newsletter 32-2013
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N NE EW WS SL LE ET TT TE ER R3 32 2--2 20 01 13 3 (www.eltamiso.it) ________________________________________________ NOTIZIE DALL’EUROPA E DAL MONDO IN FRANCIA NON C’È PIÙ SPERIMENTAZIONE DI OGM IN CAMPO L’ultima coltivazione sperimentale di OGM in campo in Francia è stata fermata. L’Istituto nazionale di ricerca agronomica (INRA) ha posto fine al suo esperimento, sabato 13 luglio, distruggendo i 1.000 pioppi geneticamente modificati che crescevano dal 1995 a Saint-Cyr-enVal, vicino a Orleans (Loiret), in un sito sperimentale di 1.300 metri quadrati. Le proprietà di questo albero transgenico sono state studiate per migliorare la produzione di pasta di legno e, dal 2007, per tentare di produrre, a partire dalla biomassa dei pioppi, biocarburanti di seconda generazione come il bioetanolo. Motivo della decisione di fermare tutto: l’assenza dell’autorizzazione del governo per la prosecuzione dei lavori scientifici. “In considerazione dei termini di istruzione della domanda di rinnovo dell’esperimento, dei particolari eventi climatici della primavera 2013 e la loro influenza sulla sperimentazione, e in assenza dell’autorizzazione attesa, l’INRA ha dovuto decidere venerdì 12 luglio di devitalizzare definitivamente i pioppi geneticamente modificati”, precisa l’Istituto. Per quale motivo l’INRA non ha ottenuto il rinnovo di un’autorizzazione di sperimentazione che decorreva da cinque anni, dal 2007 al 2012? Primo problema: “Abbiamo presentato il dossier troppo tardi", ammette Olivier Le Galla, direttore generale delegato dell’INRA. (…). L’organizzazione ha depositato, infatti, la domanda il 20 dicembre, ovvero 11 giorni prima della scadenza dell’autorizzazione corrente. Tuttavia, il dossier deve essere sottoposto al parere dal Comitato scientifico e dal Comitato economico, etico e sociale (CEES) dell’Alto consiglio delle biotecnologie (HCB), prima di un esame pubblico, cui deve seguire la decisione finale congiunta dei ministri dell’ambiente e dell’agricoltura. Un processo lungo, almeno 90 giorni. Parallelamente, il dossier viene ulteriormente ritardato [dai pareri scientifici]. L’Alto consiglio delle biotecnologie è diviso: il suo comitato scientifico conclude che non c'è pericolo per la salute umana o per l’ambiente, mentre il Comitato economico, etico e sociale (CEES) ritiene che la ricerca non debba essere condotta e denuncia “obiettivi mal definiti, un’argomentazione debole e un’utilità collettiva limitata”. Il CEES si interroga soprattutto sugli sbocchi economici di questi test. In effetti, in diciotto anni, le ricerche dell’INRA sono state oggetto di una quindicina di pubblicazioni scientifiche, ma non hanno mai portato ad alcuna applicazione industriale dato che nessun partner economico si e’ finora mostrato interessato. "Il nostro lavoro era a monte [delle applicazioni industriali]", ribatte Gilles Pilate, direttore dell’unita’ di Miglioramento genetico e fisiologico forestale e responsabile delle prove in campo. “Abbiamo fatto della ricerca fondamentale sulla lignocellulosa, per capire come separare la lignina dalla cellulosa per le applicazioni. Ma queste ultime non erano sotto la nostra responsabilità”, aggiunge. “L’esperimento cominciava a produrre risultati. Ma ci sarebbero voluti quindici anni di più, gli alberi dell’esperimento erano stati rinnovati nel 2007. Occorreva attendere che il ceppo crescesse”, precisa Olivier Le Gall. Infine, venerdì 12 luglio, il dossier si è ritrovato in situazione di stallo con i ministri dell’agricoltura e dell’ecologia che non riuscivano a mettersi d’accordo: il primo voleva il proseguimento della ricerca, mentre il secondo ne chiedeva il fermo. Data la mancanza di decisione, l’INRA ha deciso di propria iniziativa l'interruzione dell’esperimento. Così dal territorio francese gli OGM sono spariti del tutto. (fonte: Le Monde, Agra Press, Bioagricoltura Notizie) (dal Bollettino Bio di Greenplanet - agosto 2013) REGIONE VENETO: INTERROGAZIONE SULL'ACQUA DI COCA-COLA Dopo l'inchiesta di Altreconomia sulla filiale italiana della multinazionale delle bibite (guarda il video), un consigliere regionale interroga la Giunta sui canoni irrisori corrisposti dalla società per la risorsa prelevata all'interno dello stabilimento di Nogara, nel veronese Dopo l'inchiesta di