Roberto Alonge Visconti, dietro il paravento i pizzicotti alla sua

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Roberto Alonge Visconti, dietro il paravento i pizzicotti alla sua
Roberto Alonge
Visconti, dietro il paravento i pizzicotti alla sua Locandiera
Ho sempre pensato che il meglio della regia italiana, in questo secondo
dopoguerra, si è alimentata alle intuizioni e alle riflessione del meglio della ricerca
scientifica. Gli spettacoli ruzantiani di De Bosio si spiegano con il lavoro di scavo di
Ludovico Zorzi, e molti spettacoli goldoniani (ma anche pirandelliani) di Squarzina
con le analisi sempre ficcanti di Mario Baratto. C’è però un momento in cui il
processo si inverte, in cui è l’accademia che va a scuola dalla regia, ed è, appunto,
con la memorabile messinscena della
Locandiera di Luchino Visconti,
anno del Signore 1952. Qui è il
regista a salire in cattedra; è lui a
rovesciare una tradizione critica
bisecolare, abituata a leggere Goldoni
in chiave Rococò, balletto musicale,
svolazzi, trine, merletti, parrucche,
cipria e nèi artificiali. Con un colpo
d’ala audacissimo Visconti impone
Goldoni come autore realista, come
cantore della borghesia progressista, in marcia verso il Sol dell’Avvenir.
La critica fu perfettamente consapevole della rivoluzione che stava accadendo
sotto i suoi occhi. Il migliore dei critici, Silvio D’Amico, intitola la sua recensione:
Nella Mirandolina alla Fenice troppo Visconti e poco Goldoni. D’Amico, si sa, è il
grande padre della regia italiana, ma è un padre-padrone un po’ soffocante, che vuole
imporre dei limiti severi e invalicabili al lavoro registico; che accetta, in definitiva,
solo un particolare tipo di regista, il regista servo d’autore, l’illustratore dell’autore.
Sfugge a D’Amico non solo l’idea di una regia creativa ma anche solo quella di una
regia critica, che interpreti cioè il testo, tirandone fuori dimensioni nuove, inedite
(ma che pure sono, in fondo, all’interno del testo). Visconti non interviene
(sostanzialmente, se non per dati minimi e minimali) sul testo, ma basta un diverso
impianto scenografico e costumistico, un diverso modo di atteggiarsi degli attori sulla
scena per creare un Goldoni differente, inaspettato. Fissiamo alcune note di
D’Amico:
L’umanità di Goldoni è sempre, impercettibilmente, atteggiata, aggraziata, in un costante gioco di
variopinta, per quanto pudica, fantasia. Sicché Goldoni, e specie quello in lingua italiana, non potrà
mai essere rappresentato in chiave di mero realismo.
[…]
Nella Locandiera invece si rappresenta precisamente l’arte con cui la seduttrice abborda, intacca,
scrolla, batte, vince, un colpetto dopo l’altro, la ruvida ritrosia del misogino.
[…]
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Non ci sono sembrate a proposito le sue scene alla Morandi, i costumi maschili, il cortile che egli ha
sostituito ad alcuni interni. […] Dove Rina Morelli, squisitissima fra le nostre attrici, non sempre ci
è apparsa la brillante incantatrice che fa girar la testa a tutti esattamente i maschi presenti in scena;
[…] né nel violento isterismo ostentato dal bravo Mastroianni, ch’era il cavaliere di Ripafratta,
abbiam ripercorso le fasi dell’intimo, graduale disciogliersi della sua brusca durezza1.
Bene, direi che c’è già tutto, che tutto
è chiaro in queste prime annotazioni.
L’autore è l’autore, e non lo si
discute: è quello che la critica ha
fissato in un ritratto ormai definitivo.
Goldoni è aggraziato, e dunque non
può essere realista. Mirandolina è
una sapiente (e aggraziata) seduttrice,
che conquista, a poco a poco, il ruvido
misogino. Stabiliti questi paletti, il
giudizio sullo spettacolo ne discende
automaticamente e in maniera
coerente. Rina Morelli non va bene, perché non risulta la seduttrice che dovrebbe
essere. E Marcello Mastroianni nemmeno, perché perdura nel proprio “violento
isterismo” anziché sciogliersi come neve misogina al sole della seduzione.
