les consultes populars,
Barcellona 2013, consultabile anche al sito http://www.gencat.cat/governacio/pub/sum/iea/Tres_informes_IEA.pdf.
56 Rapporto dell’ Institut d’Estudis Autonómics, p. 402. Inoltre a pag. 404 si afferma che “non si tratta,
insistiamo, di far dire ai precetti che regolano le consultazioni quello che non dicono, né possono dire, né di
creare procedimenti contrari ai principi costituzionali, si tratta semplicemente di interpretare i precetti vigenti
alla luce delle esigenze del principio democratico”.
55
21
federalismi.it
|n. 22/2014
legittimità alla posizione di una sola parte, proprio perché titolare della lotta democratica57.
Il principio democratico cioè non può prescindere dal rispetto dei limiti previsti in
Costituzione, che rappresentano una garanzia per tutte le parti, e non solo per una di esse;
un principio democratico, in sostanza, che si sviluppa dentro e non al di là della
Costituzione.
Tornando al referendum, l’art. 92 Cost. prevede la possibilità di indire una consultazione
popolare “de todos los ciudadanos”. Allo stesso modo, la legge organica, adottata per la sua
concretizzazione (legge 2 del 1980, del 18 gennaio), omette la disciplina di un referendum
parziale, a cui partecipano solo i cittadini di una Comunità Autonoma. In base alla lettura
offerta di queste disposizioni, la dottrina si è divisa tra coloro che ritengono ammesso o
precluso un referendum consultivo diretto ai soli cittadini catalani. I primi, ad esempio,
sottolineano che l’art. 92 Cost. non contiene un espresso divieto di referendum parziale:
l’art. 92 chiama a votare tutti i cittadini, e non di tutti i cittadini spagnoli58. A favore di
questa ricostruzione militerebbe anche la scelta costituzionale di imporre l’autorizzazione
statale per l’indizione del referendum (art. 149.1.32 Cost.). Il controllo politico sul
referendum acquista senso se riferito alle richieste provenienti dalle autonomie. Lo Stato
cioè viene investito di questo controllo, inusuale nel diritto comparato59, perché l’iniziativa
può essere assunta anche dalle Comunità Autonome. Seguendo questa prospettiva, si
potrebbe modificare la legge organica per inserire anche il referendum consultivo
autonomico e dare copertura legale allo svolgimento della consultazione.
L’Institut prende in considerazione anche le argomentazioni sviluppate dal Tribunal
Constitucional nella sentenza n. 103 del 2008, per negare la legittimità della legge basca sulla
consultazione popolare (supra par. 2). Nel Rapporto si sostiene che l’unità della nazione e la
sovranità del popolo spagnolo non verrebbero toccati dalla pronuncia dei cittadini catalani,
ma solo eventualmente da una successiva riforma costituzionale a cui parteciperebbero
tutte le istituzioni statali e l’intero popolo60. Diversamente, la soluzione che vuole che tutti
cittadini dello Stato siano chiamati ad esprimersi sul futuro della Catalogna, attraverso un
Così C. UNGUREANU, Las dos caras del nacionalismo independentista, in El País, del 31 ottobre 2014.
Tra gli autori che ritengono possibile un referedum territorale in base all’art. 92 Cost, cfr. A. LÓPEZ
BASAGUREN, La secesión de territorios en la Constitución española, in Revista de Derecho de la Unión Europea, 25,
2013, p. 102; una posizione di apertura la ritroviamo anche in alcuni articoli di stampa, cfr. F. RUBIO
LLORENTE in “Un referéndum para Cataluña”, in El País. 8 ottobre 2012; F. DE CARRERAS Un referéndum?,
in La Vanguardia. 20 settembre 2012.
59 E. MARTÍN, Notas sobre el referéndum autonómico en España, cit., p. 86.
60 Rapporto, p. 408-409.
57
58
22
federalismi.it
|n. 22/2014
referendum consultivo generale, non sembra particolarmente gradita perché porrebbe in
maniera «aperta ed inevitabile» il problema di chi è il «soggetto politico legittimato ad
adottare la decisione»61.
La seconda via è rappresentata dall’art. 150, comma due, che consente allo Stato di
trasferire o delegare alle Comunità autonome, mediante legge organica, determinate facoltà
in materie di competenza statale. Il vantaggio di questa soluzione è che la delega può essere
messa in atto per la convocazione di una specifica consultazione; i problemi derivano dalla
stessa possibilità di considerare la facoltà di convocare un referendum come una materia
suscettibile di essere trasferita. Fino ad oggi le diverse iniziative tese all’adozione di una
legge organica ex art. 150, provenienti sia da gruppi presenti nella Camera dei Deputati, sia
dal Parlamento catalano, non sono state accolte62. Su questo aspetto, il Rapporto ricorda il
diverso atteggiamento assunto dalle istituzioni inglesi. Il referendum indipendentista è stato
il frutto dell’accordo del 15 ottobre 2012 tra il Governo del Regno Unito ed il Governo
scozzese. Anche se la competenza, in termini generali, a promuovere i referendum
apparteneva allo Stato, l’accordo politico si è tradotto in una modifica normativa ed in un
ampliamento delle competenze scozzesi63.
Altra possibilità è l’indizione di un referendum consultivo autonomico, disciplinato dalla
legge catalana n. 4 del 2010, di cui già ci siamo occupati (supra par. 2). Il referendum sul
futuro politico della Catalogna, infatti, viene considerato, da molti autori, come eccedente
le competenze territoriali; da altri, compatibile con i distinti poteri e facoltà rimessi dalla
Costituzione alle Comunità Autonome, tra cui il potere di dare impulso al procedimento di
revisione costituzionale. Questa via viene ritenuta comunque impraticabile perché lo
svolgimento del referendum dipende dall’autorizzazione dello Stato, autorizzazione difficile
da immaginare, visto le possibili obiezioni legate all’oggetto della consultazione.
La possibilità di convocare un referendum consultivo che preceda l’iniziativa di revisione
costituzionale è stata già analizzata dal Consiglio di garanzia statutaria. Con il parere n. 15
Questa espressione la ritroviamo Informe n.1 del Consiglio per la transizione nazionale, p. 52.
Si possono ricordare diverse iniziative svolte nel corso degli anni tra cui, ad esempio, la “Proposició de llei
orgànica, per via de l'article 150.2 de la Constitució, de transferència a la Generalitat de Catalunya de les competències en
matèria d'autorització per a la convocatòria de referèndum”, presentata dal Parlamento catalano (Bulletí Oficial de les
Corts Generals, num. 12-1, del 16 aprile del 2004), cfr. il Rapporto a p. 44.
63 Cfr. M. GOLDONI, Il referendum sull’indipendenza scozzese, in Quaderni costituzionali, 3, 2012, p. 632 ss.; J.O.
FROSINI, L’indipendenza della Scozia: l’uscita da due unioni?, in Quad. cost., 2, 2013, p. 442; A. TORRE, Scozia:
devolution, quasi-federalismo, indipendenza?, in Le istituzioni del federalismo, 1, 2013, p. 137 ss.; E. MAINARDI, Il
Referendum in Scozia: tra devolution ed indipendenza, in Federalismi, 17/2014.
61
62
23
federalismi.it
|n. 22/2014
del 2010 del 6 luglio, il Consiglio ha valutato la compatibilità costituzionale di una richiesta
di referendum, in cui la domanda posta agli elettori era la seguente: «Con la finalità che il
Parlamento della Catalogna porti a termine le iniziative necessarie per rendere effettiva la
volontà popolare, è d’accordo che la Nazione Catalana diventi uno Stato di diritto,
indipendente, democratico e sociale integrato nell’Unione europea?» 64 . Il Consiglio
risponde con un parere di segno negativo, perché non si può «forzare il Parlamento a fare
uso delle sue prerogative (anche se il referendum formalmente mantiene il suo carattere
consultivo, art. 12 LCR)» e, pertanto, «l’attività dei promotori si deve limitare all’ambito
stretto delle competenze della Generalità, che, con carattere generale, si stabiliscono nel
titolo IV dello Statuto» 65 . Solo il Parlamento catalano, in sostanza, senza una previa
iniziativa referendaria provenente dal popolo, può decidere se cominciare il procedimento
di revisione costituzionale. Il referendum autonomico sulla proposta di revisione
costituzionale unisce pertanto due istituti, tenuti distinti dalla Costituzione, che non
attribuisce al popolo l’iniziativa della revisione66.
La modifica della Carta fondamentale viene considerata da diversi autori come possibile
soluzione alla questione catalana, poiché, ricordiamolo ancora una volta, non incontra limiti
sostanziali. Come ha affermato il Tribunal Consitucional «la Costituzione spagnola, a
differenza di quella francese o tedesca, non esclude la possibilità di riforma di nessuno dei
suoi precetti, né sottomette il potere di revisione costituzionale a maggiori limiti espressi che
quelli strettamente formali o procedimentali»67. La riforma della Costituzione, non a caso, è
inserita dall’Institut tra le possibili vie legali per raggiungere l’indipendenza, anche se,
l’evidente mancanza di un accordo politico tra lo Stato spagnolo e la Catalogna, rende
questa strada difficilmente percorribile. Allo stesso tempo, l’avvio di un processo di
riforma, attraverso la presentazione di un progetto, avrebbe il merito di incanalare il
dibattito all’interno delle istituzioni nazionali su di una proposta concreta. Le diverse forze
politiche sarebbero così chiamate a intervenire ed a contribuire a delineare il futuro dello
Stato spagnolo, entrando nel merito dei problemi sollevati e delle possibili soluzioni, che
L’art. 24 della legge 4 del 2010, infatti, attribuisce ad un decimo dei deputati o a due gruppi parlamentari la
possibilità di chiedere un parere al Consiglio di garanzia sulla compatibilità costituzionale e statutaria di una
consultazione di iniziativa popolare.
65 Parere 15 del 2010, p. 17.
66 J. M. CASTELLÀ ANDREU, Democracia, reforma constitucional, cit., p. 198.
67 STC 48/2003, del 12 di marzo, FJ 7.
64
24
federalismi.it
|n. 22/2014
non necessariamente dovrebbero condurre alla rottura, potendosi giungere alla riforma
dello Stato delle autonomie.
La revisione costituzionale, peraltro, è stata valorizzata anche dall’intervento del Tribunal
Constitucional. In un momento di grande tensione e aperto contrasto, i giudici costituzionali
si sono pronunciati sulla Risoluzione del Parlamento catalano sul diritto a decidere
(“Declaración de soberanía y del derecho a decidir del pueblo de Cataluña”, supra par.1) 68 . Nella
sentenza n. 42 del 2014 hanno ritenuto incompatibile con la Costituzione l’affermazione di
un soggetto sovrano (il popolo catalano) diverso dal popolo spagnolo, che ne è unico
titolare, in maniera “esclusiva ed indivisibile”, ex art. 1, secondo comma, Cost. 69 . La
Risoluzione, invece, conferisce ad un soggetto parziale il potere di rompere quello che la
Costituzione dichiara come suo fondamento, ossia “la indissolubile unità della nazione
spagnola”. Nella sua pregressa giurisprudenza, il Tribunal aveva già avuto modo di
affermare che gli artt. 1 e 2 della Costituzione partono dalla unità della Nazione spagnola
«che si costituisce in stato sociale e democratico di diritto, i cui poteri emanano dal popolo
spagnolo in cui risiede la sovranità nazionale» 70 . Lo Stato autonomico cioè «non è il
risultato di un patto tra istanze territoriali storiche che conservano dei diritti anteriori alla
Costituzione e superiori ad essa, ma una norma del potere costituente che si impone con
Per una critica a questa decisione, E. FOSSAS ESPADALER, Interpretar la política. Comentario a la STC
42/2014, de 25 de marzo, sobre la Declaración de soberanía y el derecho a decidir del pueblo de Cataluña, in Revista española
de derecho constitucional, 2014, p. 273 ss. La sentenza è stata esaminata anche dalla dottrina italiana cfr. R.
IBRIDO, “In nome del popolo spagnolo”. Il Tribunale costituzionale e la Dichiarazione si sovranità del Parlamento catalano,
in www.diritticomparati.it; S. RAGONE, Il Tribunale costituzionale spagnolo e la “dichiarazione di sovranità” del
Parlamento catalano dopo l’impugnazione del Governo, in www.dirittiregionali.it; L. FROSINA, Il c.d. derecho a decidir nella
sentenza 42/2014 del Tribunale Costituzionale spagnolo sulla dichiarazione di sovranità della Catalogna, in Federalismi.it,
10/2014.
69 STC n. 42 del 2014 del 25 marzo, FJ3. Si può anche in questo caso fare un parallelismo con la sentenza 375
del 2007 sulla legge della Regione autonoma della Sardegna 23 maggio 2006, n. 7 (Istituzione, attribuzioni e
disciplina della Consulta per il nuovo statuto di autonomia e sovranità del popolo sardo), della nostra Corte costituzionale.
In questa pronuncia i giudici costituzionali sottolineano che “ancora preliminare è la constatazione che la
legge in parola utilizza il termine “sovranità” per connotare la natura stessa dell’ordinamento regionale nel
rapporto con l’ordinamento dello Stato, nella diversa accezione del necessario riconoscimento alla Regione
interessata di un ordinamento adeguato ad una situazione anche di sovranità (implicitamente asserita come
esistente o comunque da rivendicare)”. Mentre “la sovranità interna dello Stato conserva intatta la propria
struttura essenziale, non scalfita dal pur significativo potenziamento di molteplici funzioni che la Costituzione
attribuisce alle Regioni ed agli enti territoriali. Del resto, quanto alle Regioni a statuto speciale, l’art. 116 Cost.
non è stato modificato nella parte in cui riconosce alle stesse «forme e condizioni particolari di autonomia
secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale»”. La legge costituzionale 18 ottobre 2001,
n. 3, quindi, non ha inserito nell’ordinamento un’innovazione “tale da equiparare pienamente tra loro i diversi
soggetti istituzionali che pure tutti compongono l’ordinamento repubblicano, così da rendere omogenea la
stessa condizione giuridica di fondo dello Stato, delle Regioni e degli enti territoriali” (considerato in diritto
punti 6-8).
70 STC, 4/1981, FJ 3; ripresa successivamente anche nella sentenza 247/2007, FJ 4 a.
68
25
federalismi.it
|n. 22/2014
forza vincolante generale nel suo ambito, senza che rimangano fuori di essa situazioni
storiche anteriori»71. L’ordinamento iberico, quindi, basandosi sul principio fondamentale
per cui la sovranità appartiene al popolo spagnolo, vieta alle Comunità autonome di
convocare unilateralmente un referendum per decidere la loro integrazione nello Stato72.
Il “derecho a decidir de los ciudadanos de Cataluña”, invece, viene configurato non tanto come un
diritto all’autodeterminazione, o una manifestazione di sovranità, ma come una
«aspirazione politica a cui solo si può giungere attraverso un procedimento conforme alla
legalità costituzionale e con il rispetto dei principi di legittimità democratica, pluralismo e
legalità». In questo quadro, il Tribunal ricorda che la superiorità della Costituzione non deve
essere confusa con la richiesta di una adesione positiva ai suoi contenuti, perché
l’ordinamento spagnolo non accoglie un modello di “democrazia militante”, ossia «un
modello in cui si impone non già il rispetto, ma l’adesione positiva all’ordinamento e, in
primo luogo, alla Costituzione»73. I giudici costituzionali, infatti, ribadito che il potere di
revisione non incontra limiti materiali assoluti, richiamano i principi di lealtà e di reciproco
ausilio da parte dei pubblici poteri, che impongono al Parlamento spagnolo, nel caso in cui
una Comunità Autonoma, nell’esercizio della competenza attribuitagli dalla Costituzione,
dia impulso al processo di riforma della Costituzione, di prendere in considerazione la
proposta avanzata. Il Tribunal, una volta riportato il diritto a decidere all’interno delle
aspirazioni politiche che possono essere legittimamente perseguite all’interno della
Costituzione, ritiene che la Dichiarazione del parlamento catalano, almeno per questa parte,
non sia in contrasto con la Carta fondamentale.
Questa sentenza, se, da un lato, respinge le affermazioni collegate alla sovranità del popolo
catalano, dall’altro, valorizza la revisione costituzionale come sede di dialogo e di
confronto, necessario per uscire dall’attuale situazione di stallo, che vede un constante
scontro tra i rappresentati politici nazionali e locali, senza una chiara via d’uscita. Il
STC 76/1988, del 26 aprile, FJ 3; STC 247/2007, FJ 4 a.
Il Tribunal, quindi, conclude affermando: “La cláusula primera de la Declaración, que proclama el carácter de sujeto
político y jurídico soberano del pueblo de Cataluña debe ser considerada inconstitucional y nula. En efecto, su texto literal va más
allá de las apelaciones de legitimidad histórica y democrática que se hacen en el Preámbulo. En su contenido se incluyen con
carácter global los aspectos político y jurídico de la soberanía. Se redacta en términos de presente, en contraste con el resto de los
principios de la Resolución, que aparecen redactados como mandatos de futuro o en forma deóntica”.
73 Sentenza 42/2014, FJ4 c, in cui si cita la sentenza 48/2003, FJ 7; successivamente richiamata nelle sentenze
5/2004, del 16 gennaio, FJ 17; 235/2007, FJ 4; 12/2008, FJ 6; 31/2009, del 29 gennaio, FJ 13.
71
72
26
federalismi.it
|n. 22/2014
processo di revisione condotto con metodo democratico, lealtà e reciproco appoggio
sembra un orizzonte a cui tendere, anche se attualmente difficile da raggiungere74.
5. La legge catalana sulle consultazioni popolari non referendarie: un tertium
genus?
Dopo circa cinque mesi dalla sentenza del Tribunal sulla “Dichiarazione di sovranità”, il
Parlamento catalano ha adottato la legge 10 del 2014, del 26 di settembre sulle
“Consultazioni popolari non referendarie e altre forme di partecipazione cittadina”. La strada prescelta,
quindi, non è stata la riforma costituzionale, ma, ancora una volta, la convocazione di una
consultazione diretta del popolo75. Nell’impossibilità di svolgere un referendum, nazionale
o autonomico, lo strumento in concreto individuato dalle istituzioni catalane per portare
avanti il procés sobiranista è stata una “consultazione popolare non referendaria”76.
La possibilità di distinguere tra consultazioni referendarie e non referendarie si basa sull’art.
122 dello Statuto e sulla interpretazione fornitane dalla sentenza del Tribunal Constitucional n.
31 del 2010 77 . L’art. 122 dello Statuto, come ricordato, attribuisce alla Generalitat la
competenza a disciplinare le varie forme di consultazione popolare, con eccezione di
quanto previsto nell’art. 149.1.32. Secondo il Tribunal, tale disposizione, escludendo
l’applicazione della norma costituzionale sul referendum, esclude la competenza
Sulle tensioni attualmente presenti nel modelo terrioriale spagnolo e sulle riforme A.A.V.V. El Estado
autonómico, Actas de las XI jornadas de la asociación de letrados del Tribunal Constitucional, Madrid, 2006; E.
ÁLVAREZ CONDE, C. SOUTO GALVÁN (a cura di), El Estado autonómico en la perspectiva del 2020, cit., in
particolare M. Vivancos Comes, “Efecto Lampedusa” y estado autonómico. La reforma racionalizadora que no llega, p.
263 ss.; E. SÁENZ ROYO, Desmontando mitos sobre el estado autonómico: para una reforma constitucional en serio,
Madrid, Barcelona, Buenos Aires, 2014, E. Aja, Estado autonómico y reforma federal, Madrid, 2014.
75 La legge n. 10 del 2014 stabilisce il regime giuridico ed il procedimento per la convocazione di
consultazioni popolari e di altri meccanismi di partecipazione, considerati strumenti di conoscenza della
posizione e delle opinioni della cittadinanza in relazione a qualsiasi aspetto della vita pubblica, nell’ambito
delle competenze della Generalitat. La legge si configura come applicazione degli artt. 29, comma sei, e 122
dello Statuto che fanno riferimento, il primo, alla competenza della Generalitat a promuovere la convocazione
di consultazioni popolari; il secondo, agli strumenti di partecipazione democratica come le inchieste le
udienze pubbliche, i forum di partecipazione e “qualsiasi altro strumento di consultazione popolare”. Anche
altri Statuti, peraltro, hanno previsto una competenza in materia di consultazioni popolari, che non
richiedono l’autorizzazione statale (questo è il caso, ad esempio, di Andalucía, Aragón ed Extremadura).
76 Sulla distinzione tra questi due tipi di consultazione popolare, cfr. J.M. CASTELLÀ ANDREU, ¿Consulta
populares no referendarias en Cataluña Es admisible constitucionalmente un tertium genus entre referéndum e instituciones de
participación ciudadana?, in Revista Aragonesa de Administración Pública, XIV, Zaragoza, 2013, p. 121 ss.
77 Cfr. J. M. CASTELLÀ ANDREU, Las consultas populares en la Sentencia 31/2010 sobre el Estatuto de Autonomía
de Cataluña, in E. ÁLVAREZ CONDE, C. ROSADO VILLAVERDE (a cura di), Estudios sobre la Sentencia
31/2010, de 28 de junio, del Tribunal Constitucional sobre el Estatuto de autonomía de Cataluña, Madrid, 2011, p. 197
ss.
74
27
federalismi.it
|n. 22/2014
autonomica su questa materia, che rimane saldamente nelle mani dello Stato, mentre
rimette tutto ciò che non è da ascrivere a tale istituto alla competenza territoriale78.
La differenza tra la consultazione prevista dalla legge 10 del 2014 e il referendum
consultivo disciplinato dalla legge catalana n. 4 del 2010 è stata oggetto di un acceso
dibattito tra i costituzionalisti, che si sono interrogati sulle differenze esistenti tra queste
due modalità di intervento diretto dei cittadini. La divergenza di vedute è ben rappresentata
dal parere 19/2014 del Consiglio di garanzia statutaria, che ha analizzato la compatibilità
costituzionale e statutaria del disegno di legge sulle consultazioni non referendarie 79. In
questo parere sono presenti ben 4 voti discordanti, segno della discussione e della divisione
della comunità scientifica su questo tema80.
Gli argomenti portati a favore della possibilità di differenziare i due istituti sono i seguenti:
il referendum è espressione del diritto di partecipazione politica ex art. 23 della
Costituzione e chiama in causa al corpo elettorale; la consultazione, invece, si inscrive
all’interno dei fenomeni partecipativi, e non interroga il corpo elettorale. Questi elementi
erano già stati elaborati dal Tribunal Consitucional all’interno della sentenza n. 103 del 2008,
sulla consultazione popolare indetta dai paesi Baschi sul processo di negoziazione politica
con lo Stato spagnolo. Come abbiamo già ricordato (supra par. 2), in quella pronuncia il
Tribunal ha sottolineato che il referendum è una specie del genere consultazione popolare,
anche se non serve a raccogliere «l’opinione di qualunque collettività su qualsiasi questione
di interesse pubblico mediante qualunque tipo di procedimento», ma si configura come una
«consultazione il cui oggetto si riferisce strettamente all’apparizione del corpo elettorale
[…] conformato ed esteriorizzato attraverso un procedimento elettorale, basato cioè sul
censo, gestito dall’amministrazione elettorale e tutelato con garanzie giurisdizionali
specifiche, sempre in relazione con questioni pubbliche la cui gestione, diretta o indiretta,
mediante esercizio del potere politico da parte dei cittadini costituisce l’oggetto del diritto
fondamentale riconosciuto dalla Costituzione all’art. 23»81.
Per il Consiglio di garanzia statutaria, d’accordo con la posizione assunta dal Tribunal
Constitucional, la legge basca, che regolava un caso specifico, convocando la consultazione,
ed includendo al suo interno anche la forma concreta che assumeva la domanda al corpo
STC 31/2010 del 28 giugno, FJ 69.
Parere 19 /2914 del 19 di agosto.
80 I voti discordanti sono di P. JOVER PRESA, E. AJA, M. CARRILLO, C. JAUME FERNANDEZ.
81 STC 103/2008, FJ2, che richiama la sentenza 119 del 1995, del 17 luglio.
78
79
28
federalismi.it
|n. 22/2014
elettorale, disciplinava in realtà un referendum. La legge catalana, invece, non fa riferimento
al corpo elettorale, perché attribuisce il diritto di voto in maniera più estesa. In particolare,
la legge include tra i soggetti potenzialmente legittimati a partecipare alla consultazione
anche coloro che hanno più di 16 anni e che hanno la condizione politica di catalani, anche
residenti all’estero; le persone che hanno più di 16 anni e che sono cittadini di uno Stato
membro dell’Unione europea, o di Stati terzi e che hanno risieduto in modo legale e
continuativo in Catalogna almeno per tre anni e risultano inscritti nel Registro della
popolazione catalana. La platea della consultazione può essere modulate a seconda del
contenuto della domanda, in base ad un modello flessibile, che si basa su di una «tipologia
molto amplia dell’universo di persone legittimate ad esprimere la propria opinione» 82 .
Secondo il Consiglio di garanzia statutaria, la legge distingue i possibili votanti alla
consultazione dal corpo elettorale, che è composto diversamente, facendovi parte solo i
cittadini spagnoli di più di 18 anni, residenti in Catalogna ed inscritti al censo elettorale.
Questi elementi sono considerati determinati per escludere che vengano in rilievo i diritti
elettorali e la volontà generale.
Dal punto di vista sostanziale, poi, il Consiglio ritiene che le “decisioni politiche di speciale
importanza” non sono sottratte alle consultazioni popolari e rimesse esclusivamente al
referendum. Ritroviamo, nel parere del Consiglio di garanzia statutaria, una linea
argomentativa già presente sia nel Rapporto n. 1 del Consiglio di transizione nazionale, sia
nel rapporto dell’Institut de Estudis Autonòmics. L’esclusione materiale dei temi centrali della
vita costituzionale dalle consultazioni popolari appare al Consiglio come una eccessiva
restrizione del principio democratico e dell’autonomia politica. L’art. 92 Cost. cioè, nel
momento in cui afferma che le questioni rilevanti possano essere rimesse ad un referendum
consultivo, «non si deve tradurre nella costruzione di una dottrina che trasforma la titolarità
della competenza (dello Stato sul referendum) nella previsione di un divieto assoluto di
domandare l’opinione dei cittadini su determinate questioni che, in base ad una
interpretazione più duttile e flessibile, formano parte anche dell’ambito di azione di altri
poteri politici, dotati di autonomia e riconosciuti dalla stessa Costituzione, che aspirano a
disporre dei propri mezzi di consultazione diversi dal referendum» 83 . Per il Consiglio,
quindi, non esistono temi che sono “vietati” all’opinione dei cittadini, anche perché le
82
83
Parere del Consiglio di garanzia statutaria, p. 60.
Parere del Consiglio di garanzia statutaria, p. 32.
29
federalismi.it
|n. 22/2014
conseguenze derivanti dalla consultazione sarebbero comunque da incanalare all’interno
degli strumenti previsti dalla Costituzione 84 . La competenza materiale della Comunità
Autonoma, poi, non è solo quella espressamente elencata nello Statuto all’interno del
Capitolo II del Titolo IV, ma comprende anche le facoltà di iniziativa e di impulso politico
che sono attribuite alle istituzioni catalane all’interno del complesso delle norme statutarie.
La Generalitat può decidere di conoscere l’opinione cittadina su di un tema, come premessa
o come supporto alle iniziative che competono alle istituzioni catalane. Non a caso, il
parere fa espresso riferimento alla sentenza del Tribunal Constitucional 42/2014 in cui si
ribadisce, nella valutazione della risoluzione del Parlamento catalano sul diritto a decidere,
l’assenza di limiti alla revisione costituzionale ed il ruolo di impulso che ai fini
dell’attivazione di questo procedimento viene attribuito dalla Costituzione alle Comunità
autonome.
Questa interpretazione della legge non è stata condivisa da alcuni membri del Consiglio,
che, nei voti particolari, hanno sottolineato, seppur con diverse sfumature, che la
consultazione presenta in realtà tutte le caratteristiche del referendum, per i soggetti
consultati, l’oggetto, e le conseguenze giuridiche ad essa collegate. La legge cioè ha
cambiato solo il nomen iuris dell’istituto, senza cambiarne i tratti fondamentali, allo scopo di
eludere la necessaria autorizzazione statale richiesta dalla Costituzione per lo svolgimento
del referendum.
Nei pareri si legge, ad esempio, che l’art. 92 Cost., rimettendo al referendum consultivo la
possibilità di conoscere l’orientamento popolare su materie di importanza costituzionale,
esclude qualsiasi forma parallela di intervento dei cittadini. Una diversa interpretazione,
infatti, giungerebbe al paradosso di consentire che i limiti formali e procedurali previsti
dalla Costituzione potrebbero essere, per le stesse questioni, facilmente elusi, in base alla
sola volontà dei promotori, che, scegliendo di indire una consultazione anziché un
referendum, potrebbero aggirare la necessaria autorizzazione statale.
La legge catalana, inoltre, riconoscendo il diritto di voto ad una collettività più amplia di
quella elettorale, costruisce una sorta di referendum mascherato attraverso l’escamotage
dell’estensione del voto. Le forme partecipative diverse dal referendum, invece, sono
ammesse purchè non si realizzino attraverso l’esercizio del suffragio, inteso come voto
84
Parere, p. 33.
30
federalismi.it
|n. 22/2014
libero, uguale, diretto e segreto85. L’art. 122 dello Statuto, infatti, evocando le inchieste, le
udienze pubbliche, i forum di dibattito, fa riferimento a forme di partecipazione collettiva e
non individuale, che non chiamano in causa la volontà generale. L’attribuzione del diritto di
voto a più persone, quindi, non è in grado di alterare la natura del soggetto che viene
consultato (il corpo elettorale).
Infine, non cambia la sostanza della votazione il
riferimento ad un registro di partecipazione, creato appositamente per la consultazione, e
non al censo elettorale.
Questa legge, entrata in vigore il 26 settembre, e subito seguita da un decreto del Presidente
della Generalitat di convocazione della consultazione 86 , è stata con la stessa celerità
impugnata dinanzi al Tribunal Constitucional, che si è pronunciato, sempre in tempi
rapidissimi, concedendo la sospensione dell’efficacia della legge87. Il Tribunal ha sottolineato
che la decisione di non ritardare […] deriva dal fatto che «il Tribunal Constitucional è
cosciente della trascendencia constitucional y política delle questioni sollevate, per la società
spagnola nel suo insieme e, in particolare, per quella catalana»88.
Si è giunti così alla votazione spontanea del 9 novembre in cui le operazioni di voto sono
state gestite da volontari, senza le procedure e le garanzie giuridiche richieste per dare
consistenza legale alla pronuncia popolare.