Altreconomia, che a giugno 2013 ha messo in luce i canoni corrisposti da Coca-Cola HBC Italia alla Regione Veneto, 13.406 euro per circa 1,3 miliardi di litri, Pietrangelo Pettenò, consigliere regionale, ha presentato una interrogazione alla Giunta, chiedendo di convocare la commissione Attività produttive per affrontare il "nodo" delle concessioni. Riceviamo e pubblichiamo il comunicato stampa diffuso dalla Federazione della Sinistra Veneta. Perché una multinazionale come la Coca-Cola, che in Italia ha il suo principale stabilimento a Nogara (in provincia di Verona), non paga alla Regione Veneto la tassa di imbottigliamento per i milioni di metri cubi d’acqua che ogni giorno attinge dalle falde? Ad accendere i riflettori sul caso Coca-Cola che, a differenza di altre multinazionali presenti in Regione, non risulta pagare la tassa regionale di un euro a metro cubo (1,5 euro se imbottigliata in contenitori di plastica o lattina) per i quasi 1,4 miliardi di litri d’acqua prelevati e imbottigliati ogni anno, è il consigliere regionale Pietrangelo Pettenò, rappresentante della Federazione della Sinistra Veneta. Prendendo spunto da una dettagliata inchiesta di Luca Martinelli, pubblicata sul numero di giugno 2013 della rivista “AltrEconomia”, Pettenò interroga la Giunta veneta per verificare se davvero il gigante mondiale delle bibite in bottiglia prelevi l’acqua dalle falde venete senza pagare l’obolo regionale imposto per legge (LR 40/1989 e successive modifiche) a tutti i produttori di acque minerali e bibite, e si limiti quindi a pagare per i 4 pozzi che attingono l’acqua ‘pubblica’ dal Basso Veronese un mero canone di concessione di 14 mila euro l’anno. “Se a consumare un analogo quantitativo d’acqua (1,3 miliardi di litri l’anno) fosse un comune cittadino della provincia di Verona – calcola Pettenò - dovrebbe pagare una bolletta di 600 mila euro, cioè almeno 43 volte di più della Coca Cola HBC Italia”. A riprova dello ‘strano sconto’ di cui sembra beneficiare la Coca Cola HBC Italia, Pettenò cita la delibera di Giunta che a fine anno ripartisce i proventi della tassa regionale sull’imbottigliato tra i comuni sede degli impianti di emungimento e i loro contermini: “Controllando l’elenco dei destinatari dei fondi 2012 (in totale ammontano a 1 milione e 240 mila euro) – spiega Pettenò – si leggono i comuni di Scorzè, San Giorgio in Bosco, Recoaro Terme, Pasina, Torrebelvicino e Valli del Pasubio, tutti sedi di stabilimenti che producono e commercializzano acque in bottiglia e bibite varie, ma non compare Nogara, dove ha sede il più grande stabilimento italiano della Coca Cola. A titolo di comparazione il Comune veneziano di Scorzè, dove ha sede la San Benedetto, ha ricevuto quasi mezzo milione di euro per i litri d’acqua (1,4 milioni nel 2011) che sono stati attinti dal suo sottosuolo e imbottigliati”. Il consigliere regionale vuole vederci chiaro e ha chiesto che la Commissione Attività Produttive del Consiglio veneto convochi il Genio civile di Verona e il Comune di Nogara per capire come mai la Coca-Cola Italia non paga il contributo regionale per l’utilizzo della risorsa idrica. Chiede poi alla Giunta e agli uffici regionali di calcolare esattamente il canone dovuto per l’imbottigliato, recuperando le annate pregresse. Infine, invita la Giunta a rivedere le agevolazioni tariffarie previste nel 2012 sull’imbottigliato e ad adeguare gli “irrisori” canoni di concessione per l’uso dell’acqua pubblica. “Ritengo scandaloso – conclude Pettenò – che una multinazionale possa sfruttare praticamente gratis le risorse della nostra regione, conseguendo profitti miliardari e non portando alcun beneficio al Veneto, anzi peggiorando e precarizzando le condizioni di lavoro, come vanno denunciando le rappresentanze sindacali dei lavoratori della logistica che lavorano nello stabilimento di Nogara”. (da Altreconomia - luglio 2013) PAESI DELL’EURO, PERSI MILIONI DI POSTI DI LAVORO. IN GERMANIA NO! In cinque anni di crisi in Italia sono andati persi quasi un milione di posti di lavoro. Dal 2008 al 2013 nel nostro Paese gli occupati sono scesi da 25,3 milioni a 24,3 milioni con un calo di 998mila unità (-3,8%). Nell’area euro l’occupazione é risultata in caduta del 3,6%, da 150,4 milioni a 145 milioni. Unica eccezione é la Germania (+3,9%) che ha dato impiego a 1,6 milioni di persone in più (da 40,2 milioni a 41,8 milioni). Questi i dati principali di un rapporto del Centro studi Unimpresa che ha analizzato l’andamento del mercato del lavoro in Italia e nell’area euro dal primo trimestre 2008 al primo trimestre 2013.