Untitled - Barz and Hippo
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Untitled - Barz and Hippo
scheda tecnica durata: 98 MINUTI nazionalità: USA anno: 2010 regia: SOFIA COPPOLA sceneggiatura: SOFIA COPPOLA fotografia: HARRIS SAVIDES scenografia: ANNE ROSS, FAINCHE MACCARTHY costumi: STACEY BATTAT montaggio: SARAH FLACK musica: PHOENIX produzione: G. MAC BROWN, ROMAN COPPOLA, SOFIA COPPOLA, JORDAN STONE distribuzione: MEDUSA attori: STEPHEN DORFF (JOHNNY), ELLE FANNING (CLEO), CHRIS PONTIUS (SAMMY), BENICIO DEL TORO (LA CELEBRITÀ), MICHELLE MONAGHAN, ROBERT SCHWARTZMAN, CAITLIN KEATS (KATE), KARISSA SHANNON (CINDY), KRISTINA SHANNON (BAMBI), JO CHAMPA (LA MOGLIE DI PUPI), ALEXANDER NEVSKY (IL GIORNALISTA RUSSO), LAURA CHIATTI (LA RAGAZZA ITALIANA), SIMONA VENTURA (LA PRESENTATRICE ITALIANA), PHILIP PAVEL (PHIL), JULIA MELIM (SARAH), BRIAN GATTAS (PAUL METCALF), NINO FRASSICA, TAYLOR LOCKE, ALEXANDRA WILLIAMS (NICOLE), RICH DELIA (RICHIE), ALDEN EHRENREICH, SUSANNA MUSOTTO (CONCIERGE), PAUL GREEN (RON), VALERIA MARINI, PAUL VASQUEZ (LA BODYGUARD) la parola ai protagonisti Tiziana Morganti intervista Sofia Coppola In Somewhere Stephen Dorff è una star del cinema americano che sta vivendo un momento di transizione professionale. In questo stato di attesa e solitudine avviene l’incontro con la giovane figlia Cloe: Lentamente i due cominciano a trovare un’intesa passando del tempo insieme. Questa tematica ti è stata ispirata in qualche modo dal rapporto con tuo padre? Assolutamente si. Ci sono dei momenti che ricordano alcuni delle prime esperienze con mio padre. In modo particolare la scena in cui Johnny porta Cloe al casinò e gli insegna come giocare mi ha ricordato una delle mie prime uscite mondane in compagnia di mio padre. Era tutto incredibilmente emozionante, entravo per la prima volta in contatto con il mondo degli adulti. Dopo la nascita della tua bambina hai realizzato questo film dalle forti tematiche familiari. La maternità quanto ha cambiato la tua vita, credi che un figlio possa veramente salvare l’esistenza di un uomo o di una donna? Con questo film volevo esplorare l’impatto che un rapporto così intenso può avere su un persona dalle profonde difficoltà esistenziali. Se ci soffermiamo ad osservare la vita di Johnny scopriamo, oltre il clamore della sua fama, di un uomo estremamente solo e profondamente impigrito. Cloe arriva nella sua vita come un risveglio, lo riconduce alla percezione della vita e dei sentimenti. Vista da questa ottica posso dire con assoluta certezza che la venuta di un figlio trasforma profondamente le prospettive, le visioni e le priorità di tutta una vita. Il film è interamente ambientato in una Los Angeles un po’ inedita. Lontana dai modelli che la vogliono come centro rutilante del cinema e dello show business, in continuo movimento verso l’affannoso raggiungimento della fama, ci proponi una ambientazione fredda e poco riconoscibile. Da cosa dipende questa scelta? Questo squallore ambientale doveva accentuare ancora di più il senso di solitudine vissuto da Johnny. La storia è inquadrata totalmente dal suo punto di vista e l’ambiente doveva suggerire ulteriormente la sensazione di isolamento. E poi non credete, Los Angeles è veramente una città molto spigolosa. All’interpretazione di Stephen Dorff ha contrapposto quella della giovanissima Elle Fanning. Insieme sembrano formare un team perfettamente accordato su questa dualità padre/figlia. Qual è stato il compito di Elle nella gestione di questo rapporto d’amore conflittuale? Sostanzialmente la storia è concentrata quasi esclusivamente sulla vita di Johnny. Cloe arriva improvvisamente e rappresenta una presa di coscienza della vita adulta. Attraverso di lei volevo mostrare cosa vuol dire essere figlia di due personaggi così intensamente presi da loro stessi. Fin da piccola Cloe si trova nel mezzo del loro rapporto, coinvolta in una eterna peregrinazione tra la casa della madre e la stanza d’albergo dove vive il padre. L’amore che nutre per entrambi la spingerà nel mezzo di questo rapporto a sostenere il peso della sua solitudine. In Italia si è molto parlato di questo film per l’utilizzo di alcune personalità dello show business locali come Valeria Marini e per il ritratto poco edificante della nostra televisione. Qual è la sua riflessione sull’Italia da questo punto di vista? Amo e rispetto profondamente la cultura italiana e non potrei pensarne nulla di negativo. Gli estremi di cui vive il mondo dello spettacolo sono gli stessi in tutto il mondo. Fa parte del costume, quasi di una consuetudine. Ilaria Rebecchi intervista Sofia Coppola Ma chi è Johnny Marco, dunque, Sofia? (citando una frase topica del film, appunto) Johnny è un uomo inattivo, incapace di veri sentimenti, o meglio che crede di esserlo, quasi accecato dalle luci di un successo, forse, raggiunto senza merito e studio, in fretta e capace di spegnere il fuoco della sua stella in breve tempo. Insegue falsi miti senza accorgersene, solo e solitario, non parla con nessuno e non è di compagnia, vive la propria transizione da giovane a uomo maturo in maniera inconsapevole. E qui entra in gioco la dolcezza di Cloe. Tutta la pellicola