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l`autonomia finanziaria nel nuovo art. 119 della
L’AUTONOMIA FINANZIARIA NEL NUOVO ART. 119
DELLA COSTITUZIONE
Il principio di riequilibrio economico-finanziario appartiene alla nostra Costituzione; la sua
concreta applicazione è disciplinata dal Titolo V, parte seconda, del testo costituzionale, in particolare
agli artt. 116, 117, 119 e 120, così come modificati dalla legge costituzionale 18 Ottobre 2001 n. 3.
Il nuovo art. 119 riformula il sistema di finanziamento degli enti territoriali1, con l’intento di
rafforzarne l’autonomia finanziaria2.
La struttura del novellato articolo, configura un preciso modello normativo che presenta tre
articolazioni fondamentali.
La prima, oggetto dei primi quattro commi, delinea la modalità di finanziamento delle attività
degli enti territoriali.
La seconda, comma 5 dell’articolo, specifica un’attività di intervento finanziario dello Stato a
integrazione delle risorse ordinarie degli enti territoriali. Essa è riferita in ultima analisi a finalità di
solidarietà e di sviluppo che integrano e si aggiungono, ma non certo sostituiscono, quanto è previsto a
salvaguardia dei diritti fondamentali garantiti nei commi precedenti.
La terza articolazione, comma 6, regola, tra l’altro, con norma generale la capacità di
indebitamento ‘autonoma’ degli enti territoriali limitandola alle spese di investimento.
Risulta evidente che l’intento del legislatore è stato principalmente quello di ampliare
l’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali3, ciò nonostante, è alquanto problematico
ricostruire il nuovo sistema di autonomia finanziaria regionale.
In questa prospettiva è utile produrre una prima riflessione sui meccanismi concernenti gli
aspetti finanziari (specie sul versante delle entrate) che vengono disegnati nel nuovo rapporto tra Stato
ed enti territoriali: l’impianto cioè di quello che in gergo, sia pur approssimativo, viene definito
federalismo fiscale.
Il modello disegnato nei primi quattro commi dell’art. 119 del nuovo testo costituzionale
individua nei tributi ed entrate propri, nella compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al
territorio dell’ente, nel fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, le fonti
di finanziamento delle attività degli enti territoriali.
Chiude il modello così delineato un preciso vincolo, che è definito nel quarto comma dell’art.
119, nel quale si stabile che “le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai
Comuni, alle Province, alle Città metropolitane ed alle regioni di finanziare integralmente le funzioni
pubbliche loro attribuite”.
Al primo comma dell’articolo è prevista l’attribuzione dell’autonomia finanziaria di entrata e di spesa ai comuni, alle
province, alle città metropolitane ed alle regioni. Il secondo comma attribuisce a questi enti territoriali la possibilità di
stabilire e applicare “tributi ed entrate proprie, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della
finanza pubblica e del sistema tributario”, inoltre, suddetti enti, dispongono di “compartecipazioni al gettito di tributi erariali
riferibili al loro territorio”. Nel terzo comma è prevista l’istituzione di un “fondo perequativo senza vincoli di destinazione,
per i territori con minore capacità fiscale per abitante”. Ancora, al quarto comma, si stabilisce che le risorse derivanti dalle
fonti contenute nei commi precedenti, ossia tributi propri, compartecipazioni e fondo perequativo, consentono a comuni,
province, città metropolitane e regioni, di “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite”. Il quinto comma
prevede che lo “Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali” a determinati enti territoriali al fine di
“promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per
favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro
funzioni”. Infine, il sesto comma, chiude l’articolo prevedendo che comuni, province, città metropolitane e regioni hanno
“un patrimonio proprio, attribuito secondo i principi generali determinato dalla legge dello Stato”, inoltre “possono ricorrere
all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento”, resta comunque “esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti”
che vengono contratti da suddetti enti territoriali.
