CURARE – Lc 16,19-31 Questa mattina

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CURARE – Lc 16,19-31 Questa mattina
CURARE – Lc 16,19-31
Questa mattina cercheremo di leggere questo brano, senz’altro ben conosciuto, attraverso la
parola chiave “curare”; curare come prendersi cura, o più precisamente custodire le relazioni con i
fratelli.
Porpora, lino e piaghe per veste
Il testo si apre mettendo in scena i due personaggi del racconto di cui si descrive la
quotidianità, diremmo lo “stile di vita” (nella narrazione si usano infatti gli impf. per indicare azioni
abituali).
Il primo protagonista, un uomo ricco, “vestiva di porpora e di lino finissimo”. Si tratta di
tessuti preziosissimi: la “porpora” era riservata secondo la tradizione ebraica ai re e a Dio stesso;
anche il lino finissimo, il bisso, benché eccezionalmente prezioso era la veste abituale dell’uomo.
Ma non c’è alcuna valutazione morale negativa di queste vesti lussuose: in Pr 31,22 leggiamo che
sono le vesti della “donna perfetta” ad essere di porpora e bisso, la donna elogiata in chiusura del
libro dei Pr proprio per la sua saggezza e la sua laboriosità. Ma della donna che sa anche vestire con
eleganza e lusso si dice al v. 20 che le sue mani non sono solo mani che lavorano e tessono (v.19),
ma anche mani che si aprono al povero e sono tese verso il bisognoso: la donna evidentemente non
cura solo i suoi affari o quelli di casa sua, benché ad essi non manchi niente (“tutti hanno doppia
veste” Pr 31,21). Questa parte di storia manca dalla descrizione del ricco.
Ancora il nostro uomo ricco “faceva festa ogni giorno sontuosamente”: ancora la
consuetudine, la quotidianità della vita di quest’uomo. “Fare festa” (euvfrai,nw), ancora una volta un
verbo gr. che non ha di per sé una connotazione negativa, è lo stesso che Luca usa per indicare la
festa che il padre comanda dopo il ritorno del figlio (Lc 15,23.24.29.32): esso indica una gioia
esultante. È però interessante l’uso del verbo nell’AT e nel NT: esso si colloca sempre in una
situazione di relazione, indicando una gioia che ha il suo presupposto nell’esperienza della
comunione, con Dio e con i fratelli; indica la gioia e l’esultanza della relazione, del legame. Se
questa non c’è allora la parola acquista una sfumatura negativa1. Il padre fa festa perché il figlio ha
riallacciato il legame con Dio e con lui, e esce di casa per invitare il figlio più grande a partecipare a
questa gioia. È il legame reciproco, la relazione il contesto della gioia.
Ma non è questo il caso del nostro uomo; “un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta”.
Contemporaneamente alla quotidianità del ricco c’è un’altra quotidianità, un uomo che “stava”, o
meglio alla lettera “era gettato”. Se già il termine gr. ptwco,j indica colui che non è dipendente del
tutto dagli altri, colui che non ha una propria autonomia, la condizione dell’uomo acutizza questa
sua impotenza: egli non aveva potuto decidere della propria vita, della propria sorte ed era stato
gettato alla porta del ricco, dove – scrive F. Bovon – si era arenato quasi come un relitto sballottato
dalle onde2. Non era neanche sulla soglia di casa; infatti, la parola che qui significa “porta” (pulw,n),
indica la porta più esterna, probabilmente quella che delimitava il porticato; quest’uomo si trovava
al di fuori della soglia più esterna della casa.
Non solo: mentre il ricco vestiva di porpora e bisso, Lazzaro (“Dio aiuta”, questo il nome
dell’uomo), “era coperto di piaghe”: ecco la sua veste; e se la veste evoca l’identità della persona, in
1
2
Cf. S. PEDERSEN, «euvfrai,nw», DENT I, 1472-1474.