riflette, inoltre sul tema dello show-biz, italiano, in primis, a specchio di quello mondiale, a bilanciare l’innata umanità di Cloe… E’ un mondo in cui è facile perdersi, in Italia e in America come altrove. Nel mio film gli stereotipi sono resi all’eccesso, in alcuni punti, ma senza mai troppo discostarsi dalla triste realtà. Il contrasto sta proprio tra questo mondo fatuo e superficiale e la figlia del protagonista, tra apparenza e realtà… L’isolamento del personaggio di Dorff, risulta terapeutico e dannoso al contempo, a seconda dei momenti. Non c’è una risposta effettiva, ma solo la perfetta cornice ai dubbi dell’uomo… L’isolamento è il momento tipico di una qualsiasi transizione che ogni uomo vive. Ho cercato di delinearne il contenuto senza l’uso morboso dei dialoghi ( che sono pochissimi in tutto il film – ndr), tra silenzi e innumerevoli sigarette, e soprattutto attraverso la musica a fare da sottofondo ai pensieri di Johnny e di Cloe, da soli e insieme. La musica, appunto: un elemento chiave da sempre delle tue opere… Vivo ascoltando musica, dirigo e scrivo ascoltando musica. Adoro pensare che sia anche la musica, oltre alla realtà e alla fantasia, a farmi da guida nel momento creativo, e voglio sempre che sia così anche per i miei personaggi, in modo che lo spettatore, grazie ad una particolare canzone, riesca ad entrare nella poetica di una scena o nell’animo di un personaggio. In “Somewhere” c’è di tutto, dagli Strokes ai Foo Fighters, passando per i T-Rex. Epoche diverse, generi diversi, voci diverse, tutte facenti parte di uno stesso personaggio che evolve e vive in solitudine, perché sono sempre molte le facce di una persona! Questo tuo ultimo film vede, contrariamente ai precedenti, un protagonista maschile. E, tra l’altro, durante la post produzione eri incinta… Ho provato ad immedesimarmi nel pensiero di un uomo. Un uomo che si sveglia dopo una sbronza colossale, un uomo che guarda due ballerine di lap-dance, un uomo che si addormenta prima di fare sesso. E soprattutto un uomo che scopre la vita attraverso sua figlia. In questo, la mia gravidanza certamente mi ha donato quel pizzico di sensibilità in più necessario a delineare e in primis capire io stessa il mio Johnny. Poi c’è Los Angeles: un ritorno alla tua America… Da tempo volevo girare un film in California. Ne ho visti talmente tanti con mio padre da piccola che dopo tanto tempo mi sembrava il minimo cimentarmi in qualcosa vicino a me nei luoghi! E ci sono i non-luoghi che già con “Lost In Translation” avevano fatto da perfetti scenari all’incomunicabilità, alla solitudine e alla scoperta. Non luoghi così tipici del nostro quotidiano… Si, gli hotel, soprattutto. Questo perché credo che siano perfetti a delineare anche visivamente, tutti in ordine e belli come sono, l’ordine prestabilito che cela il disordine di vita e psicologico dei miei protagonisti, la solitudine perché non appartengono a nessuno. E poi io ho girato, da piccola, al seguito di mio padre, talmente tanti hotel, che sono paradossalmente a mio agio in questi ambienti!!! Sofia Coppola Sofia Coppola, figlia di Francis Ford Coppola, nata a New York City il 14 maggio 1971, è degna erede del cinema della "New Hollywood" degli anni Settanta, del quale deve aver respirato le atmosfere fin da piccola. I suoi esordi cinematografici sono davanti alla macchina da presa all'età di circa un anno, quando suo padre la porta sul set de Il Padrino (1972). La ragazza parteciperà come attrice anche agli altri due capitoli della saga Corleone nel 1974 (Il Il Padrino – Parte seconda) seconda e nel 1990 (nei panni di Mary Corleone ne Il Padrino – Parte terza), terza oltre che ad altri film del padre, tra cui Rusty il selvaggio (1983) e Peggy Sue si è sposata (1986). Non ancora ventenne Sofia ha collaborato alla sceneggiatura e ai costumi dell'episodio del padre Life without Zoe per il film New York Stories (1989), ispirato alla sua infanzia a lungo trascorsa in uno degli alberghi più esclusivi della Grande Mela, lo "Sherry Netherland". Diverse esperienze come designer nel campo della moda (per la collezione Milkfed, popolarissima in Giappone), come presentatrice televisiva e come fotografa, la Coppola ha debuttato in veste di regista con il cortometraggio Lick the Star (1998), ma ha conquistato pubblico e critica con il lungo Il giardino delle vergini suicide (1999). Raffinata e malinconica, questa ragazza dall'aria radical-chic, interessata a tutte le nuove forme d'arte, dal design al videoclip, incarna alla perfezione il prototipo della nuova autorialità indie, specchio dello spirito dei tempi moderni. Suo è infatti il famoso videoclip che ritrae una lap-dance di Kate Moss in bianco e nero sulle note di I just don't know what to do with myself dei White Stripes. Anticipatrice di mode e tendenze, la Coppola pare non aver sbagliato un colpo: sicuramente le frequentazioni con gli amici Wes Anderson, Alexander Payne, e soprattutto il matrimonio (durato quattro anni) con l'ipercreativo Spike Jonze (per il quale ha interpretato la ginnasta del videoclip Elektrobank dei Chemical Brothers, da lui diretto), hanno giovato alla sua sensibilità registica, sebbene il suo