Il passo successivo a disposizione delle
istituzioni catalane dopo questa votazione si ritrova sempre all’interno dei rapporti del
Consiglio di transizione nazionale e dell’Institut d’Estudis Autonòmics, che individuano
un’ultima ratio: le elezioni plebiscitarie. Seguendo questa “ultima via”, il Presidente della
Generalitat scioglie in maniera anticipata il Parlamento e convoca le elezioni. Alle elezioni i
partiti si presentano al corpo elettorale ponendo come elemento centrale del proprio
programma la questione dell’indipendenza catalana. I risultati elettorali vengono letti come
una indiretta pronuncia popolare sull’indipendenza; nel caso in cui la maggioranza degli
elettori abbia votato a favore, il nuovo Parlamento potrebbe adottare anche una
dichiarazione unilaterale di indipendenza che è l’inizio dei processi di secessione.
L’elezioni plebiscitarie sono inserite da Duverger tra le caratteristiche delle dittature,
essendo spesso collegate alla presenza di un candidato unico, accettato o respinto dal voto
Nel suo voto particolare, ad esempio, il prof. CARRILLO sottolinea che il referendum chiama in causa il
corpo elettorale attraverso il voto, mentre le altre forme di partecipazione (deliberazioni, inchieste, udienze
pubbliche ecc) sono una “manifestazione dell’opinione della cittadinanza per vie diverse dal voto”, p. 126.
86 Decreto 129/2014 del 27 settembre, pubblicato in DOGC, num. 6715°, del 27 Settembre de 2014
87 Ricorso n. 5829-2014.
88 Comunicato del Pleno del Tribunal Constitucional, del 29 settembre 2014
85
31
federalismi.it
|n. 22/2014
popolare, con cui si ratifica una posizione di comando89. Anche Pasquino le definisce come
elezioni totalmente personalizzate in cui un capo, un leader mira a rafforzare il proprio
ruolo90. Nella sua ricostruzione, però, si distinguono i plebisciti che prendono la forma del
referendum (sulla forma di Stato, sull’approvazione della Costituzione, sulla secessione)91.
Come le elezioni plebiscitarie, che sono destinate alla scelta di un soggetto, di un capo, la
votazione catalana verterebbe su di un solo punto del programma dei partiti, da accettare o
respingere. In Catalogna, però, le elezioni plebiscitarie, nell’intento dei promotori,
sarebbero sostitutive del referendum, una forma di decisione diretta attraverso uno
strumento previsto per la democrazia indiretta. Non si tratta cioè di ratificare una leadership,
o un partito unico, ma di un espediente per permettere comunque un voto da parte dei
cittadini, con le garanzie ed i controlli del procedimento elettorale, sull’indipendenza.
Questo imporrebbe a tutti i partiti di prendere una posizione chiara sul tema e
consentirebbe di poter avere dei numeri chiari in merito al sostegno popolare al procés
sobiranista.
M. DUVERGER, I sistemi politici, Roma-Bari, 1978, p. 509 ss., in cui sottolinea, quando parla delle elezioni
plebiscitarie, che nei paesi socialisti “le elezioni si svolgono in modo molto diverso da quelle delle democrazie
occidentali: gli elettori non possono scegliere un candidato, ma devono dire se sono o meno d’accordo
sull’unico candidato presentato”.
90 P.
PASQUINO, Plebiscitarismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, 1996, versione on-line
http://www.treccani.it/enciclopedia/plebiscitarismo_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali)/
91 P. PASQUINO, Plebiscitarismo, cit., afferma “se si esula dal problema dell'insediamento, della conferma
ovvero del rafforzamento della leadership politica personale, il plebiscitarismo come tecnica elettorale, che
sarebbe comunque meglio analizzare sotto forma di referendum popolare, viene abitualmente utilizzato in tre
casi” che sono quelli ricordati nel testo. Come esempi vengono riportati il plebiscito del 2 giugno 1946 in
Italia e quello del dicembre 1974 in Grecia, sulla forma di Stato; i referendum costituzionali francesi, con i
quali venne rigettata la prima Costituzione della Quarta Repubblica nel maggio 1946, sulla riforma
costituzionale; il referendum sull’indipendenza del Québec, del 31 ottobre 1995, sulla secessione. Per l’Autore
“In tutti questi casi, il termine plebiscito è usato in maniera intercambiabile con quello di referendum”.
89
32
federalismi.it
|n. 22/2014
Il questionario
Le vicende ricostruite nell’introduzione denotano un quadro complesso e ricco di
incognite.
Si è chiesto a osservatori privilegiati della realtà catalana di rispondere alle tre domande
riportate di seguito, che toccano questioni a nostro avviso cruciali per l’analisi delle
dinamiche in atto.
A questo dibattito virtuale sono intervenuti costituzionalisti (in prevalenza), comparatisti e
politologi, per favorire un inquadramento multidisciplinare del tema. Si è cercato inoltre di
coinvolgere studiosi (alcuni dei quali ricoprono - o hanno ricoperto - importanti incarichi
istituzionali) con sensibilità e impostazioni diverse, al fine di offrire una visione il più
possibile plurale: le loro risposte mostrano, in effetti, valutazioni non coincidenti, in taluni
casi contrapposte.
È doveroso esprimere un ringraziamento agli interpellati che, accettando il nostro invito e
mantenendo il loro impegno con rigore e puntualità, hanno permesso di portare a termine
l’iniziativa. La loro disponibilità al dibattito è tanto più preziosa perché si manifesta su un
tema difficile e potenzialmente assai divisivo.
Laura Cappuccio
Gennaro Ferraiuolo
***
1) Esistono, allo stato, strumenti giuridici in grado di consentire lo svolgimento di una consultazione
popolare sull’indipendenza della Catalogna, nel rispetto della legalità costituzionale?
In caso di risposta affermativa, quale modalità avrebbe, a suo avviso, maggiori possibilità di
concretizzazione?
Se ritiene non sussista alcuna via legale, che tipo di risposte pensa debbano offrirsi alle rivendicazioni
manifestate da gran parte dei partiti e dei cittadini catalani? Come valuta la posizione di chiusura del
Governo spagnolo?
33
federalismi.it
|n. 22/2014
2) Di recente sono emerse, in differenti Stati, rivendicazioni di natura secessionista, che vanno dunque ben
oltre le aspirazioni di autogoverno e di decentramento. Accanto ai noti casi della Catalogna e della Scozia,
anche in Italia tornano ad esempio a manifestarsi progetti che guardano nella medesima direzione: è il caso
della legge della regione Veneto n. 16/2014 (“Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del
Veneto”).
È possibile affermare una specificità della realtà catalana e delle rivendicazioni ad essa legate? Come si
manifesta questa specificità sul piano storico, politico, culturale e costituzionale? Questa specificità può
riflettersi, in qualche modo, anche sull’inquadramento giuridico dei processi in atto?
3) In Europa sono sorti, negli ultimi anni, movimenti politici in radicale contrapposizione ai partiti
tradizionali, che si fanno portatori di nuove istanze partecipative. La controversa nozione di “diritto a
decidere”, spesso utilizzata con riferimento alle vicende catalane, può iscriversi nel quadro delle tensioni tra
democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa? Su tali aspetti, sono sufficienti le consolidate
categorie di analisi o è necessario ripensarne di nuove?
34
federalismi.it
|n. 22/2014
Antoni Abat i Ninet*
Professor of comparative constitutional Law
Centre for Comparative and European Constitutional Studies (CECS)
University of Copenhagen
1) Nella breve storia costituzionale spagnola si è detto fino alla nausea che l’unica risposta
vincolante, in un sistema accentrato di giustizia costituzionale, si basa esclusivamente sul
Tribunal constitucional (TC). Questa impostazione deve essere intesa oramai diacronicamente,
dal momento che l'integrazione spagnola nell'Unione europea e l'impatto delle sentenze
della Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) non potevano essere previste verso la
fine degli anni Settanta; e, tuttavia, rappresentano oggi un fattore determinante nel caso che
ci riguarda. La sentenza Del Rio Prada contro Spagna del Tribunale di Strasburgo dimostra
l'importanza di questo organismo sulle questioni che possono essere definite come
“politicamente trascendenti”. Nella sentenza, la CEDU condanna la Spagna, che di
conseguenza deve cambiare diversi aspetti della sua politica penitenziaria, incidendo così
sul processo di pace nei Paesi Baschi.
Ora, se la risposta alla domanda dipende esclusivamente dalle decisioni del TC, essa non
può che essere di segno negativo. Ciò significa che l’organo che esercita un'unica ed
esclusiva giurisdizione speciale affermerà che, per come è impostato il quadro giuridicocostituzionale spagnolo allo stato attuale, non esiste nessuna modalità che permetta lo
svolgimento del referendum per l'indipendenza della Catalogna. Pertanto, il TC si limiterà a
dire che, se si desidera eseguire una consultazione sul futuro politico della Catalogna, è
necessario innanzitutto riformare la Costituzione. La mia previsione negativa si fonda su
diversi aspetti, tra cui: i recenti precedenti del TC; la strumentalizzazione politica
dell’organo e dell'interpretazione della Costituzione; la manifesta ostilità con cui il giudice
risolve sbrigativamente alcune questioni sensibili politicamente; e, infine, il modo in cui il
TC ha agito nel cosiddetto (e poco felicemente definito) “problema catalano”.
Questi aspetti però non trasformano il pronostico in certezza e, lo riconosco in anticipo,
contraddicono alcune letture più ottimistiche del ruolo assunto dal TC. Ottimismo
*
Testo consegnato il 14 ottobre 2014. Traduzione dal castigliano di Laura Cappuccio.
35
federalismi.it
|n. 22/2014
recentemente espresso da colleghi catalani e che ha rappresentato la base giuridica delle
memorie che le istituzioni della Generalitat hanno presentato a sostegno della rimozione
della sospensione sia della legge catalana sulle consultazioni non referendarie, sia del
decreto di convocazione della consultazione sul futuro politico della Catalogna.
Più specificamente, per quanto riguarda i precedenti che sono alla base del carattere
negativo del mio pronostico, viene in rilievo la sentenza del 25 marzo 2014 del TC, in
merito alla risoluzione del Parlamento della Catalogna 5/X del 23 gennaio 2013. In tale
sentenza il TC ha dichiarato: «la proclamazione della Catalogna come soggetto politico e
giuridico sovrano dovrebbe essere considerata incostituzionale e nulla in quanto contraria
agli artt. 1.2 e 2 CE e agli artt. 1 e 2.4 dello Statuto di autonomia della Catalogna, così come
in relazione agli artt. 9.1 e 168 CE». Con la stessa decisione l’interprete supremo della
Costituzione aggiunge: «si può dare una interpretazione valida del “diritto a decidere”
sempre e quando sia inteso come un’aspirazione politica, a cui solo si può giungere
attraverso un processo conforme all'ordine costituzionale, con rispetto dei principi di
“legittimità democratica”, “pluralismo” e “legalità”, espressamente proclamati nella
Dichiarazione in stretta relazione con il "diritto a decidere"»; e, continua, «la proposizione
di concezioni che pretendono di cambiare le basi stesse dell'ordinamento trova posto nel
nostro sistema, sempre che se non si prepari o difenda attraverso un’attività che violi i
principi democratici, i diritti fondamentali, o gli altri precetti costituzionali, e il tentativo
della sua effettiva realizzazione si persegua nel quadro delle procedure di modifica della
Costituzione».
In breve, se si vuole realizzare una consultazione popolare come quella proposta in
Catalogna si deve riformare la Costituzione con le procedure ordinarie previste per questo
caso. Va sottolineato, innanzitutto, che tale sentenza ha per oggetto una dichiarazione
politica (senza cioè effetto giuridico) del Parlamento catalano. La giustificazione offerta dal
TC fa riferimento ai possibili effetti giuridici che comunque questa Dichiarazione potrebbe
produrre. A mio avviso, l'ammissione del ricorso e la successiva sentenza dimostrano il
ruolo politico che il TC ha sviluppato e continua a esercitare.
Nel diritto costituzionale spagnolo, dopo l'adozione della legge organica sul TC (LOTC)
del 1979, fino alla riforma del 1985 era previsto un ricorso previo di costituzionalità che
consentiva un controllo a priori delle leggi organiche e degli Statuti di autonomia. Tale
controllo preventivo è stato superato con la riforma del 1985, perché come recita la stessa
36
federalismi.it
|n. 22/2014
legge organica «l'esperienza accumulata in più di più di tre anni di giustizia costituzionale ha
dimostrato che questo ricorso previo si è configurato come un fattore costituzionale di
distorsione della purezza del sistema di relazione dei poteri costituzionali dello Stato, con
conseguenze inaspettate e meta-costituzionali nell’ultima fase del processo di formazione
della legge».
Ebbene, questi argomenti non sono stati di ostacolo ad una decisione del Tribunal in merito
ad una dichiarazione senza effetti giuridici e senza forma di legge. In effetti, dopo l'ondata
di riforme degli Statuti di Autonomia iniziata in Catalogna e seguita da Andalusia, Aragona,
Isole Baleari, Castilla y León, Valencia, Extremadura e Madrid, i principali partiti politici in
Spagna hanno pensato di recuperare il ricorso preventivo, trascurando il fattore di
distorsione nei rapporti tra i diversi poteri costituiti. Nemmeno è risultato un ostacolo per il
TC, quando ha ammesso la propria giurisdizione su questa dichiarazione, il limite materiale
di cui all'articolo 31 del LOTC, secondo cui il ricorso di incostituzionalità è previsto contro
leggi, atti normativi o atti con forza legge. In nessun caso, il legislatore ha previsto la
possibilità di impugnare atti che prevedibilmente non sono destinati a produrre effetti
giuridici. In definitiva, a mio parere, il TC ha perso un'altra grande opportunità di mettere
in pratica qualcosa che in Spagna sembra essere ignorata quando si tratta di questioni
politicamente sensibili in ambito costituzionale: il judicial restraint in luogo dell’attivismo
giudiziario.
Altro esempio di questo orientamento, lo troviamo nella sentenza del TC n. 31/2010 del 16
giugno 2010, sullo Statuto di autonomia della Catalogna. In questa sentenza, la posizione
del TC è evidente sin dall’inizio, quando afferma che il termine nazione è privo di effetti
giuridici dal momento che si ritrova nel Preambolo. In questa decisione, il TC contraddice
la dottrina sul valore orientativo e interpretativo dei preamboli, sostenuta da gran parte dei
commentatori, e dalle decisioni del giudice costituzionale tedesco e francese.
Il secondo degli argomenti sui quali si basa la mia previsione negativa sulla possibilità di
considerare costituzionale la consultazione è la evidente strumentalizzazione politica del
TC da parte dei principali partiti politici spagnoli. Per dirla in altro modo, il TC in Spagna,
nonostante la definizione legale di esso come organo di giurisdizione unico e speciale, è
chiaramente un organo ibrido politico-legale; quando le pronunce hanno un carattere
altamente politico, il TC gioca un ruolo decisivo per far pendere la bilancia a favore di
alcuni specifici interessi di partito. In casi come quello della consultazione, in richieste di
37
federalismi.it
|n. 22/2014
tipo identitario o che possono influire sulla struttura territoriale dello Stato, il TC non solo
non evita di pronunciarsi (come ci si aspetterebbe da un organo giurisdizionale neutrale su
questioni politiche), ma svolge un ruolo politicamente determinante.
La soluzione offerta dal TC nelle decisioni come quelle richiamate in precedenza è motivata
esclusivamente da fini politici; la prevedibilità della maggior parte delle sue decisioni
"politiche" dimostrano questo fine. La riluttanza ad ammettere un gran numero di ricorsi di
amparo è completamente alterata in caso di decisioni relazionate con gli interessi politici dei
partiti di maggioranza. Pertanto, si può concludere che il TC soffre di una palese mancanza
di imparzialità quando si tratta di conflitti tra la sfera del potere statale e quella autonomica.
La stessa composizione e nomina inficia ab initio l’imparzialità del TC, in quanto dipende
esclusivamente dai maggiori partiti spagnoli, cui consegue una naturale presa di posizione a
favore degli interessi fondamentali centrali e non autonomici (che sono anch’essi parte
dello Stato). In ogni caso, la "quota catalana" (così denominata a Madrid) - una norma di
"soft law" per la quale, dei dodici membri del TC, uno deve essere catalano - non è garanzia
di imparzialità, come è stato più volte dimostrato. Sulla base di tali premesse, non è allora
difficile immaginare con quale neutralità si pronuncerà il TC su di un caso che, per quanto
possa caratterizzarsi in senso democratico, è inteso a Madrid come potenzialmente in grado
di determinare non solo l'indipendenza della Catalogna, ma addirittura la disgregazione
della Spagna, o la sua condanna economica per decenni.
È ben noto, e la prassi costituzionale più recente lo dimostra, che il costituente concepì il
TC come l’ultima espressione della sovranità sulle questioni territoriali, assicurando così
che la lettura della Costituzione ricadesse sempre nelle mani di coloro che garantiscono una
certa concezione dello Stato. In Germania, dove pure ritroviamo un controllo di
costituzionalità unico e accentrato da parte del Bundesverfassungsgericht, la nomina dei giudici
è effettuata in parti uguali dal Bundestag (Parlamento) e il Bundesrat (Consiglio federale), che
è una vera e propria camera di rappresentanza territoriale, diversamente da quanto accade,
invece, per il Senato spagnolo. Questo, attualmente, non ha nessuna rilevanza che non sia
la sua strumentalizzazione per perpetuare un sistema di controllo dei partiti sulle più
importanti istituzioni politiche e giuridiche dello Stato, tra le quali si distingue, per la sua
rilevanza, il TC. In questo senso, l'esempio dell'articolo 155 CE, che può portare alla
sospensione della autonomia, è paradigmatico: si tratta di una delle rare eccezioni in cui il
Senato ha competenza esclusiva. Per intervenire sulla Comunità autonoma che non
38
federalismi.it
|n. 22/2014
adempia agli obblighi previsti dalla Costituzione o da altre leggi, o agisca in modo
gravemente pregiudizievole per l'interesse generale della Spagna, la Costituzione richiede la
maggioranza assoluta, senza prevedere una doppia lettura parlamentare o l'azione del
Congresso (la Camera bassa, vero centro nevralgico del potere legislativo in Spagna). Ciò
spiega perché le riforme rivolte alla soppressione della Camera alta, o alla sua
trasformazione in una vera Camera di rappresentanza territoriale, non riescono mai ad
attecchire.
Ma la situazione non è sempre stata questa: lo Stato integral repubblicano (1931), ad
esempio, contemplava un Parlamento unicamerale e una parte dei motivi offerti dal
legislatore repubblicano spagnolo per giustificare l'esistenza di una sola camera era legato
all’esistenza del Tribunale di garanzia costituzionale, che esercitava funzioni simili a quelle
di un ipotetico Senato per quanto riguarda l'equilibrio istituzionale tra poteri. Inoltre, il
Tribunale di garanzia costituzionale è stato più rispettoso rispetto all’attuale TC nei
confronti della realtà composita e complessa dello Stato spagnolo. Infatti, a partire dalla
riforma del 2007, i giudici proposti dal Senato sono scelti tra i candidati presentati dalle
Assemblee legislative delle Comunità autonome; risulta debole, quindi, il filtro che realizza
il Senato, in aggiunta al fatto che la Camera alta è organo statale eletto su base provinciale e
non di Comunità autonoma. Ne discende una scarsa o nulla influenza delle Comunità
autonome nell'elezione dei giudici del TC.
Il TC è composto da dodici membri, in carica per un periodo di nove anni, di cui quattro
sono nominati dal Congresso, quattro dal Senato, due dal governo dello Stato e gli altri due
da parte del Consiglio Generale del Potere Giudiziario (GCPJ), organo che esercita le
funzioni di governo della magistratura al fine di garantirne l'indipendenza. Ma la nomina
dei membri del GCPJ, tra i giudici e giuristi di riconosciuta esperienza, è svolta anch’essa da
Camera e Senato. Il Presidente del GCPJ è nominato dal Consiglio nella sua riunione
costitutiva. Ancora: onnipresenza assoluta di partiti di ambito statale e nessun
riconoscimento alle Comunità Autonome nella composizione del TC.
Si può a ragione affermare che, nel 1978, i rappresentanti politici catalani erano a
conoscenza di questi eccessi e che, però - almeno così a me sembra - li giustificava il
carattere transitorio e “di transazione” che si attribuiva alla Costituzione: una visione che
considerava la Costituzione legge di partenza e non di arrivo. Né si deve dimenticare la
reale situazione politica che esisteva in Spagna alla fine degli anni Settanta, e nei primi anni
39
federalismi.it
|n. 22/2014
Ottanta, ben rappresentata dal tentativo di colpo di stato con la presa del Congresso dei
Deputati del 23 febbraio 1981, da parte del tenente colonnello Tejero e l’occupazione della
città di Valencia da parte dei carri armati, ordinata dal generale Milans del Bosch. Una
Costituzione redatta e approvata con la tutela del regime di Franco e con la costante
minaccia di un possibile colpo di stato non può essere considerata come un documento
valido sine die. La Costituzione, si deve insistere, transitoria verso la democrazia, è stata
riformata solo in due occasioni dal 1978, il che mostra la diversa interpretazione che viene
data alla natura temporanea del testo. La mancanza di un progetto di riforme costituzionali
e la paura di concepire la Costituzione come un documento vivo ed aggiornato, si deve in
parte alla falsa chiusura del processo transitorio-transazionale spagnolo.
Domandare se si vuole una repubblica o una monarchia in Spagna, o domandare quale è la
struttura territoriale voluta dagli spagnoli, o autorizzare una consultazione come quella
proposta in Catalogna provoca il panico in alcune élites giuridiche, politiche, economiche e
sociali che hanno beneficiato dell'eredità di Franco. Il prezzo da pagare è alto e comporta
tra gli altri effetti un elevato deficit democratico, la mancanza di dignità istituzionale
auspicabile in uno Stato di diritto, in cui non vi è stata alcuna riconciliazione o riparazione e
dove ha prevalso, invece, la legge del silenzio, imposta dalla stessa amministrazione che
dovrebbe proteggere i cittadini. Per non parlare della violazione dei mandati delle Nazioni
Unite, come accade nella questione delle fosse comuni di rappresaglia da parte del regime
franchista; o l'esistenza di una legge “de punto final” che impedisce la difesa dei diritti umani
dei torturati e degli scomparsi. Con questa realtà di fatto non è sorprendente che coloro
che hanno votato contro la Costituzione, perché la consideravano troppo aperta (Partito
popolare, erede Alleanza Popolare) utilizzano oggi il testo per bloccare il cammino invece
di creare ponti; in questo scenario il TC svolge un ruolo di evidente “seguito politico”.
Un altro fattore che sembra far prevedere una certa reazione da parte del TC è l'ostilità che
l'interprete ultimo della Costituzione ha mostrato con la sentenza 31/2010 sullo Statuto di
autonomia della Catalogna. Come prova di questa ostilità possiamo ricordare che
disposizioni simili a quelle considerate illegittime dello Statuto di autonomia della Catalogna
non sono state oggetto di pronunce contrarie nel caso di Statuti di altre comunità: una sorta
di “opposizione selettiva” per l'assunzione di competenze, a seconda di chi le richiede. Un
altro esempio di questa selezione e ostilità è il polveroso e amaro dibattito politico e
identitario sul divieto di svolgere la corrida in Catalogna, mentre lo stesso divieto nelle
40
federalismi.it
|n. 22/2014
Canarie è passato completamente inosservato. Una forma di ostilità politica da parte del
potere legislativo ed esecutivo è comprensibile, ma quando si tratta del TC sembra
eccessiva.
La ragione di questa ostilità si basa anche sul fatto che il TC si considera parte integrante
del blocco dello Stato centrale e non parte del blocco autonomico, ignorando il fatto che
anche
le autonomie sono parte dello Stato, e che, per esempio, il Presidente della
Generalitat è rappresentante dello Stato in Catalogna. Pertanto, non solo la composizione,
ma anche la posizione istituzionale del TC rende questo organo insensibile alle domande
che provengono da parte delle comunità autonome, non consentendogli di astrarsi dal
conflitto istituzionale nel momento della decisione.
L'ostilità è a volte latente, ma si manifesta attraverso le forme. In questo senso, l’uso del
termine Nazione con la maiuscola per riferirsi agli spagnoli e con la minuscola per la realtà
catalana ne è un altro esempio. È poi palese il fatto che per decidere sul decreto che
convoca la consultazione popolare, il Consiglio di Stato, per la prima volta nella sua storia,
si è riunito di domenica e, sempre per la prima volta, il TC ha convocato una riunione
straordinaria e urgente. L'urgenza richiesta dal Governo dello Stato e sostenuta dalle
istituzioni, senza che tutto ciò provochi alcun accenno di rossore. Un altro esempio della
mancanza di un minimo di forme richieste nello svolgimento dell’attività di un organismo
che riveste la posizione istituzionale del TC sono l'ondata di ricusazioni dei giudici
costituzionali che si sono verificate nei quattro anni che ci sono voluti per la decisione del
TC sullo Statuto catalano; un fatto insolito anche per la giovane storia costituzionale
spagnola. Né sembra rispettoso di un minimo di lealtà istituzionale il fatto che i due terzi
dei giudici del TC avevano esaurito il loro mandato nel momento di decidere in quel
giudizio. Altri esempi sono la riunione del Pleno del TC per sospendere la legge catalana
sulla consultazione e il decreto di convocazione. Pleno che è stato convocato in via
straordinaria e urgente per la prima volta nella storia del TC; le ricusazioni presentate dal
Parlamento catalano contro il presidente del TC Francisco Pérez de los Cobos (per la sua
appartenenza al Partito Popolare e la sua collaborazione ripetuta con la Fondazione FAES,
fondazione dello stesso partito e guidata dall'ex primo ministro José María Aznar) e del
magistrato Pedro Jose Gonzalez-Trevijano (per i suoi molti articoli sui media contro il
nazionalismo e l’evoluzione autonomica della Catalogna).
41
federalismi.it
|n. 22/2014
In conclusione, il TC quando si tratta di risolvere i problemi "politici" è pensato per
chiudere il sistema a favore degli interessi della partitocrazia maggioritaria spagnola, senza
tenere in considerazione il fatto che dovrebbero essere protette le minoranze (nazionali o
regionali) a seconda dei casi. Quindi, non dovrebbe sorprendere una posizione parziale ed
alla fine limitativa della democrazia, che comporta il rifiuto di consultare il popolo della
Catalogna sul suo futuro politico.
Il ricorso del Governo contro la legge sulle consultazioni non referendarie può essere
sostanzialmente riassunto nella formula "il nome non fa la cosa"; ciò significa che la legge
catalana non è veramente una legge sulla consultazione ma, sostanzialmente, una legge sul
referendum. Il potere di regolare e autorizzare il referendum è attribuita esclusivamente allo
Stato, ai sensi degli articoli 23, 81, 92 e 149.1.32 Cost. La legge catalana, secondo il
Governo spagnolo, omette anche la necessaria autorizzazione da parte del Governo
spagnolo.
Per quanto riguarda l’impugnazione del decreto di convocazione della consultazione sul
futuro politico della Catalogna, essa si basa ancora una volta sul fatto che una Comunità
autonoma non ha alcun potere di convocare un (reale) referendum; la convocazione è
contraria all’attribuzione della sovranità nazionale, che corrisponde al popolo spagnolo,
oltre a violare l'unità indissolubile della Nazione spagnola, nei termini contenuti negli
articoli 1.2 e 2 della Costituzione.
Per quanto riguarda i motivi presentati dal partito di governo (Partito Popolare) contro la
legge sulla consultazione e il decreto di convocazione, che confermano la linea sostenuta
nel parere del Consiglio di Stato 964/2014 del 28 settembre, bisogna sottolineare che non è
l'unica interpretazione giuridica che può essere data alla Costituzione; al contrario è solo
una tra le possibili letture. Ci sono diversi argomenti costituzionali che permettono di
disciplinare la figura della consultazione non referendaria attraverso la legislazione catalana.
Il primo argomento che può essere richiamato si fonda sull’articolo 1.1 CE, in cui si
afferma: «La Spagna si costituisce in
uno stato sociale e democratico di diritto che
propugna come valori superiori del suo ordinamento giuridico la libertà, la giustizia,
l'uguaglianza politica e il pluralismo». Sia la Costituzione sia lo Statuto d'autonomia della
Catalogna sottolineano il ruolo del principio democratico, da inserire tra i propri valori
fondamentali. Il fatto che questo principio appaia nel primo articolo della Costituzione lo
rende anche un principio fondamentale e fondativo dello Stato. In questo senso, una
42
federalismi.it
|n. 22/2014
rivendicazione che consiste nella richiesta di votare, senza carattere giuridico vincolante,
per conoscere il parere dei cittadini, sembra essere coperta da questo principio
fondamentale che definisce lo Stato spagnolo. Questa interpretazione appare in linea con la
concezione della democrazia espressa dalla decisione del 1998 della Corte Suprema
canadese sulla secessione del Québec, in cui si afferma: «Il voto di una maggioranza chiara
in Québec su una chiara domanda a favore della secessione conferirebbe legittimità
democratica all'iniziativa secessionista che tutti gli altri partecipanti alla Confederazione
dovrebbero riconoscere». In Canada, la Costituzione non è stata utilizzata come strumento
contro la volontà di uno Stato della Confederazione, ma, al contrario, la Corte Suprema,
anche ritenendo che un referendum per l'autodeterminazione non rientrava nel quadro
costituzionale canadese, ha trovato un modo per bilanciare Costituzione e democrazia. La
posizione "legalista" delle istituzioni spagnole non ha favorito una migliore accettazione
della Costituzione. Il risultato è che un testo, che enuncia diritti e libertà fondamentali,
viene concepito da un ampio segmento della popolazione catalana come strumento per
imporre una visione politica di parte.
Un secondo argomento costituzionale che consentirebbe lo svolgimento di una
consultazione non referendaria è legato al principio democratico di cui all'articolo 9.2 CE,
che prevede un mandato ai poteri pubblici per promuovere le condizioni perché la libertà e
l'uguaglianza degli individui e dei gruppi in cui si integrano siano reali ed effettivi; nonché per
rimuovere gli ostacoli che impediscono o ostacolano la pienezza della loro realizzazione e
la partecipazione di tutti i cittadini alla vita politica, economica, culturale e sociale. Un
articolo che non ha precedenti nella storia costituzionale spagnola e dovrebbe essere
integrato con l'articolo 23.1 CE relativo al diritto dei cittadini di partecipare, direttamente o
attraverso rappresentanti liberamente eletti, negli affari pubblici.