2 Si osserva che, sia se sarà applicata la Costituzione attuale, per la quale norme di attuazione sono ancora pendenti, sia se
saranno approvate le riforme proposte dal centro-destra, oltre la metà di tutte le tasse raccolte in Italia, più o meno il 57%,
andrà agli enti territoriali, regioni in primo luogo ma anche province e comuni; il che significa assegnare alla periferia un
gigantesco volume di risorse, circa 127 miliardi di euro. Cfr. M. Esposito, Chi paga la devolution?, Bari, 2003, p. 83 e ss..
3 Cfr. F.Gallo, Prime osservazioni sul nuovo art. 119 della Costituzione, in Rassegna tributaria, n. 2, 2002, pp. 589 ss. dove si
sostiene che la revisione del nuovo art. 119 ha portato un ampliamento considerevole dell’autonomia finanziaria locale.
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Questa norma, nel ribadire il principio irrinunciabile, della necessità che le risorse standard
disponibili siano adeguate al fabbisogno finanziario che risulta dall’esercizio, al livello normale, delle
funzioni attribuite a ciascun ente territoriale, impone al legislatore di costruire un sistema finanziario tale
che ciascun ente (applicando l’aliquota standard dei tributi ed il livello standard delle tariffe) sia nelle
condizioni di fornire alla comunità locale amministrata un livello appropriato di servizi.
Quale sia il livello appropriato di servizi, e soprattutto, chi sia legittimato a deliberare in
proposito, risulta dall’art. 117 (comma 2, lettera m) dove è detto che lo Stato ha legislazione esclusiva
nella “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che
devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, ed in cui è scritto (co. 2, lettera p) che spetta alla
legislazione esclusiva dello Stato la disciplina delle “funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città
metropolitane”.
L’impianto dell’art. 119 non è peraltro nuovo. Ricordiamo a questo riguardo che la L. n. 133 del
1999, cioè la norma di delega che ha prodotto il D.lgs. n. 56 del 2000 concernente la riforma del S.S.N.,
stabiliva che nell’esercizio della delega il Governo doveva prevedere “meccanismi perequativi in
funzione della capacità fiscale relativa ai principali tributi e compartecipazioni a tributi erariali … al fine
di consentire a tutte le regioni a statuto ordinario di svolgere le proprie funzioni e di erogare i servizi di
loro competenza a livelli essenziali ed uniformi su tutto il territorio nazionale, tenendo conto delle
capacità fiscali insufficienti a far conseguire tali condizioni e della esigenza di superare gli squilibri socioeconomici territoriali”4.
Dunque, ad una prima lettura, sembra che l’art. 119 ispiri il suo impianto complessivo
all’identificazione delle modalità nelle quali, dal punto di vista della fattibilità finanziaria, l’autonomia
degli enti territoriali si esplica subordinandola, secondo il citato comma 4, alla salvaguardia dei diritti
che, costituzionalmente, devono essere garantiti a tutti i cittadini. Da questo punto di vista, si ricorda
che con riferimento al principio della sufficienza delle risorse, il diritto del cittadino a prestazioni
concernenti i “diritti civili e sociali”, assume rilievo costituzionale, non solamente in virtù di quanto
disposto nel citato art. 117, comma 2 lettera m. Esso trova infatti fondamento nei principi fondamentali
enunciati in apertura di testo della Costituzione e nella serie di diritti costituzionali che sono la
specificazione concreta di quei principi. È noto che tra questi ultimi sono preminenti i due principi di
libertà e di uguaglianza e che da ciascuno di essi nasce una distinta sequenza di diritti costituzionali: i
diritti civili e i diritti sociali.
L’art. 117, comma 2 lettera m, nell’associare nel suo richiamo i diritti delle due specie, si pone
come punto di convergenza dell’una e dell’altra serie. Il richiamo ad esso operato appare di grandissima
rilevanza, anzitutto perché ribadisce che, nonostante la diversità delle varie categorie di diritte, ve ne
sono alcuni che hanno una doppia natura, sono diritti civili e, allo stesso tempo, diritti sociali; basti
pensare al diritto alla salute e al diritto al lavoro. In secondo luogo perché afferma la superiorità della
vocazione universale dei diritti sulla particolarità dei territori e dei soggetti organizzati ai quali la
Costituzione affida la competenza ad erogare le prestazioni dirette a soddisfare i bisogni dei quali questi
diritti sono espressione.