stile sia comunque originale, personale e profondamente femminile. Per la sua opera prima, Il giardino delle vergini suicide, suicide Sofia ha scelto l'adattamento da un romanzo (di Jeffrey Eugenides), trattato però con uno stile intimista e personalissimo. Nasce così la storia (sceneggiata dalla Coppola e da Eugenides) delle cinque sorelle Lisbon, segnate da un tragico destino di dolore e distruzione. Fin dal primo fotogramma del film ci si ritrova a scrutare, incantati e sedotti, questo stregato giardino familiare, attraverso gli occhi dei giovani impotenti vicini di casa. La Coppola correda questo intimo diario di una giovinezza perduta con un nostalgico scenario seventies e riferimenti cinefili che vanno dagli anni Cinquanta (la scena al planetarium di Gioventù bruciata) bruciata ai Settanta (Josh Hartnett/Trip Fontaine in versione Tony Manera). Lasciandoci nel cuore un'evanescente sensazione di perdita e tenerezza. Un sentimento leopardiano di vita non vissuta. Dal tentativo di emancipazione dal nido famigliare alla ricerca di un'identità in un mondo straniero, quella di Bob e Charlotte in Lost in translation (2003): un attore annoiato in crisi di mezza età (Murray) e una giovane moglie insicura (Johansson), che incrociano i loro sguardi nell'ascensore di un lussuoso hotel di Tokyo. Risulta quasi impossibile raccontare questo film suggestivo ed evanescente, costruito in un territorio smarrito tra l'impersonalità metropolitana di Tokyo e l'intimità di uno sguardo tra sconosciuti vicini per un attimo, due anime insonni in terra straniera. Un film in costume, ma emotivamente moderno e storicamente irriverente, completa questo trittico sul mal di vivere adolescenziale: Marie Antoinette (2006), ritratto di una regina/bambina a tinte, costumi (di Milena Canonero) e suoni pop. Come tappezzeria sonora del salotto di Versailles la Coppola ha voluto infatti The Strokes, New Order e la band francese Phoenix (che compare in una scena del film e il cui frontman Thomas Mars è l'attuale compagno di vita di Sofia). Marie Antoinette è una favola maliziosa e leggiadra incurante della verità storica, ma attenta all'animo frivolo e triste della sua malinconica protagonista (un'aggraziata e sbarazzina Kirsten Dunst). Una regina annoiata, viziata e capricciosa, "una ragazza come tante" secondo Sofia. Un'altra opera coraggiosa, che sottolinea ancora una volta l'originalità e la personalità di questa figlia d'arte indipendente dalla famiglia e con una sua chiara idea di cinema. Da ultima Somewhere, Somewhere la pellicola che ha emozionato la 67ª Mostra del Cinema di Venezia, tanto da meritare il premio più ambito, il Leone d’Oro, consegnato dal presidente di giuria Quentin Tarantino. Filmografia (1972) Il Padrino (attrice) (1998) Lick the Star (cortometraggio) (1974) Il Padrino – Parte seconda (attrice) (1999) Il giardino delle vergini suicide (1983) Rusty il selvaggio (attrice) (2003) I Just Don’t Know What to Do with Myself - (1986) Peggy Sue si è sposata (attrice) The White Stripes (videoclip) (1989) Life Without Zoe - episodio di New York (2003) Lost in Translation – L’amore tradotto Stories (sceneggiatura e costumi) (2006) Marie Antoinette (1990) Il Padrino – Parte terza (attrice) (2010) Somewhere (1997) Elektrobank - TheChemical Brothers (videoclip - attrice) Stephen Dorff Selvaggio e impetuoso maschio dall'animo ribelle, Stephen Dorff impara a difendersi a colpi di boxe ne La forza del singolo, singolo soffia l'amante al patrigno Jack Nicholson in Blood and Wine e miete appetibili vittime, sfuggendo al cacciatore di vampiri noto con il nome di Blade. Blade Nasce ad Atlanta nel 1973 da Steve Dorff, compositore, e Nancy, morta di cancro all'encefalo nel febbraio 2008. È ancora un bambino quando si trasferisce a Los Angeles, a seguito della carriera del padre. Ha un fratello minore che si chiama Andrew. Ha frequentato il Montclair College Preparatory School a Van Nuys, California. Debutta sul grande schermo appena quattordicenne, curiosando - con gli amichetti - nella fossa degli orrori di Non aprite quel cancello. cancello Nel 1994, suona il basso incarnando Stuart Sutcliffe, il 5° Beatles scomparso pochi mesi prima del successo dei Fab 4 a causa di un'emorragia cerebrale, nel biopic Backbeat - Tutti hanno bisogno di amore. Dodici mesi più tardi, incanta il re della pop art nelle vesti del transessuale Candy Darling in Ho sparato a Andy Warhol. Nel 1997, viene ingaggiato per il ruolo di Jack Dawson in Titanic ma rifiuta, poiché non vuole essere confinato in un certo tipo di cliché. Nel 2000, compie atti di terrorismo cinematografico in A morte Hollywood. Hollywood Tra il 2002/05, indaga sulla rete digitando Paura.com, Paura.com terrorizza la famiglia di Sharon Stone in Oscure presenze a Cold Creek e si cimenta nel boss mafioso che dà la caccia alla fidanzata incinta Vanessa Ferlito, in Shadowboxer. Shadowboxer Successivamente, Dorff soccorre i superstiti della strage dell'11 settembre, in World Trade Center di Oliver Stone. Il 2009 lo vede al fianco di Laurence Fishburne, corrotto uomo d'affari, nel crime Black Water Transit. Transit Inoltre, rapina banche con la complicità del Nemico pubblico, pubblico