Ecco, forse ha davvero ragione Siro Ferrone, quando teorizza che per capire
uno spettacolo, è meglio non averlo visto2. Potrebbero bastare queste righe di
D’Amico (senza scomodarne troppe altre), con l’integrazione di qualche fotografia
di scena, per farci capire perfettamente – anche se non l’abbiamo visto – che cosa fu
lo spettacolo. E, prima di tutto, che cosa non fu. Non fu la storia di una seduzione. E
come avrebbe potuto essere, se il ventottenne Mastroianni era quello che è sempre
stato, il bellissimo Marcello, tanto più bello perché aveva allora ventotto anni, e Rina
Morelli ne aveva quarantaquattro, ed entrava in scena con il grembiule e una cesta
sotto il braccio? Per quale forma di improbabile operaismo il nobile cavalier di
Ripafratta avrebbe dovuto innamorarsi di questo figurino di indefessa lavoratrice? E’
ben vero che Mirandolina dice di non essere una dèa del sesso (“Io non sono una
ragazza. Ho qualche annetto; non son bella”), ma anche il Cavaliere è un incallito
scapolone, che a lungo amici e
famigliari hanno tentato di accasare:
dunque anche lui avrà i suoi annetti. Un
regista illustratore (che sarebbe piaciuto
a Silvio D’Amico), accanto alla
quarantaquattrenne Rina Morelli,
avrebbe potuto scegliere, come
Cavaliere, il quarantaseienne Paolo
Stoppa (anziché sacrificarlo nel ruolo
marginale del Marchese di Forlipopoli).
Sarebbe stato tutto più semplice e più
credibile. Perché diavolo non ci ha pensato, Luchino Visconti?
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Forse, per il banalissimo motivo, che a quella storia di seduzione non ci
credeva né punto né poco. Un Cavaliere ventottenne e bellissimo (come il Marcello
sia pure non ancora nazionale) era un modo infallibile per rendere quella storia del
tutto in-credibile. Ma ritorneremo più avanti, su questo tormentone della seduzione.
Fermiamoci alle altre asserzioni
capitali di D’Amico. Non gli
piace l’impianto scenografico,
soprattutto l’ambientazione in
esterni, nel cortile della locanda,
che Visconti usa ripetutamente: in
tutto il primo atto (al posto dei
vari interni previsti dal testo: sale
di locanda e camera del
Cavaliere), ma anche
parzialmente nel secondo atto
(dalla scena decima in avanti,
sicché persino la celebre scena del
finto svenimento di Mirandolina risulta realizzata en plein air!). Cosa c’è di male in
una ambientazione all’aperto? Un’idea un po’ strana, certo innovativa, ma, in teoria,
niente di eversivo. E invece è chiaro che questa è la prima zampata del leone, il
primo colpo inferto agli spazi claustrofobici di trine merletti e minuetti settecenteschi.
Aria e luce penetrano improvvisamente (e prepotentemente) nella drammaturgia
goldoniana, le cui vicende da private si fanno pubbliche, rinviano alla città reale che
si intravede sullo sfondo, leggermente in alto, oltre il muro del cortile. E quello
spazio di cortile è disadorno e quasi squallido, come si addice alla fabbrica
dell’accumulazione capitalistica.
Pulizia ma parsimoniosa
essenzialità; candide tovaglie
bianche sui tavoli disseminati nello
spazio del cortile, ma umilissime
sedie di legno. Il bianco delle
tovaglie che rinvia al bianco del
grembiule che Mirandolina indossa
sopra un abito scollato ma anch’esso
semplice. E peggio ancora nel terzo
atto. Qui non c’è più un esterno,
bensì un interno, ma è un interno
ancora più minaccioso. Assai divertente (sebbene visibilmente esagerata) la
descrizione di un recensore: “una specie di capannone in cemento armato, tutto
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grigio, tetro, con enormi finestre dalle quali un elicottero avrebbe potuto penetrare
agevolmente”3. Sulla destra dello spettatore c’è un grande armadio con un’anta
aperta, che lascia vedere quattro pile di candidissime lenzuola ben stirate; due corde
che tagliano orizzontalmente la stanza e che reggono, ad asciugare, biancheria di
vario genere (ma ancora in prevalenza di colore bianco); una enorme cesta, in
posizione centrale, da cui fuoriescono altri capi di biancheria destinati a essere stirati;
e un tavolo da stiro, anch’esso tutto quanto di bianco vestito. Siamo nella stireria, ma
una stireria collocata sulla parte alta dell’edificio, una sorta di altana, sicché dalle tre
finestrone si vedono – sì, di nuovo - i profili delle case della città, ma questa volta in
basso, rispetto al punto di vista di chi si muove nella stireria. Appunto, la città che è
continuamente visibile, in alto o in basso, oltre la cinta del muro di fondo del cortile o
attraverso gli spazi delle grandi finestre dell’altana-stireria. La vicenda privata di
Mirandolina e di tre lestofanti
aristocratici, sì, ma in un rapporto
dialettico, coerente, con il sociale,
con la comunità, con la storia.