In definitiva, è evidente che, quando la competenza ad erogare i servizi in oggetto è attribuita
agli enti territoriali, la competenza e la vigilanza a garantire l’omogeneità essenziali di quelle prestazioni
su tutto il territorio nazionale è affidata dalla Costituzione esclusivamente alla legislazione dello Stato.
Resta comunque un dubbio: se per ‘autonomia finanziaria’ si intenda una vera e propria
autonomia legislativa, o sola la possibilità di disporre di risorse proprie come compartecipazioni o
addizionali ai tributi erariali e regionali.
Per risolvere la questione e per meglio comprendere il nuovo assetto della finanza territoriale
bisogna integrare, ancora una volta, la lettura dell’art. 119 con la ripartizione delle competenze
legislative effettuate dall’art. 177 Cost..
L’art. 117 Cost prevede:
- potestà legislativa esclusiva allo Stato in ordine al “sistema tributario e contabile dello Stato”;
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Art. 19, L. n. 133 del 1999.
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- potestà legislativa concorrente delle regioni in ordine al “coordinamento della finanza pubblica
e del sistema tributario”;
- la competenza legislativa residuale della regione in materia di tributi regionali e locali.
Si osservi che la Costituzione sembra prevedere “due sistemi tributari primari”5, uno statale ed
uno regionale, nonché un sistema tributario ‘secondario’ locale che si inscrive a sua volta in quello
regionale.
Secondo il riparto di competenza legislativa operato dall’art. 117 Cost., Stato e regioni
possiedono una propria competenza finanziaria e quindi una propria potestà normativa di imposizione
da esercitare nell’ambito delle rispettive competenze sostanziali.
Nel caso di materie oggetto di legislazione concorrente, come previsto dal comma 3 dell’art. 117
Cost., “spetta alle regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato”; mentre l’art. 119 Cost., al comma 2, prevede che
regioni ed enti locali “stabiliscono e applicano” i tributi propri “secondo i principi di coordinamento
della finanza pubblica e del sistema tributario”6.
Lo Stato, dunque, nel caso di materie oggetto di legislazione concorrente può intervenire solo
attraverso la determinazione dei principi fondamentali. Possiamo quindi dedurre che, il coordinamento
del sistema tributario, non fondandosi sui principi fondamentali, riguarda il rapporto fra le regioni e gli
enti locali ed avviene attraverso la legge regionale7.
Ciononostante, bisogna osservare che, la nozione di ‘principi fondamentali’, ha un carattere
indeterminato che rende molto elastico il coordinamento statale anche nell’ambito del sistema tributario
regionale e locale. In realtà, tale indeterminatezza, lascia aperta la possibilità della previsione di una
potestà legislativa concorrente. Infatti, l’art. 119 Cost. continua a prospettare un “modello di relazioni
finanziarie per così dire aperto, come tale soggetto alla discrezionalità del legislatore che deve
concretizzarlo”8.
Il rapporto fra l’art. 117 e l’art. 119 Cost. risulta decisivo inoltre per tracciare la differenza
nell’ambito delle risorse autonome, tra i tributi propri e le entrate proprie.
Nel caso dei tributi propri le regioni esercitano una potestà legislativa residuale che è loro
riconosciuta dall’art. 117, comma 4; si tratta di una potestà legislativa concorrente, di tipo trasversale,
relativa al coordinamento del sistema tributario9.
Nel caso delle entrate proprie, al contrario, le regioni esercitano la potestà loro riconosciuta
nelle specifiche materie di settore, che potrà essere esclusiva o concorrente a seconda dell’attività
considerata.
Cfr. Pitruzzella G., Problemi e pericoli del “federalismo fiscale” in Italia, in Le Regioni, n. 5, ottobre 2002, p. 984.