Johnny Depp. Nel 2010, è la viziosa stella protagonista di Somewhere diretto da Sofia Coppola e si "scopre" divo del porno in Born to Be a Star di Tom Brady. Ha girato ben 35 videoclip: per esempio ferisce i sentimenti dell'ex lover Alicia Silverstone in Cryin' degli Aerosmith e si infuria con la capricciosa girlfriend Britney Spears, in Everytime (visto il loro numero, i videoclip verranno omessi dalla filmografia dell’attore). Filmografia (1985) Non aprite quel cancello (1998) Blade (1990) L’amico di legno (1999) Entropy – Disordine d’amore (1990) Una vita strappata (2000) Destino fatale (1992) La forza del singolo (2000) A morte Hollywood! (1993) Cuba Libre – La notte del giudizio (2002) Riders – Amici per la morte (1993) Backbeat – Tutti hanno bisogno d’amore (2002) paura.com (1994) S.F.W. – So Fucking What (2002) Deuces Wild. I guerrieri di New York (1996) Space Truckers (2003) Sotto massima copertura (1996) Blood and Wine (2003) Oscure presenze a Cold Creek (1997) La spirale della vendetta (2005) Alone in the Dark (2005) Shadowboxer (2008) XIII – Il complotto (2006) .45 (2008) Felon (2006) World Trade Center (2009) Nemico pubblico – Public Enemies (2006) Covert One – Virus mortale (2010) Somewhere (2007) Nanking (2010) Born to Be a Star Recensioni Gian Luigi Rondi - Il Tempo Un noto attore americano, Johnny Marco, la sua bambina di undici anni, Cleo, il celebre albergo di Hollywood in cui vive, il Chateau Marmont, la Ferrari ultimo grido che romba sotto la sua guida sempre più frenetica. Su questi elementi Sofia Coppola si è costruita una storia che, come già in "Lost in Traslation", non ha bisogno di testi letterari alle spalle, come avevano invece "Il giardino delle vergini innocenti" e "Marie Antoinette". Una storia decisamente intimista, con quel padre e quella figlia al centro che, insensibilmente, diventano il motore dell'azione. Johnny ha tutto e non si nega niente, donne, alcol, pasticche, pago del successo che dovunque lo circonda. È però separato dalla moglie che, a cadenze fisse, gli affida la bambina cui far dedicare qualche ora di svago (adora il pattinaggio) e che un giorno accompagna in un campeggio apprendendo da un pianto della piccola che la mamma è andata lontano senza precisare la data del ritorno. Questa circostanza, la presenza della bambina al suo fianco in quell'albergo fastoso e durante una trasferta a Milano per ricevere un Telegatto assegnato contemporaneamente a Maurizio Nichetti per una sua regia, in quell'ambiente tanto diverso da quel candore di Cleo che non le fa neanche vedere le molte donne cui il padre si accompagna, lo fanno entrare in una crisi profonda, forse definitiva. La soluzione la si può immaginare, ma resta sospesa: in un finale aperto. Tutto, appunto, analizzato da vicino, studiando fino in fondo il modo di vivere del protagonista, le sue insofferenze, ma anche gli atteggiamenti passivi cui si sottomette per adempiere a tutti i rituali del cinema - sedute di trucco, massaggi, conferenze stampa - poi quella graduale presa di coscienza del proprio vuoto fatta emergere dal semplice confronto con la figlia. Senza forzare la mano, con segni minuti, ritmi quasi raccolti, dando spazi giusti a molte, colorite figure di contorno e alle cornici sempre scenograficamente vistose che le accolgono, ma privilegiando comunque quei due personaggi centrali fino a quella conclusione forse senza sbocco (il titolo dice "Somewhere", "Da qualche parte", la meta futura del protagonista?). A Johnny Marco dà vita un attore poco noto, Stephen Dorff, con una mimica mobile, segnata da effetti sicuri. Cleo è Elle Fanning, non è una esordiente e sa sempre costruirsi la naturalezza che il suo personaggio esigeva. Fabio Ferzetti - Il Messaggero Amori e solitudini. Sussulti e inquietudini. Amplessi incontrollabili e tristezze inconsolabili. I due film in concorso di oggi esplorano ognuno a suo modo l'altra faccia dell'opulenza, il lato in ombra dell'abbondanza, la parte maledetta di qualcosa che una volta si chiamava felicità. In Somewhere (da ieri in sala) Sofia Coppola torna agli alberghi e agli altri non-luoghi di Lost in Translation con gli occhi di un giovane divo italoamericano che possiede tutto ma non ha niente. Tranne forse un unico tesoro, la figlia avuta dall'ex-compagna. Così, prima di coinvolgere nella sua lussuosa non-vita quella undicenne con uno sguardo da trentenne (Elle Fanning), ecco lo smidollatissimo Johnny Marco (Stephen Dorff) passare in rassegna i mille-modi-per-sfuggire-a-te-stesso se sei giovane, ricco, famoso e vivi in un luogo sacro alla mitologia losangelina come lo Chateau Marmont. Dunque ragazze a gogo, tanto lui non dice mai no. Pigri giri in Ferrari (una Ferrari col cambio automatico!). Photocall promozionali per l'ultimo film (con la co-protagonista, una delle sue mille ex, che continua a insultarlo sorridendo). Mentre se proprio butta male ci si possono far spedire in camera due gemelle bionde che eseguono all'unisono un tenero e privato spettacolo di lapdance con pertiche pieghevoli da vere professioniste. Naturalmente ci vuole tempo per svegliarsi da un incubo così dorato. E Sofia Coppola se la prende comoda, variando il