“Sic quoque Hesperium regnum Romanique populi principatus

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“Sic quoque Hesperium regnum Romanique populi principatus
Testi letti e commentati durante le lezioni dell’anno accademico 2006-2007
“Che se taluno chiedesse, come io, che medico non sono di professione […] abbia preso un tale assunto con fidanza di
potervi completamente soddisfare: risponderò che se non posso parlare io di vista, ho ben potuto parlarne con tanti
morti, che furon spettatori delle pestilenze, e che le hanno in tanti libri descritte. E se non son’ io medico, studiarono
ben medicina per me, e la praticarono in tempi di contagio quegli scrittori, ch’ io citerò, di maniera che non l’ autorità
mia, ma quella de’ professori di quest’ arte potrà dar credito al mio trattato, il quale inoltre non uscirà alla luce senza l’
approvazione de’ migliori filosofi e medici che s’ abbia la nostra città”. L.A. Muratori, Del governo della peste e delle
massime di guardarsene, 1743.
"Recherebbe a mio credere maggior beneficio al pubblico chi sapesse insegnargli la maniera di liberare i campi da tanti
assassini o sotteranei o visibili, congiurati per mandare a male le fatiche dei poveri agricoltori, che chi recasse qualche
nuovo esperimento, fatto nella macchina boiliana, nella chimica etc. […] Non pochi io conosco i quali resterebbero più
obbligati ad un filosofo, se lor sapesse insegnare la maniera d’estirpare da i prati ed orti le talpe sotterranee, o il tarlo
dagli alveari, che se li trattenesse più ore ad udire una pomposa dissertazione sopra le cagioni del flusso e riflusso del
mare […]. Anche nelle minute cose, purché giovevoli alla sanità, al comodo, al bisogno della vita o al commercio de gli
uomini degno è d’encomi chi sa filosofare e scoprire il bene o il meglio. Gran filosofo dovette essere colui che inventò
l’ordigno per fabbricare calze al telaio”. L.A. Muratori, Della pubblica felicità, 1749.
"Da che in Bologna nel secolo XI e senza paragone più nel secolo XII si cominciò lo studio delle leggi civili, eccoti
saltar fuori Irnerio e poscia altri legisti, che si diedero a far chiose alle leggi, ecco letture pubbliche di tal professione e
poscia lettori veramente di gran grido, perché di gran sapere, formare commenti alle leggi. E dappoiché la stampa rendé
facili le copie de' libri, eccoti i consulenti uscir fuori con un nuvolo di allegazioni e consigli; e finalmente eccoti una
sterminata abbondanza di trattati di particolari argomenti e di decisioni emanate da varie Ruote e Senati. Sicché ormai i
libri legali formano una prodigiosa libreria e una gran giunta può farsi alla Biblioteca legale del Fontana, che pur indica
tanti libri, di maniera che niuna delle professioni di lettere si è, sieno scienze od arti, che non sia superata dal catalogo
delle fatiche legali già date alle stampe, e peggio ne verrà, se continuerà l'influsso che s'è provato nei due prossimi
passati secoli. […] Chiedete ora qual sia il frutto di tanti libri, qual giovamento sì sterminata mole di volumi abbia
recato alla giurisprudenza. Sarà pur divenuta facile l'intelligenza delle leggi, spianato il cammino a giudicar rettamente.
Tutto l'opposto. Ad altro non ha servito né serve questo diluvio d'opere legali, se vi si farà ben mente, che a rendere la
giurisprudenza più difficile, imbrogliata e spinosa e più incerti e dubbiosi i giudizi di chi deve amministrar la giustizia.
Volgete e rivolgete questi libri, troverete un'infinità di sentenze e conclusioni tutte in guerra fra loro, cioè contrarie o
contraddittorie. Allorché avrete osservato in dieci autori come s'ha a stabilire una massima, a decidere una controversia,
passate innanzi, e venti o trenta altri ne incontrerete, che spacciano e assodano, con ragioni diverse, un differente parere.