Suvvia, Luchino Visconti è
propriamente un intellettuale
organico, che vota comunista.
Un’altra orgia di bianco provvede a
rimandare il solito messaggio:
pulizia, ordine, efficienza
gestionale. La locandiera è, non a
caso, una locandiera, e non una
damina cocotte, une allumeuse che civetta tutto il giorno, mettendo in fregola gli
ometti perdigiorno di nobile lignaggio. Nel primo e atto con la cesta sotto braccio, e
nel terzo atto con il ferro da stiro in mano. Nel primo e nel secondo atto in grembiule
bianco, fissato al petto con qualche spilla da balia; nel terzo atto un diverso
grembiule (però sempre bianco), con due larghe bretelle, a dare a Mirandolina un’aria
più severa, da istitutrice. L’impoetico (e anti-erotico) grembiule è la sua divisa, è il
segno distintivo della professione: padrona di locanda, ma lavoratrice in prima
persona, per dare l’esempio ai suoi salariati.
Certo, il finale di commedia è altamente significativo. Ce lo ha conservato il
ricordo di Gerardo Guerrieri, che fu collaboratore assiduo di Visconti. I tre
bellimbusti hanno abbandonato la locanda; restano in scena, soli, Mirandolina e il suo
servitore Fabrizio, appena accettato come sposo:
Mirandolina dice: “Cambiando stato, voglio cambiar costume”. Fabrizio, il cameriere, che seduto
sulla tavola sta fumando si volta e le manda un bacio. (E’ il bacio di colui che crede di essere il
futuro sposo, il padrone). Per tutta risposta Mirandolina va all’armadio, gli prende un grembiule
pulito e glielo getta. Fabrizio capisce l’antifona. Raccoglie il grembiule, scende dalla tavola e
infilatosi il grembiule va davanti a Mirandolina che intanto ha detto: “E lor signori ancora
perofittino di quanto hanno veduto”. Ora Mirandolina allaccia il grembiule di Fabrizio, dicendo: “in
vantaggio e sicurezza del loro cuore”, poi va alla tavola, prende il ferro da stiro e lo dà a Fabrizio,
che si avvia svogliato. Mirandolina lo vede svogliato, lo sollecita. Fabrizio esce. Mirandolina va
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verso la biancheria appesa sul fondo, stacca dalla corda una tovaglia, la porta alla tavola, la stende
per stirarla e dice: “E quando mai si trovassero in occasioni di dubitare di dover cedere, di dover
cadere (qui una spruzzata alla tovaglia) pensino alle malizie imparate (un’altra spruzzata) e si
ricordino della Locandiera (un’altra spruzzata, poi sipario)4.
C’è un matrimonio, ma senza amore, di puro interesse. La padrona ha sposato il
proprio cameriere, ma per poterlo sfruttare meglio, per farlo lavorare più
intensamente. Il particolare che Fabrizio fumi la pipa è interessante se sappiamo (da
altre fotografie dello spettacolo) che era il Cavaliere a fumare, spesso, la pipa.
Fabrizio si illude di aver guadagnato la sua partita con il Cavaliere, e dunque ne
scimmiotta le movenze. Da notare che fuma la pipa dando le spalle al pubblico, ma,
anche a Mirandolina. Davvero crede di aver vinto, di avere ormai il peggio della vita
alle sue spalle. Implacabile, Mirandolina lo punisce, lo fa uscire di scena, per andare
a scaldare il ferro da stiro. Lei stira e lui va avanti e indietro, a preparare l’attrezzo
per la bisogna. Mirandolina apre la commedia con i gesti quotidiani dell’impegno,
della fatica, e la chiude in modo analogo. Il senso della vita è il lavoro, la solitudine
nel lavoro. Non c’è letizia, non c’è gioia. C’è solo l’etica austera del capitalismo, in
attesa che arrivi quella del socialismo…
Dunque la messinscena scandalizzò la critica benpensante (che era quasi la
totalità): per l’aspro realismo che azzerava la melodia aggraziata del Settecento; per
le pause nella recitazione che impedivano la leggerezza del musicale botta e risposta;
ma anche per le allusioni a crudi approcci sessuali che annientano le aspettative di
una garbata scena di seduzione. Chissà perché, ma i professori di liceo (e anche
quelli di Università), oltre ai critici teatrali, straparlano da sempre circa il fatto che il
Marchese e il Conte sono innamorati
di Mirandolina. In realtà, basta
ascoltarlo, il Conte, per capire che è
solo questione di sesso: “Io son sempre
stato solito trattar donne: ne conosco li
difetti ed il loro debole. Pure con
costei, non ostante il mio lungo
corteggio e le tante spese per essa fatte,
non ho potuto toccarle un dito”.