- L’analisi di Unimpresa, basata su dati Banca d’Italia, Eurostat e Istat, mette in luce che nell’area euro (Unione europea a 17) l’occupazione e’ calata complessivamente da 150,4 milioni a 145 milioni: i posti di lavoro in meno pertanto sono oltre 5 milioni (-3,6%). Dentro i nostri confini, in media si sono persi 200mila posti di lavoro l’anno. Gli occupati erano 25,3 milioni all’inizio del 2008 mentre gia’ all’inizio del 2009 (primo trimestre) erano calati a quota 25,1 milioni. Ancora una diminuzione nel 2010 (primo trimestre) a 24 milioni e 716mila unita’, poi una lieve ripresa a inizio 2011 a 24 milioni e 754mila unita’. Si torna nel baratro a inizio 2012 con gli occupati in discesa a 24,6 milioni. L’ultima istantanea, primo trimestre 2013, restituisce una fotografia a tinte fosche: i posti di lavoro sono 24,3 milioni e rispetto all’inizio della crisi (primo trimestre 2008) sono andati persi, dunque, 998mila posti di lavoro con un calo percentuale pari al 3,9%. Non solo l’Italia, comunque, vede diminuire l’area dell’occupazione. Fra i principali paesi che adottano la moneta unica, il quadro é negativo anche in Francia e Spagna. Nel dettaglio, in Francia i posti di lavoro persi sono 277mila (-1%). In caduta libera l’occupazione in Spagna che ha assistito a un crollo della forza lavoro: gli occupati in meno sono 3,8 milioni (-17,9%). In controtendenza la Germania: l’occupazione tedesca, nonostante la crisi finanziaria internazionale e la recessione che ha colpito l’Europa, e’ aumentata del 3,9% da 40,2 milioni a 41,8 milioni con una crescita di 1,6 milioni di posti di lavoro. (da Rischio Calcolato - luglio 2013) NASCE FARMERY, UN SUPERMERCATO A CHILOMETRO ZERO È stato ideato dal designer industriale Ben Greene un supermercato per dare un’alternativa alle persone che acquistano la maggior parte dei loro prodotti lungo i corridoi illuminati dei supermercati della grande distribuzione e offrir loro l’aria fresca di un mercato contadino. Tutto ad un tratto ci si ritrova di fronte persone che vivono a contatto con la natura, a cui piace discutere dei vari modi per stufare le bietole. Sebbene cresca in modo costante l’interesse generale sulla provenienza degli alimenti, acquistare direttamente dal produttore è ancora considerato pur sempre un privilegio. Il designer industriale Ben Greene sta cercando di accorciare ulteriormente questo divario (produttore-consumatore) con il progetto della Farmery, una serra e un supermercato di prodotti locali “tutto in uno” che offrirà ai consumatori metropolitani la possibilità di raccogliere le verdure che preferiscono direttamente sul luogo di vendita. Il designer, cresciuto in una fattoria sperduta della Contea di Polk del North Carolina, ha dato vita al suo desiderio di sviluppare un modello di business proficuo nell’ambito della coltivazione su piccola scala sia per i coltivatori che per i rivenditori. La realizzazione del suo progetto è stato il frutto di un processo durato cinque anni di lavoro, anche grazie al supporto di Tyler Nethers, uno specialista in riproduzione vegetale, e dell’imprenditore Jeff Curran. Entrambi hanno intrapreso, grazie ad un occhio attento, le azioni necessarie per mettere a frutto le possibilità fornite dai sistemi agro-alimentari moderni. «Era evidente che non c’erano molti miglioramenti da fare in fattoria», dice. «Ma il percorso che i commercianti hanno dovuto intraprendere è stato molto poco efficiente per loro. Così ho deciso di scartare le parti del percorso che avrebbero interessato meno ai clienti, ovvero trasporto e distribuzione». Al Farmery, spedizione, imballaggio e movimentazione vengono eliminati a favore dell’acquisto diretto sul campo. Una serie di contenitori impilati di spedizione, pannelli verticali per la coltivazione e tecnologia idroponica si uniscono per formare un’esperienza di shopping alternativo. Le varie aree climatizzate sono attrezzate per sostenere la coltivazione di piccoli ortaggi, una “coltura ad alto valore”, dice Greene, così come lattughe, fragole, peperoncino nano ed erbe che i clienti possono scegliere da sé, oltre allo shiitake, ostriche e