In quel vasto emporio de' libri legali tanto l'attore quanto il reo scuoprono quell'armi, con cui, nel medesimo tempo, si
ha da difendere la stessa pretensione e causa. Né io condurrò qui il lettore in un lungo viaggio. A me basta ch'egli meco
venga per dare un'occhiata all'opera di un famoso scrittore spagnuolo, intendo io dello Speculum aureum di Girolamo
Zevallos o sia Caevallos o Zevaglios, come dicono gli Spagnuoli, il quale coll'aver solamente raunato le opinioni
comuni contro le comuni, ne formò quattro tomi in folio. Né già contrasto io a lui l'aver chiamata aurea quella sua
opera, quantunque in fine poco o niun profitto se ne ricavi, ma dico bene che niuna più d'essa è bastevole a
sommamente discreditar la giurisprudenza d'oggidì, da che egli ce la fa veder così discorde ed inesatta nelle sue
sentenze e ce la rappresenta come un campo di battaglia di chi sempre combatte, senza che mai apparisca chi abbia da
esser vincitore o vinto. Se tu comparisci in aringo con una sentenza comune a te favorevole, eccoti l'avversario, che ti
viene contro con una opposta sentenza ed anch'essa comune. A chi sarà allora dovuta la palma? Sicché gran tempo ha
che siam giunti a riaver que' mali a' quali pure tentò Giustiniano di rimediar col corpo delle sue leggi, e a provar quegli
altri ch'egli paventava, qualor si mettessero i giuristi a voler farla da dottori sopra i legislatori, con interpretar la lor
mente in tanti casi, ora stendendola, ora ristringendola, senza risparmiar sottigliezze per far servire i decreti augusti o
alle lor private opinioni o al bisogno de' lor clienti. Anche papa Pio IV proibì il far chiose e commenti all'incomparabil
Concilio di Trento, perché ben conosceva le brutte conseguenze che ne poteano venire a cagion degli scrittori o
ignoranti e poco giudiziosi e molto temerari, capaci di alterare, accrescendo o sminuendo, le fondate e chiare decisioni
di quella sacra e tanto venerabil assemblea de' pastori cattolici. Fu egli ubbidito, poiché, per conto del Barbosa, egli non
entra ne' dogmi di fede. Non ebbe così buon mercato l'Augusto Giustiniano: ognun sa se manchino interpreti del gius
civile. E però s'è in tal guisa riemputa la scuola della giurisprudenza d'incertezza, e in vece di renderla atta a terminar le
vecchie liti, s'è renduta un seminario di liti nuove e più propria per oscurare che per illustrar le menti de' giudici, qualora
essi si truovano colti in mezzo a tante diverse e contrarie opinioni. Il peggio è che con ciò s'è aperto un bel campo a'
giudici, qualor ne venga loro talento, e l'amicizia o l'odio o altre passioni vogliano essere esaudite, di decidere le cause
in favore di chi è più loro in grado. Perciocché, qualunque sentenza ch'essi vogliano profferire, la truovano assistita
dall'autorità di molti giurisconsulti, e in libri stampata, e questa dichiarata da essi con titolo maestoso "comune".