Meglio ancora, se i nostri professori
leggessero la prima edizione (dove
Goldoni si autocensura di meno), la
Paperini: “Non averei speso più di mille scudi in pochi mesi, se non conoscessi, che
sono bene impiegati. […] Io ero avvezzo con pochi paoli, a battere a tante porte. Ho
speso tanto con costei, e non ho potuto toccarle un dito”. Insomma, tutto sta a pagare,
per portarsi a letto la locandiera. L’abilità di Mirandolina (la sua astuzia bottegaia,
cinica e bara) è che intasca regali, illude di dare sesso in cambio, ma non lo dà mai.
Il cavaliere è fuori da questa logica (del Conte e del Marchese), ma non perché
sia misogino, come si ripete stoltamente. Frequenta in realtà donnette di facili
costumi, e la sua riflessione a proposito di Mirandolina è chiarissima: “Per un poco di
divertimento, mi fermerei più tosto con questa che con un’altra”. Il punto di attrito,
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fra Cavaliere e Mirandolina, è una questione professionale: la biancheria che gli ha
dato non è di suo gradimento. Faute professionnelle. Mirandolina fa pagare una
locanda a quattro stelle, ma il servizio è da due stelle. Il sistema su cui marcia la ditta
di Mirandolina è precisamente questo scarto, compensato dalla speranza che la
padrona darà sesso, a compenso del servizio un po’ scadente5. L’intrapresa seduttiva
di Mirandolina, a ben vedere, parte proprio e soltanto da questo punto, da questo
infortunio professionale: si tratta di sedurre il Cavaliere con una profusione di oggetti,
di cose, di cibi (lenzuola dei Reims, tovaglie di Fiandra, salsette, intingoletti), ma
anche di parole servili, di dichiarazione di sottomissione (“Dove posso servirla, mi
comandi con autorità”, “Mi tenga in qualità di serva”, “Sono una serva di chi
favorisce venire alla mia locanda” ecc.), e di gesti simbolici di assoggettamento
(preferisce bere il vino nel bicchiere già usato dal Cavaliere, anziché in uno pulito).
Ciò che conquista il Cavaliere è l’illusione di questo potere, è il fatto di essere al
centro della attenzione assoluta di Mirandolina. L’eccitazione erotica principia a
partire dal piacere del cibo, ma perché questo cibo – come viene ripetuto infinite
volte – è fatto con le mani di Mirandolina. E c’è un punto di connessione preciso, fra
piacere gastronomico presente e aspettazione di piacere sessuale futuro, che sta nella
battuta chiaramente allusiva della locandiera: “Eh, io, signore, ho de’ secreti
particolari. Queste mani sanno far delle belle cose!”. Naturalmente D’Amico (ma
anche Roberto De Monticelli) si chiudevano gli occhi per non vedere, ma, per
fortuna nostra, già nell’anno del Signore 1952 qualcuno riusciva a vedere, Carlo
Emilio Gadda, che recensendo lo spettacolo non le manda a dire: “Guardate: le
battute salaci sono del testo, forse non udite o forse denicotinizzate in edizioni
precedenti. […] La malizia e i doppisensi del linguaggio ‘sessuologico’, specie nel
primo atto, sono del Goldoni: e non li ha inventati Luchino”6.
Di qui la particolare articolazione della celebre (e tanto attesa) sequenza della
seduzione. Occupa le prime nove scene del secondo atto. Fanno una certa
impressione perché dopo un lungo primo atto, tutto giocato in esterni, nel cortile
aprico, ci ritroviamo improvvisamente in uno spazio chiuso, nella camera del
Cavaliere che il regista disegna con alcuni tratti efficaci e suggestivi: il profilo di
un’alcova a baldacchino, con le tende
semichiuse a mostrare il candore delle
lenzuola; un inquietante paravento rosso.