concetto fra Los Angeles e Las Vegas. Con una capatina a Milano per vedere come va in periferia (le periferie sono sempre più brutte del centro, i Telegatti sono molto peggio di Hollywood...). Lasciando che tutta la bellezza, la verità, i (rari) momenti di consapevolezza scaturiscano dal rapporto con quella figlia adorabile che pattina come un angelo, prepara colazioni squisite, tollera perfino (a malapena) le fidanzate invadenti di papà. Niente che Sofia Coppola non abbia già raccontato, ma con un'eleganza, un'acutezza, una malinconia foderata di indifferenza, che è la cifra di questi anni nauseati e satolli. Un film di transizione insomma, che ribadisce le doti dell'autrice senza rischiare molto. Paola Casella - Europa Il cinema di Sofia Coppola è come il cane per strada di Francesco De Gregori: non sa dove andare, comunque ci va. E questo è il pregio e il difetto della regista italoamericana, figlia prediletta di papà Francis, bambina viziata nella vita e sul grande schermo: non a caso il suo film si intitola Somewhere e comincia con una Ferrari che gira in tondo e finisce con la stessa Ferrari che cerca di andare dritto lungo una di quelle strade americane delle quali non si vede la fine. Somewhere è la storia di un attore famosissimo, Johnny Marco, interpretato da Stephen Dorff che pare un incrocio (non casuale) fra Heath Ledger e River Phoenix, che vive da solo in un appartamento del Chateau Marmont, il residence più cool di Beverly Hills dotato di ogni comfort ma anche tristemente famoso per la morte da overdose di John Belushi e altri attori meno noti. Marco trascorre un'esistenza inutile fra alcol, pasticche e donnine facili, tutte bionde, bellissime ed estremamente disponibili, che popolano party improvvisati anche nel suo appartamento senza che lui li abbia organizzati. Come unica interruzione a questa routine, che lui accetta con passività e una sorta di rassegnata pazienza, arrivano ogni tanto le visite della figlia Cleo (Elle Fanning, sorella di Dakota), undicenne apparentemente felice di condividere col padre quella non-realtà in cui qualsiasi cosa desidera, a qualunque ora e in qualunque luogo, è a una telefonata di distanza. Più che un padre e una figlia, Cleo e Johnny sono compagni di gioco, e infatti passano parecchio tempo davanti ai videogame più avanzati, quando Cleo non è costretta ad accompagnare Johnny ad una delle tante ridicole attività "lavorative" di una superstar, dalla posa per una maschera di silicone a un incontro stampa a un'apparizione alla televisione italiana, tutti raccontati con un umorismo e un'autoironia, considerato lo status di superstar della famiglia Coppola, davvero notevoli. Sofia è bravissima a calarci in quel mondo di elicotteri privati, alberghi superlusso e servizio in camera nel mezzo della notte che per la maggior parte di noi è esotico come la foresta del Borneo, e se, come abbiamo spesso scritto, il cinema deve portarci in luoghi in cui non entreremmo se non grazie ad esso, la regista ha già svolto egregiamente il suo compito. Peccato però che, alla sua grande capacità di creare atmosfere rarefatte e universi paralleli, al suo indubbio gusto estetico e alla sua abilità registica, la Coppola non sappia abbinare un genuino talento di sceneggiatrice, e così tutti i suoi film procedono incerti, esitanti, girovagando e dilungandosi inutilmente, e non senza autocompiacimento, in digressioni che non fanno avanzare la storia, eliminando pezzi importanti della trama per non scioglierne il nodo narrativo e usando il silenzio come foglia di fico (tutti ricordiamo l'escamotage Lost in translation, magari originale in quel film, ma non riproducibile all'infinito). E dunque anche Somewhere è di piacevolissima visione ma resta esile nella trama, che finisce dove, assai più coraggiosamente, cominciava Into the wild di Sean Penn. È vero che Johnny Marco non sa dove andare a parare, e dunque che la forma del film rispecchia il suo punto di vista, ma è anche vero che lo smarrimento esistenziale, tantopiù se incarnato da un divo super-ricco, alla lunga risulta noioso: Somewhere sarebbe un bellissimo corto, ma come lungometraggio allunga il brodo un po' troppo spesso, e tra l'altro sembra rifare il verso a quell'episodio (breve, appunto) di New York Stories girato tanti anni fa da Coppola padre, di cui era protagonista proprio una bambina che viveva in un albergo, e per il cui ritratto Francis dichiarò allora di essersi ispirato proprio a sua figlia Sofia. Forse la mossa più coraggiosa della regista è quella di raccontare l'Italia di oggi, e le televisioni berlusconiane, come un inferno decorato da paillettes e popolato da bionde seminude pronte a strofinarsi sulla prima star (meglio se yankee). Considerato il fatto che il film è distribuito nel nostro paese da Medusa, ben fatto, Sofia. Davide Turrini - Liberazione L'unico "clan" che non denunceremo mai è quello dei Coppola. Francis, Roman e infine Sofia. Tale padre, tali figli. Lui ha tracciato il sentiero poetico e produttivo indipendente. Loro l'hanno seguito. Poi, se Roman si è dato al reperimento e alla gestione delle risorse, Sofia è oramai la regista di famiglia che succede al padre. Con Somewhere, in