Un terzo argomento costituzionale a favore di una consultazione non referendaria, nel
quadro costituzionale attuale, è l’iniziativa avviata dal Parlamento catalano nella risoluzione
479/X, che propone di presentare al Parlamento spagnolo un progetto di legge organica
per delegare al governo catalano la competenza di indire un referendum sul futuro politico
della Catalogna. La risoluzione ha fatto seguito ad una precedente risoluzione sempre del
Parlamento catalano del 13 marzo 2013 per l'avvio di un dialogo con il governo spagnolo
per rendere possibile lo svolgimento di una consultazione sul futuro della Catalogna.
43
federalismi.it
|n. 22/2014
Nella proposta presentata al Parlamento spagnolo, il legislatore catalano ha sottolineato che
l’art. 149.1.32 Cost. riserva allo Stato spagnolo l'autorizzazione alla convocazione delle
consultazioni pubbliche attraverso referendum. Ma allo stesso tempo, l'articolo 150.2 CE
consente allo Stato di trasferire o delegare alle comunità autonome, attraverso la legge
organica, alcune competenze dello Stato. La proposta catalana era incentrata sulla richiesta
di autorizzazione per celebrare un solo referendum e non il trasferimento della competenza
in generale. Tale proposta è stata respinta con il voto contrario di 299 dei 350 deputati. Il
Presidente della Catalogna si è più volte dimostrato disposto ad accettare un referendum
concordato con il Governo spagnolo, seguendo il modello della Gran Bretagna con la
Scozia. Ha anche ribadito la volontà di negoziare la data e la domanda della consultazione,
se fosse stata accettata la possibilità di un referendum in Catalogna.
L’argomento successivo a favore di una consultazione pubblica all’interno delle regole
giuridiche è il riferimento all'articolo 122 dello Statuto di autonomia della Catalogna.
Secondo questa norma, il governo della Catalogna ha la competenza esclusiva per quanto
riguarda il regime giuridico, le modalità, le procedure, l'esecuzione e la convocazione di
sondaggi di opinione, audizioni pubbliche, forum di partecipazione e di qualsiasi altro
strumento di consultazione popolare, ad eccezione di quelle di cui all'articolo 149.1.32 CE.
Questo articolo è stato sviluppato da due leggi catalane: la n. 4/2010, del 17 marzo, relativa
alle consultazioni popolari attraverso referendum; e la legge sulle consultazioni popolari
non referendarie e sulle altre forme di partecipazione popolare, oggetto di ricorso dinanzi al
TC. Entrambi gli strumenti giuridici sono limitati dalla Costituzione, e di conseguenza, la
consultazione non può realizzarsi né contro il testo, né contro i poteri dello Stato.
L'argomento costituzionale finale che i rappresentanti della Catalogna possono utilizzare è
legato ai trattati internazionali ratificati dalla Spagna. Il preambolo della Costituzione recita:
«Proteggere tutti gli spagnoli e i popoli della Spagna nell'esercizio dei diritti umani, delle culture nonché le
loro tradizioni, lingue e istituzioni». Anche l'articolo 10.2 CE stabilisce che le «norme relative ai
diritti fondamentali ed alle libertà riconosciuti dalla Costituzione devono essere interpretate in conformità
con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, dei trattati e degli accordi internazionali sulla stessa
materia ratificata dalla Spagna»; mentre l’art. 96 afferma che «i trattati internazionali validamente
stipulati, una volta pubblicati ufficialmente in Spagna, formano parte del diritto interno. Le loro
disposizioni potranno essere derogate, modificate o sospese con le modalità previste nei trattati stessi o
secondo le regole generali del diritto internazionale».
44
federalismi.it
|n. 22/2014
In sintesi, la controversia catalano-spagnola non è un conflitto tra la legge (Costituzione) e
la democrazia come alcuni postulano, ma una specifica interpretazione della legge
costituzionale spagnola, dei trattati internazionali ratificati dalla Spagna, e dell’acquis
comunitario; interpretazione contraria ad una diversa lettura della Costituzione, della
democrazia e dei diritti umani. Il TC potrebbe perfettamente rifiutarsi di decidere una
questione politica; potrebbe seguire l'esempio del Canada o della Danimarca (che hanno
scongiurato la contrapposizione Costituzione-democrazia) ed esigere una consultazione
concordata tra catalani e spagnoli. Nel caso in cui il TC ritenga non ci siano possibili forme
giuridiche nel quadro costituzionale spagnolo, il Governo catalano dovrebbe cercare il
coinvolgimento di organizzazioni internazionali, tentare comunque la celebrazione della
consultazione per continuare a guadagnare argomenti democratici. In questo senso, la
Guardia Civil che chiude, davanti ad osservatori e telecamere di tutto il mondo, collegi
elettorali e reprime i cittadini che vogliono depositare una scheda elettorale in un urna è
un'immagine che nessuno Stato di diritto dovrebbe essere in grado di permettersi.
La Catalogna dovrebbe internazionalizzazione la consultazione e allo stesso tempo
cominciare a pensare ad una alternativa, oggi ben rappresentata, a mio avviso, dallo
svolgimento di elezioni, definite – infelicemente - plebiscitarie, ed alla successiva
dichiarazione unilaterale di indipendenza dopo il referendum. In questo senso è
particolarmente interessante il paragrafo 155 del parere della Corte Suprema del Canada in
relazione alla secessione del Québec (1998), in cui si legge: “The ultimate success of such a
secession would be dependent on recognition by the international community, which is likely to consider the
legality and legitimacy of secession having regard to, amongst other facts, the conduct of Quebec and
Canada”. La posizione antidemocratica del governo spagnolo e il rifiuto assoluto a dialogare
sulla celebrazione di una consultazione non referendaria, non vincolante giuridicamente,
devono essere presi in considerazione nel valutare il carattere plebiscitario di una specifica
elezione autonomica e la possibile validità ai fini del riconoscimento internazionale. La
successiva dichiarazione unilaterale di indipendenza proclamata da parte del Parlamento
della Catalogna sarebbe giustificata nell’ambito del diritto internazionale, nel caso in cui il
governo spagnolo impedisca la celebrazione della consultazione, o si rifiuti di accettarne
l’eventuale risultato.
45
federalismi.it
|n. 22/2014
2) La realtà giuridica e politica italiana è diversa da quella spagnola; l'Italia, infatti, non
soffre una transizione democratica mal chiusa, la paura di portare alla luce i fantasmi del
passato; dunque non chiude allo sviluppo di politiche democratiche prive di complessi.
Certo, la democrazia italiana ha i suoi problemi sistemici, ma l’ordinamento costituzionale e
democratico è più consolidato che in Spagna e sembra rispondere a determinate
rivendicazioni di sovranità in modo più efficiente, affidabile e, soprattutto, meno
conflittuale. Pertanto, sorprendono alcune decisioni della Corte costituzionale, come la
sentenza. 365/2007 sullo statuto della Sardegna, o la impugnazione da parte del governo
alla legge del referendum consultivo per conoscere la volontà degli elettori del Veneto sull’
indipendenza.
La rivendicazioni di autodeterminazione di Scozia, Catalogna e Veneto condividono il
desiderio di diventare uno Stato, ma differiscono sulla realtà di fatto, culturale, storica, e
procedurale. Nella comparazione tra Catalogna e Veneto, nel caso della regione italiana si è
approvata
una legge regionale (19 giugno 2014) sul "referendum consultivo
sull'indipendenza del Veneto", vale a dire, una legislazione ad hoc per celebrare tale
referendum, piuttosto che una legge generale per consultare la cittadinanza sui diversi
aspetti su cui l'ente sub-statale è competente. I cinque articoli della legge Regionale n. 16
del 19 giugno 2014 sviluppano non solo il quadro giuridico, ma anche gli elementi di fatto
necessari per procedere a tale specifica consultazione.
Nemmeno si è iniziato, da parte del Veneto, un processo di negoziazione previo
all'approvazione della legge con il Governo della Repubblica italiana per portare a termine
questa consultazione, nonostante sia consultiva. Non è stata richiesta l'autorizzazione al
Governo della Repubblica. Nel caso della Catalogna, inoltre, è stata anche approvata dal
Parlamento una dichiarazione di sovranità, e si è votato diverse volte in relazione al diritto a
decidere (nel 1989, 1991 e il 1998), a favore della previsione dei mezzi per esercitare questo
diritto (nel 1999 e nel 2004) e, infine, per esercitare lo stesso (nel 2010, 2011, 2012 e due
volte nel 2013). In tale scenario si riscontrano anche risoluzioni a favore del diritto di
autodeterminazione che non sono state dichiarate incostituzionali. Credo che le
motivazioni per la secessione siano, nei due casi, diverse e, in quello della Catalogna, si
fondano sulla proibizione e persecuzione della sua cultura per 40 anni e sul fatto che, dopo
una fase caratterizzata da una certa rivitalizzazione, le attuali politiche educative e
linguistiche del Governo spagnolo la pongono sotto tutela. La rivendicazione catalana può
46
federalismi.it
|n. 22/2014
anche essere collegata agli eventi del 1931 e del 1934, in cui è stata impedita la
proclamazione della Repubblica e dello Stato Catalano.
Questo, però, non ridimensiona l'errore del Governo italiano, che ha opposto, anch’esso, la
Costituzione alla democrazia; che cerca di mettere a tacere una parte della sua popolazione
attraverso uno strumento giuridico e che, nella migliore delle interpretazioni, non sembra
interessato alla volontà dei cittadini del Veneto su una questione così importante. La
risposta potrebbe essere stata diversa, attraverso la scelta del dialogo con i rappresentanti
del Veneto, cercando di rendere attraente la loro appartenenza alla Repubblica ed esaltando
i benefici che possono esserci nel restare uniti. Mi sembra contraddittorio che, da Madrid o
da Roma, si cedano enormi fette di sovranità ad istituzioni sovranazionali (in particolare
alla Unione Europea) che comportano che, de facto, né la Spagna né l'Italia siano
indipendenti, e allo stesso tempo si guardi con ostilità alle consultazioni non vincolanti
proposte da entità sub-statali. Un altro argomento proprio della situazione catalana è
l’involuzione che si è verificata negli ultimi anni ed il trattamento economico che si è dato
alla Catalogna da parte delle istituzioni statali.
Gli argomenti esposti nell’impugnazione della legge del Veneto da parte del Governo
italiano sono la violazione degli articoli 3, 5, 116, 117-119 della Costituzione, che sono
(ovviamente in diverso assetto costituzionale) quasi identici a quelli invocati dal Governo
spagnolo nel caso della Catalogna. Essi ruotano attorno all'unicità, all'unità e all'indivisibilità
della Repubblica, che riconosce l'autonomia ma non la sovranità alle sue parti; oltre che
all'uguaglianza davanti alla legge di tutti i cittadini. La domanda che ci si dovrebbe porre
fare è se catalani e veneti siano stati trattati allo stesso modo dei cittadini canadesi e
britannici in occasione del referendum in Québec e in Scozia.
Ogni processo di auto-determinazione è unico e la specificità catalana non deriva
unicamente dalla realtà politica, giuridica e sociale, ma anche dalla posizione di chiusura
assoluta e dalla mancanza di dialogo da parte del governo spagnolo, che alla fine è
controproducente per i suoi stessi interessi: nessuno può credere che negando una richiesta
non vincolante sulla base di argomenti strettamente giuridici il problema venga risolto.
Spariranno, in questo modo, i milioni di catalani che sostengono la consultazione o
vogliono
l'indipendenza?
Non
sarebbe
opportuno
interpretare
la
Costituzione
generosamente, negoziare la consultazione con il Governo catalano (maggioranze
47
federalismi.it
|n. 22/2014
necessarie, data, anno, domanda, partecipazione minima) e dimostrare che la Spagna ha
fatto crescere democraticamente i cittadini della Catalogna?
Da Madrid non si è compreso che in Catalogna non si vive solo un momento
costituzionale (Ackerman) in cui i cittadini hanno bisogno di esprimersi e partecipare alla
decisione politica direttamente, ma si sta vivendo un momento costituente.
3) Non sono d'accordo con la definizione del diritto di decidere come nozione controversa.
Come ho già detto, il Parlamento della Catalogna ha votato dieci volte in merito a questo
diritto. Derrida ci ricorda che il potere di decidere, come atto democratico sovrano, appare
già nel termine greco Kuroō, essendo il sovrano (Kuros) colui che ha il potere di decidere.
Anche la teoria del Dezisionismus in Schmitt evoca in una certa misura l'autorità politica che
rilascia la decisione, e non il contenuto della stessa. Ricordiamo che sovrano è colui che
decide sullo stato d'emergenza. Così, quando in Catalogna si parla del diritto a decidere, si
può
pensare
anche
al
diritto
di
auto-determinazione,
dal
momento
che
l’autodeterminazione viene preceduta da una decisione di tipo collettivo; credo, tuttavia,
che il diritto a decidere sia più legato al nozione di sovranità. Utilizzando un’analogia un po’
forzata, si potrebbe dire che, nel dibattito sull'aborto, chi decide è sovrano; certe posizioni
ritengono che la decisione dovrebbe essere della donna, perché lei è la padrona, l’unica
sovrana del suo corpo; altre posizioni considerano che la decisione non dipende
esclusivamente dalla madre; infine, ci sono coloro che negano che la madre debba
partecipare a tale decisione, dal momento che è il nascituro a dover essere protetto.
Nessuno dubita che l'Italia e la Spagna abbiano il diritto di decidere su questioni che
rientrano nell'ambito di applicazione della sovranità nazionale. Certo è materia controversa
il fatto che questo ambito del potere, che rende sovrano il sovrano, sia un diritto o
piuttosto una realtà di fatto. Credo pertanto che non sia controverso il concetto in sé;
quello che si vuole negare (come espresso diverse volte dal TC) è che la Catalogna sia un
soggetto politico con potere decisionale, con sovranità. Agli occhi delle istituzioni spagnole
e della Costituzione, vi è un solo sovrano, per cui chi decide è uno, il popolo spagnolo (nel
suo insieme) attraverso i suoi rappresentanti e le sue istituzioni politiche. Questa
concezione è minacciata quando la Catalogna aspira a una relazione bilaterale con la
Spagna, che la posizionerebbe da pari a pari con lo Stato, dando ad una parte del tutto la
capacità di decidere.
48
federalismi.it
|n. 22/2014
Pure la tensione tra democrazia partecipativa e democrazia diretta non è una novità. Il
dibattito appare chiaramente in Cleistenes e nel sistema di organizzazione tribale, e anche in
Ephialtes e la casta politica; riappare nelle diverse classificazioni dei sistemi politici in
Platone, Aristotele, Cicerone e Polibio. La tensione torna a proporsi nella fondazione degli
Stati Uniti d'America, nel Federalist Papers (10, 37 e 50); o con Tocqueville con la differenza
tra "democrazia" e "repubblica democratica"; con la Rivoluzione francese (Condorcet e
Carré) e con tutto ciò che ci conduce al concetto di Polyarchy in Dahl o di “democrazie
multiple” di Alessandro Ferrara.
In definitiva, non si sta proponendo nulla di nuovo. Il problema si presenta quando i
rappresentanti contrastano quello che appare come sovrano nei testi costituzionali, il
popolo, che si suppone sia sempre più critico, preparato a prendere decisioni per se stesso;
e che, nella nuova era tecnologica, ha maggiori possibilità di coinvolgimento nella politica
quotidiana. Se a questo aggiungiamo la straordinarietà di un referendum per decidere il
futuro politico di una nazione e che il movimento pro-consultazione in Catalogna è
fortemente sostenuto (da oltre il 70% della popolazione), non c'è solo il diritto di decidere
dei catalani, ma c'è anche un obbligazione dei suoi rappresentanti di canalizzare questa
aspirazione legittima e democratica.
49
federalismi.it
|n. 22/2014
Enoch Albertí Rovira*
Catedràtic de Dret Constitucional
Universitat de Barcelona
1) La celebrazione di una consultazione popolare, attraverso la quale la cittadinanza
catalana possa esprimere la sua posizione rispetto a una eventuale separazione dello Stato,
trova spazio, a mio avviso, nell’attuale assetto costituzionale, se la si concepisce in termini
non vincolanti: cioè se si ritenga che, nel caso la posizione favorevole alla separazione
ottenga la maggioranza, questo risultato non comporti automaticamente la secessione (così
come accadrebbe in un referendum di autodeterminazione).
Sono state identificate (Informe del Institut d’Estudis Autonòmics dell’11 marzo 2013 e Informe
sobre la consulta sobre el futuro político de Cataluña del Consell Assessor per la Transició Nacional CATN) cinque vie legali per poter celebrare una consultazione: (i) la via del referendum
consultivo previsto nell’articolo 92 della Costituzione spagnola (CE)
per “decisioni
politiche di particolare importanza”; (ii) la delega o il trasferimento della competenza statale
per la celebrazione di un referendum non consultivo (art. 150.2 CE); (iii) la celebrazione di
un referendum secondo la legge catalana 4/2010, del 17 marzo, sulle consultazioni popolari
per via referendaria, con la necessaria autorizzazione statale per la sua convocazione; (iv) la
convocazione di una consultazione popolare non referendaria mediante la legge catalana
10/2014, del 26 settembre, sulle consultazioni popolari non referendarie e su altre forme di
partecipazione popolare; e, infine, (v) la riforma della stessa Costituzione, se si arrivasse alla
conclusione che tutte le altre strade sono vietate dalla stessa.
Non si può entrare, in questa sede, in un’analisi dettagliata della percorribilità e dei
problemi che, da un punto di vista giuridico-costituzionale, presentano queste vie. Credo
però si possa argomentare con convinzione, e su una base solida, che questa consultazione
possa aver luogo nel rispetto dell’assetto costituzionale spagnolo, nonostante non sia
espressamente prevista.
Un’analoga previsione non esisteva nemmeno nei casi del Québec, in Canada, e della
Scozia, nel Regno Unito; ciò non è stato di ostacolo allo svolgimento di consultazioni per
Testo consegnato il 17 novembre 2014. Traduzione dal castigliano di Luciana Ambrosino e
Gennaro Ferraiuolo.
*
50
federalismi.it
|n. 22/2014
consentire alle popolazioni di quei territori di manifestare la loro volontà. In entrambi i casi
non si è trattato di referendum decisori, con effetti giuridici diretti e vincolanti, come si
trattasse di referendum di autodeterminazione. Seguendo questa medesima impostazione,
credo potrebbe senz’alcun dubbio realizzarsi, in Catalogna, una consultazione non in
contrasto con la Costituzione vigente. Allo stesso tempo, la proibizione della stessa per
motivi giuridico-costituzionali significa ridurre notevolmente il campo della Costituzione,
escludendo dallo stesso le forze politiche che rappresentano una parte importante della
popolazione; con la conseguenza di impedire, o almeno complicare, la risoluzione del
conflitto politico attraverso percorsi civili e democratici. Obiettivo che, in fondo,
rappresenta la missione principale di una Costituzione.
In primo luogo, risulta molto difficile giustificare, in maniera convincente e nel quadro di
una Costituzione basata sul principio democratico, il rifiuto di convocare o permettere una
consultazione popolare sull’autogoverno di un territorio. Questo anche nel caso in cui si
contempli l’opzione di una eventuale secessione, specialmente quando la richiesta è
sostenuta
costantemente
nel
tempo
(le
prime
dichiarazioni
a
favore
della
autodeterminazione della Catalogna si produssero, caduto il regime franchista, già
immediatamente dopo la riconquista dell’autonomia, nel 1980) ed è appoggiata da una
maggioranza molto ampia del Parlamento di questo territorio (l’80% dopo le elezioni del
2012).
Se la Costituzione non contiene clausole di immodificabilità in questa materia – come nel
caso della Costituzione spagnola del 1978, che non le prevede in assoluto – tutte le opzioni
sono legittime e hanno diritto di trovare espressione, di realizzare attività di promozione e
preparazione delle relative proposte, sempre muovendosi dentro percorsi democratici,
tanto per la forma in cui si realizzano quanto per il modo in cui pretendano di raggiungere i
propri obiettivi. Questo è quanto ha precisamente sostenuto la sentenza del Tribunale
costituzionale (STC) n. 42/2014, del 25 marzo, sulla dichiarazione del Parlamento di
Catalogna sul diritto a decidere (“Resolución del Parlamento de Cataluña 5/X, de 23 de
enero de 2013, por la que se aprueba la Declaración de soberanía y del derecho a decidir
del pueblo de Cataluña”). Nella sentenza, il TC nega, in primo luogo, che il popolo di
Catalogna possa considerarsi o essere dichiarato sovrano, in quanto ciò contraddice la
Costituzione, che attribuisce la sovranità unicamente al popolo spagnolo (art. 1.2 e art. 2).
51
federalismi.it
|n. 22/2014
Pertanto, non è possibile attribuire al popolo catalano la facoltà di decidere unilateralmente
circa il suo status politico.
Proseguendo, lo stesso TC afferma però che la Costituzione spagnola non esige una
adesione militante e che i suoi contenuti (compresi i suoi fondamenti, come dice
espressamente) possono essere modificati. É legittimo, pertanto, progettare, difendere e
promuovere un cambio sostanziale dell’ordine costituzionale vigente, sempre che, sostiene
il TC, «non si prepari o difenda attraverso un’attività che leda i principi democratici, i diritti
fondamentali o il resto delle prescrizioni costituzionali, e il tentativo della sua realizzazione
effettiva si concretizzi nel quadro dei procedimenti di riforma della Costituzione» (FJ 4).
Questa posizione, simile - sebbene meno chiara - a quella espressa nel parere del 20 agosto
1998 del Tribunale Supremo del Canada sul Québec (citato espressamente dalla sentenza n.
42), offre, a mio giudizio, base sufficiente per sostenere che la Costituzione non si oppone
alla celebrazione di una consultazione popolare, come atto previo o di preparazione di una
proposta di cambiamento dello status di autogoverno della Catalogna, che contempli
finanche la possibilità di una separazione; sempre che si realizzino determinate condizioni
formali e di procedimento: il rispetto dei principi democratici e dei diritti fondamentali e il
ricorso al procedimento di riforma costituzionale.
È questa, in fin dei conti, l’impostazione del decreto di convocazione della consultazione
popolare non referendaria sul futuro politico della Catalogna (Decreto del Presidente della
Generalitat de Catalunya 129/2014, del 27 settembre), che nel preambolo cita espressamente
la facoltà di iniziativa per la riforma costituzionale di cui dispone il Parlamento catalano
(artt. 87 e 166 CE; art. 61 dello Statuto di autonomia), considerando pertanto la
consultazione quale atto previo e preparatorio all’esercizio di tale facoltà. Si tratterebbe,
dunque, di consultare la cittadinanza catalana (in senso ampio, in quanto si includono
anche i maggiori di 16 anni e gli stranieri con un tempo minimo di residenza) prima di
esercitare tale iniziativa. La volontà di veicolare la proposta attraverso il procedimento di
riforma costituzionale è dunque manifestata esplicitamente nella convocazione della
consultazione da parte del Presidente della Generalitat. D’altro canto, non c’è nessun dubbio
sul rispetto delle condizioni formali richieste dal TC (rispetto dei principi democratici e dei
diritti fondamentali): il processo catalano, per come sviluppatosi, mostra un carattere
assolutamente pacifico e civile.
52
federalismi.it
|n. 22/2014
In tal senso, come atto preparatorio all’esercizio di una facoltà riconosciuta
costituzionalmente, di portata non vincolante e privo si effetti giuridici diretti, la
celebrazione della consultazione non tocca la sovranità riconosciuta unitariamente in capo
al popolo spagnolo, né tantomeno si colloca fuori dell’insieme delle competenze, in senso
ampio, della Generalitat de Catalunya: non sembra possano evocarsi i due principali
argomenti utilizzati nel ricorso innanzi al TC.
Perciò, considero che la strada di una consultazione popolare della cittadinanza catalana,
intesa come passo preliminare all’esercizio della facoltà di iniziativa di riforma
costituzionale da parte della Generalitat de Catalunya, risulta percorribile non solo dal punto
di vista del principio democratico (a partire dal quale le società moderne devono risolvere i
conflitti politici), ma anche dal punto di vista dell’assetto costituzionale spagnolo, inclusa la
distribuzione competenze.
In secondo luogo, occorre segnalare che, a mio giudizio, il rifiuto di convocare o consentire
una consultazione nei termini indicati, facendo leva su motivazioni di carattere legale,
conduce ad una interpretazione riduttiva della Costituzione, che esclude dal proprio ambito
una parte significativa delle forze politiche della Catalogna e impedisce, o quantomeno
rende molto difficile, che il conflitto politico in atto possa risolversi attraverso canali civili e
democratici. Le costituzioni devono assolvere una funzione di integrazione dei conflitti,
attraendo la risoluzione degli stessi al loro interno mediante i procedimenti contemplati.
Quando una Costituzione abdica (o la si fa abdicare) a questa funzione (in particolare in
quei casi in cui non esiste alcun ostacolo materiale ad una sua riforma – in quanto o la
stessa Costituzione non la impedisce o non sono messi in gioco i valori su cui si basa la
convivenza politica) si sta pregiudicando gravemente la capacità della comunità che la
Costituzione medesima regge a risolvere pacificamente e democraticamente i propri
conflitti interni. Con la conseguenza di ridurre non solo la sua efficacia, ma anche la sua
legittimità.
Credo che la grande lezione che bisogna trarre dai casi del Québec e della Scozia è che,
nonostante i sistemi costituzionali canadese e britannico non prevedessero la possibilità di
secessione di un territorio, né tantomeno la celebrazione di referendum a tale scopo,
entrambi sono stati sufficientemente duttili e flessibili da permettere di porre tale questione
al entro il loro quadro normativo, offrendo una soluzione del conflitto politico esistente.
Tali sistemi, individuando questa via d’uscita, non sono né arrivati ad un punto di rottura,
53
federalismi.it
|n. 22/2014
né sono risultati danneggiati; al contrario, la capacità di offrire un canale di risoluzione del
conflitto politico li ha rafforzati.
La domanda che ci si deve porre è cosa accade, o come si evolve il conflitto, quando la
Costituzione non offre strade adeguate – ossia accettate dalle parti in causa – per risolverlo.
Se non si ammette che possa manifestarsi la volontà popolare attraverso una consultazione
celebrata nel quadro della Costituzione e che il suo risultato, a seconda dei casi, si possa
realizzare mediante i procedimenti previsti per la sua riforma, questa medesima volontà
potrà affermarsi per altre vie, meno adeguate ad esprimerla e a condurre il processo della
sua messa in opera. Impedire di celebrare la consultazione non risolve il conflitto sotteso a
tale richiesta, ma rischia di determinare una deriva verso mezzi e procedimenti diversi da
quelli costituzionalmente previsti. L’alternativa ad una consultazione e alla apertura di un
processo di negoziazione (mediante una riforma costituzionale che dia seguito, se del caso,
al suo risultato) è l’affermazione di quella medesima volontà attraverso elezioni
autonomiche alle quali i partiti che vi concorrono possono conferire carattere plebiscitario
in ordine alla secessione della Catalogna. In questo scenario, i dubbi e le incertezze
risulteranno molto maggiori e, in ogni caso, la Costituzione potrà perdere la propria
capacità di regolare il processo preordinato alla risoluzione del conflitto.
2) Ritengo che ogni caso abbia una sua specificità, presentando caratteristiche peculiari che
lo rendono unico e lo differenziano dagli altri. Credo, tuttavia, che possano rinvenirsi alcuni
tratti generali che ricorrono in tutti quei casi in cui la rivendicazione della costituzione di
uno Stato indipendente si presentano con una speciale forza. Questi tratti si esprimono
nella costruzione di una comunità politica propria e differenziata, con specificità storiche,
culturali e sociali comuni che la rendono unica e distinta dalle altre.
A queste caratteristiche oggettive occorre aggiungere un elemento soggettivo fondamentale:
la volontà politica di affermazione in quanto comunità, che deve essere sufficientemente
ampia e duratura nel tempo perché possa considerarsi che esista, effettivamente, tale
comunità specifica e differenziata. Non basta, dunque, disporre di alcune caratteristiche
proprie per affermare la sussistenza di una comunità differenziata, ma è necessario che
questa comunità esprima anche una volontà politica chiara che la affermi in quanto tale.
Questione diversa è quella relativa al possibile inserimento di questa comunità, con
caratteristiche specifiche e una propria volontà di affermazione, in contesti politico-
54
federalismi.it
|n. 22/2014
istituzionali superiori o più ampi. Si può constatare con facilità che esistono, nella storia e
nel presente, comunità politiche (nazioni, se si vuole utilizzare un termine che rinvia alla
nozione richiamata in precedenza) che hanno trovato una integrazione soddisfacente in
unità politiche più ampie. Allo stesso modo, si possono rinvenire casi in cui diverse
comunità si sono fuse in una unità superiore (in modo da cancellare la volontà politica di
affermazione propria, prescindendo dal mantenimento delle caratteristiche oggettive di
distinzione). Così come esistono, infine, vicende in cui il tentativo di unificazione con altre
(o in altre) comunità è fallito e, di conseguenza, si è ottenuta (o recuperata) la condizione
di Stato indipendente.
Nel caso della Catalogna, credo che si diano le condizioni per affermare tanto l’esistenza di
caratteristiche oggettive che la rendono unica e ne fanno una comunità politica specifica e
distinta, quanto la presenza di una volontà politica di affermazione di un’identità propria.
Sul primo versante ci si riferisce tanto alla storia politica della Catalogna come entità
differenziata, prima e anche dopo l’unificazione delle Corone catalano-aragonese e
castigliana e la formazione, nel XV secolo, del Regno di Spagna; quanto all’esistenza e
sopravvivenza di una cultura e di una lingua proprie e di alcuni tratti sociali, economici e
politici anch’essi specifici, che si sono mantenuti, sotto forme e regimi diversi, nel corso del
tempo.
Sul secondo versante, emerge una chiara volontà politica di affermazione di questa identità
differenziata, che si è manifestata apertamente e nel corso dei secoli, con diversa intensità: a
partire dalla guerra di successione per la Corona spagnola del secolo XVIII, nella quale la
Catalogna perse le proprie istituzioni di autogoverno, che aveva conservato fino a quel
momento anche sotto la Corona spagnola (che costituiva una sorta di unione confederale);
fino alla Mancomunidad del 1914; alle effimere proclamazioni della Repubblica Catalana
(1931) e dello Stato Catalano (1934); allo Statuto di autonomia del 1932, nella Seconda
Repubblica spagnola; alla restaurazione, nel 1977, della Generalitat de Catalunya, dopo la
dittatura franchista; agli Statuti di autonomia del 1979 e del 2006, durante la vigenza della
Costituzione spagnola del 1978.