Stimava il suddetto Zevallos che non potrebbero i dottori in leggendo la sua opera risparmiar lo stupore al vedere "in
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quanta caligine et obscuritate totum ius versetur, quum nulla sit opinio certa et verissima, quae non possit pluribus
contrariis opinionibus et fundamentis contrariari. Et sic omnia negotia magis ex iudicum arbitrio, quam ex certa iuris
dispositione terminantur; et modo in uno eodemque negotio nunc pro actore, nunc pro reo, sententia fertur, sine
varietate iuris neque facti, sed solum ex eo, quia his iudicibus placet haec opinio et aliis displicet et contraria directe
satisfacit, quum sine certa lege omnino in tot opinionum varietate respublica gubernetur". Sicché non è più vero che
s'abbia a ricorrer solamente al codice e ai Digesti per mettere fine alle controversie forensi. Quello è divenuto un
picciolo, picciolissimo paese. Un altro senza alcun paragone più vasto è quello dalla giurisprudenza maneggiata dalle
feconde e sottili menti de' giureconsulti degli ultimi secoli, i quali hanno anch'essi formato un altro sterminato corpo di
leggi, secondoché è sembrato al loro intendimento. E chiamo leggi le loro opinioni, perché a tenore di queste opinioni si
regola il foro e si danno le sentenze, nella stessa guisa che si fa in vigore d'una vera legge di Giustiniano. Così decise la
Rota romana, così il senato di Torino, così dice il Menochio, il de Luca ecc. Tal piede anzi ha preso questa dottorale
giurisprudenza che si troveran talvolta dei laureati difensori di cause, che non hanno mai letto il corpo delle leggi di
Giustiniano, siccome talora si truovano dei teologi che mai non hanno letto le Divine Scritture, fuorché nel loro
breviario. Tutto lo studio d'essi è intorno ai trattatisti, consulenti e decisioni: giacché i ripetenti, cioè gli antichi
interpreti delle leggi, Bartolo, Baldo, Odofredo e simili, si lasciano riposar pieni di polvere in fondo alle librerie, e
talvolta in vece di trovarli nelle librerie si truovano nelle botteghe di chi vende sardelle. […] Il male maggiore della
profession legale è proceduto dall'eccesso dell'ingegno e massimamente de' consulenti. Allorché si presenta ad un
avvocato da patrocinar qualche causa, purché la medesima non sia evidentemente o assai probabilmente decisa dalle
leggi e resti alquanto dubbiosa, e molto più se assai dubbiosa, Giove quel dì gli ha mandata la buona fortuna per far
pruova del suo felice ingegno o ha almeno inviata qualche rugiada per la sua borsa. Allora tutto ardore si mette a pescar
nella vasta sua libreria, e più nel mare del suo sapere e del suo ingegno, ragioni e autorità per far toccare con mano ai
giudici che quel suo cliente ha ragion da vendere in quella controversia. Altrettanto farà l'avversario avvocato per l'altro
cliente. L'uno dirà: qui è il giorno. Anzi che no, dirà l'altro: vi è chiaramente la notte e il mezzo dì è dalla parte mia. Né
altro sovente vi sarà di certo se non che il giudice, senza veder giorno né notte da questa o da quella parte, resterà egli
stesso immerso in un profondo buio. Ora non si può dire di che cosa sia capace l'umano ingegno e massimamente se
acuto, se penetrante, se assai versato nelle battaglie del foro e in quelle maggiori che s'incontrano ne' libri. Truova
mirabili sottigliezze, disotterra o inventa cento ragioni, distinzioni, riflessioni, presunzioni, eccezioni, che tutte possano
dar buon'aria all'assistito suo; e questo vel dipigne con tal garbo di frasi e di parole, che vi par tutta giustizia la di lui
pretensione. Ed affinché non si creda a lui solo, conduce una vanguardia e un battaglione d'altri autori che sentono con
lui. L'ho già detto né torno a dirlo: innumerabili sono i casi particolari ne' quali ci manca un'idea certa del giusto e
dell'ingiusto. .Si riducano questi alla categoria del dubbioso, dell'opinabile, e però si tratta allora di far comparire più o
men probabile e verisimile una cosa, nel che l'ingegno può lavorare come in campo larghissimo. Allora non è più il
legislatore che decide la lite: è l'ingegno di chi la protegge, è l'ingegno del giudice, che conforme l'intende butta là una
sentenza. Avvertì già Epitteto che le cose ed azioni umane hanno due manichi: noi diciamo il lor diritto e il loro
rovescio. Vien l'ingegno dell'uomo e ve ne dice tante che le fa confessar utili, oneste, giuste: quel medesimo ingegno
poi, se si metterà a volervele far comparire tutto l'opposto, arriverà anche ad ottenere il suo intento. Carneade è famoso
perché si vantava di saper provare giusto quello che comunemente veniva creduto ingiusto e, voltata faccia, di saper