Concorso a Venezia tra gli applausi (a proposito diffidate sempre di chi scrive minutaggi esagerati di applausi per i film, se lo inventano), ritorna alla dimensione minimale del racconto e della produzione. Budget non elevato, parecchie sequenze girate in esterni, indipendenza di cassa e di idee garantite dalla propria American Zoetrope e dal distributore americano Focus Features. E visto che si segue ancora una volta la storia di un rapporto padre-figlia, di una figura maschile che può e deve rassicurare e di una femminile alla ricerca di sicurezza, probabile che ci si voglia riferire più al target di Lost in translation che dell'ultimo sballato Maria Antonietta. Meglio, però, non chiedere a Sofia se esiste qualche doppio simbolismo che si richiama al suo rapporto con il padre. Non vi risponderebbe. Certo, Francis se la portava in giro per i suoi apocalittici set degli anni '70, ma non è mai stato una star/involucro, modello Johnny Marco. Un'icona tascabile da film d'azione hollywoodiano interpretato in Somewhere da uno straordinario, catatonico Stephen Dorff. Johnny vive ad Hollywood nel celeberrimo hotel Chateau Marmont, dove nell'82 John Belushi esalò l'ultimo respiro dopo un'overdose. La giornata è scandita dagli elementi base dell'esistenza da showbiz: dormire, mangiare, bere (tanto), girovagare in Ferrari, scopare. Graziose, a tal proposito, le gemelline bionde che offrono a Johnny uno spettacolino di lapdance da camera, con tanto di palo smontabile e piegabile dentro un valigetta portatile. Bum! E il palloncino di chewingum gonfiato da una delle due danzatrici scoppia davanti al naso del protagonista. Entra in scena Cleo (Elle Fanning), graziosa undicenne, che l'ex moglie di Johnny scarica come un pacco postale a scadenza campeggio. Così, prima di accompagnare la bimba in vacanza, Johnny vivrà qualche giorno insieme alla figlia, mostrandole dolori e gioie dello star system a cui, nonostante tutto, lui appartiene. Non aspettatevi, però, una critica radicale di un sistema industriale come quello hollywoodiano. Non è nelle corde di Sofia, come non è nelle corde di un qualsiasi statunitense "liberal" che vuole porsi in modo dubitativo di fronte a questo problema. Semmai in Somewhere il sistema viene lentamente destrutturato dal di dentro, mostrandone gli impressionanti vuoti celati da sfavillanti pieni. Johnny è la ripetizione meccanicizzata di gesti, parole, sorrisi, ruoli pubblici della star attuale senza la sottolineatura visiva del kitsch e dell'eccesso. E' lui stesso a tenere un basso profilo dicendo di non aver fatto scuole di recitazione. Esiste in quel modo, in quanto prodotto del sistema e basta. Poi arriva il momento che Coppola definisce "punto di transizione", in cui ci si sofferma a riflettere, in cui si diventa "introspettivi". Johnny lo vive con particolare trasporto, ma senza melodrammaticità. Del resto Somewhere è un film sommesso e silenzioso, che prende ritmo dall'accumularsi di situazioni all'apparenza inutili (stare seduti su uno sdraio, mangiare un gelato, guardare la tv), ma che nel loro sommarsi creano lo spessore di una solitudine, piuttosto che di un isolamento. Sofia Coppola in questo è proprio maestra. Lasciamola creare in pace. E' davvero il suo mestiere. Alberto Crespi - L'Unità La conferenza stampa di Sofia Coppola ("Somewhere", in concorso) viene aperta da Giampaolo Letta, di Medusa. E subito si teme la replica di Venezia 2009, quando Carlo Rossella rubò la scena a Giuseppe Tornatore per decantare la bellezza di "Baarìa" (c'eravamo, e per la cronaca Tornatore aveva la faccia di uno che voleva sprofondare). Per fortuna Letta è assai più laconico, e dà una sacrosanta informazione tecnica: "Somewhere" è da ieri sera nei cinema italiani, in 250 copie. Chissà cosa pensano, ai piani alti di Mediaset, del film: strombazzato come l'esordio hollywoodiano di Simona Ventura e Valeria Marini, offre in realtà della tv italiana – e più precisamente della cerimonia dei Telegatti – un'immagine agghiacciante. Il protagonista Johnny Marco (Stephen Dorff: dolente, un po' monocorde ma molto vero) è un giovane divo americano che a un certo punto viene letteralmente costretto ad una trasferta milanese per ritirare il premio suddetto. Viene presentato sul palco da una Simona Ventura berciante e da un Nino Frassica demenziale, riesce solo a dire «grazie» e viene travolto da un osceno balletto con una Valeria Marini sculettante in playback. La sequenza dura circa 2 minuti ed è il momento più angosciante di un film molto triste. Subito dopo, Johnny e la figlioletta undicenne Cleo (che l'ha accompagnato a Milano) fuggono in aeroporto e tornano a Los Angeles. Sofia Coppola ha raccontato che la scena è ispirata a un suo viaggio a Milano con papà Francis: oltre agli Oscar, il sommo Coppola ha vinto anche un Telegatto! «Ho descritto la tv italiana come la ricordavo, ma penso che le televisioni e i premi siano uguali in tutto il mondo». Fidati, Sofia: in certi paesi sono più uguali che in altri. "Somewhere" è una riflessione sulla vita nel mondo dello spettacolo, come "Lost in Translation" (il personaggio di Bill Murray) e come lo stesso "Maria Antonietta", anche se in quel