Il problema attuale si inquadra all’interno della seconda delle questioni sopra indicate:
l’inserimento di una comunità propria e differenziata come la Catalogna, che manifesta una
volontà politica di affermazione, nell’unità superiore che costituisce lo Stato spagnolo nato
della Costituzione del 1978.
55
federalismi.it
|n. 22/2014
La Costituzione del 1978 ha compiuto uno sforzo notevole per sistemare politicamente,
nell’ordinamento democratico, le nazionalità e le regioni che esistono al suo interno, tra le
quali figura ovviamente la Catalogna, le cui rivendicazioni di autogoverno giocarono un
ruolo decisivo nella creazione del modello di Estado autonómico sancito con la Carta del
1978. Insieme al principio di unità si riconobbe il diritto all’autonomia di nazionalità e
regioni; diritto che permetteva loro di costituirsi in Comunità autonome dentro lo Stato,
con istituzioni di autogoverno e competenze proprie.
La Costituzione del 1978 rappresenta pertanto un tentativo molto serio di risolvere la
questione territoriale in Spagna (in particolare, la questione catalana e quella basca),
attraverso modalità molto diverse rispetto a quelle con cui si era affrontata nella storia
costituzionale spagnola, a partire dal 1812. Infatti, con la sola eccezione, molto breve, delle
due Repubbliche (1873 y 1931-39), lo Stato spagnolo si è sempre strutturato su basi non
solo unitarie, ma anche fortemente centraliste, senza riconoscere la diversità territoriale
esistente né, di conseguenza, l’autonomia dei diversi territori. Tuttavia, dopo trentacinque
anni, credo si possa dire, almeno a mio avviso, che questo modello sia giunto all’epilogo e
anche che sia collassato. Le ragioni vanno ricercate sia in alcuni punti deboli del disegno
originario dello Stato delle autonomie (specialmente, da un lato, la creazione di 17
Comunità autonome con identica natura e con competenze tendenzialmente uguali,
nonostante la Costituzione prevedesse due tipi diversi di comunità; e, dall’altro, la mancata
previsione costituzionale dei meccanismi di raccordo tra i diversi centri di governo); sia
nella emersione di alcuni problemi importanti in fase di attuazione, che non sono stati
affrontati adeguatamente (si tratta di questioni relative, fondamentalmente, alla
delimitazione delle competenze tra Stato e Comunità Autonome, alle relazioni
intergovernative e al finanziamento).
Il nuovo Statuto della Catalogna del 2006 rappresentò un tentativo (da parte catalana e da
parte statale, o almeno del Governo spagnolo di quella fase) di affrontare i problemi emersi
nell’evoluzione del assetto autonomistico e di risolverli mediante un nuovo patto,
rivitalizzando il consenso costituzionale. Tuttavia lo Statuto (che, non lo si dimentichi, è
una legge organica approvata dal Parlamento statale, dal Parlamento autonomico e, infine,
dai cittadini con un referendum) fu impugnato innanzi al TC, che lo dichiarò parzialmente
illegittimo e, soprattutto, lo privò in larga parte del valore giuridico di norma vincolante
anche per lo Stato. Questo annullamento, di fatto, del valore del nuovo Statuto, che si
56
federalismi.it
|n. 22/2014
regge su un’interpretazione fortemente restrittiva e riduzionista della Costituzione,
determina, a mio parere, la situazione oggi in atto: la maggioranza politica catalana
considera fallito non solo lo Statuto del 2006 – e, pertanto, il tentativo di rinnovare il patto
costituzionale in tema di autogoverno – ma anche il complessivo modello autonomistico
del 1978.
L’attuale movimento indipendentista rappresenta, in larga parte, una reazione al fallimento
del nuovo Statuto e alla sensazione di scoraggiamento rispetto alla possibilità di raggiungere
un livello adeguato di autogoverno della Catalogna all’interno dello Stato spagnolo. Tale
movimento, pertanto, mira a dotare la Catalogna degli strumenti propri di uno Stato per
preservarne la personalità ed esercitare l’autogoverno in relazione alle esigenze di questa
comunità. Ma, allo stesso tempo, si presenta come un movimento europeista, che vuole che
il nuovo Stato formi parte dell’Unione Europea e partecipi attivamente al processo di
integrazione europea. In questo senso, non è un movimento nazionalista-statalista, di
carattere isolazionista, né tantomeno pretende di imporsi sugli altri. Non mostra nessuna
resistenza a cedere sovranità ad una entità superiore come la UE né, dunque, a trovare
un’integrazione adeguata all’interno un’unità politica ed economica superiore e più ampia,
in seno alla quale rinuncia ad essere sovrana.
Queste osservazioni portano ad affrontare una questione generale, che concerne la
possibile ridefinizione del ruolo degli Stati in un contesto di unificazione politica ed
economica europea. Questione che si pone, in particolar modo, per quelli di maggiore
estensione e con collettività forti al loro interno, che si verrebbero a trovare in uno spazio
indefinito e scomodo: troppo grandi per riuscire a rappresentare adeguatamente la realtà
locale e troppo piccoli come attori globali. Non si tratta tanto di riconfigurare l’Unione
Europea, costruendo un’Europa delle regioni composta da 90 entità, ma di pensare che il
ruolo di alcuni Stati può vedersi minacciato nel nuovo contesto di un’Europa sempre più
unita economicamente e politicamente: fattore questo che può determinarne lo
schiacciamento tra l’UE e le regioni che esistono al loro interno.
3) Senza dubbio viviamo un processo di cambiamento di dimensioni epocali, nel quale
compaiono fenomeni che mostrano una certa resistenza a lasciarsi inquadrare entro le
tradizionali categorie di analisi. Questo accade in molti ambiti e istituzioni; il cosiddetto
“diritto a decidere” è, in tal senso, un esempio. Non si tratta, senz’altro, del classico diritto
57
federalismi.it
|n. 22/2014
di autodeterminazione, rispetto al quale presenta differenze molto evidenti che
impediscono un trattamento omogeneo delle realtà sottese alle due nozioni. Tantomeno si
tratta del tradizionale diritto di secessione – che le costituzioni moderne quasi mai hanno
riconosciuto espressamente - e neanche di una aspirazione alla riforma costituzionale,
secondo le sue classiche ricostruzioni. Si tratta di un tema che pone questioni inedite, come
quella del diritto delle minoranze territoriali in uno Stato democratico (diversa da quella,
classica, delle minoranze – al plurale – che è tema distinto) e del modo in cui oggi possono
modificarsi, con mezzi pacifici, le frontiere statali nel contesto di ordinamenti democratici.
La questione è sorta con il caso del Québec, è proseguita con la Scozia e, ora, con la
Catalogna. Si tratta, in definitiva di provare a individuare categorie che permettano di
trattare queste situazioni secondo parametri comunemente accettati nel contesto della
comunità degli Stati democratici. Questo sforzo di razionalizzazione non è semplice, ma
risulta necessario per poter disporre di un parametro ragionevole per valutare simili
situazioni e inquadrarle tanto dal punto di vista costituzionale interno (si tratta di una
ulteriore prova della esigenza di un diritto costituzionale universale o globale) quanto da
quello del diritto internazionale, che regola le relazioni tra i soggetti della comunità
internazionale. In questo senso, credo che un buon punto di partenza sia costituito dal
parere del Tribunale Supremo del Canada sul caso della secessione del Québec, la cui
dottrina essenziale (incentrata su tre pilastri fondamentali: non esiste un diritto alla
secessione; se una maggioranza pronuncia chiaramente la sua volontà di separarsi, si deve
attivare una negoziazione tra le parti; questo presuppone la possibilità che si esprima la
volontà della popolazione del territorio interessato) offre, a mio avviso, delle buone basi
per l’elaborazione di nuove categorie.
Ritengo infine che, laddove tali problematiche si pongano in Europa, sia necessario
collocarle nel contesto dell’integrazione europea: sebbene si tratti di questioni
eminentemente interne agli Stati, esse riguardano senza dubbio l’intera Unione. Pertanto, la
riflessione che conduce alla elaborazione delle categorie di analisi e dei parametri di
valutazione di queste nuove realtà dovrebbe includere, a mio giudizio, anche il piano
dell’integrazione europea, permettendo che i fenomeni richiamati vengano trattati anche da
questa prospettiva ed elaborando un parametro di valutazione e trattamento che tenga
conto della posizione della UE.
58
federalismi.it
|n. 22/2014
Xavier Arbós Marín*
Catedràtic de Dret constitucional
Universitat de Barcelona
1) Il quadro costituzionale consente, a mio avviso, la consultazione popolare, anche se
questo punto di vista è in dottrina controverso.
Cominciamo col ricordare che la Costituzione accoglie, tra i diritti fondamentali, il diritto di
partecipazione ai pubblici affari (art. 23.1 CE), «direttamente o per mezzo dei
rappresentanti». Le consultazioni popolari possono dunque considerarsi un esercizio del
diritto di partecipazione nei pubblici affari enunciato nell’art. 23 della Costituzione
spagnola (CE), condizionato all’imprescindibile e previa convocazione da parte dell’organo
di volta in volta competente.
Problematiche diverse concernono il doppio quesito oggetto della consultazione del 9
novembre 2014. Esso è stato concordato, il 12 dicembre 2013, tra il Presidente della
Generalitat e i partiti Convergència i Unió, Esquerra Republicana de Catalunya, Iniciativa per
Catalunya-Verds i Esquerra Unida i Alternativa e la Candidatura d’Unitat Popular.
Queste le parole del presidente Mas:
«Il quesito che abbiamo concordato consiste in una domanda, un’unica domanda, con due
passaggi. Sono entrambi molto chiari. Primo passaggio: “Vuole che la Catalogna diventi
uno Stato?” Sì o no. “Stato” scritto con lettera maiuscola. Secondo passaggio: in caso di
risposta affermativa, per coloro che abbiano risposto “sì”, che vogliono che la Catalogna si
converta in uno Stato: “Vuole che questo Stato sia indipendente?” Sì o no».
Nel primo dossier del Consell Assessor per a la Transició Nacional (CATN) del 25 luglio 2013, le
conclusioni sul tipo di quesito preferibile si aprono con le seguenti parole (p. 86):
«Dalla prospettiva della chiarezza e semplicità per valutare i risultati, la formula più
appropriata è quella di una domanda diretta sul voto, favorevole o contrario, a che la
Catalogna diventi uno stato indipendente. Se il Governo o il Parlamento, in considerazione
di altri fattori, decidessero di utilizzare una domanda multipla, la formula più adeguata, tra
le alternative possibili, è quella che permetta ai cittadini di scegliere tra diverse opzioni,
*
Testo consegnato l’11 settembre 2014. Traduzione dal catalano di Gennaro Ferraiuolo.
59
federalismi.it
|n. 22/2014
generando però, allo stesso tempo, un esito chiaro, come accuratamente evidenziato nel
corpo del dossier».
A nostro avviso, il quesito nato dall’accordo del 12 dicembre del 2013 non corrisponde alla
prima delle raccomandazioni. Non si tratta infatti di una domanda diretta, ma di due quesiti
concatenati.
La seconda opzione è assolutamente ambigua: è uno “Stato” lo “Stato libero e sovrano di
Jalisco”, degli Stati Uniti Messicani, che ha meno capacità di governo della Comunitat Foral
de Navarra. L’enfasi “tipografica” del presidente Mas ci appare priva di senso, sebbene si
tratti di una questione certamente secondaria. Non lo è invece il fatto che, al 10 settembre
2014, non si abbia ancora un criterio ufficiale per la valutazione dei risultati o, almeno, noi
non ne abbiamo notizia. Poiché nella legge sulle consultazioni popolari non referendarie
che il Parlamento presumibilmente approverà [ha poi approvato, ndt] il prossimo 19
settembre 2014, è attribuita al Presidente la determinazione del quesito definitivo nel
momento in cui convoca una consultazione, tutto ciò che qui affermiamo si colloca in una
dimensione ipotetica di cui il lettore farebbe bene a tener conto. Ad ogni modo, quando
tratteremo il caso della convocazione da parte della Generalitat, ritorneremo sul punto.
Prima, però, mi occuperò della possibilità di convocazione da parte del Governo centrale.
Infine, proverò a rispondere ai quesiti sulle risposte da dare ai cittadini e sull’immobilismo
del Governo Rajoy.
a) La convocazione da parte del Governo centrale.
La possibilità più chiara, dal mio punto di vista, è nelle mani del Governo centrale. Questo
può utilizzare l’articolo 92, co. 1 e 2, della Costituzione, che gli permette di svolgere una
consultazione popolare non vincolante, rivolta all’insieme della popolazione spagnola, su
«decisioni politiche di particolare importanza», previa autorizzazione del Congresso dei
Deputati.
Nel testo della Costituzione, così come non esistono precetti che non possano essere
riformati, tantomeno vi sono materie insuscettibili di costituire oggetto di referendum
consultivi. A tale affermazioni si può tuttavia rivolgere un’obiezione radicale: quella in base
alla quale non si può chiedere un parere su ciò che dovrà essere oggetto di una riforma
costituzionale. In altri termini, per fare un esempio, non si potrebbe tenere un referendum
consultivo sul passaggio dalla monarchia alla repubblica. Questo tipo di questioni,
60
federalismi.it
|n. 22/2014
incompatibili con il vigente assetto costituzionale, non possono che essere prese in
considerazione nel procedimento di revisione della Costituzione.
L’indipendenza della Catalogna cozza in pieno con l’indissolubilità della nazione spagnola
proclamata dall’articolo 2 CE, che dovrebbe essere modificato al fine di rendere
costituzionalmente accettabile la secessione catalana. Il fondamento di questa posizione
restrittiva si trova nella sentenza del Tribunale costituzionale (STC) 103/2008 (FJ 4). Il
passaggio che ci interessa recita:
«Il rispetto della Costituzione impone che i progetti di revisione dell’ordine costituito, e in
particolare quelli che riguardano il fondamento dell’identità dell’unico depositario della
sovranità, si realizzino in maniera trasparente e diretta per l’unica via che la Costituzione ha
previsto a questi fini. Non c’è spazio per diverse procedure, né da parte delle Comunità
autonome, né di qualsiasi altro organo dello Stato, poiché prevale sempre, come espresso
nella decisone costituente, la volontà del popolo spagnolo, titolare esclusivo della sovranità
nazionale, fondamento della Costituzione e origine di qualsiasi potere politico. ».
Non condividiamo questa dottrina costituzionale. Il TC non è in grado di evocare nessun
precetto che limiti l’oggetto di un referendum consultivo: pertanto, restringe
arbitrariamente l’ambito potenziale dell’esercizio del diritto di partecipazione, di cui si è
detto in precedenza. In ogni caso, esprimere un’opinione politica non equivale a decidere.
L’opinione manifestata in una consultazione, quand’anche diversa da quella del titolare
della sovranità, non ha carattere vincolante.
D’altro canto, vale la pena ricordare la STC 42/2014, del 25 marzo: più per ciò che non
dice che per quanto afferma esplicitamente. Questa sentenza si riferisce alla dichiarazione
di sovranità approvata dal Parlament de Catalunya il 23 gennaio 2013 (“Resolució 5/X, per la
que s’aprova la Declaració de sobirania i del dret a decidir del poble de Catalunya», Butlletí
Oficial del Parlament de Catalunya, num. 13, 2013”). Il suo preambolo ricorda che il «27
settembre del 2012, mediante la Resolució 742/IX, il Parlamento ha constatato la necessità
che il popolo della Catalogna possa determinare liberamente e democraticamente il proprio
futuro collettivo attraverso una consultazione». Se, dunque, la STC 42/2014 dichiara
l’incostituzionalità dei riferimenti alla sovranità, per quanto riguarda il “diritto a decidere” la
pronuncia afferma che «i richiami al “diritto a decidere dei cittadini della Catalogna”
contenuti nel titolo, parte iniziale, e nei principi secondo, terzo, settimo e nono, paragrafo
secondo, della Dichiarazione approvata attraverso la risoluzione 5/X del Parlamento di
61
federalismi.it
|n. 22/2014
Catalogna, non sono incostituzionali se si interpretano nel senso che si espone nei punti 3 e
4 del considerato in diritto [fundamentos jurídicos, ndt] di questa sentenza». Lì, specificamente
nel FJ 4, leggiamo che il “diritto a decidere” è conforme alla Costituzione nella misura in
cui «non viene proclamato come manifestazione di un diritto di autodeterminazione non
riconosciuto dalla Costituzione, o come un’attribuzione di sovranità non riconducibile alla
stessa, ma come aspirazione politica alla quale può giungersi madiante un processo
conforme alla legalità costituzionale, in relazione ai principi di “legittimità democratica”,
“pluralismo” e “legalità”, espressamente proclamati nella Dichiarazione in stretta
correlazione con il “diritto a decidere”».
Il riferimento al FJ 4 della STC 103/2008 compiuto dal FJ 4 della STC 42/2014 serve solo
a ricordare che le riforme della Costituzione debbono realizzarsi nel quadro dei
procedimenti che la stessa prevede; si evita, dunque, di ribadire l’incostituzionalità di
qualsiasi consultazione su materie suscettibili di essere oggetto di una riforma della
Costituzione.
Ammettendo che non vi siano materie escluse da una potenziale consultazione, occorre a
questo punto soffermarsi sulla possibilità che chi consulti sia il Governo centrale.
Ricordiamo che la via dell’art. 92.2 CE abilita il Governo a realizzare, con l’autorizzazione
del Congresso dei deputati, referendum consultivi su «decisioni politiche di speciale
importanza», in relazione alle quali devono esprimersi «tutti i cittadini». D’accordo con tale
previsione, sembra chiaro che il Governo centrale potrebbe convocare un referendum
consultivo su qualunque materia ritenuta di speciale rilievo politico, rivolto a tutti i cittadini
spagnoli. In tal modo, ovviamente, si includerebbe la cittadinanza catalana, anche se
l’opinione di questa sarebbe diluita nella interpretazione unitaria dei dati su scala spagnola.
Senza dimenticare che il popolo spagnolo è, secondo la Costituzione (art. 1.2), il titolare
della sovranità e sarebbe pertanto inevitabile considerare questa circostanza nella
valutazione del peso politico dei risultati referendari.
Resta la possibilità di utilizzare la legge organica 2/1980 del 18 gennaio, recante la disciplina
delle diverse forme di referendum. La modifica di questa legge potrebbe introdurre un
nuovo modello di consultazione popolare. In ipotesi, si potrebbe addirittura regolare uno
specifico caso concreto, attraverso un’unica convocazione, con una disposizione transitoria.
Si tratterebbe pur sempre, ricordiamolo, di un referendum consultivo. Non ci sono materie
riservate al referendum ma riconoscergli un effetto giuridico vincolante produrrebbe
62
federalismi.it
|n. 22/2014
un’alterazione del sistema delle fonti in termini contrari alla Costituzione. È quest’ultima
che stabilisce la struttura del sistema delle fonti partendo dai principi di gerarchia e
competenza.
Riassumendo, ritengo che il Governo centrale avrebbe potuto convocare un referendum
consultivo, anche solo in Catalogna, e che ciò sarebbe stato conforme a Costituzione.
b) La convocazione da parte della Generalitat.
Tra le competenze esclusive dello Stato rientra, ai sensi della Costituzione, la
«autorizzazione alla convocazione di consultazioni popolari referendarie» (art. 149.1.32
CE). Possiamo partire da qui. La Costituzione non definisce cosa sia un referendum; la
citata STC 103/2008, indica però (FJ 2) che il referendum è un tipo di consultazione
popolare che utilizza un procedimento elettorale, si indirizza al censo elettorale ed è dotato
di garanzie elettorali. Le Comunità autonome possono assumere competenze in materia di
consultazioni popolari ma, secondo quanto stabilito da questa sentenza, solo con
riferimento a quelle che non siano qualificabili “referendum”. Nel caso della Catalogna,
l’art. 122 dello Statuto prevede che corrisponde alla Generalitat «la competenza esclusiva per
stabilire il regime giuridico, le modalità, il procedimento, la realizzazione e la convocazione
da parte della Generalitat o degli enti locali, nell’ambito delle relative competenze, di
inchieste, audizioni pubbliche, forum di partecipazione e qualunque altro strumento di
consultazione popolare, salvo quanto disposto dall’art. 149.1.32 della Costituzione».
La STC 31/2010 sullo Statuto catalano, afferma (FJ 69) che il menzionato art. 122 è
conforme a Costituzione se «interpretato nel senso che l’eccezione in esso contemplata si
estende all’istituto del referendum nella sua integrità e non solo alla autorizzazione statale
alla convocazione». In tal modo la Generalitat può solo regolare, convocare e organizzare
consultazioni popolari che non siano referendum.
È anche possibile mettere in moto il meccanismo previsto dall’art. 150.2 CE. È ciò che ha
provato a fare il Parlament de Catalunya utilizzando l’iniziativa legislativa che la Costituzione
riconosce alle assemblee legislative delle Comunità autonome (art. 87.2 CE). Nella
risoluzione 479/X, del 16 gennaio 2014, la camera catalana decideva di richiedere al
Congresso dei deputati di avviare il procedimento per l’approvazione di una legge organica
che, a norma dell’art. 150.2 CE, delegasse alla Generalitat «la competenza ad autorizzare,
convocare e celebrare un referendum sul futuro politico della Catalogna». La dottrina non è
concorde sulla possibilità di delegare ciò che è competenza dello Stato ai sensi dell’art.
63
federalismi.it
|n. 22/2014
149.1.32 CE. A nostro modesto avviso, non sussiste nessun limite chiaro per ciò che
concerne le materie delegabili. Recita l’art. 150.2 CE: «Lo Stato potrà trasferire o delegare
alle Comunità autonome, mediante legge organica, facoltà corrispondenti a materie di
titolarità statale che, per loro natura, siano suscettibili di trasferimento o delega. La legge
stabilirà, in ogni singolo caso, il corrispondente trasferimento di mezzi finanziari e le forme
di controllo che si riserva lo Stato».
Ciò che costituisce la “natura” [trasferibile o delegabile, ndt] in ambito giuridico è questione
che non può risolversi con un criterio di autorità dottrinale accademica. Manca sul punto
giurisprudenza e, così, ritengo che si possa sostenere la validità, a termini di Costituzione, di
quella che, in ciascun caso concreto, il legislatore ritenga sia la natura propria di una materia.
Per tale motivo, non condividiamo le letture restrittive e riteniamo che sarebbe stata
conforme alla Costituzione la via della delega. Via che non è stata percorsa: l’8 aprile 2014 il
Congresso vi si e opposto e il Parlament de Catalunya ha proceduto a dar seguito ad una
«proposta di legge sulle consultazioni popolari non referendarie». Nel momento in cui si
scrive, non si conosce ancora l’esito del voto del Parlament, previsto il 19 settembre [la legge
è stata effettivamente approvata, nei termini esposti di seguito, ndt].
Questa iniziativa è stata sottoposta al Consell de Garanties Estatutàries. Il dictamen 19/2014, del
19 agosto, conclude che la stessa è compatibile con la Costituzione e lo Statuto. Ci
soffermiamo su due aspetti controversi della questione. Sulla base dei passaggi della STC
103/2008, in precedenza richiamati, sappiamo che un referendum va identificato, tra le
altre cose, per l’utilizzo del censo elettorale. Dall’art. 5 della proposta di legge si desume che
possono partecipare a questo tipo di consultazione i cittadini maggiori di sedici anni di età e
gli stranieri residenti dell’Unione europea. Quest’ambito di partecipazione include
inevitabilmente le persone che formano parte del censo elettorale e, per tale motivo, si
scontra con la dottrina della STC 103/2008, apparendo di dubbia costituzionalità. In
relazione allo Statuto, il dictamen offre un’interpretazione ampia di ciò che è l’ambito
competenziale. Mentre nel precedente dictamen 15/2010 il Consell sembra considerare che
sono competenze della Generalitat solo quelle enumerate nel Capitolo II del Titolo IV, in
quello del 2014 si afferma che sono competenze anche le attribuzioni che, a norma dello
Statuto, si riconoscono agli organi della Generalitat. Concordiamo con questa dottrina,
anche se è possibile che il TC si orienti per la interpretazione più restrittiva. Ad ogni modo,
secondo il dictamen del 2010, non si potevano consultare i cittadini sulla possibilità che il
64
federalismi.it
|n. 22/2014
Parlamento
catalano
proponesse
una
riforma
della
Costituzione
concernente
l’indipendenza della Catalogna. Ricordiamo che non sussistono limiti costituzionali alla
revisione e che le assemblee legislative delle comunità autonome possono presentare
proposte di riforma della Costituzione (artt. 166 e 87 CE). La motivazione di quel parere si
fondava sull’argomento per cui l’oggetto del quesito non corrispondeva ad alcun titolo
competenziale enumerato al Capitolo II del Titolo IV dello Statuto. Adesso, il dictamen del
2014 non dice nulla in merito ad una ipotetica domanda; getta però le basi perché le
attribuzioni, molto generiche, del Parlamento, del Presidente o del Governo catalani
divengano il fondamento competenziale su cui il Presidente potrà giustificare il contenuto
di un quesito. In altri termini, la dottrina del 2014 rivede, su questo punto, quella del 2010 e
offrirebbe copertura alla domanda che nel 2010 è stata rigettata.
La lettura aperta di ciò che si considera “ambito competenziale” è oggetto di discussione;
peraltro, una particolare circostanza induce al pessimismo in ordine all’ipotesi di una
condivisione della stessa da parte TC. Nel momento in cui il Parlament si è rivolto al
Congresso per richiedere la delega di competenze ai sensi dell’art. 149.1.32 CE, ha
riconosciuto che la competenza a convocare una consultazione referendaria era statale;
adesso non ci si può attendere che si veda qualcosa di diverso da un referendum in una
“consultazione non referendaria” utilizzata per fare la medesima cosa per la quale si
richiedeva l’autorizzazione.
In definitiva, nutro dubbi sul via libera, da parte del TC, alla legge sulle consultazioni non
referendarie e, di conseguenza, sul decreto di convocazione che dovesse discenderne.
c) Le via d’uscita e lo stallo politico.
Nelle nostre previsioni, il Governo centrale impugnerà la legge sulle consultazioni e il
decreto di convocazione. Immaginiamo che lo farà rapidamente e, senz’altro, invocherà
l’art. 161.2 CE per ottenere automaticamente la sospensione di entrambi gli atti. Ciò
genererà una grande frustrazione in Catalogna. Avremmo preferito che il Governo centrale,
conformemente a quanto l’ordinamento giuridico gli consente, avesse assunto la
responsabilità di convocare un referendum consultivo. Chiaramente d’intesa con le
istituzioni catalane e con una domanda chiara, come nel caso della Scozia.
In merito alle domande concordate il 12 dicembre 2013, riteniamo che non siano
accettabili, neanche nell’ipotesi che potessero essere sottoposte alla cittadinanza in forme
65
federalismi.it
|n. 22/2014
pienamente legali. Le ragioni le abbiamo illustrate: non sono formulate in termini chiari e
rendono difficile la determinazione dell’opzione vincente.
Qualunque soluzione comporti cambiamenti normativi esige l’abbandono di posizioni
immobiliste che pietrificano l’ordinamento da parte di chi, grazie alle maggioranze
parlamentari, può disporne. Su tale terreno può però muoversi soltanto la politica. Nel
quadro odierno occorrerebbe convincere le maggioranze attuali, che non vogliono nessuna
consultazione: vale a dire PP, PSOE e tutti coloro che, l’8 aprile 2014, hanno votato al
Congresso contro la proposta del Parlament. In alternativa, il cambio di questo “blocco del
rifiuto” può arrivare solo se nelle elezioni generali si forma una maggioranza disposta a
sostenere l’espressione dell’opinione del popolo catalano.
La mancanza di un accordo politico che porti ad un cambio normativo complica molto le
cose. Non si può celebrare una consultazione contro la legalità poiché le conseguenze sono
il disordine organizzativo e la carenza di credibilità dei risultati. I contrari all’indipendenza
boicotteranno il voto, la polizia non collaborerà (come hanno preannunciato alcuni
esponenti sindacali). I tribunali non disporrebbero di una base legale per offrire tutela ai
diritti pregiudicati dall’applicazione, in via di fatto, di una legge catalana inapplicabile in
punto di diritto. D’altra parte, optare per una dichiarazione unilaterale d’indipendenza
senza un referendum previo discredita la coerenza di coloro che ora lamentano di non
poter votare l’indipendenza, che si mostrerebbero disposti a proclamarla senza verificare la
sussistenza di una maggioranza che la supporta.
Il surrogato delle elezioni plebiscitarie non ci pare idoneo a prendere il posto del dibattito e
del voto in una consultazione incentrata, specificamente e unicamente, sull’indipendenza.
Infine, non risulta alcuna evidenza sul fatto che qualche leader internazionale di peso offra
sostegno alla secessione. Interpretare l’assenza di critiche dirette come un appoggio tacito
riteniamo rappresenti un eccesso di ottimismo.
Finché non si dimostri il contrario, gli indipendentisti vogliono la secessione e, pertanto,
sono indifferenti ai cambiamenti che può darsi il Regno di Spagna, da cui vogliono
staccarsi. Qualunque riforma che intenda far cambiare posizione agli indipendentisti deve
indirizzarsi ad essi. Devono essere tenute in conto le loro rivendicazioni e coloro che
propongono le più svariate riforme sperando che attraggano gli indipendentisti non
possono trattarli, come in alcuni casi accade, come fanatici e ignoranti. I riformisti non
risolveranno nulla se evitano il confronto con i fautori dell’indipendenza o se disprezzano
66
federalismi.it
|n. 22/2014
le loro ragioni. Le riforme, inoltre, devono essere credibili: è difficile che lo siano se si
promette di fare ciò che, quando si poteva, non è stato fatto. Ad ogni modo, le soluzioni le
proporranno gli attori politici esistenti. Non ve ne sono altri.
Il punto di partenza di qualsiasi riforma dovrebbe essere il contenuto dello Statuto
approvato in via referendaria dal popolo catalano. Prospettare innovazioni al ribasso
rispetto a quei contenuti (così come configurati prima dei tagli della STC 31/2010) ci
sembra inaccettabile. Dar spazio ad un’impostazione bilaterale, con una soluzione
costituzionale specifica per la Catalogna (una sorta di quinta disposizione addizionale) può
essere una soluzione; crediamo tuttavia preferibile, per evitare reticenze e guadagnare
complicità, una riforma di segno federale che consenta a qualsiasi comunità autonoma che
lo desideri di arrivare al medesimo livello di competenze riconosciute ai catalani.