A tal proposito si osserva che l’autonomia normativa tributaria degli enti locali è di “qualità diversa” perché si svolge, ex
art. 23 Cost., nell’ambito della potestà legislativa regionale e si esercita solo con lo strumento normativo secondario del
regolamento. In questa ottica è probabilmente discutibile l’aver posto, con l’art. 119, commi 1 e 2, formalmente sullo stesso
piano, regioni ed enti locali ai fini dell’autonomia tributaria. Per le regioni l’autonomia tributaria infatti, si accompagna alla
potestà legislativa loro attribuita in via primaria dall’art. 117, co. 4 e dall’art. 23 Cost.. Per gli enti locali, invece, l’autonomia
tributaria si colloca (ed altrimenti non poteva essere vigente l’art. 23 Cost.) all’interno della potestà legislativa delle regioni e,
quanto ai principi fondamentali, di quella dello Stato. Cfr. F . Gallo, Il nuovo art. 119 della Costituzione e la sua attuazione, in
L’attuazione del Federalismo Fiscale, Bologna, 2003, p. 161.
7 Si ricorda che, in ogni caso, la regione non può individuare una base imponibile sovrapposta ad una materia già gravata dai
tributi statali.
8 Cfr. F. Covino, L’autonomia finanziaria, in T. Groppi e M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomia, Regioni ed enti locali
nel nuovo Titolo V, Torino, 2001, p. 244.
9 Con riferimento ai tributi propri si ricorda che, nella XIV legislatura, la maggioranza di centro-destra, ha approvato una
legge finanziaria per il 2002 caratterizzata da una “analitica disciplina” di tributi attribuiti e enti locali e regioni, come le
imposte sulle insegne degli esercizi commerciali, le addizionali IRPEF e IRPEG, ICI ecc. . In tale contesto, molte regioni,
hanno preferito non contestare la legge finanziaria per il 2002. Piuttosto, hanno sfruttato la loro autonomia impositiva per
introdurre nuove figure di tributi dagli effetti, secondo alcuni, assai discutibili, senza suscitare comunque l’impugnazione da
parte dello Stato delle relative leggi davanti alla Corte costituzionale. L’esempio emblematico è costituito dal tributo
introdotto dalla regione Sicilia con legge finanziaria regionale per il 2002, che ha introdotto un “tributo ambientale” sul
metano algerino che passa nei gasdotti che corrono lungo l’isola. Potrebbe dunque crearsi, a causa dei diversi problemi
lasciati irrisolti dalla nuova disciplina costituzionale, uno scenario “caratterizzato da una competizione fiscale selvaggia”. Cfr.
Pitruzzelli G., problemi e pericoli … , op. cit., pp. 985 e ss..
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Il fatto che la legittimazione a disciplinare le varie tipologie di entrata sia nell’art. 117 Cost.
spiega anche il regime costituzionale delle compartecipazioni e delle entrate con finalità perequativa.
Per le prime, la loro disciplina avviene mediante l’esercizio della potestà legislativa di
coordinamento del sistema tributario; si tratta di una potestà di tipo concorrente, per cui si ha un
sistema in cui lo Stato riconosce alle regioni le compartecipazioni, anche per la parte destinata agli enti
locali, sono poi le regioni ad intestare le medesime in parte a se stesse ed in parte agli enti locali.
Per quanto riguarda le finalità perequative, il potere di disciplinare è riservato allo Stato a cui
l’art. 117 Cost. conferisce la potestà esclusiva in materia di “perequazione delle risorse finanziarie”; lo
Stato può però intestare alle regioni le competenze amministra tive relative alla ripartizione di tali risorse
tra gli enti locali e può delegare la loro potestà regolamentare in materia.
Ancora, con riferimento all’articolo in commento, ci preme soffermarci su quella che sembra
essere la grande, e forse ‘preoccupante’, novità in materia di autonomia finanziaria, ovvero la c.d.
‘territorializzazione dell’imposta’. Infatti, la previsione di compartecipazioni al gettito di tributi erariali si
introduce in una “regionalizzazione/territorializzazione dell’imposta di riferimento, con la quale, per un
verso, si assicura certezza e sufficienza finanziaria a quelle aree territoriali connotate da elevate capacità
fiscali … per altro, prende corpo un contingentamento della solidarietà, in quanto le risorse destinate al
finanziamento delle funzioni pubbliche, attribuite copiosamente ai diversi livelli di governo, conoscono
una preventiva delimitazione in ragione della più o meno elevata percentuale di compartecipazione,
escludendo, così, qualsivoglia diverso criterio di riparto redistributivo stabilito dal centro”10.