Cf. F. BOVON, Luca 2, Commentario Paideia Nuovo Testamento 3/2, Brescia 2007, 699.
particolare la sua identità in relazione, è chiaro che le piaghe come “veste” indicano chiaramente
un’identità piagata proprio nella possibilità di relazione. La descrizione di Lazzaro insiste sulle
piaghe (2x “coperto di piaghe”, “le sue piaghe”). Il termine gr. qui usato e l’equivalente ebr.
indicano una piaga maligna, incurabile, una piaga che conduce all’isolamento: è la stessa piaga di
Gb 2,7, una piaga che mette in questione, che provoca le certezze salde degli amici, una piaga
scambiata troppo frettolosamente come segno di una punizione divina per qualche disobbedienza…
Una suggestione: l’AT ci mostra un caso di guarigione da questa piaga; è il re Ezechia che
viene guarito applicando, per ordine del profeta Isaia, sulla piaga una “focaccia di fichi”, cibo dolce
e prelibato, che si offre al re in segno di comunione (cf. 1Sam 25,18), che rianima chi è ammalato
(1Sam 30,12), cibo della festa (1Cr 12,41): si mangiano schiacciate di fichi perché c’è gioia in
Israele. Naturalmente è solo una suggestione, ma la piaga di Lazzaro, stessa piaga di Ezechia,
avrebbe potuto essere curata con questo cibo.
Non è un caso allora che alla piaga della pelle si aggiunge quella del desiderio insaziabile: gli
era infatti “bramoso di sfamarsi (saziarsi) di ciò che cadeva dalla tavola del ricco”3. L’uomo brama
la sazietà (evpiqume,w significa un desiderio appassionato, ardente), ma non la semplice sazietà del
cibo; il vb. che qui significa “saziarsi/sfamarsi” (corta,zw) indica la sazietà delle folle sfamate da
Gesù con il pane moltiplicato, ma è una sazietà che non si esaurisce, perché come afferma Gv 6,26
è proprio questa sazietà, questo desiderio appagato, che spinge a cercare ancora lui: “voi mi cercate
perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”. E infatti l’uomo non desidera un cibo
qualsiasi ma quello che cade dalla tavola del ricco: sia che si tratti dell’avanzo di ciò che il ricco
mangia o delle briciole che venivano usate per pulirsi le mani durante il pasto, ciò che è importante
è che si tratta di un cibo che viene dalla tavola del ricco, un cibo dunque che mette in relazione, un
cibo che crea un legame. Mangiare lo stesso cibo, quello che cade dalla stessa tavola: è un desiderio
di comunione quello di Lazzaro, è una fame di relazione, è un desiderio di cura.
Non è un caso che si tratti dello stesso dramma del figlio minore (cf. Lc 15,16) che, come
Lazzaro, “desiderava saziarsi”, delle carrube dei porci ma “nessuno gli dava”: il dramma è il
desiderio di qualcuno che si prenda cura di lui e gli offra qualcosa da mangiare.
“Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe”: la parola non designa cani domestici, ma
cani randagi; oltretutto i cani, nel mondo giudaico, erano animali impuri (Dt 23,19). L’immagine
sembra usata per aggravare la situazione di quest’uomo; sta di fatto che sono i cani ad accostarsi a
lui, a “venire” e avvicinarsi a lui. Sono gli animali impuri che non hanno ripugnanza di un altro
impuro e istintivamente gli si accostano, ma questo non guarisce le piaghe, anzi provoca infezioni
ancora maggiori aggravando la situazione.
Piaghe che chiedono cura, piaghe del corpo e piaghe del cuore, piaghe che chiedono di essere
curate con il cibo della relazione.
Riflessione
 Mi fermo a considerare queste piaghe che incontro sulle soglie della mia vita…
3
Secondo gli scritti rabbinici, tre situazioni si traducevano in un’assenza di vita: uno che per il cibo dipendeva
dalla tavola di qualcun altro, uno comandato da sua moglie e uno il cui corpo era coperto di piaghe (b. Bea 32b). La
condizione dell’uomo, era evidentemente una situazione disperata.