caso lo show-business coincideva con Versailles e con la messinscena del potere. Johnny Marco è un divo infelice. Vive allo Chateau Marmont, hotel «maledetto» di Los Angeles. Ha appena finito di girare un film e passa giornate oziose fra interviste, feste e avventure occasionali. Finché un giorno la figlia Cleo – che abitualmente vede nei week-end – gli si piazza in camera e non va più via: la madre l'ha scaricata e la bimba, come un pacco postale, viene recapitata al padre. Johnny non sa letteralmente cosa farsene, ma pian piano scopre una complicità che credeva impossibile. E quando Cleo parte per il campeggio si ritrova solo come un cane, disgustato dal mondo. Sale sulla Ferrari, guida verso il deserto. Accosta nel mezzo del nulla, scende dall'auto, si avvia a piedi. Sorride… e idealmente comincia "Non torno a casa stasera", bellissimo film sui «randagi» dei deserti americani diretto da papà Coppola nel lontanissimo 1969, a 30 anni, due anni prima che Sofia nascesse. "Somewhere" è, rispetto a "Maria Antonietta", un ritorno alle atmosfere della New Hollywood degli anni '60 e '70. Ma è veramente troppo esile, troppo rarefatto: i pochi momenti toccanti non giustificano le lunghe parentesi nelle quali gira a vuoto. Al quarto film si comincia a notare che Sofia Coppola ha poco da dire, anche se lo dice molto bene. Fulvia Caprara - La Stampa La solitudine dei «figli di», lo straniamento di chi ha passato più tempo in albergo che a casa, le vite sopra le righe di chi è abituato a stare perennemente sotto i riflettori. Con Somewhere, ieri al Festival in contemporanea con l'uscita nelle sale italiane (250 copie con il marchio Medusa), Sofia Coppola torna a parlare di sé, di un mondo dello spettacolo vacuo e scintillante, di artisti, come il protagonista Johnny Marco (Stephen Dorff), che scoprono tardi il significato dell'essere padri: «La storia non parla solo di me, ma certo contiene episodi che si rifanno alla mia esperienza personale, ai ricordi di quando accompagnavo mio padre in giro per il mondo, alla sensazione di stargli accanto sentendo che c'erano tante persone attratte dalla sua arte, all'entusiasmo che provavo entrando nel mondo degli adulti». La figlia di Johnny Marco si chiama Cleo (Elle Fanning), è una bambina che sta per diventare ragazza, in bilico tra la felicità di un'esistenza insolita e il vuoto di genitori spesso assenti: «Il personaggio è ispirato a una mia amica, ma è chiaro che, in tutto il mio lavoro di sceneggiatrice e di regista, il collegamento personale è forte». Tra l'altro Somewhere è più che mai un'opera di famiglia dove hanno lavorato, come produttori, sia Francis Ford Coppola che il figlio Roman: «Mio padre - spiega Sofia con il suo tono sommesso da ragazza beneducata - mi ha sempre spinto a girare film anche piccoli, a patto che però siano davvero miei e indipendenti». Il viaggio di conoscenza che metterà Johnny Marco davanti alla realtà della paternità, inizia nel celebre Chateau Marmont di Los Angeles e comprende una variopinta tappa italiana, con il protagonista coinvolto sul palcoscenico dei Telegatti, Simona Ventura che lo presenta, Nino Frassica che ha fa la spalla, Valeria Marini che gli danza intorno intonando una canzonetta senza senso. L'Italia della tv più vista, ama anche più becera: «Molti anni fa ho partecipato a un'edizione dei Telegatti, è un mondo che conosco e che non considero troppo diverso da quello di certi show di Las Vegas, è il segno di una globalità che ci riguarda un po' tutti. Ho voluto metterlo in scena per sottolineare il contrasto con quello di una ragazzina come Cleo». Certo, lo spaccato è tutt'altro che edificante, così come l'assalto dei cronisti e la pioggia di domande peregrine: «Amo la cultura italiana ribatte Coppola -, quando si arriva in un Festival è sempre così, ci sono tante persone che ti accolgono e ti chiedono cose, è il cinema che è fatto così, ovunque. Non volevo esprimere un giudizio specifico sull'Italia». Durante lo show Maurizio Nichetti riceve un premio, e Laura Chiatti, nella notte che segue, è una conquista passeggera di Johnny Marco: «Li ho voluti per rendere più autentica quella parte del film, specialmente pensando al pubblico italiano che vedrà Somewhere. La tv in Italia è peculiare, diversa dalla nostra, sopra le righe. Trovarsi, da stranieri, in quel tipo di contesto, rende ancora più intenso il legame tra il padre e sua figlia». I giornalisti, comunque, «hanno una funzione importante, possono aiutare un piccolo film a raggiungere un pubblico grande». Anche Los Angeles ha le sue manie, ma con le dovute differenze: «È una città un po' dura, un po' spigolosa, può trasmettere quella sensazione di estraneità. Ci ho vissuto negli Anni 90, allora tutto era più innocente, forse perché era prima che dilagassero i tabloid e le feste piene di celebrità. Allo Chateau Marmont, per esempio, i paparazzi non erano ammessi, e i reality-show ancora non esistevano. Oggi invece ce ne sono in abbondanza, anzi, ho l'impressione che la gente stia al check-in solo per essere fotografata. Lo Chateau sembrava un mondo privato, adesso, invece, è diventato il fulcro di quel tipo di cultura pop». Nel finale, sulla faccia