Tale previsione di una compartecipazione al gettito di tributi erariali “riferibili al territorio
dell’ente” crea un sistema finanziario in cui le risorse che vengono prodotte tendono a beneficiare le
regioni più ‘ricche’ del paese11. Di conseguenza, se gli enti più ‘poveri’ avranno risorse notevolmente
inferiori agli altri, potrebbe verificarsi un graduale processo di affievolimento dei diritti sociali, in quanto
diritti finanziariamente condizionati. Pertanto, il pericolo che sembra insito nel ‘nuovo’ sistema è che le
regioni economicamente più deboli non avranno le risorse necessarie ad assicurare l’adeguato esercizio
delle funzioni e delle attività oggi attribuite ai livelli di governo periferici.
La funzione della compartecipazione dovrebbe essere ricercata all’interno del percorso logico
tracciato nei commi 1, 3 e 4 dell’art. 119: essa concorre a “finanziare integralmente”, dato il livello
standard delle entrate proprie, le funzioni attribuite alle regioni e perciò, la dimensione della
compartecipazione, per le regioni più ‘ricche’, non dovrebbe eccedere quanto necessario per il
soddisfacimento del fabbisogno definito dallo Stato sulla base del criterio di garantire i livelli essenziali
di assistenza e di servizi.
Attraverso le compartecipazioni lo Stato attribuisce alle regioni economicamente più forti un
potere, attraverso l’esercizio del quale cittadini di altre regioni vengono beneficiati o puniti.
Le compartecipazioni, dovrebbero essere uno strumento che, assieme agli altri, dovrebbero
concorrere ad assicurare la sufficienza delle risorse rispetto al fabbisogno degli enti territoriali, che,
‘ricchi’ o ‘poveri’ che siano, va individuato con criteri del tutto omogenei. È per questo motivo che
spetta allo Stato la definizione dei livelli essenziali dei diritti civili e sociali.
Tale previsione costituzionale, inoltre, capovolge quello che, in teoria, dovrebbe essere il fine
ultimo del federalismo fiscale ovvero garantire alle aree meno ‘ricche’ di un paese i servizi essenziali,
difficilmente finanziabili con risorse proprie12; in Italia, al contrario sembra sia diffusa l’opinione
Cfr. F. Puzzo, Il Federalismo Fiscale, l’esperienza italiana e spagnola nella prospettiva comunitaria, Milano, 2002, p. 97.
Gli analisti hanno calcolato che, pur considerando tutte le imposte locali immaginabili, la gran parte delle entrate regionali
verrà da compartecipazioni di imposte statali, secondo una combinazione da definire ma che nelle simulazioni ISAE è pari al
90% dell’IVA più il 23% dell’IRPEF. Tali imposte non sarebbero consegnate alle regioni in rapporto alla necessità di spesa o
più semplicemente in base alla popolazione, bensì in analogia co n quanto accade con il D.lgs. n. 56 del 2000, e cioè in
proporzione al reddito prodotto, ovvero sia alla ricchezza media dei residenti. Con il risultato che la Lombardia, che avrebbe
bisogno di pochi soldi essendo una regione efficiente, riceverà 24,2 miliardi delle vecchie lire all’anno, mentre le sue spese
sono appena di 13,8miliardi e quindi si troverà 10,4 miliardi in eccesso. Sul fronte opposto la Campania, per esempio,
incasserà 9 miliardi per far fronte a 14,8 miliardi di spese, con un deficit di 5,8 miliardi. Cfr. Esposito M., Chi paga la …, op.
cit., pp. 95 e 96.