2) La realtà catalana ha una sua specificità, come qualsiasi caso concreto. Si può dire, per
quanto concerne la Catalogna, che essa mostra una chiara ambizione di autogoverno
radicata nella storia.
Si sottolinea spesso la peculiarità della società catalana che deriva dal fatto che il sistema dei
partiti è sempre stato diverso da quello delle altre comunità autonome, almeno fino ad ora.
Sul piano culturale, la lingua è un elemento fortemente definitorio dell’identità catalana.
Maggioritaria o meno nell’uso, ciò che colpisce è la sua capacità di conservarsi come lingua
minoritaria sebbene priva, fino a non molto tempo fa, di uno Stato e di un sistema
educativo che ne facilitassero la sopravvivenza e la funzione integratrice. Anzi lo Stato, in
alcune fasi, la ha perseguitata e ne ha bandito l’uso pubblico.
Chi difende l’identità catalana non ritiene di imporla ma, piuttosto, di difendere un insieme
di elementi simbolici e di strumenti di comunicazione accessibili a tutti, a prescindere dalla
provenienza e dalla identità personale. Ovviamente, non tutti la pensano in questo modo:
c’è anche chi crede che l’identità catalana provenga da un’imposizione. Costoro potrebbero
ritenere a loro volta naturale e non imposta un’identità spagnola in cui la lingua catalana
non ha alcun ruolo definitorio.
La Costituzione non menziona la Catalogna e, pertanto, non la riconosce esplicitamente.
Dal nostro punto di vista, né l’assenza di riconoscimento né il fatto che non le si
attribuisca, direttamente, la connotazione nazionale hanno un rilievo significativo. Ci
sembra più importante il livello di competenze e la congruità delle risorse necessarie per
67
federalismi.it
|n. 22/2014
esercitarle. L’attuale formula costituzionale consente, e ci sembra positivo, che ogni
Comunità autonoma si doti, se ritiene, della condizione di “nazionalità”. Qualcuno ritiene
che ciò pregiudichi la singolarità della Catalogna e che un analogo effetto derivi dalla
circostanza che altre Comunità autonome possano raggiungere il suo medesimo assetto
competenziale. Non condividiamo questa opinione. Non riscontriamo sul punto una
relazione di causa-effetto e, al contrario, scorgiamo delle opportunità in uno scenario in cui
si possano generare alleanze tra Comunità autonome con interessi in comune con la
Catalogna. Quanto alla volontà di difendere il carattere preferibilmente bilaterale delle
relazioni tra la Catalogna e le istituzioni centrali dello Stato, riteniamo che non occorra né
rinunciarvisi né che se ne debba fare una questione di principio. L’esperienza ci porta a
pensare che tutti, quando possono, sfruttano le possibilità offerte da una relazione
bilaterale. Proclamare quest’ultima come un dogma esclusivo rischia di portare ad una
esclusione della Catalogna dal gioco multilaterale.
Al di là di queste precisazioni, non avremmo difficoltà alcuna di fronte ad una revisione
della Costituzione tesa al riconoscimento della Catalogna e di alcuni tratti definitori della
sua identità, soprattutto se questo può contribuire alla funzione integratrice dell’ipotetica
riforma. Al contrario, non ci sembra sufficiente che un simile riconoscimento operi quale
mero elemento decorativo utilizzato per eludere, senza darvi risposta, le rivendicazioni
relative alle competenze e al finanziamento.
3) Sono totalmente d’accordo con la prospettiva valorizzata dalla terza domanda del
questionario. Le nuove tecnologie e la diffusione della conoscenza fanno sì che, in teoria,
qualsiasi individuo abbia a portata di mano le informazioni necessarie per una valutazione
consapevole sulle scelte politiche che si dibattono nei parlamenti. Da questo punto di vista,
non si ha differenza qualitativa tra rappresentanti e rappresentati. Dalla prospettiva del
funzionamento della democrazia, le nuove tecnologie aprono spazi inediti alla
partecipazione diretta, che possono far perdere il senso tradizionale della rappresentanza.
La realtà concreta è ovviamente più complessa: non è semplice formarsi un’opinione
consapevole proprio per la qualità e la quantità di informazioni che circolano; il carattere
istantaneo della decisione, che si può prendere premendo un tasto, deve spingere a ribadire
l’importanza dei tempi della deliberazione.
68
federalismi.it
|n. 22/2014
Resta comunque viva la percezione di avere a disposizione gli strumenti e dunque,
potenzialmente, le conoscenze per decidere su qualsiasi tema. Che si accetti che vi sia un
“diritto a decidere” è piuttosto naturale. E il diritto a decidere di una collettività riposa oggi
sulla consapevolezza che gli individui che formano parte di un gruppo hanno della propria
capacità di decidere. Certamente, dall’ottica che ci interessa, il diritto a decidere non può
che intendersi come diritto all’autodeterminazione e come tale dovrebbe essere esplicitato:
ciò che in definitiva è oggetto della decisione è l’indipendenza. Potrebbe essere ad ogni
modo troppo tardi perché si faccia marcia indietro rispetto ad una formula che ha acquisito
una forte popolarità.
In questo scenario, negare il diritto a decidere equivale a difendere una causa persa in
termini di valori dominanti. Sarebbe assurdo, d’altra parte, prescindere del tutto dai
meccanismi istituzionali e dalle regole procedimentali indispensabili per la vita organizzata.
Pertanto, è indispensabile incanalare l’aspirazione di tante persone che oggi hanno riempito
pacificamente le strade [il riferimento è alla manifestazione tenutasi a Barcellona l’11
settembre 2014, data in cui è stato inviato il presente contributo, ndt].
69
federalismi.it
|n. 22/2014
Marc Carrillo*
Catedràtic de Dret Constitucional
Universitat Pompeu Fabra de Barcelona
1) In primo luogo, è necessario definire i termini della questione. Una consultazione
sull'indipendenza della Catalogna significa attribuire ai cittadini catalani la capacità di
decidere, attraverso un referendum, sul tipo di rapporto che vogliono avere con la Spagna;
cioè se si desidera rimanere parte dello Stato spagnolo o separarsi da esso e creare un
nuovo Stato. E questo non è altro che il diritto all'autodeterminazione.
Secondo la Costituzione spagnola del 1978 (CE), le possibilità di referendum, ai sensi della
Costituzione, sono tre: quello per la riforma, in alcuni casi, della Costituzione (artt. 167 e
168); quello per la approvazione e per la modifica degli Statuti di autonomia (artt. 151 e
152.2); quelli consultivi, diretti a tutti i cittadini, per le decisioni di particolare rilievo
politico (art. 92). Il potere di convocare il referendum risiede esclusivamente nello Stato
(art. 149.1.32). La Legge Organica 2/1980, del 18 gennaio, detta la disciplina giuridica di
questi tre tipi di referendum.
La domanda da porsi è se la Costituzione ammetta solo queste tre modalità o se non ne
escluda altre, per quanto non espressamente previste. In questa direzione, si può sostenere
che quello che la disposizione costituzionale non vieta esplicitamente non è implicitamente
precluso.
a) In questi termini, il referendum della Catalogna potrebbe avere una possibile copertura
costituzionale, a partire da un'interpretazione estensiva dell'articolo 92 CE, che consenta di
leggere la Costituzione nel senso che non esclude un referendum, in un ambito territoriale
autonomico (regionale), sempre su proposta del Presidente del Governo statale. Come
noto, non si tratta di una possibilità inusuale, dal momento che il diritto comparato mostra
casi analoghi (Canada, Stati Uniti, Svizzera, Italia, Messico). Seguendo questo approccio, si
dovrebbe modificare la menzionata Legge Organica 2/1980, del 18 gennaio, che disciplina
il regime giuridico del referendum, in modo da inserire una quarta modalità di referendum
*
Testo consegnato il 12 novembre 2014. Traduzione dal castigliano di Laura Cappuccio.
70
federalismi.it
|n. 22/2014
in ambito regionale, attraverso cui il Presidente del Governo possa consultare i cittadini, ad
esempio della Catalogna, sul rapporto che desiderano avere con lo Stato.
Successivamente, a seconda dei risultati di questo primo referendum, di carattere consultivo
e dunque non vincolante, potrebbe essere presa in considerazione una riforma
costituzionale affinché il soggetto della sovranità, che è unicamente il popolo spagnolo
nella sua integrità, si pronunci, attraverso un altro referendum, su un eventuale modifica
costituzionale che permetta di accogliere la decisione del popolo della comunità autonoma
previamente consultata. Chiaramente, a seconda della decisione emersa da entrambe le
consultazioni, sarebbe poi necessaria una negoziazione politica tra lo Stato e la Catalogna
per trovare il modo migliore per implementarla.
b) Una seconda possibilità si basa sulla delega della competenza esclusiva dello Stato a
convocare un referendum autonomico. Infatti, l'articolo 150.2 CE prevede che lo Stato
possa trasferire o delegare alle Comunità Autonome (CCAA), mediante legge organica, le
facoltà corrispondenti a materie di competenza statale che per loro natura siano suscettibili
di trasferimento o delega1.
La questione di rilevanza costituzionale che implica tale possibilità riguarda il limite stabilito
dalla Costituzione, relativo alle materie che "per loro natura sono suscettibili di trasferimento o
delega". Se l’articolo 150.2 è stato utilizzato più volte per trasferire competenze alle
Comunità Autonome, la giurisprudenza del Tribunal Constitucional non ha avuto modo di
offrire precise linee interpretative su quali materie non possano in nessun caso essere
trasferite o delegate in quanto parte di quelle che potrebbero essere intese come facoltà
innate dello Stato, unico soggetto giuridico sovrano.
Tuttavia, è più che probabile che tra queste facoltà si trovi la competenza per celebrare un
referendum di autodeterminazione in una Comunità Autonoma. Ciò in quanto tale
referendum è destinato, per sua natura, a mettere in discussione l'integrità del principio di
sovranità. Una situazione diversa si presenterebbe se l’oggetto del referendum (domanda,
procedura, ecc.) fosse il risultato di una previa negoziazione politica tra lo Stato e la
Comunità autonoma, che prima facie evitasse di mettere in discussione l'unità del principio di
sovranità.
Questa è una possibilità che è stata già proposta da diversi parlamentari catalani alla Congresso dei deputati,
ed è stata da questo respinta.
1
71
federalismi.it
|n. 22/2014
c) Le prime due opzioni sono offerte dal diritto costituzionale dello Stato. Una terza
possibilità è quella che, formalmente, offre il diritto regionale catalano che, come altre
Comunità autonome, ha adottato una legge per le consultazioni popolari da realizzarsi
all'interno delle loro competenze. Si tratta della Legge del Parlamento della Catalogna
4/2010, del 17 marzo, sulle consultazioni popolari per via di referendum2; anche in questo
caso, trattandosi di referendum, la domanda deve essere autorizzata dallo Stato.
Come nell’ipotesi precedente, la possibilità di utilizzare questa legge per una consultazione
dei cittadini della Catalogna sul loro futuro rapporto con lo Stato richiederebbe,
ovviamente, un accordo preventivo sul tipo di domanda. Dal momento che la richiesta di
un referendum di autodeterminazione non è di competenza delle Comunità Autonome,
esso sarebbe inoltre possibile solo attraverso una previa modifica della Costituzione. Ma
prima di arrivare a questo, la legge catalana - come anche le altre due vie per una
consultazione, percorribili in base alla Costituzione - consente soluzioni intermedie per
cercare di risolvere un conflitto di carattere puramente politico, come è la questione della
posizione della Catalogna all’interno della Spagna dopo più di 35 anni dal ripristino della
democrazia.
d) Una quarta possibilità, apparsa nel dibattito giuridico catalano, è stata fornita dalla nuova
legge regionale sulle consultazioni recentemente approvata. Si tratta della Legge 10/2014,
del 26 settembre, sulle consultazioni popolari non referendarie e sulle altre forme di
partecipazione dei cittadini 3 . Tuttavia, nonostante il nome utilizzato ("consultazioni
popolari non referendarie"), si tratta di un referendum mascherato. Di conseguenza,
attraverso questa legge, il Governo catalano non ha il potere di convocare una
consultazione per consentire ai cittadini della Catalogna di decidere che tipo di rapporto
desiderano avere con la Spagna. Questo, a mio avviso, per le seguenti ragioni4.
2
Questa legge regionale è stata impugnata dal Governo dello Stato mediante un ricorso di incostituzionalità,
con effetti sospensivi in virtù della misura cautelare automatica prevista dall’art. 161.2 CE. In seguito, il TC mediante auto 87/2011, del 9 giugno - ha rimosso la sospensione e, pertanto, attualmente la legge è vigente. È
ancora pendente, invece, la decisione sulla fondatezza del ricorso.
3 Anche questa legge regionale è stata impugnata dal Governo dello Stato attraverso un ricorso di
incostituzionalità, con effetto sospensivo in applicazione della misura cautelare automatica prevista
dall'articolo 161.2 CE. Al momento di rispondere a tale questionario, la Corte costituzionale non si è
pronunciata sulla misura cautelare né, ovviamente, nel merito del ricorso.
4 I miei argomenti di divergenza sulla costituzionalità di questa legge sono sviluppati nel parere dissenziente
che ho formulato nel dictamen del Consell de Garanties Estatutàries de Catalunya 19/2014, del 19 agosto 2014
(www. Cge.cat).
72
federalismi.it
|n. 22/2014
L'articolo 3.1 della legge 10/2014, relativa alla nozione e alle modalità di realizzazione delle
consultazioni non referendarie, stabilisce: "1. Si intende per consultazione popolare non
referendaria la convocazione da parte delle autorità competenti, in conformità alle
disposizioni della presente legge, delle persone legittimate in ogni singolo caso a esprimere,
attraverso il voto, la propria opinione su una certa azione o decisione pubblica».
Vanno innanzitutto sottolineati, nella formulazione letterale di questa disposizione, due
elementi essenziali utilizzati per definire la particolarità della consultazione popolare non
referendaria: in primo luogo, la manifestazione di una "opinione" su una particolare azione,
o decisione pubblica, da parte dei soggetti legittimati a farlo; in secondo luogo, il fatto che
la manifestazione di questa opinione venga espressa "con il voto." Formalmente appaiono
due concetti di rilevanza giuridica che presentano un significato diverso. Fare conoscere la
propria opinione non è altro che la manifestazione del diritto fondamentale alla libertà di
espressione. Al contrario, esprimere una posizione personale su un tema attraverso il voto è
la manifestazione del diritto di partecipazione. In questo caso, ci troviamo di fronte al
diritto fondamentale di partecipazione politica (art. 23 CE), e la partecipazione si articola
attraverso le elezioni degli organi rappresentativi o, più raramente, direttamente attraverso
referendum.
Quindi, una cosa è la libertà di opinione, che è un diritto di libertà che garantisce un’azione
del titolare - esprimere opinioni – o, al contrario, la decisione di non farlo (STC 153/2000);
cosa molto diversa è la partecipazione politica, che è una forma di partecipazione dei
cittadini in cui si manifesta la sovranità popolare e che si esercita, di solito, attraverso le
elezioni degli organi di rappresentanza, oppure, in modo meno abituale, con un referendum
(STC 119/1995).
In base a queste considerazioni preliminari, il paragrafo 1 dell'articolo 3 della legge non sta
definendo le consultazioni popolari non referendarie come forma di libertà di espressione,
attraverso la quale i cittadini esprimono il loro parere su una certa azione, decisione o
politica pubblica. Ciò che viene regolato è il diritto di partecipazione, che è un diritto molto
diverso. Non si sta regolando la libertà di espressione, in quanto il diritto fondamentale alla
libertà di espressione richiede non solo la volontà imprescindibile del suo titolare, sia per
esprimere un opinione o un pensiero, sia per non farlo, ma di solito ha anche bisogno di
strumenti, come i mezzi di comunicazione (art. 20 CE), le riunioni, le manifestazioni
pubbliche (art. 21 CE), le associazioni (art. 22 CE), etc. Così, quando lo strumento
73
federalismi.it
|n. 22/2014
attraverso cui si manifesta l’opinione è il voto, non si sta esercitando la libertà di
espressione, ma il diritto di partecipazione attraverso le elezioni.
A questo punto, dobbiamo ricordare la giurisprudenza costituzionale (STC 103/2008, FJ 2)
su ciò che si intende per referendum. Il TC lo definisce non come una sorta di
consultazione popolare, che può essere concepita come un modo per raccogliere i pareri
dei cittadini su tutte le questioni di interesse pubblico e con qualsiasi mezzo, ma come
“quella consultazione il cui oggetto si riferisce strettamente al corpo elettorale [corpo
espressione della volontà del popolo (STC 12/2008, del 29 gennaio, FJ 10)] conformato ed
esteriorizzato attraverso un processo elettorale che si basa sul censo, gestito dalla
amministrazione elettorale e assicurato da garanzie giudiziarie speciali”. In base a questo
parametro giurisprudenziale, che certamente si basa su una concezione organica e
procedurale dell'istituto della partecipazione diretta, il paragrafo 1 dell'articolo 3 prescrive
una convocazione generale dell'elettorato affinché si manifesti attraverso il voto.
Questo convocazione è accompagnata, nelle seguenti sezioni della legge, da un regime
giuridico
specifico,
proprio
del
processo
elettorale,
attraverso
l’intervento
di
un’amministrazione creata per questo scopo e, anche se non vengono regolate per
mancanza di competenza, non si possono escludere le garanzie giurisdizionali. Pertanto, le
differenze rispetto a quello che il TC (sentenza 103/2008) definisce come referendum
(convocazione degli elettori perché si pronuncino attraverso il voto, presenza di una
amministrazione elettorale per organizzare e controllare il processo, garanzie
giurisdizionali) non sono essenziali per distinguere la consultazione non referendaria
regolata dalla legge catalana da ciò che la giurisprudenza considera un referendum. Di
conseguenza, la legge si discosta dalla giurisprudenza del TC ed è in contrasto con la
Costituzione, che stabilisce che quando si tratta di un referendum la competenza appartiene
allo Stato (art. 149.1.32 CE).
In realtà, ciò che la legge 10/2014 sta regolando è un referendum nascosto, utilizzando
semplicemente una diversa denominazione e, dunque, senza avere la competenza per farlo.
e) Un’ultima possibilità per organizzare una consultazione sul cosiddetto diritto a decidere
dei catalani è, secondo un rapporto pubblicato dal Consiglio consultivo per la transizione
nazionale, la convocazione da parte del Presidente della Generalitat di elezioni a carattere
plebiscitario. Attraverso questa singolare strada, si trasformerebbero delle normali elezioni
74
federalismi.it
|n. 22/2014
regionali in una consultazione della popolazione sull'indipendenza. Questa opzione crea
difficoltà teoriche e pratiche.
In effetti, da un punto di vista teorico, convertire le elezioni del Parlamento in un plebiscito
risulta quanto meno contraddittorio, dal momento che il plebiscito è un referendum nel
quale si convocano gli elettori per dare la loro adesione o rifiuto a un leader o dirigente
politico. Diversamente le elezioni, in un contesto di pluralismo politico, si sostanziano
nell’invito agli elettori a votare su diversi programmi politici.
In realtà, la scelta delle elezioni plebiscitarie è una soluzione di carattere strumentale perché
tradisce il senso delle elezioni pluralistiche, trasformandole in una scelta binaria. La
decisione degli elettori si dividerebbe tra i partiti che inseriscono nel loro programma una
futura dichiarazione di indipendenza e tra quelli che la rifiutano. La somma dei voti espressi
per entrambe le opzioni sarebbe il risultato dell’ipotetico plebiscito che potrebbe aprire la
porta a una dichiarazione unilaterale di indipendenza. Dal punto di vista pratico, la
soluzione migliore per questa opzione sarebbe costituire due liste unitarie rispettivamente
pro e contro l’indipendenza. Tenendo in considerazione la struttura plurale del sistema
partitico, mi sembra una strada molto difficile da realizzare.
2) Le rivendicazioni politiche della Catalogna hanno basi storiche e non possono essere
ridotte alla richiesta di un migliore sistema di finanziamento. Il secessionismo catalano non
si fonda solo su considerazioni di ordine economico, ma anche storico, politico e culturale.
In Spagna, la transizione politica verso la democrazia dopo la caduta di Franco è stata
simboleggiata in Catalogna, sin dalle prime elezioni democratiche del 15 giugno 1977, con
tre parole, che ricorrevano nelle manifestazioni politiche contro il dittatore svolte
dall’opposizione democratica: libertà, amnistia e statuto di autonomia. Dopo il ripristino
delle libertà pubbliche e l'amnistia per i prigionieri politici, la conditio sine qua non per la
costituzione e il consolidamento della democrazia spagnola è stata la risoluzione della
controversia storica relativa all'inclusione della Catalogna e dei Paesi Baschi nel nuovo
sistema democratico.
Nella costruzione dello Stato spagnolo contemporaneo, agli inizi del XIX secolo, la
Catalogna ha sempre espresso una specifica identità politica che viene in realtà da molto
lontano, attraverso l’istituzione di autogoverno della Generalitat e l’esistenza di un
Parlamento di origine medievale. Una identità politica che si basa su fattori non solo
75
federalismi.it
|n. 22/2014
economici, ma anche culturali e linguistici, in particolare attraverso la difesa del catalano
come lingua propria. Nel 1977, la domanda di autonomia politica non era pertanto nuova.
La personalità politica della Catalogna non è nata con la Costituzione del 1978.
Essa ha antecedenti storici che, nel corso del XX secolo, si trovano nella creazione della
Mancomunitat de Diputacions del 1914 (una istituzione amministrativa decentrata) e nello
Statuto di autonomia del 1932, approvato durante il periodo della Seconda Repubblica
spagnola (1931-1939), poi abrogato nel 1938 con l’avvento della dittatura di Franco, nella
fase finale della guerra civile (1936-1939).
Con l'adozione della Costituzione del 1978, si posero la basi costituzionali dell’autonomia
politica. Nel 1979 è stato approvato lo Statuto di autonomia politica dei Paesi Baschi e della
Catalogna. Ma se inizialmente l'autonomia regionale ottenuta era significativa, l’indistinta
apertura del processo di regionalizzazione, con la creazione di 17 comunità autonome (la
maggior parte senza identità politica e tradizioni di autogoverno) ha fatto sì che le
possibilità offerte dal titolo VIII della Costituzione fossero ridotte attraverso
un'interpretazione molto restrittiva dell’autonomia regionale, assecondata delle leggi
approvate dalle Cortes Generales. Per questo motivo, durante gli anni del sistema
democratico, il livello di autonomia raggiunto in Catalogna è stato percepito come
insufficiente e insoddisfacente, tale da far ritenere che il risultato finale sia quello di una
autonomia politica di bassa qualità.
Per cambiare questo stato di cose, nel 2006 il Parlamento della Catalogna e il Parlamento
statale hanno approvato, congiuntamente, un nuovo Statuto, poi ratificato da un
referendum dei cittadini della Catalogna. Si trattava di un nuovo patto politico con la
Spagna democratica che, soprattutto, cercava di garantire l'integrità delle competenze
rispetto alla vis espansiva mostrata dalla legge dello Stato, che aveva ridotto gli spazi di
decisione politica del legislatore regionale.
Ma la legge del Parlamento 6/2006 del 19 luglio, che ha approvato il nuovo Statuto, è stata
impugnata davanti al TC dal Partido Popular (PP) e da cinque regioni autonome (4 governate
dal PP e 1 dal Partito socialista). La STC 31/2010 ha dichiarato incostituzionali alcuni
articoli dello Statuto; nel suo complesso, il carattere interpretativo della sentenza ha però
comportato una disattivazione generale degli effetti della riforma. Si neutralizzò così il
nuovo patto politico.
76
federalismi.it
|n. 22/2014
Dal punto di vista giuridico, si noti che, con la STC 31/2010, il TC ha dovuto, per la prima
volta, giudicare uno Statuto di autonomia nel suo complesso. E, oltretutto, uno Statuto che
era stato approvato in un referendum della popolazione della Comunità autonoma.
Il risultato è stato una sentenza formalmente estesa, ma nella sostanza breve, soprattutto
per la stringatezza delle argomentazioni. In effetti, gli argomenti sono costruiti con formule
perentorie che non tollerano obiezioni; il loro tenore è risulta fortemente apodittico.
Aspetti deludenti, soprattutto se si considera che la riforma dello statuto presupponeva una
evidente novità giuridica rispetto agli statuti che avevano dato inizio allo Stato delle
autonomie.
Inoltre, con la logica di attenersi a ciò che è stato già oggetto di interpretazione da parte del
TC, la stragrande maggioranza degli argomenti giuridici proposti risultavano basati sul
ripetitivo riferimento ai precedenti giurisprudenziale che, così, vengono a rappresentare una
sorta di canone codificato. Posto di fronte alle novità giuridico-normative dello Statuto
catalano, il TC declina la sfida di interpretarli alla luce del cambiamento espresso dal nuovo
atto come parte del blocco di costituzionalità; l’organo preferisce rifugiarsi nei suoi
precedenti ma in modo strumentale, dal momento che ha evitato di richiamarli
integralmente. Viene così a negare la natura complementare dello Statuto rispetto alla
Costituzione, riconosciuto nella STC 247/2007 (LC 6) sulla riforma dello Statuto della
Comunità Valenziana. Diversamente, la STC 31/2010 declassa il rango giuridico dello
statuto e respinge l’idea che lo stesso possa assurgere a parametro di costituzionalità per la
delimitazione delle competenze: questa posizione viene riconosciuta alla sola Costituzione e
alla giurisprudenza del TC. Si afferma così la discutibile teoria che concepisce la
giurisdizione costituzionale come delegato del potere costituente, dimenticando che essa è
pur sempre un potere costituito, con il compito di interpretare la Costituzione e, nel caso
della Spagna, il blocco di costituzionalità composto dal binomio Costituzione-Statuti.
La sentenza ha anche espresso una sostanziale diffidenza nei confronti della riforma
statutaria; diffidenza che appare in maniera evidente sulle questioni relative agli elementi
simbolici o della lingua, nei quali si vogliono intravedere obiettivi nascosti. L’esempio più
significativo di tale atteggiamento si ritrova senz’altro nella scelta di dichiarare nel
dispositivo l'assenza di efficacia giuridica dei riferimenti del preambolo alla "Catalogna
come nazione" e alla "realtà nazionale della Catalogna".
77
federalismi.it
|n. 22/2014
Un altro aspetto, di ordine processuale, di decisiva importanza è rappresentato dal ricorso
alla decisione interpretativa. Come è noto, alcune esiti interpretativi sono stati inserite nel
dispositivo in modo esplicito. La verità è che, in una buona parte della sentenza (in
particolare quella relativa al cruciale titolo IV, riferito alle competenze) si è risolto il
contenzioso relativo a ciascuna disposizione attraverso formule interpretative che, seppure
non incorporate nel dispositivo, risultano falsamente o vergognosamente interpretative: il
loro effetto pratico, per richiamare un'espressione già utilizzata, non è altro che quello della
disattivazione del campo di applicazione della riforma statutaria.
Infine, è davvero sorprendente che nella sentenza sulla costituzionalità della riforma
statutaria non si tenga conto, in nessun momento, dell’iter previsto dalla Costituzione per
l'approvazione: una volta deliberata dal Parlamento, la proposta è stata sottoposta ad un
referendum, attraverso cui i cittadini della Catalogna lo hanno ratificato a larga
maggioranza. L'impatto che l'esercizio di questo strumento di partecipazione politica
diretta, quale fattore aggiuntivo di legittimità politica dello Statuto, non è stato considerato
dal TC nella sua sentenza. Cosa che sorprende, dato che il TC non può non tener presente
un principio di deferenza verso il legislatore da cui proviene l’atto sottoposto al suo
giudizio. In questo particolare caso si ha di fronte una legge organica che ha dato forma
allo statuto previamente approvato in via referendaria. Una legge organica, dunque, molto
più rigida rispetto a qualsiasi altra.
Al di là del maggiore o minore numero di articoli colpiti da una dichiarazione di
incostituzionalità o da una formula interpretativa (incorporata o meno nel dispositivo), la
realtà dei fatti è che la STC 31/2010 ha snaturato la riforma statutaria nel suo complesso.
A partire da questa infelice decisione, la Costituzione del 1978, che era stata approvata con
entusiasmo dai cittadini della Catalogna come strumento giuridico per facilitarne
l’integrazione nella Spagna democratica, ha smesso di essere un punto di riferimento
politico. Ed è da questa sentenza che inizia l’attuale processo "sobiranista" di incerto
futuro.
3) Il concetto del c.d. "diritto a decidere" è volutamente ambiguo e di per sé non ha alcun
significato costituzionale. Giuridicamente non ha alcun senso. L'uso costante nel dibattito e
nelle strategie politiche dei partiti mostra un carattere strumentale. In realtà, ciò che con
78
federalismi.it
|n. 22/2014
questo concetto si intende è qualcosa che non è detto espressamente, ma si trova alla base
di ogni discussione: l'esercizio del diritto all'autodeterminazione.
In questo senso, il "diritto a decidere" è molto legato alle peculiarità del processo politico in
atto in Catalogna, essendo diretto a esprimere il desiderio di una parte della popolazione di
essere convocata in una consultazione/referendum per pronunciarsi sul futuro di questa
Comunità autonoma e sulla sua relazione con lo Stato spagnolo.
Per questo motivo, ritengo che la nozione non possa iscriversi in un contesto di tensione
tra le diverse forme di partecipazione politica. È chiaro, tuttavia, che la crisi economica ha
generato in Catalogna un senso di sfiducia verso i partiti tradizionali e che, secondo recenti
sondaggi, possono emergere nuove forze politiche (ad esempio Podemos) che, soprattutto
nel campo della sinistra tradizionale, pretendono di occupare il loro spazio. Ribadisco
ancora una volta: il tema del "diritto a decidere" obbedisce a mio parere ad una logica
peculiare del contesto catalano, che lo pone al margine dalle tensioni tra i modelli di
partecipazione democratica.
79
federalismi.it
|n. 22/2014
Víctor Ferreres Comella*
Professor de Dret constitucional
Universitat Pompeu Fabra de Barcelona
1) La Costituzione spagnola afferma chiaramente, all'articolo 149.1.32, che è competenza
esclusiva dello Stato l’autorizzazione della "consultazione popolare tramite referendum."
Questo significa, senza dubbio, che non è possibile per una Comunità Autonoma
organizzare un referendum, sul qualunque tema, senza l'autorizzazione dello Stato.
La prima domanda è se lo Stato potrebbe concedere tale autorizzazione per consentire che
si svolga in Catalogna un referendum in cui i cittadini catalani diano il loro parere sul futuro
status della Catalogna, includendo tra le possibilità l'indipendenza. Su questo tema vi è un
dibattito aperto.