Mi fermo ad ascoltare il desiderio di relazione che brucia in queste piaghe di
solitudine, di emarginazione…
La piaga mette in questione: come per Giobbe, anche per i vari Lazzaro, c’è il rischio
di mettersi dalla parte dei giusti e dire al piagato “riconosci la tua colpa e chiedi
perdono…”
Penso alle varie “focacce di fichi” che potrebbero curare queste piaghe… alle
briciole che potrebbero saziare…
La cura
L’immagine delle piaghe nel testo ci rappresenta proprio la necessità di Lazzaro come un
“prendersi cura”: evidentemente il seguito del testo ci mostra che questo è precisamente ciò che non
ha fatto. La sorte dei due protagonisti nell’aldilà ci mostra attraverso immagini – per contrasto –
quale era stata la colpa del ricco, sul quale peraltro la descrizione non aveva dato alcuna valutazione
morale4. Nella Scrittura, infatti, la sanzione è ciò che svela la natura del crimine e della colpa
commessa. In sintesi: il ricco che chiede “abbi pietà di me” ci rivela per contrasto proprio che egli
non aveva avuto né cura né pietà per Lazzaro.
Ma scendiamo nei particolari. La prima cosa che il v. 23 ci sottolinea è “il ricco alzò gli occhi
[…] e vide di lontano”. Il ricco adesso apre gli occhi e vede: forse non aveva mai nella vita volto lo
sguardo verso il fratello; in particolare, se adesso alza lo sguardo, in vita – al contrario – data la
posizione di Lazzaro avrebbe dovuto abbassare lo sguardo… pare quasi che non sia mai riuscito a
farlo.
“manda Lazzaro perché immerga nell’acqua la punta del dito e mi rinfreschi la lingua”:
adesso è lui che chiede cura, che chiede sollievo, che brucia per un desiderio e chiede risposta a
questo desiderio. Volutamente l’evangelista mette in parallelo ciò che Lazzaro chiedeva a ciò che
chiede ora il ricco: “briciole di pane” adesso sono una “goccia d’acqua”; ciò che cadeva dalla tavola
del ricco, adesso diventa ciò che cade dal dito del povero. Se poi consideriamo che le briciole
potevano indicare quelle che si usavano a tavola per pulirsi le dita dopo le varie portate, l’analogia è
ancora più chiara: c’è bisogno in ambedue i casi di ciò che cade dalla mano dell’altro; c’è bisogno
di un sollievo che dica anche “relazione”, “comunione”. E se adesso il ricco desidera questo,
significa che mai ha offerto questo sollievo a Lazzaro.
Abramo poi afferma: “tu hai ricevuto i tuoi beni”, che può essere tradotto più alla lett. “tu hai
preso i tuoi beni”, mettendo in evidenza proprio quello che è stato il filo conduttore della vita del
ricco: “prendere”. I beni sono stati “ricevuti in dono” e “presi”, senza capire che dovevano essere
usati per prendersi cura del fratello bisognoso. Non a caso questa parabola si inserisce in Lc 16,
all’interno di una riflessione ampia sull’uso dei beni, e va letta in relazione all’apertura del capitolo,
alla parabola – famosa anch’essa – dell’amministratore “disonesto”, che viene lodato dal padrone e
da Gesù stesso, il quale alla fine della parabola esorterà: “fatevi amici con il mammona di
ingiustizia, perché quando cessa, essi vi accolgano nelle tende eterne”; una frase problematica, per
le immagini, ma il cui messaggio è semplice: usate i beni per creare relazioni che durano per
sempre, i beni cessano, ma non le relazioni. Il mammona (stessa radice di amen, ciò in cui si
confida) chiede di essere finalizzato alla cura delle relazioni, alla cura del fratello, perché cesserà e
quando cesserà rimarranno le relazioni che attraverso i beni sono state costruite.
4
In questo senso, non ci sembra felice il titolo della parabola scelto nella nuova traduzione CEI: “Il ricco cattivo
e il povero Lazzaro”.
È ciò che a differenza dell’amministratore “disonesto” non ha fatto il ricco, che ha confidato
nel suo mammona, nel suo benessere chiudendosi in se stesso.