stropicciata di Stephen Dorff, finalmente sceso dalla sua Ferrari nera, appare un sorriso che significa cambiamento, fine di quell'equilibrio precario così noto a chi sceglie il mestiere dell'attore: «Quando reciti in un film la troupe diventa la tua famiglia e quando tutti vanno per la loro strada, ci si sente soli, con niente da fare. È capitato anche a me, infatti, appena finito Somewhere, ho detto a Sofia "se mi prendi per un altro film, fallo più lungo, così mi sentirò meno solo"». Gloria Satta - Il Messaggero Nemmeno il nubifragio, che a metà mattina si abbatte sul Lido provocando allagamenti un po' dappertutto, riesce a guastare il trionfo di Sofia Coppola. Pubblico in fila, lunghi applausi scroscianti alla proiezione ufficiale, commozione e divertimento accolgono Somewhere, quarto film della trentanovenne regista, icona di uno stile minimalista e raffinato, due figli e un Oscar vinto per la sceneggiatura di Lost in translation. Dopo aver raccontato l'amore "impossibile" di due americani in trasferta a Tokyo e la prigione dorata della regina Maria Antonietta, in Somewhere ("da qualche parte") Sofia affronta il rapporto tra un padre separato e la figlia undicenne. Sullo sfondo la Hollywood dello showbusiness, del sesso facile, dei mille party e della solitudine irrimediabile di tante persone. Lui, Johnny Marco (interpretato da Stephen Dorff) è un attore di successo in piena crisi esistenziale, abituato a trascinarsi da una festa a un rapporto sessuale occasionale, da una corsa senza meta sull'amata Ferrari a una conferenza stampa svogliata. La piccola Chloe, dolce e luminosa (Elle Fanning, sorella dotatissima dell'ex enfant prodige Dakota), un bel giorno piomba nell'hotel che fa da casa al padre: è il mitico Chateau Marmont di Los Angeles, rifugio dei divi fin dal 1929 e teatro della tragica morte di John Belushi. Chloe porta nella vita scombinata dell'uomo la grazia della sua innocenza e i sani interessi di bambina, dal pattinaggio artistico alla cucina, che riesce a coltivare malgrado si ritrovi «due genitori troppo presi da se stessi», certo non all'altezza del compito. Dopo aver fatto tappa a Milano durante una surreale cerimonia dei Telegatti con i veri Frassica, Ventura e Marini in scena (c'è anche Laura Chiatti nella parte di un'amante fugace), il rapporto padre-figlia cambierà le prospettive di Johnny fino a dargli la forza di immaginare una nuova vita, provvista di un senso e una dignità. «Ho sempre amato raccontare i momenti di transizione», spiega Sofia Coppola, «e l'ambiente dello showbusiness mi ha permesso di esplorare la solitudine, il senso di isolamento che appartengono alla cultura contemporanea. Il film racconta l'influenza che può avere un figlio nella vita di una persona, fino a stravolgerla. Ho scritto la sceneggiatura di Somewhere prima di diventare madre, poi l'arrivo della prima bambina ha cambiato tutte le mie priorità». Inevitabile chiederle quanto ha pesato, nell'immaginare la storia di Jonnhy e Chloe, il suo rapporto con il padre Francis, il grande regista e produttore che a febbraio 2011 riceverà l'Oscar alla carriera. «Anche se papà non ha nulla in comune con il personaggio interpretato da Stephen, la mia infanzia è stata scandita dal suo lavoro», racconta Sofia. «Noi figli l'abbiamo accompagnato su tutti i set in giro per il mondo ed è per questo che gli alberghi compaiono tanto spesso nei miei film». Dorff, al quale la Coppola ha offerto la grande occasione, afferma che il ruolo l'ha responsabilizzato: «Non ho ancora figli e la confidenza che ho dovuto stabilire con la piccola Elle per rendere credibile il nostro rapporto mi ha fatto sentire il calore della famiglia. Le mie analogie con il personaggio si limitano al fatto che tutti gli attori, finito un film, rimpiangono i rapporti umani che si erano creati sul set e si macerano nell'ozio nell'attesa di una nuova scrittura. Purtroppo non possiedo una Ferrari, anche se ho adorato guidarla davanti alla cinepresa». In Somewhere l'Italia non fa una bella figura: la nostra tv risulta confusionaria e volgarotta, mentre il divo americano viene scortato a sirene spiegate e incredibilmente coccolato dalle autorità... «Il fatto che le star vengano trattate con tanti riguardi è un fenomeno non solo italiano ma comune a tutto il mondo», risponde la Coppola. «Quanto alla serata dei Telegatti, alla quale ho partecipato in prima persona tanti anni fa, volevo mettere in contrasto la volgarità di quel mondo con l'innocenza di Chloe. Non avevo intenzione di offendere la tv italiana». Assicura Sofia, che ieri sera è stata festeggiata a Palazzo Polignac da Antoine Arnault, manager di "Louis Vuitton": «Fare cinema indipendente è diventata un'impresa durissima. Ma io non dimentico l'insegmanento di mio padre, che ha sempre spinto noi figli a realizzare film personali». Nella produzione di Somewhere, uscito in tutta Italia ieri sera con Medusa subito dopo gli applausi veneziani, oltre a Francis Coppola è entrata anche la società guidata da Rossella e Letta. «Questo film», annunciano al Lido i capi di Medusa, «conferma la vocazione internazionale della nostra società e l'inizio della collaborazione con Sofia Coppola».