Se guardiamo la dottrina Tribunal constitucional (TC) nella sentenza 103/2008, la risposta è
negativa. Secondo il TC non è possibile indire un referendum il cui oggetto incida sulle
fondamenta dell'ordine costituzionale. Infatti, se la decisione che si vuole adottare con un
referendum richiede una riforma costituzionale, si deve procedere per questa via, seguendo
la procedura di cui agli articoli 166-169 della Costituzione. In base a questi articoli, il
processo di riforma si articola essenzialmente in due fasi: una prima, in cui si raggiunge un
accordo a maggioranza qualificata; una seconda, in cui si ottiene la ratifica popolare
attraverso un referendum. Secondo il TC, non è possibile modificare tale procedura
introducendo un referendum iniziale, che precede le due fasi richiamate. Anche se si tratta
di un referendum consultivo, non è costituzionalmente corretto convocarlo, in quanto ciò
significa aggiungere un elemento non previsto nel processo di riforma regolato dalla
Costituzione.
Questo approccio del TC può apparire formalistico, ma in realtà non lo è. Dal punto di
vista politico, è ovvio che non è la stessa cosa che i rappresentanti politici negozino un
accordo (che viene poi rimesso ai cittadini per la ratifica) rispetto all’ipotesi inversa, ossia
chiedere prima ai cittadini e, successivamente, negoziare l’accordo. I rappresentanti politici
*
Testo consegnato l’8 novembre 2014. Traduzione dal castigliano di Laura Cappuccio.
80
federalismi.it
|n. 22/2014
hanno poco spazio per negoziare una decisione, se il popolo si è già pronunciato sulla
questione di fondo.
Tenuto conto di questa tesi negativa, si è sostenuto che la dottrina del TC dovrebbe essere
più flessibile nel caso estremo della secessione. Sarebbe irragionevole riformare prima la
Costituzione spagnola per consentire la secessione della Catalogna, e chiedere poi ai
catalani, in un secondo momento, se vogliono la secessione dalla Spagna. La cosa più
sensata sarebbe quella di sentire prima il parere dei catalani, attraverso un referendum
consultivo, e solo dopo procedere ai negoziati tra i rappresentanti politici spagnoli e
catalani, per affrontare la situazione politica determinata dall’esito della consultazione nel
caso di un risultato favorevole all'indipendenza. A tal fine dovrebbe ricorrersi ad una
modifica costituzionale, che servirebbe a guidare verso l'indipendenza della Catalogna.
Personalmente, penso che questa tesi è difendibile di fronte alla tesi contraria.
Una seconda questione sollevata è la seguente: se lo Stato non accorda l’autorizzazione
necessaria a convocare un referendum sull'indipendenza della Catalogna, cosa può fare il
Governo catalano per conoscere il parere dei cittadini?
Come è noto, il Parlamento catalano ha approvato, nel settembre del 2014, una legge sulle
"consultazioni non referendarie". Il Presidente della Generalitat ha tilizzato questa legge per
convocare una consultazione dei cittadini sull’ indipendenza della Catalogna, da celebrare il
9 novembre 2014. Lo ha fatto, naturalmente, senza autorizzazione statale. Sia la legge sia il
decreto di convocazione sono stati impugnati dal Governo dello Stato dinanzi al TC, che
ne ha disposto, su richiesta del Governo, la sospensione temporanea.
A mio avviso, la "consultazione non referendaria" che il Governo catalano ha inteso
portare avanti è chiaramente incostituzionale; e credo che in tal senso si pronuncerà, nel
merito, il TC. Risulta chiaro che la "consultazione non referendaria" nasconde un vero e
proprio referendum. Se per celebrare un referendum è necessaria l’autorizzazione dello
Stato, non si può evitare questo ostacolo con la creazione di una nuova figura, "la
consultazione non referendaria", che non avrebbe bisogno di quella medesima
autorizzazione. Quale differenza di rilievo esiste tra un referendum e una semplice
consultazione
sull'indipendenza
della
Catalogna?
Nessuna.
Nella
consultazione
sull'indipendenza si chiede al popolo una opinione su un problema politico di particolare
importanza, proprio come in un referendum. La consultazione non è vincolante (è solo
"consultiva"), proprio come il referendum ordinario, che la Costituzione qualifica
81
federalismi.it
|n. 22/2014
esplicitamente come "consultivo" (art. 92). A garanzia del processo di consultazione, si
creano alcuni organismi di controllo indipendenti, simili a quelli che garantiscono un
referendum. Gli organi non sono esattamente gli stessi, ma sono molto simili nella struttura
e nello scopo. Infine, la consultazione coinvolgerebbe i cittadini maggiorenni, come
avviene in un referendum. È vero che, oltre ai cittadini che hanno raggiunto la maggiore
età, alla consultazione possono partecipare anche coloro che hanno più di 16 anni, così
come i cittadini stranieri che soddisfano determinati requisiti. Ma questa differenza è
irrilevante al fine di difendere la costituzionalità della consultazione: è ovvio che, se si
richiede l'autorizzazione dello Stato per organizzare un referendum in cui sono coinvolti i
cittadini maggiorenni, a maggior ragione tale autorizzazione è richiesta se si intende
svolgere una consultazione in cui partecipano questi medesimi cittadini e anche altri gruppi
sociali. Ricordiamo che nel referendum per l'indipendenza scozzese (svoltosi nel settembre
2014) hanno potuto votare coloro che avevano raggiunto i 16 anni di età, normalmente
esclusi dal voto alle elezioni ordinarie. Nessuno dubita che, nonostante questa singolarità, si
sia trattato di un vero e proprio referendum.
Alla luce di quanto detto, ritengo che il Governo catalano, per ottenere il parere dei
cittadini sulla indipendenza della Catalogna, dovrebbe (nel caso lo Stato si rifiutasse di
autorizzare un referendum) ricorrere alle elezioni. La democrazia spagnola non è una
democrazia "militante", come ha più volte affermato il TC. Ciò significa, tra le altre cose,
che i programmi elaborati dai partiti politici quando si presentano alle elezioni sono validi
qualunque sia il loro contenuto, anche se in contrasto con la Costituzione vigente; a
condizione, naturalmente, che vi sia l’ impegno a rispettare le regole del gioco, tra cui vi
sono quelle che disciplinano la revisione costituzionale. Pertanto, non vi è alcun problema
per i partiti politici ad includere nei loro programmi l'opzione pro-indipendenza. Dal
ripristino della democrazia spagnola, si sono svolte in Catalogna decine di elezioni (locali,
regionali e generali). Sono stati pochi i partiti che hanno incorporato l'indipendenza nelle
loro proposte politiche e il sostegno che hanno ricevuto è sempre stato minoritario. Per
misurare la forza della corrente indipendentista attualmente presente nella società catalana,
la cosa migliore sarebbe che i partiti dichiarassero la loro posizione su questo tema nei
programmi elettorali.
Attraverso le elezioni si potrebbe sapere con certezza qual è il grado di sostegno popolare
su cui può fare affidamento il movimento indipendentista. Simili elezioni possono essere
82
federalismi.it
|n. 22/2014
tenute in anticipo, se il presidente della Generalitat catalana scioglie il Parlamento prima della
scadenza del suo mandato. Ma si potrebbe anche aspettare la fine della legislatura. I partiti
per l’indipendenza possono unirsi in un'unica lista elettorale, oppure possono agire
separatamente. Ciò che è importante è che dichiarino in modo chiaro ai cittadini qual è la
loro posizione sul tema della secessione. Pertanto, non è corretto dire che, secondo la
Costituzione spagnola, i catalani non sono autorizzati a un "voto" su questo aspetto.
Se tali elezioni avessero luogo e i partiti politici che, esplicitamente e categoricamente,
hanno accolto nei loro programmi l’opzione indipendentista raccogliessero il maggior
numero di voti, si aprirebbe allora un tempo politico nuovo. A seguito dei negoziati, il
Governo catalano potrebbe accordarsi con lo Stato per un referendum sul futuro status
della Catalogna. In quel referendum, le opzioni potrebbero anche non essere soltanto “sì”
o “no” all'indipendenza. A mio parere, andrebbe inclusa anche una terza opzione: un
nuovo assetto istituzionale che permetta di mantenere comunque la Catalogna all’interno
della Spagna.
2) È difficile stabilire quali siano le peculiarità del movimento indipendentista catalano
rispetto ad analoghi movimenti di altri paesi. Possiamo richiamare alcuni degli argomenti
indipendentisti prospettati in Catalogna.
A volte, le forze politiche e sociali che sostengono la secessione affermano che
l'indipendenza è l'unica soluzione politica alla "questione catalana", tenendo conto dei
"torti" subiti da parte dello Stato spagnolo. L'elenco delle recriminazioni è eterogeneo.
Una parte delle critiche riguarda il sistema di finanziamento e il livello di investimenti statali
in Catalogna. La denuncia, in sintesi, è che la Catalogna è assoggettata dallo Stato ad un
regime finanziario penalizzante; una Catalogna indipendente sarebbe dunque più prospera.
È controversa, tuttavia, la misura in cui si può considerare ingiusto il trattamento fiscale
della Catalogna; così come non è affatto chiaro quali siano, dal punto di vista economico, i
vantaggi e gli svantaggi di una Catalogna indipendente. Non c’è infatti consenso tra gli
esperti nel valutare questi aspetti.
Grande rilievo assume anche la controversia in ordine alla possibilità, per una Catalogna
indipendente, di continuare a far parte dell'Unione Europea. L'indipendenza perde molto
sostegno se la secessione della Catalogna comporta la sua fuoriuscita dall'Unione, anche
solo per un periodo transitorio.
83
federalismi.it
|n. 22/2014
Altre rivendicazioni riguardano la lingua catalana. L’indipendentismo lega la conservazione
della lingua catalana alla creazione di uno Stato proprio. Solo uno Stato indipendente, si
dice, può garantire il mantenimento del catalano, data l'ostilità mostrata nei suoi confronti
dallo Stato spagnolo. Ritengo questa critica molto esagerata. È vero che le autorità statali e
gli attori politici potrebbero fare molto di più per riconoscere e coltivare il pluralismo
linguistico che esiste in Spagna. Ma non possiamo dimenticare che il TC, ad esempio, ha
confermato la legittimità costituzionale, a determinate condizioni, della politica di
“'immersione linguistica” che si svolge nelle scuole pubbliche catalane, così come in quelle
di altre Comunità Autonome con una propria identità linguistica. Il TC, infatti, ha
dichiarato che i genitori non hanno il diritto di rifiutare, per i loro figli, i programmi di
immersione linguistica in catalano che viene sviluppato nelle scuole pubbliche. Ha inoltre
dichiarato che questa politica può consistere nel fatto che il catalano sia il "centro di
gravità" dell’insegnamento, in modo tale che la maggior parte delle materie siano insegnate
in catalano. Ciò che non è possibile, secondo il TC, è che non si usi anche il castigliano
come lingua di insegnamento, anche se in una percentuale minore. In pratica, nella maggior
parte delle scuole pubbliche della Catalogna, tutte le materie sono insegnate in catalano,
tranne ovviamente le materie di lingua e letteratura spagnola. In questo momento si discute
sull’opportunità che il castigliano sia utilizzato in più materie, mantenendo la centralità del
catalano. Non sembra pertanto ragionevole sostenere che lo Stato spagnolo mostri ostilità
nei confronti della lingua catalana, semplicemente per il fatto di insistere su una maggiore
presenza del castigliano nelle scuole, ma pur sempre in una minoranza di insegnamenti.
Un altro argomento addotto a sostegno dell'indipendentismo e quello relativo al riparto
delle competenze tra lo Stato e la Generalitat. Si considera che il livello di autogoverno di
cui gode oggi la Catalogna non sia sufficiente e che lo Stato tende ad invadere le
competenze della Generalitat. In particolare, si sostiene che la Catalogna abbia provato ad
estendere i suoi spazi di autogoverno attraverso lo Statuto di autonomia del 2006, un atto
che il TC ha parzialmente invalidato perché andava oltre quanto consentito dalla
Costituzione (STC 31/2010). A seguito di tale sentenza, secondo i separatisti, non ci
sarebbe alternativa alla secessione. Questa critica fa riferimento a un problema reale. Il TC
è intervenuto sullo Statuto del 2006 a difesa della Costituzione; è chiaro però che la
Costituzione può essere riformata per consentire il grado di autonomia che quel medesimo
84
federalismi.it
|n. 22/2014
Statuto avrebbe voluto offrire. La riforma costituzionale, dunque, può essere una valida
alternativa politica alla secessione.
In alcuni casi, l'indipendentismo non ritiene necessario articolare una lista di rimostranze
per giustificare la separazione della Catalogna. Gli indipendentisti fanno riferimento al
"diritto a decidere": una comunità politica, sostengono, ha il diritto di decidere se
permanere all'interno della comunità più ampia alla quale appartiene o se separarsi da essa.
Non c'è bisogno di motivazioni. È una questione di pura volontà (magari legata a questioni
identitarie).
Questa posizione, a mio parere, minimizza troppo le conseguenze legate ad una
ricostruzione del problema in termini di semplice scontro tra identità e sentimenti. Si può
discutere, in modo razionale, su un elenco di rivendicazioni; non c'è invece niente di cui
parlare quando si pongono in primo piano i sentimenti identitari. Una società tanto
complessa come quella catalana, in cui la stragrande maggioranza dei cittadini ritiene di
possedere una doppia identità (spagnola e catalana), non può facilmente sopportare un
processo di polarizzazione intorno alla questione dell'indipendenza.
L'altra questione che solleva l’invocazione del "diritto a decidere" concerne fondamenti di
tale diritto. Perché si afferma che la Catalogna ha il diritto di decidere su di una possibile
separazione dalla Spagna? Il movimento indipendentista spesso sostiene che la Catalogna
ha il diritto di decidere perché è una nazione. Il diritto a decidere viene così collegato al
principio di nazionalità, in base al quale le nazioni hanno il diritto ad un proprio Stato.
Questa posizione si pone in contrasto con alcune tesi sostenute da un settore importante
del movimento per l'indipendenza, che crede che la nazione che rileva siano "I Paesi
Catalani", comprendenti (oltre la Catalogna) Valencia, le Isole Baleari e i territori del sud
della Francia. Se i Paesi catalani sono la vera nazione, non si dovrebbero pronunciare
sull’indipendenza tutti i cittadini che ne fanno parte? Si dovrebbe rispondere che la
Catalogna, come frammento della nazione più grande, può decidere la sua indipendenza
dalla Spagna anche se non lo fanno gli altri frammenti. Ma allora dovrebbe essere
consentito, anche entro la Catalogna, la possibilità di procedere ad una ulteriore
frammentazione. E invece si presuppone che una Catalogna indipendente non dovrebbe
riconoscere il diritto di secessione di uno dei suoi territori.
In altre occasioni, l'indipendentismo catalano dissocia il diritto a decidere dal principio della
nazionalità. Si afferma che il diritto a decidere lo ha la Catalogna, non perché la Catalogna
85
federalismi.it
|n. 22/2014
sia una nazione, ma per ragioni di democrazia: se la maggioranza dei catalani vuole che la
Catalogna sia uno Stato indipendente, occorre rispettare questa volontà. Il problema di un
simile argomento è che il diritto di scegliere può essere esteso a molti altri gruppi umani e
sottogruppi, senza che sia chiaro quale sia il limite oltre il quale non si deve più riconoscere
questo diritto.
3) In termini generali, i processi politici che portano a grandi cambiamenti nelle forme di
appartenenza di un territorio a un determinato Stato, o che conducono alla
frammentazione del suo territorio, includono di solito dei meccanismi di consultazione
popolare. È difficile pervenire ad un cambiamento così profondo dell'architettura di un
ordinamento senza il parere favorevole della comunità coinvolta (sempre inteso che
parliamo di processi che avvengono in Paesi democratici).
In linea di principio, non mi sembra che i movimenti indipendentisti debbano essere
considerati, necessariamente, quali esempi di una corrente politica più generale che si
oppone ai principi tradizionali della democrazia rappresentativa. Penso, invece, che ciò che
accade è che il tipo di decisione a cui tende il movimento indipendentista porta alla
necessità di inserire un "momento popolare" nel processo politico. È la particolare
importanza politica della questione che richiede il ricorso alla democrazia diretta.
Questo "momento popolare" sarà necessariamente accompagnato da paralleli momenti di
negoziazione tra i diversi rappresentanti politici. Sia per preparare un referendum
sull'indipendenza, sia per assumere le decisioni opportune una volta conosciuti i risultati, è
essenziale il ruolo dei rappresentanti politici.
È possibile, naturalmente, che le persone coinvolte in un referendum che ha portato alla
costruzione di uno Stato indipendente siano particolarmente inclini ad accettare che il
nuovo sistema politico includa meccanismi di democrazia diretta. Questo sarebbe però un
risultato ottenuto per inerzia: si tratterebbe, in altri termini, di un effetto collaterale al modo
in cui si è prodotta l’indipendenza. Esso non significherebbe, pertanto, che il movimento
secessionista, di per sé, sia contrario alle forme della democrazia rappresentativa. Su tali
aspetti, dovrebbe in ogni caso analizzarsi ciascun caso concreto, in funzione dello specifico
contesto.
86
federalismi.it
|n. 22/2014
Jordi Matas Dalmases*
Catedràtic de Ciència Política
Universitat de Barcelona
1) Sullo sfondo della consultazione popolare che si intende svolgere in Catalogna vi sono
alcuni concetti chiave imprescindibili per trovare una via d’uscita che consenta di
concretizzare, in termini giuridici e politici, la volontà della maggioranza dei catalani. In
funzione della definizione e dell’importanza che si attribuisca a concetti quali democrazia,
legittimità, sovranità popolare, soggetto politico, le soluzioni potranno essere diverse.
I costituzionalisti non sono d’accordo sulle strade che offre la Costituzione spagnola (CE)
del 1978 per convocare un referendum o una consultazione popolare. Il Consell Assessor per
a la Transició Nacional (CATN), organo consultivo creato dalla Generalitat nel febbraio del
2013 per studiare tutto ciò che concerne il processo da seguire per giungere alla
celebrazione di un referendum sull’autodeterminazione della Catalogna, prospetta cinque
vie legali.
Rispetto allo Stato spagnolo, il CATN individua tre possibilità: la convocazione di un
referendum sulla base dell’art. 92 CE, la delega del potere di celebrare un referendum
secondo quanto stabilito dall’art. 150.2 e la riforma della Costituzione. Per concretizzare
queste soluzioni sono però necessarie maggioranze ampie del Congresso dei deputati: ci si
scontra così con la chiusura dei due principali partiti politici spagnoli, PP e PSOE, che
insieme sommano l’85% dei deputati del Congresso.
In ambito catalano si individuano altre due strade. In primo luogo, la Llei 4/2010 de consultes
populars per via de referèndum (consultazioni popolari referendarie), che richiede anch’essa
l’autorizzazione del Governo spagnolo. In secondo luogo, la Llei de consultes no referendàries
che il Parlamento catalano approverà a fine settembre [legge poi effettivamente approvata,
ndt]. Quest’ultima via, rispetto alla quale non vi è unanimità di vedute in ordine alla sua
adeguatezza a supportare una consultazione sulle relazioni Catalogna-Spagna, può essere
vanificata se, come prevedibile, il Governo centrale la impugna e il Tribunal constitucional la
sospende, immediatamente, in via cautelare. In definitiva, quest’ultima strada è quella con
*
Testo consegnato il 22 settembre 2014. Traduzione dal catalano di Gennaro Ferraiuolo.
87
federalismi.it
|n. 22/2014
maggiori possibilità di successo, ma si trova anch’essa di fronte ai soliti ostacoli: la volontà
politica del Governo spagnolo di frenare un referendum in Catalogna e la politicizzazione
di un Tribunal constitucional che ricercherà ogni sorta di argomento giuridico per soddisfare
l’obiettivo politico del Governo spagnolo.
Se quest’ultimo chiude tutte le vie legali per celebrare una consultazione popolare, il
conflitto si intensificherà e occorrerà capire come soddisfare la richiesta dei catalani di
decidere, attraverso il voto, il loro futuro. Una soluzione potrebbe essere la convocazione
di elezioni autonomiche in chiave plebiscitaria. Lo stesso CATN prevede questa alternativa
in caso di un reiterato “atteggiamento di chiusura delle istituzioni statali”. Si procederebbe a
sciogliere il Parlament e a convocare elezioni autonomiche anticipate.
Questa strada presenta sia vantaggi sia inconvenienti. Un primo vantaggio è che la
competenza a convocare le elezioni spetta al Presidente della Generalitat e, pertanto, non è
necessaria l’autorizzazione di alcuna istituzione politica statale. Un secondo vantaggio è che
si tratta di un meccanismo che si sostanzia nella consultazione del popolo (in questo caso
gli elettori) e che pertanto legittima democraticamente il risultato finale. Il principale
inconveniente è che, nel caso risulti la vittoria delle candidature (o della candidatura)
favorevoli a che il Parlament dichiari l’indipendenza della Catalogna, lo scontro tra le
istituzioni catalane e spagnole sarà più esplicito e magari più difficile da risolvere. In ogni
caso, questa contrapposizione è ormai inevitabile, considerando il punto a cui è arrivato il
processo sobiranista.
Ci troviamo, dunque, di fronte ad uno scenario con molte incognite e la mobilitazione
sociale proseguirà fino a quando non si troverà una qualche via d’uscita. Coloro i quali
ritengono che, con il passare del tempo, la tensione si raffredderà sbagliano: il movimento
popolare si è mantenuto costante e, se non cambia la strategia di disprezzo del Governo
spagnolo, mostrerà fin dove è capace di arrivare.
La mia valutazione sulla posizione di chiusura del Governo statale è molto negativa. È
evidente che il conflitto esiste e ogni Governo dovrebbe operare per cercare di risolvere i
conflitti, non per generarli o alimentarli. L’Esecutivo spagnolo dovrebbe tener conto del
fatto che in Catalogna c’è una triplice volontà che spinge in una medesima direzione: la
celebrazione di una consultazione popolare per decidere il futuro della Catalogna. In effetti,
al Governo c’è una formazione politica, CiU, che si è presentata alle elezioni catalane del
2012 con un programma elettorale nel quale si affermava che, in caso di vittoria, avrebbe
88
federalismi.it
|n. 22/2014
lavorato alla costruzione di una “maggioranza sociale ampia affinché la Catalogna possa
avere un proprio Stato”. Con questo punto essenziale della campagna elettorale, il partito
ha vinto nelle quattro circoscrizioni catalane e, secondo la logica democratica, è esigibile
che mantenga l’impegno elettorale assunto. Nel Parlamento catalano vi è, inoltre, un’ampia
maggioranza, formata da quattro forze politiche (CiU, ERC, ICV-EUiA e la CUP) che
raggiungono quasi i due terzi dei seggi, favorevole a svolgere una consultazione popolare il
giorno 9 novembre. Ancora, occorre tener presente che nel Parlament de Catalunya già sono
state approvate una decina di risoluzioni parlamentari sul diritto di autodeterminazione
della nazione catalana (la prima nel 1989, venticinque anni fa). Infine, alle richieste
democratiche dell’Esecutivo e del Legislativo va aggiunta la volontà di una grande
maggioranza del popolo catalano. I sondaggi indicano che l’80% dei catalani chiedono un
referendum (o una consultazione) e che se ne accetti il risultato; le imponenti
manifestazioni popolari per rivendicare tale richiesta hanno registrato un successo storico
in termini di partecipazione.
In definitiva: il sostegno democratico alla rivendicazione della consultazione è indiscutibile
e le istituzioni spagnole (Governo, Congresso, Senato) dovrebbero offrire risposte che
vadano al di là del disprezzo, dell’indifferenza e del silenzio.
2) Ogni realtà politica presenta una sua specificità; le rivendicazioni dei catalani si
producono in un contesto diverso da quello che si riscontra in altre regioni europee. Per
analizzare la realtà catalana occorrerebbe considerare molti aspetti: la storia, la cultura,
l’economia, la geografia, la lingua, il quadro giuridico, il sistema dei partiti, i movimenti
sociali, le ideologie, i mezzi di comunicazione. E si potrebbero analizzare fattori che
vengono da lontano e altri più recenti, che hanno messo in moto l’attuale movimento
indipendentista. Tutti questi fattori, insieme alla tradizionale cultura catalana del “patto”,
hanno generato una concezione della dinamica politica e delle sue grandi rivendicazioni
basate sulla trasversalità ideologica e sulla integrazione di diverse sensibilità. Il pluralismo
nella composizione del Parlament nella fase democratica (a partire dalla prime elezioni
autonomiche del 1980) - con cinque, sei o sette formazioni politiche rappresentate - ha
contribuito alla stipula di accordi parlamentari tra partiti ideologicamente eterogenei e al
consolidarsi di una cultura politica che oggi facilita lo sviluppo dell’attuale movimento
sobiranista.
89
federalismi.it
|n. 22/2014
Tutto ciò può riassumersi nella nascita e nella evoluzione di un catalanismo politico che,
nonostante le congiunture più o meno favorevoli, ha sempre rivendicato quei caratteri che
identificano la “catalanità”.
Dalla fine della dittatura del generale Franco fino ad oggi, il contesto politico e le relazioni
tra Spagna e Catalogna hanno generato un sentimento di diffidenza reciproca tra i due
governi. Persino quando in Spagna e Catalogna erano al potere, rispettivamente, il PSOE e
una coalizione di sinistra guidata dal PSC, le relazioni erano di forte tensione. È in quella
fase che si colloca la sentenza del Tribunal consititucional sullo Statuto, ottenuto sotto la guida
del presidente catalano (socialista) Pasqual Maragall e che il Governo di José Luis
Rodríguez Zapatero (PSOE) aveva radicalmente emendato nel corso del procedimento
innanzi alle Cortes generales. Quella sentenza, che sfigura ancora di più uno Statuto già
approvato in Catalogna per via referendaria, rappresenta la goccia che fa traboccare il vaso
della pazienza del catalanismo sociale e politico.
Il sentimento indipendentista inizia a crescere a partire da quel momento. Secondo dati del
Centre d’Estudis d’Opinió de la Generalitat de Catalunya, quando si interrogavano i catalani, nella
prima metà del 2010, sulle relazioni tra Catalogna e Spagna (se la Catalogna dovesse essere
una regione della Spagna, una comunità autonoma, uno Stato di una Spagna federale o uno
Stato indipendente), solo il 20% indicava l’indipendenza. Si tratta di una percentuale al di
sotto di quella che optava per “uno Stato di una Spagna federale” (31%) e per “una
comunità autonoma della Spagna” (35%). Da quel momento, fino ad oggi, la soluzione
indipendentista è cresciuta, in soli quattro anni, fino al 45% e oltre, mentre l’opzione
federale è scesa al 20% e quella del mantenimento dell’attuale Stato delle autonomie al
23%. Si tratta di un cambiamento radicale rispetto ad un andamento delle risposte
mostratosi, in passato, costante nel tempo.
Una delle caratteristiche del processo sobiranista catalano è la sua trasversalità. La crisi dei
grandi partiti tradizionali ha contribuito a far nascere nuovi movimenti sociali che non solo
hanno fatto direttamente ingresso nella scena politica, ma hanno anche cercato di cambiare
il modo di fare politica e di condizionare l’azione dei partiti. Il movimento indipendentista
rappresenta un esempio di tali tendenze. Le imponenti manifestazioni popolari delle ultime
tre Diades [la Diada è la festa nazionale della Catalogna, riconosciuta dallo Statuto di
autonomia, che si celebra il giorno 11 settembre, ndt] sono un indicatore molto chiaro di
questa trasversalità.
90
federalismi.it
|n. 22/2014
Anche i dati demoscopici confermano questa connotazione: tutti i sondaggi indicano che
coloro che si sentono indipendentisti provengono da elettorati molto diversi (e lo stesso
accade se si guarda a coloro che sono contrari all’indipendenza). Ad ogni modo, si può
affermare che si tratti di un movimento maggioritariamente di sinistra (il 70% degli
indipendentisti catalani si considera di sinistra e due di ogni tre catalani di sinistra vogliono
una Catalogna indipendente). Ciò consente di smentire che vi sia un chiaro legame tra il
movimento indipendentista e la coalizione che governa in Catalogna: la maggioranza degli
indipendentisti catalani (quasi i due terzi) non vota CiU.
L’eterogeneità ideologica di questo attivismo politico lo rafforza, lo colloca oltre le
organizzazioni partitiche e, addirittura, oltre le istituzioni catalane. Il movimento sobiranista
si presenta autonomo rispetto all’azione dei partiti (e dei mezzi di comunicazione) catalani e
spagnoli. Un esempio di ciò è rappresentato, da una parte, dalla intensa attività dei partiti
che si registra nel 2013 per cercare di influenzare la società e, dall’altra, il persistere della
medesima percezione sociale sui temi della consultazione e della indipendenza della
Catalogna. In effetti, nonostante la pressione politica e mediatica, la percentuale di catalani
favorevoli al referendum si è mantenuta intorno all’80%; anche la percentuale dei
sostenitori del voto indipendentista non ha conosciuto particolari variazioni. Per quanto
concerne la scelta dei diversi assetti per la Catalogna, le cifre rivelano ancora una certa
stabilità: i favorevoli all’indipendenza si situano tra il 46 e il 49%; coloro che sostengono
uno Stato federale o che non intendono modificare l’attuale modello autonomico
rappresentano il 20%; quelli che chiedono uno Stato regionale non superano il 5%.
Questa distanza tra istanze sociali e strutture partitiche, e il fatto che i partiti politici catalani
si siano dovuti posizionare in merito alla consultazione e ad una ipotetica indipendenza
della Catalogna, ha generato crisi interne in alcune formazioni. In effetti, il dibattito sul
cosiddetto “diritto a decidere” ha determinato un allontanamento tra i due partiti che
formano l’attuale coalizione di governo: Convergència Democràtica de Catalunya e Unió
Democràtica de Catalunya. Il leader di Unió Democràtica ha sempre preso le distanze da qualsiasi
forzatura per giungere alla consultazione, dall’attuale patto di legislatura stipulato con ERC
e dalla indipendenza catalana. Anche il Partit dels Socialistes de Catalunya (PSC) è diviso tra
coloro che non vogliono una consultazione come quella concordata alla fine del 2013 e
coloro che avrebbero voluto sostenere quella iniziativa; tra coloro i quali ritengono che la
soluzione del conflitto catalano passi per una riforma, in chiave federale, della Costituzione
91
federalismi.it
|n. 22/2014
spagnola del 1978 e coloro i quali non credono in questa riforma; tra coloro i quali
vogliono rafforzare il legame con il PSOE e coloro che se ne vogliono distanziare. Così,
un’altra caratteristica peculiare di questo movimento è che determinerà, senz’altro, un
cambiamento rilevante nel sistema catalano dei partiti.