funghi di stagione confezionati. Promuovere questo intimo rapporto con il cibo servirà non solo a migliorare l’esperienza, ma anche ad aumentare la consapevolezza di come le cose si sviluppano. Greene prevede che metà delle entrate proverranno grazie a questo sistema del “u-pick” (tu scegli), insieme alla vendita dei prodotti locali, artigianali forniti in loco; tutto ciò nell’ottica di stimolare il senso di comunità nel bel mezzo di una metropoli movimentata. Per quanto riguarda la creazione dello spazio fisico in sé, Greene sta ancora mettendo a punto il progetto, ma si considera fortunato per quanto riguarda la sua originale varietà di merce. «La cosa meravigliosa dell’agricoltura è che non c’è bisogno di sforzarti per far sembrare qualcosa che sembri bello. Basta appena concentrarsi su come poter rendere il sistema sempre più efficiente sulla base di quello che lo spazio permette di fare», dice «anche se ci saranno ampie opportunità di sviluppare schermi personalizzati e grafica». Ci sono attualmente due prototipi di negozio già attivi nel North Carolina, completi di tetti ricoperti di piante di girasole. E ora, dopo quattro mesi di contrattazione, Greene e il suo team hanno ottenuto la concessione da parte del Comune per poter edificare la mini-Farmery a pochi metri dal centro di Durham, proprio di fronte al quartier generale di Burt’s Bees. (Fonte: http://modernfarmer.com, http://www.thefarmery.com/) (da Il Mangiabio di AIAB - agosto 2013) CONSUMO DI SUOLO: IL 55% DELLE COSTE ITALIANE DIVORATE DAL CEMENTO Come stanno le coste italiane? In affanno. Negli ultimi 28 anni, dal 1985 ad oggi, malgrado i vincoli della Legge Galasso, sono stati divorati dal cemento ben 160 chilometri di litorali. È il drammatico bilancio emerso dal dossier di Legambiente “Salviamo le coste italiane”, che ha analizzato regione per regione il consumo delle aree costiere. Un dato su tutti: su 1.800 km di coste analizzate in 8 regioni italiane tra Adriatico e Tirreno, oltre il 55% sono state trasformate dall’urbanizzazione. Attraverso un lavoro di analisi e confronto delle foto satellitari, l'associazione ha fatto il punto della situazione, scoprendo che tra le 8 regioni analizzate, ossia Abruzzo, Campania, Emilia-Romagna, Lazio, Marche, Molise, Sicilia e Veneto, il record negativo va all'Abruzzo e al Lazio con il 63% di coste trasformate. Qui si salva solo un terzo dei paesaggi mentre tutto il resto è occupato da palazzi, ville, alberghi e porti. Non va bene neanche in EmiliaRomagna (58,1%), in Sicilia (57,7%) e nelle Marche (54,4%), seguite da Campania (50,3%), Molise (48,6%) e Veneto (36%). In quest'ultimo caso, l'urbanizzazione ha avuto come freno il delta del Po e il sistema lagunare. Nel complesso, è la costa Tirrenica ad avere i dati più allarmanti, con quasi 120 km tra il 1988 ed 2011di costa con paesaggi naturali e agricoli cancellati nelle regioni analizzate, con un aumento del 10,3% di consumo delle aree costiere. Un po' di numeri: Abruzzo e Lazio hanno conquistato la maglia nera con oltre il 63% di coste trasformate. In particolare in Abruzzo sono ben 91 i km di costa irreversibilmente modificati rispetto ad un totale di 143 km. Tra le infrastrutture, nate o ampliatesi negli anni scorsi, spiccano i porti di Pescara, Giulianova, Ortona e Vasto. Ma qui l'aspetto più impressionante è che il paesaggio costiero "ancora" libero sia protetto solo parzialmente. Anche le coste del Lazio soffrono. Qui su un totale di 329 km, 208 km risultano essere trasformati ad usi urbani e infrastrutturali. Senza contare che l'urbanizzazione realizzata successivamente all'entrata in vigore della Legge Galasso ha portato alla cancellazione di ben 41 km di costa. Passando alle altre regioni, in Emilia Romagna il 58,1% delle coste sono state trasformare e 140km totali di costa ben 82 km sono stati urbanizzati sui 141 totali. In particolare da Cesena a Cattolica, tra il 1988 ed il 2011, si è registrato un aumento di costruzioni anche alle spalle della linea costiera. Male anche in Sicilia, nelle Marche e in Campania, dove sono stati mangiati rispettivamente il 57,7%, il 54,4% e il 50,3% di coste totali. In particolare in Sicilia emblematico è il caso del tratto tra Fiume Grande e Capo, nei pressi di Cefalù, in precedenza caratterizzato da aree verdi. Infine, il Veneto ha il 36% di coste mangiate dal cemento, un