12 Il termine federalismo fiscale è adoperato oggi per attribuire maggiori poteri agli enti territoriali, quindi nell’accezione
contraria a quella originaria. Difatti il termine fu coniato da Musgrave (fiscal federalism), agli inizi degli anni Cinquanta negli
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secondo la quale il federalismo fiscale riguardi il diritto di ciascuna regione di fruire del gettito dei tributi
in essa riscossi. Dunque, se si dovesse applicare pienamente il principio che le regioni che versano più
imposte hanno diritto ad un ammontare di servizi pubblici maggiore, data la differenziazione tra la
capacità di entrata (e di spesa) esistente tra le regioni del nostro Paese, ci troveremmo di fronte ad una
situazione fortemente diversificata13.
È evidente, infine, che l’aliquota di compartecipazione (unica e tale da consentire la copertura
del fabbisogno delle regioni economicamente più forti) non consentirà alle regioni economicamente
più deboli di coprire il fabbisogno. In tale caso è l’operare del “fondo perequativo senza vincoli di
destinazione” (art. 119, comma 3) che dovrebbe consentire anche a queste regioni il principio della
sufficienza delle risorse.
D’altra parte, anche lo Stato, è impegnato verso i cittadini (contribuenti) al rispetto di evidenti
ragioni di congruenza: basti ricordare che se, a norma dell’art. 53 Cost., “tutti sono tenuti a concorrere
alle spese pubbliche in funzione della loro capacità contributiva”, è anche vero che, sulla base dell’art. 3
Cost., lo Stato ha l’obbligo di assicurare, in condizioni di uguaglianza, a ciascun cittadino, dovunque egli
risieda, un ammontare congruo di servizi.
Il comma 5 dell’art. 119 Cost. prevede, come già evidenziato, che lo Stato “destini risorse
aggiuntive ed effettui interventi speciali in favore di determinati comuni, province, città metropolitane e
regioni” per:
- promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale;
- rimuovere gli squilibri economici e sociali;
- favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona;
- provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni14.
In questi casi, l’intervento dello Stato è mosso da una precisa valutazione dei fabbisogni presenti
sui territori e non da una valutazione collegata alla potenzialità di gettito o di reddito degli stessi
territori, come avviene per le funzioni finanziate attraverso il fondo perequativo.
La questione principale, alla luce del suddetto comma, sembra essere la seguente: se e quando
debbano essere coinvolte le regioni nella definizione dei criteri per la destinazione di risorse aggiuntive e
la realizzazione di interventi speciali in favore di determinati enti territoriali da parte dello Stato. Tutto
ciò alla luce dello ‘svuotamento’ della competenza esclusiva dello Stato nella determinazione dei livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali attraverso l’approvazione (a Costituzione
vigente o modificata secondo il testo all’esame del Parlamento) di forme molto accentuate di autonomia
regionale. Infatti, non pochi problemi, potrebbero derivare dall’intervento statale, avente la finalità di
promuovere lo sviluppo economico o di ridurre lo squilibrio territoriale, che però vada a incidere su
materie transitate alla competenza regionale residuale concorrente. Si pensi, ad esempio, agli interventi
volti a ridurre il deficit infrastrutturale in una delle materie attribuite alla competenza concorrente delle
regioni, quale, ad esempio, le grandi reti di trasporto e navigazione. Una legge dello Stato che stabilisca
le opere da realizzare, le risorse da destinare e la localizzazione di tali opere, potrebbe violare la sfera di
competenza regionale. Tale problema si accentuerebbe in seguito all’attuazione dell’art. 116 Cost. che
assegna alle regioni la possibilità di estendere ulteriormente l’area delle proprie competenze.
Si può dunque argomentare che, lo Stato continua a programmare e gestire le politiche di
sviluppo e di coesione, finanziate con risorse aggiuntive. Nel momento in cui “l’intervento statale perde
il requisito dell’aggiuntività, si presenta la necessità di verificare la competenza per materia”15.
Stati Uniti, per esprimere una precisa “reazione all’eccesso di localismo ed all’eccesso di differenze tra enti e tra stati
esistenti in uno Stato federale”. Cfr. P. Giarda, Regionalismo e Federalismo fiscale, Milano, 1995, p. 19.