provare ingiusto il giusto. Siccome uomo di massime pericolose, per parere di Catone fu cacciato da Roma. Ma non finì
già in lui quest'arte perché restò in Grecia ed anche in Roma la scuola degli accademici; ed è questa passata in
assaissimi legisti degli ultimi secoli, dedicati allo stesso mestier di Carneade, col fare avvocati delle cause e valersi
anche, in vece ragioni, di sofismi e sofisticherie, che talvolta non si possono avvertire e sciogliere, se non da chi ha
maggior forza di mente e sa ben raziocinare, e non già dalle piccole teste. […] Ora è accaduto che questi avvocati, o sia
consulenti, han pubblicato le loro meravigliose fatiche sotto nome di consigli, di consultazioni ed allegazioni, e quei che
son venuti dopo di loro han cominciato a citar le loro dottrine ed opinioni qualora ne è venuto loro il bisogno, e i
trattatisti anch'essi le hanno infilzate ne' libri loro, il che ha sempre più renduta incerta e piena di dubbi, d'opinioni, ed
opinioni opposte, la giurisprudenza, senza badare che l'ufficio di costoro può esser stato talora quello di ricercare il vero
e il giusto, ma più sovente quello di cercare che vincesse il suo cliente, ragione o torto ch'egli avesse. Le più di tante
opinioni contrarie e contradittorie nella facoltà legale vengono dai molti e vari consulenti, che secondo l'esigenza delle
lor cause tenevano e sostenevano un'opinione, mentre altri per tutto diverso bisogno ne insegnavano e fomentavano
un'altra. E a misura poi che altri posteriori consulenti ed avvocati abbisognavano di quella prima opinione, attaccavansi
ad essa, mentre altri, bisognosi della contraria, si faceano forti della contraria d'un altro autore antecedente. Né si dica:
questo l'ha detto Bartolo, Baldo, i Socini, il Berò, il Cumano, il Fulgosio ecc. Sono grandi uomini, ingegni grandi; ma
anch'essi vendevano una volta il loro ingegno a chiunque li pagava, perché con la loro acutezza vincessero la lite
presente e non già per dare al pubblico una regola sicura del giusto e del vero nelle tali e tali cause. […] In somma,
l'eccesso dell'ingegno ha servito ad accrescere l'incertezza di quel che per se stesso era anche incerto, e siam giunti a
tale che le tante sottigliezze de' giurisprudenti hanno più che mai imbrogliata questa professione, senza che si sappia, in
infiniti casi, dove posare il piè con sicurezza. Se voi volete per un'opinione dieci e più autori, date tosto di mano al
cardinal Tosco, al Castejon, al Sabello: gli avrete in pugno. Se vi occorre la contraria opinione, ed altre dieci e più che
la fiancheggiano, voltate carta e felicemente ve li troverete. Quella è una bottega di rigattiere dove ognun truova quella
veste ch'ei cerca fatta al suo dosso. Tant'oltre poi sono iti i lambicchi della repubblica legale, che (per tacere de' contratti
e di tant'altri atti) beato quel testamento dove l'umana pazzia vuole stendere la sua giurisdizione sopra i secoli avvenire,
con formare eterni fideicommessi, che non sia soggetto un dì o al pericolo o alla disavventura di vedersi sfregiato e
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guasto da questi fieri esaminatori delle menti altrui, i quali vogliono, a tutte le maniere, che un testatore abbia pensato
come pensano essi". L.A. Muratori, Dei difetti della giurisprudenza 1742-1743.
“Si devono ancora fuggire le opinioni singolari, abbracciando quelle, le quali siano più adattate all’uso comune. Non
intendendo questo uso più comune, perché in un articolo disputabile, sia più numero di Dottori per una opinione, che
per l’altra, mentre conforme si è già di sopra accennato, particolarmente ne Tribunali grandi, non si deve il numero
aritmetico considerare , ma la qualità de’ Dottori, e quella de’ loro fondamenti, e ragioni appoggiate nei veri principj, e
termini legali. Ma per un’altra specie d’uso comune, cioè che, o tutti, o la maggior parte de’ Tribunali del nostro civile
mondo comunicabile, il qual viva con l’uso delle leggi, seguiti un’opinione, e che questa ancora sia più adattata alli
costumi de’ paesi, e de popoli, ed al comun discorso naturale, sicché l’altra opinione sia contraria a tutto ciò, ed abbia
qualche ripugnanza alla ragion naturale, overo al comun sentimento. Dovendosi seguire quelle opinioni, le quali
verisimilmente siano per esser seguitate, ed abbracciate da tutti gli altri Magistrati, e Ttribunali, ed in tutti i paesi, e non
fermare quelle opinioni, le quali restino singolari nel proprio paese”. Io. Baptista De Luca, Dello stile legale, in
Theatrum veritatis ac justitiae, liber decimus quintus, Venetiis 1734, cap. XVII n. 25.