dato molto più basso rispetto alle altre regioni, grazie alla laguna veneta e al delta del Po che hanno limitato l'espansione del cemento. “La fotografia scattata da Legambiente evidenza un quadro preoccupante, una deriva pericolosa che non trova, al momento, ostacoli efficaci né nella legislazione né nelle volontà politiche degli amministratori locali – ha detto il presidente nazionale di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza - I risultati che emergono dal dossier evidenziano non solo come continui la pressione delle speculazioni in tanti luoghi di straordinaria bellezza, ma che esiste un grave problema di tutela che riguarda vincoli, piani e sistemi di controllo. La preoccupazione aumenta se si pensa poi alla crescente esposizione al rischio idrogeologico che questa situazione fa emergere e se si considera che l'esplosione dell'occupazione delle coste con il cemento in molte parti d'Italia avviene in assoluto rispetto della legalità". Clicca QUI per la mappa interattiva (da Greenme.it - agosto 2013) COSA PERDIAMO SENZA GEOGRAFIA Mariastella Gelmini nipotina prediletta caricaturale di certe distorsioni della nostra cultura, e un'istruzione sganciata dalla realtà territoriale, sociale, ed economica. Dalle mie parti, per indicare qualcuno su cui non è possibile fare affidamento, sulla cui opinione è meglio non contare, si dice che “non sa da che parte è girato”, ed espressioni simili ci sono in altre lingue, come lo spagnolo “no saben donde están parados”. Pare che il buon senso popolare opponga un'inappellabile diffidenza verso chi non si sa orientare nello spazio. Non conosce i posti in cui si trova, non riconosce i riferimenti di base quando li vede. Si è appena chiuso il quarto anno scolastico dopo il cosiddetto “Riordino Gelmini” e il prossimo anno sarà quello in cui si diplomeranno i primi ignoranti autorizzati in fatto di geografia. È una cosa a cui penso spesso nei miei tanti viaggi. Penso a quanto oggi è possibile sapere e conoscere, di un territorio, anche senza spostarsi. Però... Internet certamente è una risorsa preziosa, la globalizzazione ci ha consentito l'accesso a una mole di informazioni che a volte persino intimidisce. Ma avere l'accesso alle informazioni non significa, di per sé, acquisire competenze. Per quelle ci vuole un processo più lungo e possibilmente ben guidato, che si chiama, genericamente, scuola. E invece molti studenti, e purtroppo ormai anche tanti adulti, quando si parla di geografia dicono cose tipo: «Perché studiare geografia? Quello che hai bisogno di sapere te lo può dire un navigatore satellitare». Uno degli effetti indesiderati di un'acritica tendenza alla sempre maggiore velocità è una certa qual cialtronaggine del pensiero, che porta a considerare appaiabili concetti e idee che nei fatti sono ben distinti. Occorre ormai un certo sforzo intellettuale per ricordarsi costantemente che c'è differenza tra parlare (o scrivere) e comunicare, tra presenziare e partecipare, tra spostarsi e viaggiare. Forse è proprio a causa della forzata sinonimia tra questi ultimi due termini che l'allora ministro per l'Istruzione, Maria Stella Gelmini, decise, nel 2008,di varare il cosiddetto “riordino” che, a partire dal 2009, fece sostanzialmente sparire l'insegnamento della geografia dalle scuole superiori. Detto così forse è fuorviante e potrebbe sembrare che il provvedimento non sia stato guidato da precisi criteri. Invece si sono fatti dei distinguo, e vale la pena sottolinearli. Licei: l’insegnamento della geografia non esiste più in forma autonoma; è accorpato con “storia” (3 ore settimanali), ed è affidato a non specialisti. Istituti tecnici commerciali: la materia, che prima si studiava solo nel triennio, ora si studia solo nel biennio. Quindi un anno in meno. Nel triennio si fa poi “Relazioni internazionali” e “Geopolitica”, a cura degli insegnanti di diritto e di Economia aziendale. Istituti tecnici e professionali: non si fa più geografia nel biennio (che ora però è parte dell'obbligo scolastico). Istituti nautici, professionali per il turismo e alberghieri: udite udite, l'insegnamento della geografia è stato semplicemente eliminato. È da quest'ultima informazione che parte lo sbigottimento: siamo un paese che regge una buona parte della sua economia sulle produzioni agroalimentari di qualità, le quali sono legate a specifici