13 A tal proposito si ricorda che, le stesse regioni hanno ribadito che: “gli elementi strutturali del federalismo fiscale” devono
essere “funzionali ai principi della Costituzione ed in particolare, a quelli di uguaglianza, solidarietà e progressività della
imposizione fiscale”. Cfr. Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome, Documento di Ravello sul
federalsimo fiscale delle regioni e delle province autonome, 31 Marzo-1 Aprile 2003, (www.regioni.it).
14 A tale proposito si osserva che nel novellato testo costituzionale, scompare la disposizione di cui al previgente art. 119,
comma 3, Cost., volta particolarmente a “valorizzare il Mezzogiorno e le isole” mediante contributi speciali fissati con legge
dello Stato. Cfr. S. Gambino, Sulla devolution all’italiana (alcune considerazioni sul ddl Cost n. 1187 ed ora sul ddl Cost n. 2544),
www.associazionedeicostituzionalisti.it, 28 Febbraio 2003.
15 P. Signorini, F. Busillo, Il riequilibrio economico-sociale nel Titolo V della Costituzione, in Rivista giuridica del Mezzogiorno, n. 2, 2002,
p. 588.
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Nonostante le numerose ipotesi sulle conseguenze dell’attuazione del novellato art. 119, si
osserva che, alla luce di una più approfondita analisi del suddetto articolo, all’accrescimento delle
competenze, dei poteri e delle responsabilità di regioni, comuni e province, non ha corrisposto una
adeguata modificazione qualitativa delle dotazioni finanziarie.
Infatti, al cosiddetto federalismo amministrativo e costituzionale non ha fatto seguito il
federalsimo fiscale. Come altre disposizioni del nuovo Titolo V, l’art. 119 Cost., che lo prevede e lo
disciplina, è rimasto finora sulla carta.
Inoltre, le leggi finanziarie annuali “continuano a riflettere modelli centralistici”16, continuando a
far ricadere sulle regioni e sugli enti locali gli squilibri della finanza pubblica, obbligandoli a scegliere tra
una drastica riduzione dei servizi ai cittadini e un consistente incremento della pressione fiscale e
tariffaria 17.
A più di tre anni dalla sua entrata in vigore, la riforma del Titolo V rischia così di “implodere per
la progressiva paralisi di asfissia finanziaria che ne colpisce i maggiori protagonisti, cioè le istituzioni
regionali e locali”18.
Greta Massa Gallerano
Cfr. F. Bassanini, Introduzione, in F. Bassanini e G. Maciotta (a cura di), L’attuazione del federalismo fiscale, una proposta,
Milano, 2003, p. 8.
17 A tal proposito si ricordano le numerose sentenze della Corte costituzionale sulla legge finanziaria 2002, la prima ad essere
stata approvata dopo l’entrata in vigore del novellato Titolo V la rilevante novità del riformato contesto costituzionale e la
singolare circostanza di una manovra di bilancio che si avvia con un tipo di riparto di competenze e si conclude con un altro,
non hanno facilitato l’individuazione di univoche certezze nel definire i confini reciproci tra Stato e regioni. Per questo ed
altri motivi “numerosi”, ha osservato la stessa Corte, sono stati i ricorsi delle regioni avverso quella legge finanziaria.
Anticipato dalle due note sentenze nn. 300 e 301 del 2003 (sulle fondazioni bancarie), l’indirizzo della Corte è stato di
trattare separatamente le diverse questioni, pur essendo esse formalmente unite dal fatto di essere tutte dirette contro un
unico testo normativo, la legge finanziaria 2002. Fra le numerose sentenze ricordiamo: la sentenza n. 376 del 2003 (disciplina
sull’accesso al mercato dei capitali degli enti locali e delle regioni); la sentenza n. 16 del 2004 (finanziamento dei comuni); la
sentenza n. 49 del 2004 (Fondo per la progettazione delle opere pubbliche delle regioni e degli enti locali e Fondo nazionale
per le infrastrutture locali). Per un ulteriore appro fondimento si rimanda a F. Marcelli, Venti sentenze sulla finanza tra Stato e
regioni, Nota breve a cura del servizio studi del Senato, 2004.
18 Cfr. Bassanini F., Introduzione, in F. Bassanini e G. Maciotta (a cura di), L’attuazione del federalismo …, op. cit., p. 9.
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