“Quidam dominus Pepo coepit auctoritate sua legere in legibus, tamen nullius nominis fuit. Sed dominus Yrnerius dum
doceret in artibus […] coepit per se studere in libris nostris, et studendo coepit docere in legibus, et ipse fuit primus
illuminator scientiae nostrae, et vocamus eum lucerna iuris”. Odofredo
I consiliarii erano tenuti a “dicere et exprimere causas propter quas consulunt, et etiam expressare certam absolutionem
vel condemnationem et […] dictus consultor teneatur consulere secundum formam Statuti primi huius libri videlicet:
primum secundum statuta et consuetudines civitatis Veronae, et eis deficientibus secundum jura romana et glossas
ordinarias Accursii per ipsum approbatas, et in quantum sibi ad invicem contradicerent, consulatur secundum illam
glossam quam Dinus approbat […]”. Verona, statuta 1393.
“Credis tu quod glossa non ita viderit illum textum sicut tu et non ita bene intellexerit sicut tu?”. R. Fulgosio, XV sec.
Conviene stare attaccati alla glossa “sicut Bononienses inhaerent carocio et sicut ducens navem temoni inhaeret”.
Baldo degli Ubaldi, XIV sec.
“Adhaerens glossae in aeternum non potest errare”. “Somniare dicuntur doctores volentes infringere opiniones
glossarum”. A.Barbazza, XV sec.
“Qui recedit a glossis dicitur capere uselletos”. Signorolo degli Omodei, XIV sec. “Glossa debet intelligi secundum
legem quam allegat”. Bartolo da Sassoferrato, XIV sec.
“Et reperio quod doctores legendo magis nituntur veritati, quam consulendo; quia in lectura cessat affectio et cupiditas
aeris, cuius libido quot mortalium animas ad inferos protrahit”. A.Cravetta, XVI sec.
“Et ideo potius est credendum illi quod dixit Iacobus de Alvarotis in lectura, quam in consilio: quia quae scribuntur in
lecturis propter veritatem lucidandam exprimuntur, sed consilia principaliter fiunt causa lucri”. A. de Nevo, XVI sec.
La communis opinio risulta “a doctoribus qui pondere, numero et mensura sunt maiores”. A.Tartagna, Consilia;
Azzoguidi, De communi opinione tractatus, XVI sec.
“Communis opinio est sequenda in dubiis nisi notorie maledicat, vel rationabiliter convinci possit”. Bartolo, XIV sec.
“A communi opinione non est recendum”. Baldo degli Ubaldi, XIV sec.
“Practica esset si talis reformatio committeretur decem doctoribus, qui sibi dividerent quinque libros iuris civilis, et
mediocriter insistendum credo quod in quatuor annis perficerent. Et dando cuilibet eorum annatim ducatos 300, tota
expensa non excederet duodecim millia ducatorum” (Giovanni Nevizzano d’Asti, Index librorum in utroque iure).
Erano ormai cresciuti a dismisura glosse e commenti “nec ullus finis est sperandum”, a meno che il “sacratissimus et
Christianissimus imperator noster Augustus Maximilianus”, con la sua incredibile saggezza e prudenza. “divinisque
oraculis inspiratus” intervenga e “tot commentaria supprimat verbositatemque obscurissimam atque nodosissimam in
compendium et declarationem reducat” (Enrico Bebel a Massimiliano Augusto, 1506).
“Optimum foret si opinionum sylva in breves et certas leges decideretur” (Giovanni Coclaeus, 1521).