territori, e sia per questa peculiarità sia per lo straordinario patrimonio artistico siamo anche un paese che basa sul turismo un'altra bella fetta di Pil, e noi cosa facciamo? Perché lavoriamo per far sì che le prossime generazioni di operatori turistici e alberghieri non solo non colgano le peculiarità culturali di chi arriva, ma non sappiamo nemmeno presentare quelle dei territori in cui lavorano? E come se non bastasse, sforneremo anche liceali ignoranti in geografia, i quali andranno all'università e poi faranno carriera e poi alcuni di loro diventeranno ministri, magari dell'Agricoltura, o dei Beni culturali. E a proposito di ministeri: più o meno nello stesso momento in cui la Gelmini varava il riordino, nasceva, ad opera del ministero dell'Agricoltura, la Rete rurale nazionale, un coordinamento di attori istituzionali e della società civile che porta avanti la riflessione sullo sviluppo rurale partendo dal principio sacrosanto che non esiste una ricetta unica, ma ce ne sono tante quanti sono i territori, con le loro caratteristiche fisiche e culturali. Era, ed è, una buona idea; peccato che a minarla alla base stessa del suo senso sia proprio l'opera di un ministro del medesimo governo. Chi si occupa di agricoltura e di ruralità sa, infatti, che i territori si raccontano attraverso i prodotti, ma quei racconti bisogna saperli ascoltare, bisogna conoscere la lingua che i prodotti parlano. È una lingua fatta di climi, composizioni del suolo, storie economiche e sociali, guerre, religioni. Il successo dei mercati contadini, così come quello di eventi come il Salone del Gusto o Cheese sta nel fatto che l'assaggio di un prodotto, la conversazione con il suo artefice sono le chiavi per aprire porte di territori da esplorare. Ma come si potrà in futuro raccontare le peculiarità dei pascoli lucani, se chi ascolta farà fatica a ricordare dove si trova la Basilicata? La nuova ministra per l'educazione vorrà porre rimedio a quel “riordino”? Si torni a studiare la geografia nelle scuole, e si affidi questo insegnamento a docenti preparati. Perché di gente che “non sa da che parte è girata” ne abbiamo intorno a sufficienza. (scritto da Carlo Petrini su Repubblica - agosto 2013) LA TALPA È ARRIVATA A CHIOMONTE Come nella trama di un film di spionaggio, le ultime due settimane di luglio in Val di Susa sono state utilizzate con destrezza dalla mafia del TAV (con forze dell'ordine, magistratura e pennivendoli in prima linea) per raggiungere uno scopo ben preciso: portare a Chiomonte la talpa deputata allo scavo del tunnel, senza dover fare i conti con la contestazione che prevedibilmente sarebbe scaturita da questo gesto. Purtroppo ci sono riusciti, ma è interessante riepilogare come.... La notte del 19 luglio, un abbastanza folto gruppo di manifestanti NO TAV, protesta (come accaduto decine di volte negli ultimi anni) dinanzi alle reti del cantiere fortino di Chiomonte. Vengono lanciati petardi e fuochi d'artificio, contrastati da una fitta pioggia di lacrimogeni. Forze dell'ordine e manifestanti vengono in qualche caso a contatto, con la conseguenza di qualche ferito lieve ed alcuni fermi a carico dei NO TAV. Niente di trascendentale, a grandi linee la fotocopia delle scaramucce ripetutesi moltissime volte da quando esiste il cantiere, spesso documentate solamente nei trafiletti dell'Ansa. Ciò nonostante tutti i grandi giornali danno (contrariamente a quanto avviene di solito) grande rilevanza all'episodio, parlando di guerriglia selvaggia e violenta battaglia, condotta con armi ed esplosivi di ogni genere. Coadiuvati da personaggi di grosso calibro del governo, Alfano e Lupi su tutti, che curiosamente si spendono per commentare la vicenda e condannare la violenza ormai secondo loro dilagante in Val di Susa. All'alba di Lunedì 29 luglio, la DIGOS compie perquisizioni in alcune abitazioni valsusine e di Torino, procedendo alla denuncia di 12 NO TAV per i reati di terrorismo ed eversione che ben poco hanno a che fare con la lotta che da vent'anni i valsusini conducono contro l'alta velocità. La notte del 30 luglio, mentre tutto il popolo NO TAV è impegnato in vari punti della Valle, nella gestione di presidi volti a contestare i deliranti capi d'imputazione sollevati dalla magistratura, le forze dell'ordine salgono in massa a Chiomonte percorrendo l'autostrada e calano nel