Dice bene Federica Mazzocchi (nella sua
utile monografia dedicata
all’allestimento), a proposito di questa
successione esterno/interno, che, in
questo modo, si rimanda “lo schiudersi
dello spazio dell’intimità di Ripafratta al
momento di maggiore intensità erotica
tra il Cavaliere e Mirandolina”7. Ma io
aggiungerei una notazione ulteriore, che la scena in interno, nella calda intimità della
camera del Cavaliere, è perfettamente impaginata fra un primo atto tutto in esterno e
una parte finale del secondo atto (dalla scena decima alla fine) di nuovo in esterno.
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6
L’uso del paravento è accorto, ed è pienamente valorizzato dalla presenza del
Marchese, che si getta a divorare l’intigoletto preparato dalla locandiera, senza troppo
preoccuparsi di ciò che il Cavaliere e Mirandolina fanno alle sue spalle, sottraendosi
appunto anche allo sguardo del pubblico in sala. “Abbiamo sentito la Mirandolina
viscontea squittire come una pizzicatissima servotta dietro un paravento di grande
classe, evidentemente assediata dal Cavaliere”, osserva un altro recensore8. I
resoconti che abbiamo – di relatori più illustri – delineano un percorso un po’ più
cavalleresco, ma senza contraddire l’esito finale di acre carnalità: Mirandolina porge
al Cavaliere una rosa recisa (forse quella che ha fra i capelli, se non fosse che in tutte
le fotografie che ho visto di questa sequenza la Morelli ha sempre in capo siffatta
benedetta rosellina…); poi i due si appartano dietro il paravento e Mirandolina,
quando ne esce, ha la rosa nel seno; prima di andarsene, però, Mirandolina estrae la
rosa dal seno e la depone sul tavolo, lasciandola per il Cavaliere, per buon ricordo9.
Insomma, c’è qualche palpeggiamento, qualche manifestazione di libidine non
troppo violenta. Per D’Amico e De Monticelli vistose forzature registiche10. Per
Gadda (e per chi sa leggere) semplici movimenti suggeriti dal testo goldoniano e
dalla psicologia del Cavaliere che abbiamo fin qui descritto. Ciò che lo rilassa (e poi
lo eccita) è il fatto che Mirandolina si sia prostrata ai suoi piedi, si sia resa disponibile
a servirlo con totale dedizione. Il gusto lievemente sadico tipico dell’aristocratico fa
scattare il desiderio erotico del Cavaliere al culmine della catena biancheria di lusso/
cibo/vino/parole/gesti che abbiamo già esaminato. Non occorre che Mirandolina sia
particolarmente graziosa o addirittura appariscente. E dunque non c’è bisogno di
pensare che lo spettacolo
viscontiano “sposta le doti
della protagonista dal piano
della carnalità e della
provocazione sessuale a quello
dell’intelligenza, dello spirito e
della provocazione mentale”11.
Ciò che esalta la psicologia del
nobile spocchioso è –
unicamente, semplicemente - il
comando sull’individuo
socialmente sottomesso, è il
potere sulla persona.
Mirandolina, per astuzia sagace, sta al gioco e gli consente qualche libertà di
palpeggiamento, al riparo discreto del paravento, ma non intende andare a letto con il
Cavaliere. Ed è questo (e questo soltanto) che fa impazzire il Cavaliere, che lo rende
furioso. Non il processo di innamoramento, come si dice infelicemente, ma la mera
pulsione sessuale, la pura foia, ciò che egli chiama i cento diavoli che lo tormentano
(“Ah malandrina! Se n’è fuggita. Se n’è fuggita, e mi ha lasciato cento diavoli che mi
tormentano”). Di qui anche un laido doppio senso che non possiamo fare a meno di
segnalare (a conferma che ha ragione Gadda, e hanno torto D’Amico e De
Monticelli), sempre indirizzato a Mirandolina, fuggita dopo il brindisi tentatore:
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“Diavolo, diavolo, me la farai tu vedere?” Ciò che nevrotizza il Cavaliere, che lo
infiamma e lo frustra, è precisamente il tipo di donna che, le sue grazie, non le offre
ma le fa solo vedere (o anche solo intravedere, se la battuta del Cavaliere va presa
alla lettera…).