Per Leibniz sarebbe bene riconoscere al vecchio corpo delle leggi romane “vim non legis sed rationis, ut Galli
loquuntur”. Da queste leggi, dalle leggi nazionali, scritte e consuetudinarie, nonché dalla equità (“sed in primis ex
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evidenti aequitate”), trarre “novus quidam codex brevis, clarus et sufficiens”. Con questo codice, sanzionato “publica
auctoritate”, il diritto “obtenebratum multitudine, obscuritate, imperfectione legum, varietate tribunalium,
disceptationibus peritorum obtenebratum, et ad miram incertitudinem redactum, in claram lucem tandem collocetur”
(Leibniz, 1716).
Alla domanda “an probanda sit in repubblica legum multitudo” rispondeva che era preferibile “pro tot indigestis legum
voluminibus unum esse breve ac perspicuum iuris compendium” (Nicola Vernulz 1623).
Nelle liti di ogni giorno, “cum nihil sit certum”, si consumano i patrimoni “et hominum vitae terminuntur”: La cosa da
farsi era ridurre “omnes haec contrariae opiniones ad certam” e concludeva con il dire che gran conquista sarebbe stata
per la respublica di essere governata non già “tot doctoribus”, ma “legibus et canonicis sanctionibus”, senza le
interpretazioni della glossa e dei dottori “qui rem dubiam faciunt, et ex suis opinionibus tota respublica offenditur et
nunquam in pace versatur” (Hyeronimus de Caevallos, Speculum aureum opinionum communium contra communes).
“Tam conditor quam interpres legum solus imperator iuste existimabitur”. Giustiniano, 529
“Si quid ambiguum fuerit visum, hoc ad imperiale culmen per iudices referatur et ex auctoritate Augusta manifestetur,
cui soli concessum est leges condere et interpretare”. Giustiniano, 533
“Se bene per facilitare l’ ispeditione delle liti sono state fatte da Noi molte provisioni e parendosi quelle non ancora
essere bastanti a dare sicuro rimedio a’ tante lunghezze, ci siamo risoluti di provare anco questa che è di levare a’
giudici, e professori di legge l’ incertezza nella quale molte volte si trovano per la varietà dell’ oppinioni di tamti, che
hanno scritto in questa professione, e così restringendo il numero di essi, ridurlo solo a quelli che vengono riputati più
necessari per apprendere la vera teoria, ed intelletto de’ testi, à quali principalmente si deve attendere: pertanto
vogliamo che per l’ avvenire, sin che a Noi piacerà, nelle cause tanto civili, che criminali, non si possi da i Tribunali de
nostri giudici valersi, nel sententiare, et alegare in iure, d’ altro, che del semplice testo, Glosa, et letture de Bartolo,
Baldo, Paolo de Castro, Alessandro, Iasone et Imola, Statuti, et Decreti dello Stato; non prohibendo però che, oltre
sodetti, non possino i giudici et deffensori de Rei valersi nelle cause criminali della pratica del Gandino, dell’ Angelo,
del Bossio et Claro. Sotto pena il giudice, che contraverà della privatione dello Uffitio, agl’avocati, et procuratori della
privatione dell’ esercitio della professione loro, et alla parte della perdita della ragione da applicarsi alla parte
osservante”. Costituzione di Franceso Maria II della Rovere, Urbino 26 febbraio 1613
“L’ on demande si, pour lever les confusions introduites par la quantité des Auteurs et les prejudices qu’ elles ont causé
a l’ état et au public, il serait utile, ou non, de limiter le nombre des docteurs, que l’ on pourrait citer, et fixer cet nombre
a certains auteurs, que l’ on designerait”. Quesito posto da Vittorio Amedeo II a J.A. Schulting, G. van Noodt, Ph.