cantiere fortino, dal viadotto sovrastante, la talpa che procederà a bucare la montagna. Agendo praticamente indisturbati e senza che al mattino i giornali lascino trapelare la minima notizia riguardo a quanto accaduto. Senza dubbio un'operazione studiata fin nei minimi particolari e perfettamente riuscita, soprattutto se adesso che i giochi sono fatti, la Valle si rivelerà incapace di rispondere adeguatamente, facendo sentire la propria voce. (scritto da Marco Cedolin su Il Corrosivo - luglio 2013) SOLAR STEAM: IL SOLARE TERMICO CHE RENDE L’ACQUA POTABILE Buone notizie per la Rice University e per i paesi in via di sviluppo: la Bill and Melinda Gates Foundation ha deciso di finanziare il progetto del Solar Steam, un concentratore solare termico utile a produrre energia elettrica, o a sterilizzare pipì e pupù... L'entità del finanziamento non è nota, ma la notizia è stata diffusa dalla stessa Rice University: la fondazione Gates finanzierà il Solar Steam, invenzione in grado di sterilizzare l'acqua in maniera gratuita e voloce depurandola e trasformandola in vapore. Il meccanismo, tutto sommato, non è complesso: una parabola a specchio concentra la luce del sole su un "occhio" che contiene delle nanoparticelle in grado di catturare gran parte della radiazione luminosa, sia quella visibile che quella invisibile, e di riscaldarsi molto velocemente. Il calore accumulato, molto, trasforma in fretta l'acqua in vapore sterilizzandola. Nei primi test, durante i quali è stata utilizzata acqua di autoclave non purificata, il Solar Steam è stato in grado di distruggere batteri, virus e spore con ottimi risultati. Questa tecnologia, messa a punto da studenti e laureati della Rice University, potrebbe aiutare 2,5 miliardi di persone a purificare l'acqua contenuta nei rifiuti biologici umani e a trasformarla in normale acqua potabile. Una vera rivoluzione per i villaggi rurali dell'Africa, dell'India o delle altre parti del mondo dove la cosiddetta "civiltà moderna" non è ancora arrivata. Ma, potenzialmente, ci potrebbero essere anche altri usi per il Solar Steam: come tutti i sistemi solari termici a concentrazione che producono vapore, infatti, oltre che per sterilizzare potrebbe essere usato anche per produrre energia elettrica. E anche con ottimi rendimenti: fino al 24%, spiegano quelli della Rice, contro un'efficienza media del 15% del fotovoltaico. Forse anche per questo la fondazione Gates ha deciso di mettere un po' di soldi in questo progetto... (da Greenme.it - agosto 2013) CON LA DIMINUZIONE DELLE FARFALLE GRAVI CONSEGUENZE PER LA BIODIVERSITÀ Diminuite del 50% in 20 anni a causa dell'agricoltura intensiva e dei pesticidi Non sono solo le api ad essere minacciate dai pesticidi, secondo un rapporto dell'Agenzia europea dell'Ambiente, tra le specie a rischio ci sono anche le farfalle, diminuite quasi del 50% tra il 1990 ed il 2011. L'indagine é stata fatta prendendo in considerazione 17 specie di lepidotteri, di 10 di queste se ne é potuta constatare una forte diminuzione causata dalla agricoltura intensiva e dall'incapacità, sostiene il rapporto, di gestire gli ecosistemi dei pascoli. La diminuzione delle farfalle, così come quella delle api, potrebbe avere drammatiche conseguenze sulla biodiversità del vecchio continente. Secondo Hans Bruyninckx, direttore esecutivo dell'AEA, “il drammatico declino delle farfalle deve suonare come un campanello di allarme sul deterioramento dell'habitat dei prati: corriamo il rischio di perdere per sempre molte specie di insetti che svolgono un ruolo fondamentale per l'impollinazione degli ecosistemi naturali ed agricoli”. Le farfalle, dopo gli uccelli, sono un elemento fondamentale per la misurazione dello stato della biodiversità, le specie più minacciate, riferisce il rapporto sono la Polyommatus Icarus (nota come il blu comune), che é diminuita in modo significativo, la Euphydryas aurinia, già inclusa nella Direttiva habitat come specie a rischio e la Anthocharis cardamines. La diminuzione delle farfalle é principalmente causata dalla intensificazione dell'agricoltura che ha creato vaste praterie uniformi che non forniscono l'habitat naturale per questi insetti, mettendo a rischio la loro sopravvivenza. Tra gli imputati naturalmente ci sono anche i pesticidi, componente importante dell'agricoltura intensiva. (da Adnkronos - luglio 2013) LA