Si tratta, conclusivamente, di un movimento sociale di straordinaria solidità, che guarda con
diffidenza i partiti e il Governo di Catalogna, sebbene sia cosciente del fatto che tanto i
primi quanto il secondo sono fondamentali per raggiungere l’obiettivo della consultazione
e, se del caso, dell’indipendenza.
3) Siamo di fronte a un fenomeno relazionato anch’esso con le poliedriche crisi che
attraversano le democrazie rappresentative e, soprattutto, con un deficitario rispetto
istituzionale per i valori e i principi democratici.
I partiti tradizionali sono in crisi. La corruzione è giunta a livelli intollerabili, le istituzioni
sono poco trasparenti, le domande popolari costantemente disattese. I nuovi movimenti
sociali, come il movimento sobiranista catalano, si basano, principalmente, sulla difesa dei
tradizionali valori democratici e sulla creazione di nuovi. Esso, nonostante le provocazioni
e il disprezzo (esibito finanche dal Governo spagnolo), si è mostrato sempre
profondamente pacifico e assolutamente rispettoso dei valori democratici. Di fatto, il suo
principale obiettivo è favorire la partecipazione democratica attraverso una consultazione,
conoscere l’opinione dei cittadini e rispettare il risultato democraticamente espresso dalle
urne.
La base su cui poggia il movimento sobiranista (che, tenuto conto delle sue dimensioni e
della sua attività, è una novità in Europa) dovrebbe spingere le istituzioni europee tenerne
conto senza pregiudizi. Storicamente, l’Unione Europea si è mostrata ben disposta nei
confronti delle mobilitazioni democratiche e pacifiche, come sono le imponenti
manifestazioni tenutesi in Catalogna in occasione delle ultime tre feste nazionali (2012,
2013, 2014). L’UE ha sempre rispettato i risultati di elezioni democratiche, come quelle
svoltesi in Catalogna nel 2012, quando 107 dei 135 deputati eletti si sono presentati in liste
favorevoli a convocare una consultazione popolare per decidere il futuro della Catalogna.
L’UE ha sempre voluto conoscere e rispettare la volontà dei cittadini, allo stesso modo del
movimento sobiranista catalano. L’UE ha sempre voluto sostenere il diritto di
partecipazione dei cittadini nelle questioni che generano un dibattito sociale, profondo e
92
federalismi.it
|n. 22/2014
trasversale, allo stesso modo del movimento favorevole alla consultazione catalana. La UE
ha sempre inteso riconoscere e proteggere i diritti delle minoranze, incluse quelle nazionali.
Pertanto, se l’Europa vuole essere coerente con la sua traiettoria e con la strenua difesa dei
valori democratici, dovrebbe mostrare apertura verso movimenti che si basano sul rispetto
delle domande poste dalla maggioranza della popolazione, soprattutto in un contesto
istituzionale come quello europeo rispetto al quale si denuncia spesso un deficit di
democraticità.
93
federalismi.it
|n. 22/2014
Carles Viver i Pi-Sunyer*
Catedràtic de Dret constitucional
Universitat Pompeu Fabra de Barcelona
Director de l’Institut d’Estudis Autonòmics de la Generalitat de Catalunya.
1) A mio parere esistono, nel sistema costituzionale spagnolo, fino a quattro procedure che
potrebbero consentire ai cittadini di una Comunità autonoma, in questo caso della
Catalogna, di esprimere la loro opinione sul futuro politico della loro comunità, attraverso
un referendum o una consultazione, previa all’apertura di un procedimento di riforma
costituzionale, in cui venga incluso come possibile opzione la separazione dallo Stato
spagnolo.
Questi quattro procedimenti sono i referendum convocati dallo Stato ai sensi dell'art. 92.1
della Costituzione (CE); il trasferimento o la delega di competenza da parte dello Stato alle
Comunità autonome, disciplinato dall'art. 150.2; la legge del Parlamento della Catalogna
4/2010 sul referendum e la recente legge catalana sulle consultazioni popolari non
referendarie e sulla partecipazione dei cittadini. A questi quattro metodi si può aggiungere
la via indiretta della riforma costituzionale per inserire esplicitamente nella Costituzione
questo tipo di referendum o consultazione.
Nel breve spazio a mia disposizione non posso sviluppare, in tutta la loro ampiezza, gli
argomenti giuridici su cui baso tale tesi. Mi trovo costretto a farne una breve sintesi, e a
scusarmi per fare riferimento ad alcuni lavori in cui ho esposto queste posizioni in modo
più dettagliato1.
Fino alla sentenza del Tribunal constitucional (TC) 42/2014, i quattro metodi appena
menzionati dovevano superare l'ostacolo giuridico posto dalla STC 103/2008 2 sul c.d.
Piano Ibarretxe, in cui si affermava che era in contrasto con la Costituzione la
convocazione di un referendum per chiedere ai cittadini di una Comunità autonoma di
esprimersi sul loro futuro politico collettivo. Questo per due ragioni: perché si tratta di un
*
Testo consegnato il 29 settembre 2014. Traduzione dal castigliano di Laura Cappuccio.
Cfr. il mio lavoro Una reflexión desde Cataluña sobre el ‘derecho a decidir’, in J. O. ARAUJO (a cura di), El futuro
territorial del Estado español, Valencia, 2014.
2 Parzialmente “inspirata” ad alcune sentenze della Corte costituzionale italiana, come la 470/1992 e la
496/2000.
1
94
federalismi.it
|n. 22/2014
problema che riguarda tutti gli spagnoli; perché, quale che sia la risposta – per esempio
favorevole alla separazione - la sua attuazione richiederebbe una modifica costituzionale
che si concluderebbe, comunque, con un referendum al quale sono chiamati a partecipare
tutti gli spagnoli.
Alcuni costituzionalisti avevano messo in discussione la consistenza logico-giuridica della
motivazione di questa pronuncia: dal fatto (vero) che la domanda e la risposta riguardano
tutti i cittadini e che la sua attuazione può richiedere una revisione costituzionale, non
segue come conseguenza logicamente necessaria che le istituzioni dotate della competenza
per avviare il processo di riforma costituzionale non possano chiedere, prima di iniziarlo
ufficialmente, il parere dei cittadini di una Comunità autonoma circa l'esercizio o meno di
tale competenza. La dottrina del TC conduce a negare anche la possibilità di applicare le
tesi più moderate che hanno sostenuto che, con una previa riforma della Legge Organica
sui referendum, potrebbe essere utilizzata la via dell'art. 92 CE.
A mio avviso, la STC 42/2014 ha introdotto un cambiamento radicale nella dottrina del TC
sul Piano Ibarretxe. La STC 42/2014 risolve una impugnazione dello Stato contro la
Dichiarazione del Parlamento della Catalogna, in cui si proclamava che la Catalogna era un
soggetto politico e giuridico sovrano e si decideva di iniziare il processo per l'attuazione del
"diritto" dei cittadini della Catalogna "a decidere" il loro futuro politico, in conformità con i
principi, tra gli altri, di legalità e democrazia. Nella sentenza, il TC dichiara, inizialmente,
l’incostituzionalità della proclamazione del carattere sovrano della Catalogna e di una
ipotetica convocazione unilaterale di un "referendum di autodeterminazione", che
concepisce, in maniera indiretta e con riferimento alla famosa dichiarazione della Corte
Suprema del Canada, come una sorta di referendum dotato di effetti giuridici immediati e
vincolanti.
Tuttavia, vietata questa eventualità, il TC riconosce la possibilità di realizzare qualunque
altra attività volta a preparare l'esercizio del diritto a decidere, che può includere opzioni
che mettono in questione "il fondamento stesso dell'ordine costituzionale", a condizione
che si realizzino nel rispetto principi democratici, dei diritti fondamentali, e dei restanti
precetti costituzionali; e che il raggiungimento effettivo di tali obiettivi si consegua
attraverso il procedimento di riforma costituzionale3.
Un’analisi più dettagliata di questa sentenza si trova nel rapporto elaborato dall’Institut d’Estduis Autonòmics
http://governacio.gencat.cat/web/.content/iea/documents/dret_a_decidir/arxius/informe_sentencia_tc_so
birania_parlament_vesp.pdf
3
95
federalismi.it
|n. 22/2014
Una volta superata questa obiezione generale e accettato che, in linea di principio, può
svolgersi una consultazione dei cittadini circa il loro futuro politico, sempre che poi la
concretizzazione del suo risultato, se incide sul "fondamento stesso dell'ordine
costituzionale", si realizzi attraverso la riforma costituzionale, si devono superare anche le
obiezioni ai quattro procedimenti prima menzionati. Si potrebbe infatti ritenere che
nell’ordinamento spagnolo non ci sono canali per poter realizzare una consultazione.
Questo è stato sostenuto da una parte importante della dottrina giuspubblicistica spagnola.
In particolare, allo svolgimento dei referendum di cui all'art. 92 CE, si obietta, in primo
luogo, che i referendum a livello regionale non sono previsti in questo articolo, in cui si
contemplano solo i referendum diretti a "tutti i cittadini" (92.1 CE); e, in secondo luogo,
che la legge organica sul referendum non può prevederlo, in quanto l'art. 92.3 CE solo
consente di disciplinare il referendum previsto dalla Costituzione. Nessuno di questi
argomenti mi sembra giuridicamente insormontabile: non quello letterale, perché il
riferimento a "tutti i cittadini" può essere interpretato come tutti i cittadini del territorio a
cui si riferisce il referendum (si ammettono senza difficoltà referendum locali) e l’inciso
"tutti i cittadini” si opporrebbe solo alle consultazioni dirette a settori, sociali o
professionali, concreti.
Il principio che ciò che non è vietato dalla Costituzione deve considerarsi
costituzionalmente legittimo è, credo, perfettamente applicabile per controbattere alla
seconda - e anche alla prima - obiezione. L'esistenza già ricordata di referendum locali
rappresenta una dato rilevante da tenere in considerazione.
La via della delega o trasferimento della competenza per indire un referendum è stata
proposta formalmente dal Parlamento catalano attraverso una proposta di legge organica
presentata al Congresso nel febbraio 2014. La proposta è stata respinta dalla Camera nel
mese di aprile dello stesso anno. L'argomento utilizzato è stato, quasi esclusivamente,
l’impossibilità costituzionale di delegare la facoltà in quanto il risultato del referendum
riguarda tutti gli spagnoli e può richiedere una riforma costituzionale. La maggior parte del
Congresso ha fatto riferimento agli argomenti contenuti nella sentenza sul Piano Ibarretxe,
ignorando la recentissima dottrina della STC 42/2014 (o, quantomeno, non hanno
interpretato quest’ultima come la interpreto io).
Per quanto riguarda la terza via, la legge catalana 4/2010 sulle consultazioni popolari
tramite referendum, del 17 marzo 2010, in conformità del paragrafo 32 dell'art. 149.1 CE,
96
federalismi.it
|n. 22/2014
che attribuisce allo Stato unicamente la “autorizzazione della convocazione di consultazioni
popolari tramite referendum", regola i referendum di ambito territoriale catalano,
attribuendo l’autorizzazione degli stessi allo Stato. Il Governo spagnolo ha impugnato la
legge, che è stata sospesa automaticamente; successivamente, però, il TC ha rimosso la
sospensione e, pertanto, la legge è oggi pienamente vigente, in attesa della sentenza.
Dopo l’impugnazione, il TC ha adottato la STC 31/2010 sullo Statuto di Autonomia del
2006. La sentenza afferma che “l'intera regolamentazione” del referendum corrisponde allo
Stato in virtù delle riserve costituzionali di legge organica in materia di sviluppo dei diritti
fondamentali e dell’art. 92.3 CE. La dottrina maggioritaria non ha criticato l'esistenza di
questa riserva, ma l’estensione attribuita alla stessa da tale decisione (“l’intera” regolazione).
La dottrina del TC per quanto riguarda il rapporto tra la legge organica dello Stato e le
competenze era stata, fino a quel momento, molto più sfumata rispetto all’impostazione
contenuta nella STC 31/2010. Ci sono buoni argomenti giuridici per difendere l'esistenza di
un ampio margine di regolazione autonomica dei referendum regionali. È possibile che,
dinanzi alla reazione quasi unanime della dottrina, il TC adotti una decisione volta a
recuperare la sua dottrina tradizionale e a riconoscere questo ambito, non escludendo
ovviamente l’intervento dello Stato dai profili ad esso riservati. Ad ogni modo, non può
essere dimenticato che, in base alla legge catalana, la convocazione dei referendum deve
essere autorizzata dallo Stato. Attualmente questa autorizzazione è improbabile che sia
concessa.
Infine, c'è la recentissima legge 10/2014 sulle consultazioni popolari non referendarie e
sulla partecipazione dei cittadini, del 19 settembre 2010, che, alla fine, è stata la strada scelta
dal governo della Catalogna per realizzare la consultazione. Le obiezioni di costituzionalità
opposte alla legge sono state spesso dirette al decreto che convoca la consultazione del 9
novembre (o all’insieme legge-decreto) più che a quello che propriamente stabilisce la legge.
Le due obiezioni principali sono: che la domanda della consultazione del 9 novembre va al
di là dei poteri del Governo della Catalogna; che inoltre, anche se l’atto dichiara di regolare
le consultazioni popolari, di fatto regola veri e propri referendum.
Per quanto riguarda la prima obiezione, la legge non pone nessun problema perché
stabilisce che le consultazioni devono avvenire "nell'ambito delle competenze" della
Generalitat o degli enti locali che la convocano. Questa espressione, non contraddetta da
nessun’altra disposizione di legge, coincide con quella utilizzata dall'art. 122 dello Statuto di
97
federalismi.it
|n. 22/2014
autonomia, ed è stata "convalidata" dalla sentenza 31/2010. Il decreto di convocazione si
riferisce, nel suo preambolo e nell'articolo 2 (dedicato all’oggetto della consultazione), alla
competenza del Governo e, in particolare, del Parlamento catalano, riconosciuta dagli
articoli 166 e 87 CE e dall’art. 61 dello Statuto autonomia, di presentare al Parlamento
spagnolo una disegno di legge di modifica della Costituzione. Il dibattito può sorgere per
determinare se questa iniziativa legislativa sia da qualificare o meno come una competenza.
È vero che essa non figura nell’elenco delle competenze che lo Statuto attribuisce alla
Generalitat, ma è anche vero che la nozione di competenza, ai sensi dell'articolo 122 dello
Statuto, può essere interpretata in modo tale da includere una facoltà tanto importante
come quella di promuovere la riforma costituzionale. Ci sono molti esempi di leggi statali,
e persino di sentenze del TC, che hanno usato come titoli di competenza norme che non
sono incluse negli elenchi di competenze (per esempio, come abbiamo visto, la riserva di
legge organica o di principi guida). Appare eccessivamente formalistico impedire che un
Parlamento autonomico possa consultare i cittadini circa la possibilità di avviare una
riforma costituzionale per il semplice argomento che questa facoltà non sia formalmente
inserita nella lista delle competenze.
Per quanto riguarda l'obiezione che si tratta di un "referendum nascosto", si deve partire
dall’inquadramento del referendum compiuto nella STC 103/2008, secondo cui una
consultazione popolare si ha quando le persone chiamate a partecipare sono le stesse che
partecipano alle elezioni del Parlamento statale, autonomico o locale, e, inoltre, quando per
effettuarla si utilizza l'amministrazione elettorale e il sistema giudiziario. Si tratta di
condizioni cumulative. Nella legge del 19 settembre non si prevede di utilizzare
l'amministrazione della giustizia e l'amministrazione elettorale, e non è precisato chi è
necessariamente chiamato a partecipare. Quest’ultimo è un aspetto rimesso ai decreti di
convocazione di ogni consultazione, dal momento che i votanti dipenderanno dal
contenuto (generale o settoriale) della domanda e dall’ambito territoriale coinvolto (tutta la
comunità o una parte della stessa). La legge si limita a stabilire, semplicemente, i gruppi che
possono essere chiamati a votare alla consultazione, non quelli che necessariamente devono
essere coinvolti.
Difficilmente si può concludere una simile regolamentazione imponga la partecipazione alle
consultazioni delle stesse persone che possono partecipare alle elezioni autonomiche. Il
decreto di convocazione della consultazione del 9 novembre chiama a partecipare non solo
98
federalismi.it
|n. 22/2014
gli aventi diritto al voto nelle elezioni autonomiche, ma anche i cittadini tra i 16 ei 18 anni e
i vari gruppi di residenti stranieri, soggetti questi che non partecipano alle elezioni. Questo
insieme non si può dire coincida con il corpo elettorale che in quanto "organo dello Stato",
come dice la menzionata STC, esprime la volontà statale.
In sintesi, da questo punto di vista, penso si possa affermare che la legge catalana sulla
consultazione non pone nessun problema di costituzionalità; si può sostenere anche che ci
siano fondati argomenti giuridici per ritenere che nemmeno li presenta il decreto di
convocazione. Questo soprattutto se tali precetti sono letti sulla base del principio
democratici, che richiede di favorire una interpretazione e un'applicazione delle norme
favorevoli alla maggiore estensione possibile della partecipazione dei cittadini, nel rispetto
del quadro giuridico vigente4.
In sintesi: nel nostro sistema costituzionale ci sono, a mio avviso, cinque modi possibili per
poter realizzare un referendum o una consultazione come quella proposta in Catalogna. A
parte il processo di riforma costituzionale, le due strade che pongono meno problemi
giuridici sono l'art. 92 CE e il già respinto art. 150.2 CE.
2) Non conosco con sufficiente profondità le caratteristiche di altre rivendicazioni simili a
quella catalana per poter ragionare con il rigore che meritano i nostri lettori.
Per quanto riguarda il caso catalano, deve essere sottolineato che attualmente ci sono due
processi diversi, anche se strettamente correlati. Da un lato, la rivendicazione di quello che
è stato chiamato il "diritto a decidere", che include la pretesa di votare in un referendum o
una consultazione specifica sul futuro della Catalogna, e che l'esito della votazione venga
preso in considerazione da parte di coloro esercitano i pubblici poteri. Questa
rivendicazione, secondo i sondaggi più affidabili, ha il sostegno attivo di oltre il 75% dei
cittadini. Questa richiesta viene da lontano: a partire dal 1989, sono state adottate a tal
proposito numerose risoluzioni del Parlamento della Catalogna a questo proposito. Tale
richiesta è andata crescendo nella misura in cui i cittadini catalani hanno visto frustrati i
tentativi di espandere il potere politico della Generalitat (le sue competenze), di migliorarne
il finanziamento e di ottenere il riconoscimento di una identità nazionale differenziata.
Accanto a questa rivendicazione c'è anche quella di stampo secessionista che non ha
smesso di crescere e consolidarsi, passando in soli cinque anni dal 15 o al massimo al 20%
4
Si veda l’opera citata alla nota 1.
99
federalismi.it
|n. 22/2014
a quasi il 50%, secondo alcuni recenti sondaggi. Le cause di questa crescita sono analoghe a
quelle identificate in relazione alla crescita del supporto popolare al "diritto di decidere".
3) Penso effettivamente che questi movimenti devono essere situati in un contesto generale
di crisi della democrazia, che stiamo vivendo da qualche tempo. Anche se, tuttavia, questa
crisi non è la causa prima di questi fenomeni rivendicativi, né credo che questi possano
confondersi con la rivendicazione di maggiori spazi di democrazia partecipativa di fronte
alla
stagnazione
della
democrazia
rappresentativa.
A
mio
parere,
democrazia
rappresentativa e democrazia partecipativa non vanno contrapposte. Entrambe devono
coesistere in un sistema democratico, rafforzando i meccanismi di democrazia
partecipativa, ma coordinandoli in maniera efficace con gli strumenti, insostituibili anche se
migliorabili, di democrazia rappresentativa.
Il cosiddetto "diritto a decidere", nonostante l'ambiguità del termine, si è voluto esercitare
in Catalogna nel rispetto della legge. Lo dimostrano le numerose risoluzioni del Parlamento
al riguardo. Ciò è anche testimoniato dalla legge sulle consultazioni popolari non
referendarie e dal decreto di convocazione della consultazione del 9 novembre, che si
riferisce alla competenza del Governo - quella di dare impulso ad un processo di riforma
costituzionale - in conformità “alle regole giuridiche esistenti”.
Questione diversa è interrogarsi su che cosa accade se questi canali legali si chiudono del
tutto pur in presenza di una rivendicazione così massiccia, crescente e consolidata come
quella che si riscontra oggi in Catalogna. Potrebbe essere legittimata dai principi della
democrazia partecipativa una rottura dell'ordine costituzionale? Dal punto di vista legale,
no. Cosa diversa è la legittimità politica di questa opzione, che si muoverebbe al di fuori
della legge. Questo ci conduce alla domanda sul se lo Stato di diritto si difenda più
efficacemente incanalando questi fenomeni sociali nei percorsi legali esistenti,
interpretandoli, fin dove possibile, in maniera conforme alle esigenze che discendono dai
principi democratici; o se sia preferibile utilizzare il diritto come muro di contenimento di
tali rivendicazioni. La mia risposta a questa domanda è implicita nelle risposte alle tre
domande che mi sono state gentilmente rivolte.
100
federalismi.it
|n. 22/2014
Notazioni conclusive*
di Gennaro Ferraiuolo
Professore associato di Diritto costituzionale
Università di Napoli Federico II
Il presente questionario guardava alla data del 9 novembre come a quella di un passaggio
chiaro, in un senso o in un altro, nell’evoluzione delle vicende catalane. Attraverso un agile
strumento, si immaginava di offrire – quasi in presa diretta – una testimonianza di
osservatori privilegiati. È emersa una controindicazione di non poco conto: l’incessante
mutare dei dati – in parte normativi, in parte fattuali – che avrebbero dovuto costituire lo
sfondo, quando non direttamente l’oggetto, dell’analisi degli studiosi interpellati.
Di questo dobbiamo forse scusarci: con chi ci legge, che potrebbe trovarsi in presenza di
ricostruzioni che, in alcuni punti, potranno apparire già superate dal rapido fluire degli
eventi; con gli studiosi che con grande disponibilità hanno accettato di collaborare, posti
con ogni probabilità innanzi alla scelta tra il rispetto dei tempi indicati per la consegna delle
risposte e la tentazione di prendere tempo, al fine di rendere quanto più attuale possibile la
loro riflessione.
Dunque il seny (termine catalano di difficile traduzione che, tra le altre cose, indica «il rifiuto
di correre dietro alle novità») 1 avrebbe forse consigliato di attendere il decantare delle
vicende, di guardarle con maggiore distacco: il recente “processo partecipativo” – o
“consultazione illegale”, a seconda dei punti di vista – ha infatti rappresentato soltanto
l’ennesimo passaggio di un percorso con ancora molte incognite.
Nonostante ciò, oltre il fluire dei fatti, il succedersi delle leggi, dei decreti, delle
dichiarazioni e delle loro impugnazioni, le questioni di fondo del cd. procés sobiranista sono
*
Articolo sottoposto a referaggio.
R. HUGHES, Barcellona. Duemila anni di arte, cultura e autonomia, Milano, 2004, p. 27, che continua: «nella
concezione tradizionale catalana il seny si avvicina alla “saggezza naturale” ed è trattato quasi come una virtù
teologale. […] I catalani sostengono che il seny è la principale caratteristica nazionale. Rappresenta per loro ciò
che il duende (letteralmente “folletto”, e per traslato il senso della fatalità o della imprevedibilità tragica) è per
gli spagnoli del Sud. […] Nelle Forme della vita catalana (1944) Josep Ferrater Mora disquisisce a lungo sul seny.
“L’uomo dotato di seny è, anzi tutto, l’uomo equilibrato, colui che contempla le cose e le azioni umane con
una visione serena”».
1
101
federalismi.it
|n. 22/2014
tutte chiaramente delineate nelle risposte degli interpellati. Delineate da punti di vista
diversi e in forma altamente problematica, come è normale che sia di fronte a un percorso
che, chiamando in causa la prospettiva di una rottura del principio unitario, difficilmente si
lascia racchiudere nel recinto del costituito.
Il questionario mette in luce, innanzitutto, le possibili risposte che, sul piano giuridico,
possono darsi al conflitto politico in atto. Sul punto le opinioni degli studiosi risultano
variegate. Provando a tirare le somme, le soluzioni cui si riconosce maggiore solidità sono
quelle che contemplano un’attivazione da parte del Governo statale (referendum ex art. 92
CE; delega della competenza a convocare un referendum ex art. 150.2 CE); meno consenso
suscitano gli strumenti disciplinati in ambito catalano e, in particolare, quello della cd.
consultazione non referendaria, non a caso l’ultimo, in ordine di tempo, cui ha fatto ricorso
la Generalitat. Forti dubbi sulla conformità a Costituzione dell’istituto sono espressi da
Ferreres, Arbós e Carrillo.
In tal modo si valorizza (forse da parte di qualcuno si auspica) la prospettiva del dialogo tra
istituzioni centrali e periferiche, e dunque la imprescindibilità delle negoziazioni (prima e
dopo l’ipotetico referendum). In parallelo, si registrano critiche, formulate con accenti
diversi, al modo in cui il Governo spagnolo ha sinora affrontato la questione, denunciando
«le posizioni immobiliste che pietrificano l’ordinamento» (Arbós) e quella che appare una
vera e propria «strategia del disprezzo» (Matas).
Non mancano richiami all’inquadramento delle vicende catalane all’interno delle dinamiche
dell’integrazione europea (Albertí, Abat, Matas, Ferreres). Si tratta di un aspetto molto
presente nel dibattito pubblico. Occorre infatti ricordare che la Catalogna, così come la
Scozia, mostra una spiccata vocazione europeista2; la prospettiva, per un ipotetico nuovo
Stato, di una estromissione dall’UE è percepita come uno dei fattori di maggiore criticità
dell’opzione indipendentista3: questa «perde molto sostegno se la secessione della Catalogna
Si tratta di un aspetto che emerge in maniera anche dalla Declaració de sobirania i del dret a decidir del poble de
Catalunya, approvata dal Parlament di Barcellona il 23 gennaio 2013 (risoluzione 5/X). Tra i principi in essa
enunciati figura, al punto n. 6, l’europeísmo: «si difenderanno e promuoveranno i principi fondamentali
dell’Unione europea, in particolar modo i diritti fondamentali dei cittadini, la democrazia, la garanzia dello
Stato sociale, la solidarietà tra i diversi popoli d’Europa e il sostegno al progresso economico, sociale e
culturale»
3 Sul punto cfr. A. GALÁN GALÁN, Secesión de Estados y pertenencia a la Unión Europea: Cataluña en la encrucijada,
in Le istituzioni del federalismo, n. 1, 2013, p. 95 ss.; in riferimento al dibattito scozzese, v. J. CRAWFORD, A.
BOYLE, Referendum on the Independence of Scotland – International Law Aspects, in Scotland analysis: Devolution and the
implications of Scottish independece, www.official-documents.gov.uk, febbraio 2013, in particolare p. 92 ss.; J.O.
FROSINI, L’indipendenza della Scozia: l’uscita da due unioni?, in Quaderni costituzionali, n. 2, 2013, p. 442 ss.
2
102
federalismi.it
|n. 22/2014
comporta la sua fuoriuscita dall'Unione europea, anche se solo per un periodo transitorio»
(Ferreres). Albertí vede però nel ruolo dell’Europa anche un elemento, per cosi dire, di
sdrammatizzazione delle tensioni in atto: la Catalogna «non mostra nessuna resistenza a
cedere sovranità ad una entità superiore come la UE […], in seno alla quale rinuncia ad
essere sovrana»4; così, l’azione di processi costituenti concentrici (prima che contraddittori)
potrebbe risolversi in una «ridefinizione del ruolo degli Stati» (opportuna, ad avviso dello
studioso, quantomeno per alcuni di essi).
Nel suo contributo, Víctor Ferreres ridimensiona drasticamente la consistenza delle
rivendicazioni in atto, criticandone, su base razionale, i contenuti; e, in ogni caso,
ritenendone il percorso di maturazione non ancora giunto ad una fase tale da rivelarne
l’effettivo radicamento nella società catalana: «dal ripristino della democrazia, si sono svolte
in Catalogna decine di elezioni […]. Sono stati pochi i partiti che hanno incorporato
l’indipendenza nelle loro proposte politiche e il sostegno che hanno ricevuto è sempre stato
minoritario». In modo coerente, anche tale autore riconosce esplicitamente le potenzialità
di un’eventuale elezione autonomica in chiave plebiscitario-referendaria (su cui si tornerà
infra): se i partiti che enunciano, in termini inequivoci, il sostegno alla indipendenza
conseguissero la maggioranza dei voti, si aprirebbe «un nuovo tempo politico», che
metterebbe la Generalitat, in questo caso sì, nelle condizioni di negoziare con lo Stato un
referendum sulla questione5. Seguendo tale impostazione, potrebbero in futuro riemergere
problematiche di grande complessità e delicatezza: in questo ipotetico tempo nuovo,
sorgerebbe, in capo al Governo spagnolo, un obbligo a negoziare? Sulla base di quale
fondamento normativo? Sarebbe giuridicamente azionabile (sul piano interno o
sovranazionale) o occorrerebbe ragionare sulla base di puri rapporti di forza?
È evidente che lo scivoloso crinale lungo il quale ci si muove si colloca sempre a ridosso
della dimensione politica e di quella giuridica; e, forse, nessuno dei due punti di
osservazione è rinunciabile ai fini dell’inquadramento delle vicende analizzate.
Abat, da una prospettiva destinata senz’altro a far discutere, considera nettamente
prevalente la concezione della Costituzione come processo politico su quella della
Costituzione come norma giuridica; su tali basi (e attraverso una serie di esempi) rinnega
In tema possono richiamarsi le tesi di N. MACCORMICK, Questioning Sovereignity. Law, State, and Nation in the
European Commonwealth, Oxford, 1999, trad. it. La sovranità in discussione. Diritto, stato e nazione nel «commonwealth»
europeo, Bologna, 2003, in particolare p. 325 ss.
5 Nella medesima prospettiva si veda del medesimo autore, con Alejandro Saiz Arnaiz, Una gran conversación
colectiva, in El País, 5 febbraio 2014.
4
103
federalismi.it
|n. 22/2014
l’imparzialità – e di conseguenza la legittimazione nel sistema – del Tribunal constitucional
(d’ora in avanti TC), principale interprete della Carta fondamentale. La generalità dei
costituzionalisti interpellati si muove invece alla ricerca di un più solido punto di equilibrio
tra le tradizionali categorie di analisi e l’esigenza di offrire risposte ai processi in atto.