Vitrarius
“Proibiamo agli avvocati di citare nelle loro allegationi veruno dei dottori nelle materie legali, ed a’ giudici, tanto
superiori, che inferiori, di deferire alle opinioni di essi, sotto pena, tanto contro delli giudici che avvocati, della
sospensione dai loro uffici”. Costituzioni Piemontesi, II redazione 1729
“Quanto sono state le leggi in ogni tempo, e sono tuttavia l’ anima, la regola, e il fondamento della società umana, e de’
governi, altrettanto la loro molteplicità ne difficulta l’ osservanza, e la oscurità dà luogo ad arbitrarie interpretazioni;
vizio e difetto l’ uno, e l’ altro perniciosissimo alla retta amministrazione della giustizia, e il quale noi abbiamo sempre
avuto in animo di togliere per il bene, e la felicità de’ nostri sudditi. Sono già alcuni anni, che a conseguire il fine
propostoci si era da noi stabilita una Deputazione di soggetti idonei a compilare un codice […] che fissasse, e stabilisse
colle massime dell’ equità, e della ragione i veri, chiari, e sodi principi da osservarsi sopra tanti articoli, e quistioni più
ovvie, e frequenti a suscitarsi nelle controversie forensi, e le quali per la diversa, e sofistica opinione de’ giureconsulti
non servono che a dar fomento alle liti, a prolungare le cause, e a rendere dubbie, e fluttuanti le risoluzioni. […] Le
presenti costituzioni pertanto, […] si dovranno attendere, osservare, ed eseguire in tutti i nostri domini […] e da
qualunque persona, […] ed in tutti indistantamente i tribunali esistenti nei detti nostri domini, niuno affatto eccettuato,
come unica sovrana legge fondamentale in ogni, e singolo di que’ casi, e di quelle materie, in cui è stato provveduto, e
fissata massima dalle predette costituzioni, alle quali vogliamo, ed ordiniamo, che si dia ogni preferenza ed estensione,
ove si oppongano al gius antico, al municipale, e a qualsivoglia altra preesistente legge, prammatica, opinione, e
consuetudine, per modo che non si possa loro dare stretta interpretazione, e la meno lesiva del gius comune, siccome
hanno finora preteso, ed incautamente esagerato molti giureconsulti verso le stesse sanzioni de’ principi, da’ quali
soltanto emana, e dipende il vigore, e l’ attività della legislazione. E però accadendo mai nella molteplicità de’ casi
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contingibili di eccitarsi qualche ragionevole dubbio su la vera intelligenza di alcune di queste leggi, vogliamo, che il
nostro Supremo Consiglio di Giustizia ne sia l’ interprete […]. Così pure avvenendo alcuno caso relativo a quelle
materie civili, criminali, o miste, delle quali si parlerà nelle presenti costituzioni, per cui non fosse stato provveduto,
non si potrà avere ricorso a veruno statuto, o a disposizione particolare, ma per servare l’ uniformità in tutta l’
estensione de’ nostri domini si potrà unicamente per detto caso ommesso ricorrere alla disposizione del Gius comune”.
Costituzioni modenesi, patente di Francesco III, 26 aprile 12771
“Continue essendo contro i tribunali le querele dei litiganti, […] ha finalmente risoluto il Re di darvi il più efficace
riparo, ed il più proprio per togliere alla maligniità e alla frode qualunque pretesto, ed assicurare nell’ opinione del
pubblico la esattezza e la religiosità de’ magistrati. Vuole adunque il Re, anche sull’ esempio e sull’ uso de’ tribunali
più rinomati, che in qualunque decisione, che riguarda o la causa principale, o gli incidenti, fatta da qualunque tribunale
di Napoli o collegio o giunta, o altro giudice della stessa capitale, che abbia la facoltà di decidere, si spieghi la ragion di
decidere, o sieno i motivi su’ quali la decisione è appoggiata. Incaricando S.M. per rimuovere quanto più si possa da’
giudizi l’ arbitrio, ed allontanare da’ giudici ogni sospetto di parzialità, che le decisioni si fondino non già sulle nude
autorità de’ dottori, che hanno, pur troppo, colle loro opinioni, o alterato, o reso incerto ed arbitrario il diritto, ma sulle
leggi espresse del Regno, o comuni: e quando non vi sia legge espressa pel caso di cui si tratta, e si abbia da ricorrere
all’ interpretazione o estensione della legge, vuole il Re che questo si faccia dal giudice, in maniera che le due premesse
dell’ argomento sieno sempre fondate nelle leggi espresse e letterali; o quando il caso sia in tutto nuovo o totalmente
dubbio, che non possa decidersi né colla legge né coll’ argomento della legge, allora vuole il Re che si riferisca all M.S.