CAFFETTIERA PERFETTA: UN ESPRESSO DI CASA BUONO COME QUELLO DEL BAR, SENZA CIALDE NÉ CAPSULE. Nino Santoro, messinese, ha inventato Kamira, moka artigianale, economica ed ecologica, presentata a “Fa' la cosa giusta! Sicilia”. Ha le mani rugose di chi lavora l'acciaio e negli occhi la passione di chi ha fatto di un hobby il suo lavoro. Nino Santoro, messinese, 15 anni fa ha lasciato il suo lavoro da commerciante per una sfida: provare a produrre una macchinetta del caffè in grado di fare in casa un espresso cremoso come quello del bar, ma senza cialde o capsule. "Le tradizionali macchinette con gli anni pongono dei problemi di manutenzione e spesso si ottura il filtro - spiega Santoro - impiegano tanto tempo per entrare in funzione, facendo spendere in bolletta e costringono all'uso delle cialde". E allora, complici un passato da studente all'istituto industriale e la passione per il consumo di caffè, Nino ha iniziato a trasformare la terrazza di casa sua in officina dove segare e assemblare le vecchie moka per trasformarle in nuove macchine da far andare col caffè sfuso. Dai suoi esperimenti, messi a punto anche utilizzando le moka degli amici, é nata 'Kamira', un dispositivo brevettato non soggetto a usura, in acciaio, garantito per 5 anni e che rispetta l'ambiente, perché fa a meno delle costose cialde ma utilizza le miscele macinate di proprio gusto e funziona su qualsiasi fonte di calore, dalla piastra alla brace al fornello a gas, in modo da essere portata sia in ufficio che in campeggio o in barca, oltre che a casa. "Normalmente la pressione delle macchine da bar é molto elevata, 15 atmosfere, mentre Kamira lavora ad appena 3, garantendo anche maggiore sicurezza nell'uso domestico. L'utilizzo di caffè sfuso permette anche di risparmiare - aggiunge - qui in fiera abbiamo utilizzato mezzo chilo di caffè della grande distribuzione a due euro, per cui con poco più di due centesimi viene un ottimo caffè. E, oltre a rispettare l'ambiente, il vantaggio é soprattutto nel gusto, perché con Kamira non si raggiungono i 100 gradi, si arriva a circa 93, il caffè scende per gravità e gli oli della miscela non vengono bruciati, preservandone il sapore". La macchinetta costa 59 euro ed è in vendita su Internet sul sito www.kamiraonline.com; "É in grado di fare due caffè contemporaneamente, ma il ricambio é velocissimo - dice, mentre a Fa' la cosa giusta! mostra come funziona - in circa 40 secondi assicura un espresso perfetto a meno di 4 centesimi, contro i 20 della macchina a capsule e l'euro speso al bar. Ma il risparmio è soprattutto sulla bolletta, perché ha dei tempi di erogazione rapidi e non deve essere riscaldata prima. E poi, vogliamo mettere il sapore di un vero caffè fatto senza cialde, con una macchinetta eco compatibile e riciclabile?". (da Terre di Mezzo Street magazine - luglio 2013) Ecco le …ultimissime…della settimana: La Regina dei fiori: la Rosa dal Bollettino Bio di Greenplanet – agosto 2013 Mollo tutto, nuova vita in campagna: 5 storie di successo da Greenme.it – agosto 2013 ma ci consoliamo subito con una ricetta toscana facile facile….. Scarpaccia toscana con fiori di zucchina Tempi di preparazione: 20’ - Tempi di cottura: 20’ Difficoltà: facile – Vegetariano Per 4 persone: 400 g di zucchine piccole con i fiori, 3 cipolline fresche, 2 uova, 60 g di parmigiano grattugiato, 4 cucchiai di farina, 1 spicchio d’aglio, latte, olio e. v. d’oliva, sale, pepe. 1: Tagliate le zucchine e i fiori a fette sottili, salateli e lasciateli colare per una ventina di minuti in un colino o in un colapasta. Quindi sciacquateli per rimuovere il sale e asciugateli con carta da cucina; 2: Battete le uova insieme alla farina e a mezza tazza con metà acqua e metà latte, ottenendo una pastella liscia; 3 : Mescolate alla pastella le zucchine coi fiori, le cipolle affettate fini, 4 cucchiai di parmigiano grattugiato e l’aglio tritato, poi versate il tutto in una teglia oliata del diametro di 20 cm (lo spessore del tortino non deve superare il centimetro). Irrorate la superficie con un filo d’olio e infornate a 220 °C per una ventina di minuti; 4: Cospargete la scarpaccia col restante parmigiano ridotto in scaglie e servitela subito. Buone vacanze a chi è al mare…. (Salento - Puglia) a chi è in montagna…. (Campo da golf nel Salzburgerland – Austria) e a chi se ne sta a casa in città….