“Ora lui è consolato”: ciò che Lazzaro riceve dopo la morte ci rivela ancora una volta ciò di
cui aveva bisogno. Egli è “nel seno di Abramo” (lett. v. 22); “tra i suoi seni” (lett. v. 23): immagine
sicuramente di comunione che può essere interpretata secondo due linee; (i) “essere nel seno di”
significa relazione filiale (cf. Gv): Lazzaro evidentemente desiderava una relazione che ora gli è
donata; (ii) ma si rimanda anche all’immagine dei giusti che sederanno a mensa con Abramo,
immagine del banchetto celeste che indica ancora comunione, relazione che sazia. Tutto questo è
riassunto dalle parole di Abramo con il concetto di “consolazione”: egli è “consolato”.
Evidentemente Lazzaro chiedeva consolazione, una consolazione che poteva “curarlo”, ma
non è stato consolato dal ricco.
Ecco che da questi elementi per contrasto possiamo capire cosa significa “prendersi cura”,
quella cura che Lazzaro sulla soglia chiedeva e desiderava sopra ogni cosa: a) curare come volgere
lo sguardo e accorgersi che c’è un fratello gettato su una soglia; b) curare risposta al desiderio di
comunione, desiderio che brucia e che si esprime magari attraverso il bisogno di qualche briciola o
di una goccia d’acqua, ma di qualcosa che cada dalle mie mani; c) curare come investire i beni, le
risorse per creare relazioni, beni che proprio perché ricevuti in dono, chiedono di essere impiegati
nel dono; d) curare come consolare…
Riflessione
 Possiamo soffermarci a considerare il nostro “prendersi cura” alla luce di queste
immagini…
Oltrepassare la soglia
Per prendersi cura evidentemente si chiedeva al ricco un atteggiamento, cui il testo fa
riferimento per contrasto, aggiungendo un altro particolare: “per di più, tra noi e voi è fissato un
grande abisso”. C’è adesso un confine, una separazione talmente grande che non è più superabile. Il
vb. greco sthri,zw, qui impiegato, significa “rendere solido”, “fissare”. Spesso è interpretato come
un passivo divino (sarebbe stato Dio ad aver stabilito questo grande abisso); ma credo possibile
anche un’altra lettura: è il ricco che ha solidificato, fissato durante la sua vita questo abisso che
adesso è diventato ormai invalicabile: non ci sono più ponti che possono essere costruiti, non ci
sono più legami possibili.
Al posto dell’abisso prima c’era solo una soglia, la soglia di casa, confine possibile da
attraversare per entrare in relazione, per prendersi cura dell’altro che era gettato all’esterno di
questa soglia. Ma dalla descrizione del ricco ala v. 19 sembra quasi che egli non sia mai uscito di
casa, sembra quasi che egli non abbia mai oltrepassato la soglia del suo porticato. Il padre, in Lc
15,28 abbandona la festa (descritta con la stessa parola che Lc usa in 16,19) per uscire e andare a
“incoraggiare” il figlio ad entrare; il padre attraversa la soglia per “consolare” il figlio (altro
significato possibile del vb. parakale,w); il ricco non fa lo stesso. E la soglia che giorno dopo giorno
non viene attraversata si “solidifica”, diventa un abisso solido, saldamente fissato, un abisso
invalicabile, abisso che non permette più la relazione.
Forse, ma possiamo solo supporlo, il ricco non era mai uscito perché bastava a se stesso (in
questo ricorda l’altro ricco di Lc 12,16-21), era autosufficiente e i suoi beni – a differenza dei beni
gestiti dall’amministratore disonesto – non creavano relazioni. Non c’era dunque bisogno di uscire
per prendersi cura di nessuno.
Ormai l’abisso non può essere attraversato: Lc impiega due verbi che significano attraversare
e oltrepassare (diabai,nw e diapera,w): significano superare una distanza, quasi creando un ponte,
per andare verso l’altro, per prendersi cura di lui. Il primo verbo, ad es., è usato da Luca solo
un’altra volta, in At 16,29: in sogno un greco chiede a Paolo di passare in Macedonia per aiutarli.