Una volta accertato tutto questo, si riesce a comprendere ciò che appariva
incomprensibile alla critica, la recitazione dura, veemente, quasi decisamente violenta
del Cavaliere. Abbiamo citato D’Amico in incipit, “violento isterismo”. E similmente
a De Monticelli l’attore risultava “troppo aggressivo, agitato, in qualche punto
persino violento”12. E’ proprio così. A suo tempo ho cercato di chiarire – nel mio
saggio cui ho già fatto riferimento - che il Cavaliere è sull’orlo dello stupro, e
Mirandolina lo sa bene, se nel terzo atto si chiude a chiave dentro la “camera con tre
porte” (sostituita da Visconti con l’altana/stireria), e se il Cavaliere batte e tempesta
di pugni la porta, “vuole sforzar quella porta” (dice Fabrizio), in attesa di sforzare la
stessa locandiera). Il confronto fra l’edizione originaria del testo e l’edizione
definitiva, opportunamente censurata, conferma la bontà della mia lettura. Luchino
Visconti non avrà sicuramente consultato l’edizione Paperini, ma ha splendidamente
intuito, come fanno sempre i teatranti di genio.
Sono partito dal paradosso di Siro Ferrone: per capire un allestimento, meglio
non averlo visto. Perché i materiali che si sono accumulati nel tempo, intorno a quella
rappresentazione, offrono la possibilità di un montaggio più sapiente. Certo, ma
quando i materiali sono molteplici, occorre saper trascegliere, intelligere, cioè legere
inter, riuscire a trovare il filo rosso che guida al cuore del Labirinto. Insomma,
d’accordo sul fatto che, lo spettacolo, meglio non averlo visto, ma, paradosso per
paradosso, meglio essere intelligenti…
1. Silvio D’Amico, Nella Mirandolina alla Fenice troppo Visconti e poco
Goldoni, in “Il Tempo”, 4 ottobre 1952, ora in Silvio D’Amico, Cronache
1914/1955, antologia a cura di Alessandro D’Amico e Lina Vito, Novecento,
Palermo 2005, quinto volume, tomo II, 1949-1952, pp. 534-536.
2. Cfr. Siro Ferrone, “La Locandiera” di Goldoni secondo Visconti, in AA.VV,
Carlo Goldoni 1793-1993, a cura di Carmelo Alberti e Gilberto Pizzamiglio,
Regione del Veneto, Venezia 1995, pp. 357-367.
3. Citato in Federica Mazzocchi, “La Locandiera” di Goldoni per Luchino
Visconti, Edizioni ETS, Pisa 2003, p. 84.
4. Gerardo Guerrieri, Visconti e Gassman a confronto, in Lo spettatore critico,
Valerio Levi, Roma 1987, p. 56.
5. Rimando alla mia lettura della commedia: Roberto Alonge, Il sistema di
Mirandolina, in Goldoni. Dalla commedia dell’arte al dramma borghese,
Garzanti, Milano 2004, pp. 55-93.
6. Carlo Emilio Gadda, La vivandiera e la locandiera, in Un radiodramma per
modo di dire e scritti sullo spettacolo, Il Saggiatore, Milano 1982, p. 71.
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7. Federica Mazzocchi, “La Locandiera” di Goldoni per Luchino Visconti, cit., p.
143.
8. Citato Ivi, p. 93.
9. Si vedano le testimonianze di Gerardo Guerrieri, Visconti e Gassman a
confronto, cit., p. 55; Luigi Squarzina, Il romanzo della regia. Duecento anni
di trionfi e sconfitte, Pacini, Pisa 2005, p. 324; nonché la ricostruzione
complessiva (fondata sulla analisi dei copioni) di Federica Mazzocchi, “La
Locandiera” di Goldoni per Luchino Visconti, cit., pp. 158-161.
10. D’Amico parla di “qualche trovatina scenica licenziosetta” (Silvio D’Amico,
“La Locandiera”, all’Eliseo, in “Il Tempo”, 8 novembre 1952, ora in
Cronache 1914/1955, cit., 554). Per De Monticelli “quel pericoloso scivolare
sul piano dell’attrazione fisica, in Goldoni, non c’è” (Roberto De Monticelli,
“La Locandiera” nella regia di Visconti, in “La Patria”, 28 marzo 1953, ora in
Le mille notti del critico, a cura di Guido De Monticelli, Roberta Arcelloni,
Lyde Galli Martinelli, Bulzoni, Roma 1996, vol. I, p. 24).
11. Federica Mazzocchi, “La Locandiera” di Goldoni per Luchino Visconti, cit.,
p. 135.
12. Roberto De Monticelli, “La Locandiera” nella regia di Visconti, cit., p. 24.
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