Non mancano così accenti critici su interventi specifici del TC: la pronuncia sullo Statuto
(n. 31/2010; Carrillo, Albertí) – su cui si tornerà tra breve – e quella (n. 103/2008) che ha
escluso la possibilità di inserire un referendum previo (per di più nel solo ambito di una
Comunità autonoma) in un percorso destinato ad incanalarsi sui binari della revisione
costituzionale. Questa impostazione andrebbe “flessibilizzata” con riferimento alla ipotesi
particolare della secessione (Ferreres); un “cambio radical” rispetto ad essa è scorto peraltro
nella decisione del TC n. 42/2014, dalla quale si desumerebbe «la possibilità di realizzare
qualsiasi attività diretta a preparare l’esercizio del diritto a decidere» (Viver; in termini
analoghi, Arbós e Albertí).
Anche la concreta messa in opera dello Stato autonomico (non il modello astratto
prefigurato dalla Costituzione) è oggetto di valutazioni a volte severe. Si contesta nella
sostanza (Carrillo, Albertí) la nota tendenza del café para todos, «un processo di
simmetrizzazione costante e crescente» dell’assetto autonomistico6 che viene letto come una
forzatura della impostazione originaria alla base della Carta del 1978.
Una prospettiva simmetrica – almeno potenzialmente – non è vista invece con particolare
disfavore da Arbós, il quale però, in un’ottica de iure condendo, indica comunque, quale
soluzione per disinnescare il conflitto territoriale, una riforma della Costituzione in senso
pienamente federale, che operi sul versante delle competenze e del modello di
finanziamento; solo subordinatamente a tali innovazioni potrebbe trovare spazio un
esplicito riconoscimento, dalla valenza anche simbolica, della specificità catalana.
Il tema della specificità catalana è analizzato approfonditamente in diversi interventi. Sul
punto si sofferma ad esempio Marc Carrillo, che ricorda come il «secesionismo catalán no
se fundamenta sólo en razones de orden económico, sino también históricas, políticas y
culturales»; e, più in generale, che la «personalidad política» della Catalogna non nasce con
la Costituzione del 1978. In riferimento ad essa si riscontrano «le condizioni per affermare
C. VIVER I PI-SUNYER, El reconeixement de la plurinacionalitat de l’Estat en l’ordenament jurídic espanyol, in F.
REQUEJO, A.G. GAGNON (a cura di), Nacions a la recerca de reconeixement: Catalunya i el Quebec davant el seu
futur, Barcelona, 2010, p. 225. Per un generale inquadramento del tema, v. pure J. BURGUEÑO, Caffè per tutti:
l’autonomia diffusa minaccia lo Stato, in Limes, n. 4, 2012, p. 125 ss.
6
104
federalismi.it
|n. 22/2014
tanto l’esistenza di caratteristiche oggettive che la rendono unica e ne fanno una comunità
politica specifica e distinta, quanto la presenza di una volontà politica di affermazione di
un’identità propria», manifestatasi costantemente nel corso dei secoli (Albertí). In Italia, da
una prospettiva speculare, si è osservato invece che «l’identità delle […] regioni non è il
risultato di un processo storico, esse non traggono origine da istituzioni a suo tempo fra
loro indipendenti ed ancora sensibili a questa tradizione di autogoverno o di governo
separato»7.
La considerazione di tali aspetti potrebbe permettere di valorizzare quello che è stato
definito «approccio istituzionale storicizzato»8. La valutazioni di dati extra giuridici non è
d’altra parte estranea agli studi legati alla forma/tipo di Stato. Basti ricordare la risalente
proposta di Smend rivolta al superamento delle costruzioni «meramente giuridiche dello
Stato federale»9. In tempi recenti, si segnala nella dottrina italiana la posizione di chi, nel
tentativo di rivitalizzare la distinzione tra modello regionale e federale, ritiene necessario
attribuire rilievo a fattori quali la presenza «di un’opinione pubblica, di una società
regionale», verificando «l’esistenza di strutture della società civile, culturale, economica
aventi un fondamentale radicamento e collegamento regionale (partiti, giornali,
associazionismo economico e imprenditoriale)»10. Seguendo tale impostazione è evidente
come la Catalogna mostri un fortissimo radicamento territoriale delle proprie istituzioni
(giuridiche, politiche, sociali, culturali). E, d’altra parte, per quanto l’assunto possa essere
oggetto di discussione, sono numerose le ricostruzioni scientifiche che collocano
l’ordinamento spagnolo (con riferimento alle realtà della Catalogna e dei Paesi Baschi) nella
dimensione del federalismo plurinazionale11.
S. BARTOLE, L’ordinamento regionale, in S. BARTOLE – F. MASTRAGOSTINO, Le Regioni, II ed.,
Bologna, 1999, p. 44 e pp. 46-47 (mio il corsivo). Sul punto v. anche S. VENTURA, Asimmetrie, competizione
partitica e dinamiche centrifughe nelle nuove forme di Stato decentrate, in S. VENTURA (a cura di), Da Stato unitario a
Stato federale. Territorializzazione della politica, devoluzione e adattamento istituzionale in Europa, Bologna, 2008, pp.
203-204, che parla di un decentramento non «avvenuto in seguito alla politicizzazione di nazionalismi substatali», nel quale «il territorio fu comunque organizzato […] simmetricamente in venti regioni; dunque un
disegno istituzionale omogeneo emerso all’interno del patto costituente tra forze politiche nazionali».
8 R. SEGATORI, Le debolezze identitarie del regionalismo italiano, in Le istituzioni del federalismo, n. 5/6, 2010, p. 438
ss., che si richiama in particolare agli studi di D. ZIBLATT, Structuring the State. The formation of Italy and
Germany and the Puzzle of Federalism, Princeton, 2006.
9 R. SMEND, Verfassung und Verfassungrech, München-Leipzig, 1928, ed. it. Costituzione e Diritto costituzionale,
Milano, 1988, p. 186 ss.
10 B. CARAVITA DI TORITTO, Stato federale, in S. CASSESE (a cura di), Dizionario di Diritto pubblico, vol. III,
Milano, 2006, pp. 5737-5738.
11 V. F. REQUEJO – M. CAMINAL (a cura di), Federalisme i plurinacionalitat. Teoria i anàlisi de casos, Barcelona,
2009; A. G. GAGNON, Més enllà de la nació unificadora: al·legat en favor del federalisme multinalcional, Barcelona,
7
105
federalismi.it
|n. 22/2014
Al di là della utilità a fini classificatori, non è affatto scontato se (e quali) conseguenze
giuridiche possano scaturire da un siffatto inquadramento; e, tuttavia, sembra indubbio che
esso offra chiavi di lettura fondamentali per comprendere e valutare le tensioni che
attraversano gli ordinamenti statuali.
Così è, ad esempio, per le tormentate vicende dello Statuto catalano del 2006, culminate
nella sentenza del TC 31/2010: in questa pronuncia Carrillo vede il fallimento di «un nuovo
patto politico con la Spagna democratica» e il punto d’inizio delle attuali tensioni (nello
stesso senso Albertí e Matas). Lo studioso non si sofferma su specifici problemi di
costituzionalità di singole disposizioni, ma guarda piuttosto ad una serie di complesse
questioni di sistema che denotano, per il modo in cui sono state affrontate, l’idea di una
«giurisdizione costituzionale che opera come delegato del potere costituente» e non come
potere costituito, chiamato ad attenersi «al blocco di costituzionalità integrato dal binomio
Costituzione-Statuto»12.
Sempre in riferimento alla riflessione sulla specificità catalana, anche in termini di
comparazione con le vicende italiane, si segnalano alcuni passaggi offerti da Abat. L’autore,
da una parte, sottolinea le differenze (culturali, storiche, politiche) tra la realtà catalana e
quella veneta; dall’altra ritiene però che il “popolo veneto” debba vedersi legittimamente
riconosciuto il diritto a pronunciarsi sul proprio futuro politico: si critica, dunque, la scelta
del Governo italiano di impugnare, innanzi alla Corte costituzionale, la legge regionale n. 16
del 2014 (“Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto”) 13 per
2008; ID., L’Âge des incertitudes: essais sur le fédéralisme et la diversité nationale, Québec, 2011, ed. it. L’età delle
incertezze. Saggio sul federalismo e la diversità nazionale, Padova, 2013.
12 In senso analogo v. J. PÉREZ ROYO, La STC 31/2010 i la contribució de la jurisprudència constitucional a la
configuració d’un Estat compost a Espanya: elements de continuïtat i ruptura, i incidència en les perspectives d’evolució de l’Estat
autonòmic, in Revista catalana de dret públic, n. 43, 2011 (www.rcdp.cat): la sentenza sullo Statuto catalano avrebbe
«provocato una rottura del patto costituente in un elemento essenziale: quello concernente il rinnovamento
dell’unità della Spagna mediante l’esercizio del diritto all’autonomia delle nazionalità e regioni che la
compongono. […] La Costituzione della STC 31/2010 è una Costituzione mutilata, in cui è assente tutto ciò
che il Costituente ha previsto per la costruzione dello Stato autonomico e per il suo successivo rinnovamento
attraverso la disciplina giuridica di un processo di negoziazione politica in cui si concretizzi il compromesso
tra il principio di unità politica dello Stato e l’esercizio del diritto all’autonomia». Pure in questo caso la tesi
viene supportata attraverso un peculiare inquadramento dello Statuto di autonomia nel sistema delle fonti
(anche in forza del pronunciamento popolare – previo all’eventuale controllo di costituzionalità - che si ha
sullo stesso). Inquadramento verso cui è critico, ad esempio, E. FOSSAS ESPADALER, El control de
constitucionalitat dels estatuts d’autonomia, in Revista catalana de dret públic (www.rcdp.cat), n. 43, 2011, p. 21 ss., che
riconosce però il carattere fortemente problematico della questione, per la particolare forza che assume, in
ragione della conformazione del procedimento statutario, la cd. obiezione democratica.
13 In merito v. D. TRABUCCO, La Regione del Veneto tra referendum per l’indipendenza e richiesta di maggiori forme di
autonomia, in www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2014; F. CLEMENTI, Quel filo di Scozia nel vestito della
democrazia europea, in www.confronticostituzionali.eu, 1 ottobre 2014. Sia consentito anche un rinvio al mio Due
referendum non comparabili, in Quaderni costituzionali, n. 3, 2014, p. 703 ss.
106
federalismi.it
|n. 22/2014
«mettere a tacere una parte della sua popolazione». Non mancano, invero, dati di sistema
che potrebbero far dubitare di una piena sovrapponibilità, sul piano considerato, delle due
vicende: si pensi alla carica di problematicità che, nell’ordinamento italiano, si riconnette
all’idea di un “popolo regionale”14, laddove invece è la stessa Costituzione spagnola che si
riferisce, esplicitamente, ai “popoli della Spagna” (preambolo) e al concetto di “nazionalità
storiche” (art. 2). E, d’altra parte, se è indubbio che a quest’ultima nozione sia senz’altro
riconducibile la realtà catalana (in termini fattuali e giuridici), va segnalato che per la regione
italiana il nostro Costituente non ha neanche ravvisato specificità territoriali tali da rendere
opportuno un regime speciale di autonomia.
Per Abat, la differente posizione della regione italiana e della Comunità autonoma non si
lega al diverso sostrato che sorregge le rivendicazioni territoriali (una componente oggettiva
che dovrebbe affiancare quella soggettiva, per seguire la ricostruzione di Albertí); sostrato
che, dunque, almeno nella prospettiva considerata, è ritenuto privo di ricadute
sull’inquadramento giuridico dei fenomeni in atto. Ad avviso dell’autore rileva, piuttosto,
un profilo definito “procedurale”: il Veneto non avrebbe compiuto tutta una serie di
passaggi (negoziazioni con lo Stato italiano; approvazione di atti, per lo più politici, a
sostegno dell’autodeterminazione) da intendersi preliminari alla convocazione unilaterale
del referendum. Si tratta di argomenti che, probabilmente, chiamano in causa le varie teorie
politico-filosofiche sulla secessione e il differente peso che, in ciascuna di esse, è
riconosciuto alla componente volontaristica e a quella identitaria (in merito interessanti
spunti critici, da punti di vista diversi, si ritrovano nei contributi di Ferreres e Albertí).
Si può qui ricordare come, in passato, parte della dottrina italiana non abbia condiviso le
argomentazioni della Corte costituzionale tese a precludere la celebrazione di referendum
consultivi regionali, previ alla presentazione di disegni di legge di revisione. Nella pronuncia
n. 496 del 2000 si ritiene che una siffatta consultazione regionale alteri la tipicità del
procedimento di revisione, innestandovi un passaggio destinato a produrre forti vincoli alle
decisioni degli organi rappresentativi. Le principali critiche a questa decisione si sono
appuntate sul fatto che essa rinneghi, nella sostanza, la portata consultiva del referendum,
risolvendo sul piano giuridico un conflitto che avrebbe dovuto trovare risposte nella
dimensione politico-rappresentativa: per riprendere le parole di Arbós, «esprimere
un’opinione politica non equivale a decidere». Gli studiosi italiani che ragionano in questi
14
Cfr., in tema, A. MORRONE, Avanti popolo… regionale!, in Quaderni costituzionali, n. 3, 2012, pp. 615 ss.
107
federalismi.it
|n. 22/2014
termini ritengono, allo stesso tempo, che la Corte avrebbe potuto risolvere la questione
spostando la propria argomentazione su un terreno diverso, sebbene comunque
accidentato: quello relativo alla distinzione tra referendum e plebiscito, essendo
quest’ultimo precluso nel nostro ordinamento15.
Si tratta di un profilo che acquisisce senz’altro rilievo in riferimento alle vicende catalane:
che il prossimo passaggio della questione catalana sarà quello di elezioni autonomiche
qualificate, appunto, “plebiscitarie” – con formula poco felice (Abat) 16 – è ipotesi, allo
stato, tutt’altro che remota.
Anche da questo punto vista lo sforzo di contestualizzazione (e in tal senso aiutano i dati
forniti da Matas) diviene imprescindibile, se è vero che «sono il clima e l’ambiente politico
[…] che fanno la differenza […] determinando il […] destino più o meno plebiscitario» di
un referendum17. La richiesta di un voto popolare sull’indipendenza proviene da gran parte
dei partiti e dei cittadini catalani: le elezioni del 25 novembre del 2012 sono state precedute
da una campagna elettorale incentrata su questo specifico punto, sul quale i partiti hanno
dovuto assumere un chiaro posizionamento. All’esito di quelle consultazioni, le forze
politiche sostenitrici del cd. dret a decidir hanno ottenuto 87 dei 135 seggi del Parlament de
Catalunya (quasi il 65%).
Così, già quelle elezioni potrebbero considerarsi (nel senso in cui tale formula è utilizzata
nel dibattito catalano) “plebiscitarie”: non rispetto all’indipendenza ma alla convocazione di
un referendum sulla stesso. In merito due precisazioni paiono opportune.
La prima: il richiamo al fronte del dret a decidir include quei partiti disposti a sostenere tale
rivendicazione anche oltre un punto di rottura dei rapporti con le istituzioni statali (come
accaduto lo scorso 9 novembre). A questi partiti andrebbe aggiunto il PSC (forte di 20
diputats), dichiaratosi in più occasioni favorevole ad una consultazione sull’indipendenza se
concordata con il Governo statale. L’oscillazione dei socialisti catalani (su cui si sofferma
l’analisi di Matas) emerge, in effetti, in diverse vicende: la fuoriuscita di esponenti del
partito in dissenso con la linea moderata sul punto; il sostegno, nel Parlamento autonomico
Cfr. M. LUCIANI, I referendum regionali (a proposito della giurisprudenza costituzionale dell'ultimo lustro), in Le
Regioni, n 6, 2002, p. 1381 ss.; L. PEGORARO, Il referendum consultivo del Veneto: illegittimo o inopportuno?, in
Quaderni costituzionali, n. 1, 2001, p. 126 ss.
16 In tal senso cfr. anche M. DELLA MORTE, Derecho a decidir, representación política, participacíon ciudadana: un
enfoque constitucional, in L. CAPPUCCIO – M. CORRETJA (a cura di), El derecho a decidir. Un diálogo italo-catalán,
Barcelona, 2014, p. 27 ss.
17 M. LUCIANI, Art. 75. Il referendum abrogativo, in Commentario della Costituzione. La formazione delle leggi, tomo
I,2, Bologna-Roma, 2005, p. 138.
15
108
federalismi.it
|n. 22/2014
e in quello statale, ad alcune iniziative collocabili nell’orizzonte della consultazione 18 ;
l’appoggio alla votazione illegale/processo partecipativo del 9 novembre, manifestato, con
un voto in taluni casi decisivo, negli organismi comunali. Può dunque affermarsi che, dei
135 componenti del Parlament, quelli del tutto contrari al referendum siano, sulla base dei
risultati delle ultime elezioni, soltanto 28 (19 del PP e 9 di Ciutadans: il 20% circa
dell’assemblea).
Seconda precisazione (su cui si sofferma Viver): il fronte del diritto a decidere non coincide
con quello indipendentista. Al largo favore della società catalana verso il primo non può
dirsi che, allo stato, corrisponda un equivalente appoggio alla secessione. La
radicalizzazione dello scontro è apparsa a lungo legata (difficile dire se lo sia tuttora) alla
rivendicazione, mediante il referendum, di una soggettività politica della Catalogna.
Soggettività politica non destinata necessariamente ad orientarsi verso l’indipendenza ma,
quantomeno, nella direzione di un rinnovamento del patto costituente sul versante
autonomistico19.
In questo scenario, non è affatto semplice collocare una consultazione popolare (o la sua
trasfigurazione nel momento elettorale) nella dimensione del referendum o del plebiscito.
Alla difficoltà di distinguere, sul piano teorico, i due piani si aggiunge quella
dell’inquadramento dei fenomeni concreti all’interno delle categorie prefigurate in astratto20.
Già con la Resolució 5/X del Parlament de Catalunya, per la qual s’aprova la Declaració de sobirania i del dret a decidir
del Poble de Catalunya, approvata il 23 gennaio 2013, si registra la mancata partecipazione alla voto di cinque
deputati socialisti (su un totale di 20) in segno di protesta rispetto alla linea (voto contrario) decisa dal partito.
Nella sessione del 13 marzo 2013, il Parlament ha approvato, con 104 voti a favore, una risoluzione (la n.
17/X) presentata proprio dal gruppo socialista, con cui si chiede al Governo della Generalitat di «iniziare un
dialogo con il Governo statale per rendere possibile la celebrazione di una consultazione attraverso cui i
cittadini della Catalogna possano decidere il loro futuro» (Resolució 17/X del Parlament de Catalunya, sobre la
iniciació d’un diàleg amb el Govern de l’Estat per a fer possible la celebració d’una consulta sobre el futur de Catalunya). Tale
risoluzione faceva seguito a una iniziativa di analogo tenore sostenuta dai partiti catalani al Congreso de los
Diputados, nell’ambito del Debate sobre el estado de la Nación. Il 26 febbraio la proposta era stata respinta (60 voti
a favore, 270 contrari) facendo però registrare una storica rottura della disciplina di voto all’interno del
gruppo socialista: 13 deputati (su 14) del PSC si erano infatti dissociati dalla linea del PSOE. Successivamente
(8 maggio), il Parlament ha approvato la risoluzione 125/X, istitutiva di una Comissió d’Estudi del Dret a decidir,
preposta a «studiare e dare impulso a tutte le iniziative politiche e legislative che il Parlamento è chiamato ad
adottare in relazione al diritto a decidere, e ad analizzare tutte le alternative per poterlo rendere effettivo»
(Resolució 125/X del Parlament de Catalunya de creació de la Comissió d’Estudi del Dret a decidir). Anche quest’atto è
stato approvato a larghissima maggioranza (106 voti a favore) con il sostegno del PSC.
19 Il catalanismo politico mostra, sin dalle sue origini, una chiara propensione a conciliare «il diritto a decidere
in modo libero e sovrano il destino della nazione catalana» e l’esercizio «di questo diritto in una direzione
unitarista, regionalista o federale. Il fatto di affermare i diritti nazionali della Catalogna non comportava il
fatto di essere partitari della separazione o della indipendenza» (M. CAMINAL, Nacionalisme i partits nacionals a
Catalunya, Barcelona, 1998, p. 90).
20 Cfr., sul punto, le osservazioni di M. LUCIANI, Art. 75, op. cit., p. 133 ss., cui si rinvia anche per l’ampia
bibliografia citata.
18
109
federalismi.it
|n. 22/2014
Difficoltà che emergono, ad esempio, nelle ricostruzioni che provano a conciliare una
connotazione negativa del plebiscito e la sua qualificazione sulla base di elementi giuridicoformali (più o meno definiti) da un lato, con, dall’altro, il carattere non plebiscitario
predicato in rapporto al referendum istituzionale del 2 giugno 194621. Così, più coerente
appare la ricostruzione di chi, distinguendo tra plebisciti e democrazia plebiscitaria, fa rientrare
tra i primi sia il referendum del 1946 sia quello sull’indipendenza del Québec; casi nei quali
il «termine plebiscito è usato in maniera intercambiabile con quello di referendum»22.
Seguendo allora una lettura che fa leva, ai fini della distinzione in parola, sul rilievo del
concreto contesto politico, e che configura il plebiscito come rivolto alla legittimazione di una
persona o, al limite, di un partito politico o di un organo costituzionale23, le ipotetiche elezioni
plebiscitarie catalane sembrano sfuggire all’inquadramento in questo schema. La richiesta
del referendum è sostenuta, come visto, da un blocco esteso e ideologicamente trasversale
di forze politiche. Per di più, quando con le elezioni anticipate del 2012 Artur Mas ha
provato, in qualche modo, a personalizzare il processo, ne è uscito significativamente
ridimensionato. Al rafforzamento del blocco favorevole al referendum si è accompagnata
una importante perdita di seggi (12) del suo partito: legittimazione personale (o partitica) e
legittimazione del processo si sono pertanto, in quella occasione, chiaramente divaricate.
Anche recenti sondaggi mostrano che «la maggioranza degli indipendentisti catalani (quasi i
due terzi) non vota CiU» (Matas).
È pur vero che, proprio mentre si scrivono queste pagine, Artur Mas ha lanciato (25
novembre) una proposta di lista unica con cui correre in elezioni anticipate (a questo punto
imminenti: si parla di inizio 2015); qualche attento analista aveva riferito, già nelle scorse
settimane, di manovre politiche tese alla creazione di un Partito del Presidente
24
.
L’indisponibilità manifestata su tale versante, sino ad oggi, da ERC potrebbe far sì che si
conservi un’offerta partitica (pro indipendenza) variegata, che limiterebbe i rischi di
personalizzazione. Ad ogni modo, per valutare la connotazione in senso personalepresidenziale di una eventuale lista unitaria, occorrerà analizzarla nella sua concreta
strutturazione: modalità di scelta dei candidati, loro ordine di collocazione, contenuti
Cfr. M. LUCIANI, Art. 75, op. ult. cit., in particolare pp. 135-136, dove si parla, a tal proposito, di «una vera
e propria acrobazia logica».
22 P.
PASQUINO, Plebiscitarismo, in Enciclopedia delle scienze sociali, 1996, (versione online
http://www.treccani.it/enciclopedia/plebiscitarismo_(Enciclopedia_delle_scienze_sociali).
23 Cfr. M. LUCIANI, Art. 75, op. ult. cit., pp. 138-140.
24 Ci si riferisce all’articolo di Enric Juliana Empapelando, in La Vanguardia del 13 novembre 2014.
21
110
federalismi.it
|n. 22/2014
programmatici (che dovrebbero definire i passaggi che questo soggetto politico intende
compiere, in caso di esito elettorale favorevole, nella direzione dell’indipendenza).
In relazione alle questioni sin qui evocate occorre considerare, accanto al ruolo dei partiti,
quello della società civile. La mobilitazione in atto si è costruita, infatti, anche attraverso la
partecipazione di una larga fetta di cittadinanza. Lo stesso voto del 9 novembre si è mosso
sulla linea di confine che corre tra un referendum “encubierto” (Carrillo), smascherabile in
virtù del sostanziale appoggio ricevuto dalle istituzioni catalane (da qui la seconda
sospensione del TC, disattesa dalla cittadinanza e forse - in una misura che potrebbe essere
accertata giudiziariamente - dal Governo della Generalitat), e una manifestazione
dimostrativa (una sorta di rappresentazione simbolica del gesto – negato – di votare)
amministrata, per ciò che attiene alle operazioni elettorali, integralmente da volontari (oltre
40.000). Indicativo in tal senso il fatto che la Generalitat non abbia preteso di attribuire
alcuna rilevanza formale alla votazione (proprio in quanto priva delle necessarie garanzie e
controlli) ma semplicemente di considerare i dati sulla partecipazione come (ulteriore) base
politica per rinnovare la richiesta di un referendum consultivo in piena regola, concordato
con i poteri statali.
Questa interazione tra cittadini, partiti e istituzioni – sebbene abbia assunto, in questa fase
di inedita tensione territoriale, una portata peculiare – può considerarsi anch’essa
espressione, per alcuni versi, di un tratto tipico di una società caratterizzata da un fittissimo
tessuto associativo, che «nessun politico può permettersi di ignorare, perché […] alla base
della catalanità»25.
Va evidenziato, in questa cornice, il ruolo di due organizzazioni: Òmnium cultural e Assemblea
Nacional Catalana, che – da una certa fase in poi – hanno operato in strettissima sinergia,
condizionando spesso le condotte dei soggetti partitici e istituzionali (in tal senso Matas).
La prima, fondata nel 1961, conta oggi oltre 44.000 iscritti; costretta ad operare in
clandestinità negli anni del franchismo, si dedica per statuto alla promozione e alla
normalizzazione dell’identità nazionale della Catalogna. Dal 2010 – quando ha promosso
una manifestazione di protesta contro la sentenza del Tribunal constitucional sullo Statuto – la
sua connotazione politica (apartitica) si è chiaramente accentuata.
La seconda, dopo una gestazione collocabile tra il 2009 e il 2011 (quando si svolgono una
serie di consultazioni non ufficiali sull’indipendenza in numerosi comuni catalani), si
25
R. HUGHES, Barcellona, op. cit., p. 23 ss.
111
federalismi.it
|n. 22/2014
costituisce formalmente nel 2012. Oggi conta circa 80.000 iscritti (tra “aderenti” e
“simpatizzanti”) e si regge su di una struttura capillare, formata da “assemblee territoriali”
(575, di ambito comunale o, per i municipi più piccoli, sovracomunale), “assemblee
settoriali” (41: “Bibliotecari e documentalisti per l’indipendenza”, “Immigrazione per
l’indipendenza”, “Gay e lesbiche per l’indipendenza”, “Economia sociale e solidale per
l’indipendenza”, solo per citarne alcune) e “assemblee estere” (37, che raccolgono i cittadini
catalani residenti in altri Paesi: per questi, il 9 novembre, sono stati predisposti nel mondo
17 punti di votazione)26.
A ciò si aggiunga la partecipazione attivatasi, istituzionalmente, a livello comunale: il 4
ottobre, 920 sindaci (su 947 municipi catalani: oltre il 97%) hanno consegnato al Presidente
della Generalitat le mozioni adottate dagli organismi comunali (in molti casi, come segnalato,
con l’appoggio di esponenti del PSC) a sostegno della consultazione del 9 novembre,
attestando – nonostante la (prima) sospensione del TC – la disponibilità ad offrire il
supporto logistico-organizzativo necessario per la votazione. La Associació de Municipis per la
Independència (AMI) riunisce 706 comuni (quasi il 75% del totale): si tenga conto che, ai fini
dell’adesione a questa associazione, è richiesta una deliberazione a maggioranza assoluta
dell’organo rappresentativo (Ple del Ajuntament) dell’ente locale.
Emerge, dunque, uno scenario di grande complessità, che richiederebbe un’analisi
approfondita e di taglio multidisciplinare: se esso assume rilievo, principalmente, sul piano
politico-sociologico, non può non riflettersi anche sulle dinamiche della rappresentanza e
della partecipazione, sul rapporto tra le due dimensioni e su quello tra partiti, cittadini e
istituzioni.
Qualunque sia la valutazione che si intenda dare dei fenomeni cui si è accennato, la loro
considerazione appare indispensabile per il compiuto inquadramento delle vicende in atto.
Non mancano, nel dibattito spagnolo, opinioni tese a ridimensionare drasticamente la
portata delle istanze di partecipazione e di rivendicazione sociale - oltre che nazionale - che
queste realtà ritengono di esprimere. A tal fine si evoca spesso la formula indistinta del
populismo; dimenticando, forse, che questo può rappresentare al limite una
«manifestazione – la “febbre” – della malattia che colpisce la democrazia, cioè la carenza
La mobilitazione civica, parallela o sovrapposta a quella dei partiti nazionalisti (anche nelle fasi storiche in
cui viene ancora definendosi la loro precisa fisionomia) è un altro fenomeno piuttosto ricorrente nella storia
del catalanismo, soprattutto nelle fasi in cui ritiene minacciato il sentimento nazionale. Si consideri, in tal
senso, l’esperienza del Centre Català (1882), di fondamentale impulso per lo sviluppo del movimento
catalanista, e di Solidaritat Catalana (1906). Sul punto cfr. M. CAMINAL, Nacionalisme, op. cit., p. 85 ss.
26
112
federalismi.it
|n. 22/2014
della presenza popolare in quello che dovrebbe essere il suo habitat naturale»27; e che «gli
argomenti del populismo […] non possono rimanere senza risposta. […] La febbre
populista è probabilmente un indicatore di una democrazia sofferente»28. Se ciò è vero, può
rivelarsi miope una strategia che continui a reprimere il sintomo senza interrogarsi e agire
sulla causa del male.
Si ritorna, così, ad una delle questioni chiave evidenziate, lucidamente, da alcuni degli
interpellati (Albertì e Viver): «se lo Stato di diritto si difenda più efficacemente incanalando
questi fenomeni sociali nei percorsi legali esistenti, interpretandoli, fin dove possibile, in
maniera conforme alle esigenze che discendono dai principi democratici; o se sia preferibile
utilizzare il diritto come muro di contenimento di tali rivendicazioni» (Viver).
Y. MÉNY – Y. SUREL, Par le peuple, pour le peuple, Paris, 2000, ed. it. Populismo e democrazia, Bologna, 2004,
p. 26.
28 Y. MÉNY – Y. SUREL, Par le peuple, op. cit., p. 60.
27
113
federalismi.it
|n. 22/2014