Ecco che si attraversa, si passa ad un’altra riva per prendersi cura del fratello rispondendo ad una
richiesta di aiuto. L’altro verbo (“coloro che vogliono giungere fino a noi” diapera,w), indica sempre
una traversata nel mare; in particolare, nei Vangeli indica alcune delle traversate del lago che Gesù
compie; dopo queste traversate viene descritto subito come Gesù si prende cura di coloro che
incontra (Mt 9,1 Gesù giunge a riva e gli portano un paralitico; Mc 5,21 è emblematico al riguardo:
Gesù affronta una traversata rischiosa nel lago di Genesaret per recarsi in un paese straniero, con
l’unico scopo di liberare un uomo).
L’abisso non può essere oltrepassato né in una direzione, né in un’altra (v. 26 “coloro che di
quei vogliono passare da voi non possono, né di lì possono giungere fino a noi”): secondo alcuni
commentatori la precisazione sembra superflua, tanto più che il ricco non aveva chiesto di poter
andare nel seno di Abramo; tuttavia la precisazione mi sembra rilevante perché ribadisce un
concetto, quello della reciprocità: attraversare la soglia per prendersi cura, che è quello che il ricco
doveva fare in vita, e che non ha evidentemente fatto, implica entrare in una reciprocità; non si
tratta di un’azione a senso unico, ma tu attraversi la soglia per andare verso l’altro e l’altro
l’attraversa contemporaneamente per venire verso di te, in una relazione di cura reciproca.
Riflessione
 Per prendersi cura è necessario attraversare la soglia che delimita la nostra casa…
posso pensare alle mie soglie, a quelle invalicabili…
 C’è evidentemente un tempo per attraversare la soglia… e un tempo in cui
l’attraversamento non è più possibile, perché essa è diventata troppo grande… perché
essa è diventata solida…
 Penso a quelle azioni che invece di attraversare soglie, solidificano abissi…
Prendersi cura per testimoniare
Di fronte all’evidenza messa avanti da Abramo, il ricco avanza l’ultima richiesta: “ti prego di
mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente (lett.
testimoni a loro)”. Ci sono cinque fratelli del ricco che corrono lo stesso rischio suo, ammalati della
stessa sua malattia, potremmo dire; una cosa è chiara: il ricco non si è neanche preso cura dei
fratelli, di quei fratelli, presumibilmente più giovani, a cui avrebbe dovuto insegnare il rispetto della
legge5, ma non l’ha fatto. Ci sono persone che egli avrebbe dovuto – in quanto fratello maggiore –
educare nell’ascolto della legge, persone a cui egli avrebbe dovuto testimoniare, ma non l’ha fatto:
ecco che adesso si chiede che Lazzaro diventi testimone; si chiede che quel povero che non aveva
mai potuto oltrepassare la soglia di casa, adesso entri nella casa del padre.
C’è una testimonianza che non è stata data ai fratelli, la testimonianza di una cura per l’altro,
che non è altro che “ascoltare Mosè e i profeti”.
“Ascoltare Mosè e i profeti” significava in un’espressione la giustizia per il pio israelita,
quella giustizia che evidentemente chiedeva ed esigeva la cura per il fratello, una cura che passava
evidentemente attraverso i beni, segno di benedizione: “non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la
5
Cf. F. BOVON, Luca 2, 206 n.2; b. Ber 7,31.
mano davanti al tuo fratello bisognoso […] e mentre gli doni il tuo cuore non sia triste” (Dt
15,7.10). Non solo è necessario prendersi cura, ma educare a prendersi cura; e la cura che abbiamo
nei confronti del fratello diventa essa stessa testimonianza.
Conclusione
Ci sono piaghe incurabili che si curano con focacce di fichi; c’è una fame insaziabile, che si
lenisce con briciole di relazione. Ci sono desideri da intuire, perché vanno al di là dei bisogni,
oltrepassando ogni giorno quelle soglie – ancora “morbide” – che delimitano i nostri confini.