per attendere il sovrano oracolo” . Dispaccio tanucciano, Ferdinado IV, Napoli 1774
Si deplora il fatto che “l’ ambiguità delle dottrine dipendenti dall’ interpretazione della ragion comune” lasciava aperto
“un novello campo a’ litigi”. Premessa a Le leggi civili e criminali del Regno di Sardegna, Carlo Felice 1827
Nella redazione delle sentenze non potrà invocarsi “l’ autorità dei dottori o scrittori legali”. Art. 103 del Regolamento
24 dicembre 1854 per l’ esecuzione del c.p.c. sardo 1854. Similmente si legge nell’ art. 98 cpv. del Regolamento 18
aprile 1860 per l’ esecuzione c.p.c. sardo 1859, nonché nell’ art. 265 Del Regolamento generale giudiziario, approvato
con R.D. 14 dicembre 1865, n. 2641
“Non si accuserà di intemperanza il magistrato che in contesa difficile e grave sappia discretamente rammentare le
discussioni dottrinali e accennare anche al nome di qualche veramente illustre espositore di una dottrina, di una
interpretazione o di un sistema esegetico: tutta la questione è di misura e di tatto”. Mortara
“Il diritto tende essenzialmente alla uniformità. Il sistema delle norme giuridiche non realizza che in piccola parte
questa tendenza. Man mano che le norme si cimentano nella applicazione ai casi pratici si presenta la sterminata sequela
dei dubbi, i quali consentono varietà di soluzioni. Che intorno a questi dubbi, che sono poi le questioni di diritto, si
formi a poco a poco una opinione comune comune giova grandemente allo scopo del diritto, e perché questa opinione
guida i cittadini a non litigare e perché comunque guida i giudici a decidere giustamente le liti”. Carnelutti 1926
“Ogni progresso della giurisprudenza, che si trasformi sotto l’ influsso della critica giuridica della dottrina scientifica e
delle esigenze sociali è da accogliersi con vivo compiacimento”. D’ Amelio, primo presidente della Cassazione unita
“La Cassazione ha rivelato in questo decennio di sapere essere sensibile alla dottrina, anzi di saper essere quasi l’
organo specifico della giornaliera fusione tra la teoria e la pratica giuridica”. Calamandrei, 1933
“Id est nimirum ad Pandectas et reliqua imperatorum pontificumque monumenta, per se satis numerosa volumina sex
cento certatim volumina commentariorum commentationumque adeo addidisse, quae tam in eas ipsa auctoritate
venerint, ut pro legibus decretisque citentur”. A siffatto male non si sarebbe potuto porre rimedio “quam si ferro
percutiatur, id est si ad vivum usque resecatur, aut paulo clementius ut certum nec magnum numerum interpretum iuris
utriusque habeamus, reliquorum auctoritas abrogetur, vel etiam ut volumina ipsa Vulcano consacrentur”. G. Budaeus,
Adnotationes ad Pandectas, 1508
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Il diritto giustinianeo era ormai un diritto che “adeo ut ipse Iustinianus, si redeat, vix opus suum agniturus sit, modo ne
prorsus ut alienum repudiet. Aliud malum est, quod ex centum huiusmodi correctionibus et mutationibus vix quatuor
reperiuntur, de quibus hi docti viri consentirent”. Malgrado ciò, tali fonti hanno avuto una immeritata diffusione per
opera della Chiesa di Roma e dei cattolici, che hanno osato “arrogantia intollerabili et indigna hominibus, laudare et
venerare leges paganorum, atque interim eas leges aspernari, quas divina sapientia constituit ad populum suum suamque
rempublicam gubernanda”, F. Hotman, 1567
Si auspica l’ intervento dell’ Imperatore affinché “tot commentaria supprimat verbositatemque obscurissimam atque
nodosissam in compendium et declarationem reducat”. H. Bebel a Massimiliano Augusto, 1506
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